Là in cima tutto è chiaro, nitido. Qui tutto è confuso, non a fuoco. Mi prometti che una volta là capirò tutto, che i dubbi spariranno e le cose da fare si mostreranno nella loro chiarezza? Perché vedi, quel corrimano non finisce… gira… E gira per finire? O gira perché poi c’è un’altra rampa? Non è che mano a mano che salgo il fuoco si sposta sempre più su, vero? La tettoia della pensilina ti copre solo quando sei in stazione, e solo se resti sul marciapiede… Lo vedi, lassù? Per mettermi sui binari, per essere pronto per il viaggio… devo essere disponibile a non avere protezione sulla testa e neppure corrimano a cui tenermi… Che dici, vado?
La stazione di Zima
LA STAZIONE DI ZIMA (Roberto Vecchioni, El bandolero stanco)
C’è un solo vaso di gerani dove si ferma il treno,
e un unico lampione che si spegne se lo guardi,
e il più delle volte non c’è ad aspettarti nessuno,
perché è sempre troppo presto o troppo tardi.
– Non scendere – mi dici – continua con me questo viaggio –
e così sono lieto di apprendere che hai fatto il cielo
e milioni di stelle inutili come un messaggio,
per dimostrami che esisti, che ci sei davvero:
ma vedi, il problema non è che tu ci sia o non ci sia
il problema è la mia vita quando non sarà più la mia,
confuso in un abbraccio senza fine,
perso nella luce tua, sublime,
per ringraziarti non so di cosa e perché;
lasciami questo sogno disperato di esser uomo,
lasciami questo orgoglio smisurato di esser solo un uomo;
perdonami, Signore, ma io scendo qua, alla stazione di Zima.
Alla stazione di Zima qualche volta c’è il sole
e allora usciamo tutti a guardarlo e a tutti viene in mente
che cantiamo la stessa canzone con altre parole,
e che ci facciamo male perché non ci capiamo niente.
E il tempo non s’innamora due volte di uno stesso uomo
abbiamo la consistenza lieve delle foglie
ma ci teniamo la notte, per mano, stretti fino all’abbandono
per non morire da soli quando il vento ci coglie.
Perché vedi l’importante non è che tu ci sia o non ci sia,
l’importante è la mia vita finché sarà la mia
con te, Signore, è tutto così grande,
così spaventosamente grande che non è mio, non fa per me
Guardami io so amare soltanto come un uomo,
guardami a mala pena ti sento e tu sai dove sono
ti aspetto qui, Signore, quando ti va, alla stazione di Zima.
Quando tornavo da Trieste in treno, diretto a Palmanova, capitava sempre di fare una breve sosta alla stazione di Strassoldo, quella vicina al nuovo scalo ferroviario, praticamente dentro al nuovo scalo. E mi chiedevo sempre il senso visto che nessuno scendeva e nessuno saliva. Bene, ora posso ringraziare quella breve pausa per avere anche io, nei miei ricordi, un luogo simile alla stazione di Zima. Vecchioni descrive una stazione solitaria e piuttosto desolata e immagina di scendere dal treno che fin lì lo ha portato, un treno che non è mai puntuale, capace perfino di arrivare in anticipo, o magari in ritardo, in ogni caso mai secondo l’orario previsto, mai secondo quanto previsto dai programmi ufficiali. Una voce nel silenzio blocca il viaggiatore arrivato a destinazione: “Non scendere, continua con me questo viaggio”. Non ci sono misteri sulla persona da cui proviene l’invito, Vecchioni ci conduce senza preamboli nel vivo del discorso tra lui e Dio. E’ un Dio che non dice di iniziare il viaggio con lui, non si comporta da capotreno o da macchinista, non invita a cambiare binario o a cambiare treno, prendendone magari uno ad alta velocità, ma chiede semplicemente di continuare qualcosa che è già iniziato: mi fa venire in mente il “si avvicinò e camminava con loro” (Lc 24, 15) di Emmaus. In fin dei conti Dio non fa altro che chiedere all’uomo di rimanere con lui, visto che gli ha dato il cielo e le stelle per raccontargli la propria esistenza. Per tutta risposta si sente dire che il vero problema non è la questione della sua esistenza o insesistenza: ciò non fa problema, la sua esistenza non è messa in discussione. Solo che l’uomo vuole starsene da solo, vuole scendere dal treno: troppo grande e forte è quell’“abbraccio senza fine”, troppo abbagliante è quella luce “sublime”. E giù, a terra, sulla pensilina, ci sono altre persone, tutte intente a vivere la medesima esistenza con modi diversi, a guardare il sole senza capirci niente: e fa male. Gli uomini sono leggeri, inconsistenti e fragili come foglie in attesa che il vento le colga (canta Pacifico: “E sembri una foglia una vela leggera, una barca minuscola in questa bufera”) e cercano di stare vicini in modo da essere portati via insieme e non morire soli.
Vecchioni ci spiega cosa significhi restare a terra, cosa implichi non salire sul treno, ce lo descrive: “amare soltanto come un uomo”. Non è pronto per accogliere l’invito “con te, Signore, è tutto così grande, così spaventosamente grande che non è mio, non fa per me”. Non riesco a non pensare a Mt 19, 21-22 “Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!” Udita questa parola, il giovane se ne andò triste; possedeva infatti molte ricchezze”.
Gemme n° 42
Si è avvicinata alla cattedra con due libri e una scheda sd F. (classe terza). “Nella scheda ci sono le parole di spiegazione della gemma che può mettere sul blog; qui in classe sarò molto più breve”. Ha mostrato alla classe due libri di Alessandro Baricco Oceanomare e Castelli di Rabbia: “In realtà le due cose che avrei voluto portare erano altre, ma erano intrasportabili in classe. Una è il mare l’altra è il treno”. Ecco il motivo:
“Trovo molto difficile dover scegliere le gemme più belle tra tutte. Se qualcuno mi dicesse così, immediatamente, “ma le prime che ti vengono in mente proprio, dimmi quelle!”, allora penso che risponderei due cose, che sono molto diverse tra loro: il mare, i treni.
Il mare, quello che unisce le terre e le separa, che mangia le navi, «Il mare che raccoglie e disperde vite», dice Baricco. Nel mare, per me, c’è la risposta alla vita. Io la chiamo così, una risposta, anche se forse potrei capire qualora qualcuno mi facesse notare che non è esatto definirla così. Dico solo che se c’è un luogo al quale i problemi dell’esistenza non possono avvicinarsi, quello è il mare. Solo nel mare. Sott’acqua ma anche seduti in riva, tra le onde o nel suo rumore, nelle sue curve e nella sua fine, che non finisce mai.
Una cosa così importante, quando la si scopre, bisogna tenersela stretta poi. Ho letto un libro, I pesci non chiudono gli occhi e ho trovato una frase per la quale sono d’accordo in tutto e per tutto con De Luca:
«Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua.»
È così. Dal mare non ci si aspetta mai niente eppure ciò che regala, insegna, è così prezioso che sono sicura sia impossibile lasciarlo cadere nell’oblio. Ma che ne sappiamo noi del valore di tutto questo? Non ne sappiamo abbastanza da apprezzarlo, di certo, quindi per tutti il mare è sì bello ma è solo… bello. Forse non lo è nemmeno tutto l’anno, forse solo d’estate, forse d’estate è bello solo quando è calmo, quando non pretende che tu stia lì ad ascoltarlo, a sentire i suoi problemi. Ma cos’è il mare. È un infinito di vita. il mare è vivo. È la mia cura ve lo assicuro.
«Dentro il mare. C’era da non crederlo. L’appestato e putrido mare, ricettacolo di orrori, e antropofago mostro abissale – antico e pagano – da sempre temuto e adesso, d’improvviso, ti invitano, come una passeggiata, ti ordinano, perché è una cura, ti spingono con implacabile cortesia dentro il mare.»
Baricco dice, perché ti ci mandano, al mare? È un mostro, fa orrori, ma ti ci mandano. Allora io ho scoperto perché il mare è una cura. Non lo dirò in questa gemma per due motivi: il primo è che è senza dubbio troppo, troppo lungo da spiegare, il secondo è per il fatto che se mai qualcuno dovesse leggere tutto ciò e volesse provare il mare al posto delle gocce che si prendono in farmacia perché si è troppo stressati, se mai voleste farlo di scoprire perché il mare è una cura, fatelo da soli. Tanto ognuno troverà un aspetto diverso che amerà più di qualche altro in un particolare.
Questo è quanto, e non mi stancherei mai di correre in riva durante una notte di forte pioggia e meglio ancora se arrivasse anche il temporale a fare compagnia a me e al mare.
La mia seconda gemma, seconda ma non meno importante, sono i treni e non solo loro. Le stazioni e le rotaie anche, ma i treni.
Da piccola chiedevo sempre a mia madre di andare a vedere i treni. Dai mamma, andiamo a vedere treni. Spaventosa. C’è da preoccuparsi quando una bambina non ha altro per la testa che andare a vedere i treni, e c’è da preoccuparsi quando tutta quella velocità con la quale viaggiano non la spaventa, ma anzi la meraviglia ancora e ancora di più ogni volta. In realtà il loro fascino, il fascino dei treni, è dato dalla loro utilità, dal loro fine. Loro ti portano, dove tu vuoi, mangiano le distanze come se non avessero un briciolo di paura, e io ho sempre avuto paura delle distanze. In realtà io ho paura di molte cose, ma le distanze sono brutte e non si può capire se non si prova. Allora era successo che mi ero innamorata di quelle macchine coraggiose che erano le mie eroine e poi, crescendo, mi ero un po’ allontanata dal mio mito e dalla storia della paura e della lontananza. È da poco, a dire il vero, che i treni sono una gemma, che lo sono di nuovo, voglio dire, e questi mi rendono una sognatrice. Ecco, questo è il motivo di tutto, io sogno tanto grazie ai treni. Ma ve le immaginate, le rotaie, nel loro corso, sempre insieme eppure mai veramente vicine, mai lo saranno, più vicine di così, che potrebbero amarsi alla follia ma lo sanno che il loro destino è quello. Grazie a loro mille ragazzi scappano, mille persone raggiungono i loro amori della vita, mille altre si appoggiano su di esse, due rette parallele, perpendicolarmente ad esse, e aspettano di morire, o di vivere forse. Ma loro non ci possono fare niente, più di farti compagnia e avvisarti, con quelle vibrazioni e subito quei suoni striduli, che arriva il treno. Tanto sono importanti, per me, le stazioni. Di notte soprattutto. Dio, quanto sono belle.
Alcuni frammenti del libro Castelli di rabbia che potrei aver scritto io:
«Meno facile da capire era perché lui, di tanto in tanto, partisse. Non c’era mai una vera, plausibile ragione perché lo facesse, né una stagione o un giorno o una circostanza particolari. Lui, semplicemente, partiva.»
Qui si parla di un uomo che prende il treno quando decide che deve partire. E non si sa dove vada o quanto tempo stia o altro. Io sono come quest’uomo, cioè parto a volte, e non so neanche dove mi piacerebbe andare, ma solo l’idea di salire su un treno e aspettare di arrivare, in silenzio…
«Sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura […]»
E penso che questa frase si commenti da sola.”
Benedetto il momento in cui ho avuto l’idea di fare questa cosa delle gemme! Grazie alle gemme che portate mi è più facile capire le gemme che siete. Suggerisco una citazione e una foto di qualche anno fa: “In quel momento capii che ciò che conta di fronte alla libertà del mare non è avere una nave, ma un posto dove andare, un porto, un sogno che valga tutta quell’acqua d’attraversare” (A. D’Avenia, “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, pag. 180).
La stazione
“La vera gioia della vita è il viaggio. La stazione è soltanto un sogno. Ci distanzia sempre. “Assapora l’attimo fuggente.” Non sono i fardelli di oggi a fare impazzire gli uomini. Sono i rimpianti di ieri e le paure di domani. Rimpianti e paure sono ladri che ci derubano dell’oggi.
Allora smettete di percorrere i corridoi e di contare i chilometri. Invece scalate più montagne, mangiate più gelato, camminate più spesso a piedi nudi, nuotate in più fiumi, ammirate più tramonti, ridete di più, piangete di meno. La vita deve essere vissuta a mano a mano che si procede. La stazione arriverà fin troppo presto.” (Robert J. Hastings)