La perseveranza nella possibilità

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Una decina di giorni fa avevo pubblicato il primo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire. Qualche giorno fa è uscito il secondo dedicato a Marie Curie.

“Marie Curie non aveva tempo per i dogmi. Non amava i riti, non cercava consolazioni nei libri sacri. Eppure la sua vita è una delle testimonianze più radicali di cosa significhi credere in qualcosa che non si vede. Non pregava, ma vegliava per notti intere sopra un forno improvvisato. Non cercava miracoli, ma li provocava senza saperlo. Quando scoprì la radioattività, non sapeva ancora cosa fosse. Non c’erano parole, né modelli teorici, né manuali per spiegarla. Sapeva solo che da quelle pietre di pechblenda che le arrivavano sporche di fango e carbone, in sacchi da tonnellate, si sprigionava un’energia misteriosa.  Una luce invisibile che attraversava la materia, che lasciava tracce su lastre fotografiche dimenticate in un cassetto, che si rivelava con una luminescenza tenue nei suoi laboratori scuri. Non si vedeva a occhio nudo, ma era lì, reale, tangibile. Una presenza che sembrava più spirituale che materiale.
Marie Curie non lavorava con strumenti sofisticati: aveva provette spaiate, pentole crepate, mani  segnate dalla fatica. Il laboratorio era poco più di una baracca: d’inverno il freddo entrava dalle finestre rotte, d’estate il caldo scioglieva il piombo. Eppure, in quelle condizioni, scoprì che l’universo custodiva una scintilla segreta. Una scintilla che illuminava senza fiamma, che scaldava senza fuoco, che parlava senza voce. Una dedizione totale a quello che faceva.
Forse la sua spiritualità era questa: restare fedele a una ricerca che non prometteva nulla, se non il brivido del mistero. Non cercava un Dio personale, ma neanche si accontentava di un mondo già catalogato. La sua fede era nel lavoro, nella sua dedizione, nella possibilità che dietro l’apparenza ci fosse altro. E mentre gli uomini intorno a lei facevano carriera nelle accademie, Marie continuava a rimestare tonnellate di materiale grezzo. “Ho dovuto trascinare carri, spezzare pietre, accendere forni, come un contadino”, raccontava. Eppure, mentre sudava e tossiva in quella baracca, si accorgeva che stava accendendo una luce nuova sul mondo.
C’è una frase di Marie che mi colpisce sempre: «Nella vita non c’è nulla da temere, solo da capire». È un manifesto che potremmo appendere ovunque. Significa che la paura nasce dal buio, e che la conoscenza è una forma di luce. Eppure, proprio lei che aveva acceso quella luce, pagò il prezzo più alto: il suo corpo assorbì lentamente la radiazione che non sapeva ancora come domare. Le sue ossa si incrinavano, le sue mani tremavano, i suoi taccuini restano ancora oggi radioattivi, custoditi in piombo nelle biblioteche di Parigi.
In questo c’è una grande lezione di spiritualità: si può credere al punto da consumarsi, si può amare il mistero fino a farlo entrare nelle ossa. Non perché si sia fanatici, ma perché si riconosce che la vita ha senso solo se ci si dona a qualcosa che ci supera. Marie Curie non parlava di Dio, ma ci ha consegnato un’idea che gli somiglia: la convinzione che nell’invisibile ci sia la verità. E che la nostra parte più autentica non si trovi in quello che possediamo, ma in quello che siamo disposti a cercare. Forse la sua eredità non sono solo l’uranio o il polonio, né i due premi Nobel, né le onorificenze che le hanno consegnato troppo tardi. Forse la sua vera eredità è averci insegnato che la luce non è solo quella che vedono gli occhi. Ce n’è un’altra, più sottile, che ci chiede di avere coraggio, pazienza, dedizione.
Perché la sua grandezza non sta solo nell’aver aperto una strada nuova alla scienza, ma nell’averci  ricordato che il mistero non si doma: lo si accompagna. Si vive accanto a lui, lo si accetta, lo si interroga. Si lascia che diventi parte di noi. Eppure, per capire Marie, bisogna tornare all’inizio. Una ragazza di Varsavia, in un tempo in cui alle donne non era concesso quasi nulla: non le aule ufficiali, non le cattedre, non il diritto a una curiosità senza permesso. Studio clandestino, libri presi di nascosto, una fame di sapere che non si spegne. È lì che nasce la sua “preghiera laica”: imparare, anche quando tutto intorno dice di no.
Poi l’incontro con Pierre: due vite che si uniscono non per completarsi, ma per moltiplicarsi. Non  un altare, ma un banco da lavoro; non promesse solenni, ma una cassa di legno piena di minerali, campioni, strumenti. L’amore, per loro, è un’alleanza con la materia. E quando la materia restituisce il suo segreto, loro lo chiamano con nomi di patria e affetto: polonio, radio. Nella scelta dei nomi c’è la loro geografia interiore: il luogo da cui si parte e il fuoco che si è trovato. E poi la perdita. Un carro, un incidente, il mondo che si spezza. Marie rimane davanti a un’assenza che non ha linguaggio. Non scrive preghiere, non chiede risarcimenti al cielo. Torna in laboratorio, accende il forno, rilegge gli appunti. È una fedeltà senza spettacolo: l’idea che la vita riprenda senso stando vicino alla sorgente di luce che si è accesa insieme. Quella fedeltà è una forma di spiritualità: restare dove arde, anche quando brucia. E arriva la guerra. Non una parentesi, ma una chiamata. Marie prende la luce invisibile e la porta dove serve: sul fronte, negli ospedali, nelle baracche di fortuna. Addestra infermiere, guida camion, spiega come mettere a fuoco un’ombra dentro un corpo per salvare un arto, una vita. Non discute teorie: accende apparecchi. La scienza, in quelle ore, è una carezza che vede ciò che l’occhio non vede. La sua spiritualità è diventata azione: non parole, ma voltaggi e immagini che rimettono insieme ciò che la guerra rompe.
E c’è la fama, che non consola. Premi, medaglie, scandali, sospetti. La diffidenza verso una donna  “troppo donna per la scienza, troppo scienza per il salotto”. Marie non risponde. Lavora. Quando la vita di superficie si agita, lei scende di un livello e tace, come fanno i minatori quando la galleria vibra. È un gesto spirituale: scegliere la profondità quando la superficie fa rumore. Se guardiamo bene, tutto in lei è un esercizio di presenza. Restare, anche quando fa male. Cercare, anche quando non c’è garanzia di trovare. Illuminare, anche quando nessuno ringrazia. È una mistica senza dogmi, una scienziata senza retorica. La sua “preghiera” è una formula semplice: “continua”. Ed è proprio in questo verbo che la scienza e la spiritualità si toccano: nella perseveranza che non pretende risultati immediati, ma tiene aperta la possibilità.
E allora la domanda diventa nostra: cosa ce ne facciamo, oggi, della sua luce invisibile? In che  modo possiamo rimanere accanto a ciò che non capiamo, senza fuggire? Possiamo imparare anche noi a “vedere dentro” — nelle cose, nelle storie, nelle persone — con un apparecchio che non ha manopole ma ha un nome antico: attenzione. Forse l’attenzione è la radiografia dell’anima: mette a fuoco l’invisibile e lo rende abitabile. Ecco perché Marie Curie appartiene a questa rubrica: perché ci ricorda che la scienza, quando tocca l’invisibile, diventa preghiera. Non detta formule, ma ci invita a restare in ascolto. Non costruisce dogmi, ma apre spazi. Non ci promette risposte definitive, ma ci regala la capacità di non smettere di domandare.

PS: Scrivo questa rubrica anche per questo: perché sento il bisogno di rileggere figure come Marie Curie non solo come scienziate, ma come donne e uomini che hanno interrogato il mistero. Anch’io sono — come tutti, forse — alla ricerca di un nuovo significato da dare alle cose del mondo. Non basta spiegare, non basta calcolare. Voglio trovare parole che tengano insieme ragione e stupore, numeri e silenzi. In questo cammino, anche Marie Curie diventa per me una compagna di viaggio, come Einstein e altri fisici che hanno scavato nel profondo per riemergere con nuove illuminazioni. Non tanto perché abbiano trovato risposte definitive, ma perché hanno avuto il coraggio di convivere con l’invisibile. Domanda per voi: qual è la vostra luce invisibile, quella a cui vi affidate nei momenti bui?”

Stupore, meraviglia, incanto

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Negli ultimi mesi, in vari confronti con colleghe e colleghi, ho messo in evidenza una difficoltà nella quale mi imbatto da circa due-tre anni a questa parte: faccio fatica a destare lo stupore in classe. Non voglio certo generalizzare, ma mi capita sempre più spesso di incrociare sguardi attoniti o volti inespressivi davanti a racconti o testi o filmati che dovrebbero far esclamare “oooooooh” (ricordo la meraviglia di qualche tempo fa quando mostravo uno di quei filmati che mostrano il passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa). Ho attribuito la colpa alla disponibilità, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, di tutto questo materiale on-line e alla sua facile fruibilità: insomma la sensazione che tutto è già stato visto, tutto è già stato detto. Magari non ci si è soffermati a riflettere, e ora, che è venuto il momento di farlo, è un ragionare “a freddo”, senza la spinta emozionale. Poi, però, mi capita di leggere in una classe prima, il testo scritto da una ragazza appena uscita dalla quinta, un testo che parla di amicizia, di vita, di morte, di amore e di passione per la vita. E molte/i si emozionano e hanno gli occhi rossi. Allora mi è venuto in mente quel testo di Alessandro D’Avenia scritto un mesetto fa per il primo giorno di scuola e che mi ero promesso di riprendere. E’ venuto il momento… Lo prendo dal suo blog (è stato pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica settimanale “Ultimo banco”).

“Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché?
La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui.”

Gemma n° 2780

“Come gemma per quest’anno ho deciso di presentare il mio fratellino A., un’esplosione di energia e dolcezza. Ha 21 mesi e mi ricordo benissimo la felicità che ho provato quando ho saputo che avrei avuto un altro fratellino. La mia famiglia è formata da molte persone, mia mamma, mio fratello, il marito di mia mamma, le sue due figlie e mio papà che non vive con noi ma che vediamo praticamente ogni giorno. A. è diventato una delle persone più importanti per me perché attraverso la sua gioia e spensieratezza riesce sempre a strapparmi un sorriso, anche nei momenti tristi o nelle giornate buie. Credo che grazie a lui la mia famiglia si sia unita ancora di più e sono convinta che lui sia molto fortunato, perché sta crescendo in un ambiente ricco di amore reciproco, condivisione e rispetto. Il mio fratellino adora anche mio padre che è un simpaticone, lo chiama zio e questa cosa mi fa stare bene. Devo ammettere che Antonio è molto rumoroso e spesso per rilassarsi ci sarebbe bisogno di silenzio ma lo ringrazio per tutta la positività che porta all’interno delle mura di casa, per le risate che ci facciamo per qualche sua espressione strana o per le prime parole che dice che sono sempre una sorpresa. Ogni giorno che passa mi rendo conto di quante siano le piccole cose che a lui creano meraviglia e stupore e che io invece, spesso, do per scontate. Questa esperienza di sorella sedicenne di una creatura così piccola, è una bellissima messa alla prova ed esercizio per non dimenticare quanto sia importante vivere con intensità e dare importanza alle persone che ci fanno stare bene” (M. classe terza).

Gemma n° 2653

“Ogni anno, durante le settimane del centro estivo, viene scelto un tema su cui riflettere insieme ai bambini, e quest’anno il tema è stato quello della “Gioia piena”. A prima vista, potrebbe sembrare complicato spiegare questa parola a dei bambini, ma in realtà la gioia si manifesta in modi diversi nella vita di ognuno. Durante quest’estate, ho avuto l’opportunità di riflettere sul significato di questa parola e, alla fine, ho capito cosa rappresenta veramente per me la gioia piena.
In particolare, sono convinta di averla sperimentata veramente durante la settimana di luglio trascorsa in montagna, a Rigolato. È stata una settimana ricca di impegni per noi animatori, una settimana che ci ha visto dedicare interi pomeriggi alla preparazione delle attività, dei giochi, delle squadre e di tutto il resto. Nonostante la stanchezza di quei giorni, i ricordi più belli che conservo di quella settimana sono quelli legati ai momenti passati insieme ai miei amici, le lunghe camminate in montagna animate dalle risate dei bambini e dalle canzoni che cantavamo lungo i sentieri, i pasti condivisi in una piccola sala da pranzo, dove ci trovavamo stretti ma felici, le sere trascorse a chiacchierare, tutti chiusi in una sola stanza, con la paura di essere scoperti e mandati nelle nostre camere, la fretta delle pulizie e, soprattutto, le risate dei bambini che mi seguivano ovunque, facendomi mille domande a cui, nonostante tutto, cercavo sempre una risposta.
A rendere questi momenti indimenticabili sono state le persone con cui li ho vissuti: il gruppo di animatori, che è stato semplicemente il più bello che potessi desiderare, ma anche i bambini, che sono il vero collante di tutte le situazioni.
Ricordo un momento preciso in cui ho capito davvero quanto tutto questo fosse importante per me. Era la mattina dell’ultimo giorno del camposcuola. Ci trovammo tutti insieme fuori dalla casa, pronti per entrare nella sala da pranzo per fare colazione. Quando entrai, vidi che sui tavoli c’erano i libretti che noi animatori avevamo preparato la sera prima, riempiendoli di dediche fino alle due di notte, uno per ogni bambino presente. E ricordo anche di aver trovato al mio posto un foglio, riempito delle firme dei bambini che mi avevano accompagnato durante questa esperienza. È stata una sorpresa inaspettata vedere che ogni animatore aveva ricevuto qualcosa di simile, e non riuscivo a trattenere l’emozione. Quel momento, circondata dalle espressioni gioiose dei bambini che si leggevano le dediche a vicenda, mi ha riempito il cuore.
Quella giornata, passata a ricordare i momenti più belli della settimana con gli altri animatori, abbracciandoci, consolandoci a vicenda e cantando le nostre canzoni dell’estate, mi ha fatto comprendere quanto questo lavoro mi faccia bene al cuore.
Le persone con cui condivido queste esperienze non sono soltanto dei “colleghi”, ma sono degli amici con cui ho una complicità che va oltre il ruolo dell’animatore. Per me, loro sono la luce e il sale della mia vita!”
(C. classe quinta)

Gemma n° 2639

“Come gemma quest’anno ho deciso di portare qualcosa di diverso; tramonto e alba hanno sempre rappresentato qualcosa di importante e piacevole per me, ragione per la quale cerco sempre di immortalarle. Il cielo in tutte le sue forme e sfumature assume significati diversi ed è in grado di influire, spesso in modo positivo, sul mio stato d’animo. Con questi scatti, infatti, cerco sempre di racchiudere lo stato di calma, gioia o semplice stupore che ognuno di questi istanti mi ha portato per poterlo ricordare per sempre ripercorrendo questi momenti: ognuna delle numerose fotografie è unica e con un suo particolare significato. Nonostante queste siano solo semplici fotografie quindi rappresentano nella loro unicità un qualcosa di diverso e personale” (P. classe quinta).

Gemma n° 1975

“Ho portato il mio primo cellulare ricevuto in prima media. L’ho avuto per un anno, quindi un periodo di tempo non molto lungo. Delimita un periodo preciso della mia vita per cui vi sono legati i ricordi della prima media. Rappresenta un passaggio da una fase all’altra della mia vita: un telefono mio personale è stato il mezzo per conoscere meglio il mondo circostante ancora con occhi da bambino. Continuo a scoprire nuove cose anche oggi, ma non con quel punto di vista”.

Questa la gemma di L. (classe terza). Chesterton diceva che La cosa meravigliosa dell’infanzia è che tutto è in essa una meraviglia. Lo sforzo di prolungare quella meraviglia è di Oscar Wilde: Io continuo a stupirmi. È la sola cosa che mi renda la vita degna di essere vissuta.

“Ma… come sono i giovani?”

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Una domanda che mi rivolgono spesso gli amici è “Ma come sono i giovani d’oggi?”. “È inutile cercare di etichettarli come gruppo sociale omogeneo: sono singole persone intente a costruire la propria storia, irriducibili alle caratteristiche standard che si vorrebbe attribuire loro: inquieti, ribelli, egocentrici o altro”. Questa è una delle frasi di questo editoriale estivo di Luigi Ciotti, presidente di Libera, dal titolo Ascoltate gli alieni. Pubblico tutto il pezzo perché vi trovo contenuti molti spunti interessanti, sia per chi li guarda da fuori, questi adolescenti, sia per chi lo è, un adolescente.

“Tante volte sentiamo parlare degli adolescenti come se fossero una popolazione di alieni, approdati sulla Terra da un pianeta sconosciuto, con abitudini e linguaggi per noi indecifrabili. Li nominiamo in blocco – “gli adolescenti” – e cerchiamo di individuare qualche tratto che li definisca collettivamente, che li classifichi e ce li renda meno estranei. Ma i giovani non sono una popolazione a parte, sono una parte della popolazione. Sono parte di noi, della nostra società, e di questa società rispecchiano vizi e virtù, paure e speranze.
Se c’è un elemento – il principale – che li accomuna, è quello di essere in un’età sulla soglia: non più bambini, in tutto dipendenti dalla guida dei più grandi, non ancora adulti capaci di prendere decisioni autonome e assumersi responsabilità importanti. Gli adolescenti stanno lì, in mezzo al guado, e si guardano attorno. Da ciò che osservano accanto a loro dipenderà molto di ciò che diventeranno.
È inutile cercare di etichettarli come gruppo sociale omogeneo: sono singole persone intente a costruire la propria storia, irriducibili alle caratteristiche standard che si vorrebbe attribuire loro: inquieti, ribelli, egocentrici o altro.
I Piani europei di ripartenza post covid sono pieni di buoni propositi sulle nuove generazioni. Ma davvero bastano più istruzione e lavoro per riempire il vuoto di senso di un’adolescenza sempre più aggressiva e ansiosa?
Tutti noi siamo stati adolescenti e di quella adolescenza conserviamo un peculiare ricordo: chi esaltante, tutto incentrato sulla scoperta del mondo, le prime intense amicizie, le prime forme di autonomia. Chi più amaro, perché per carattere, educazione o altro ha vissuto con disagio i cambiamenti del corpo, il rapporto coi coetanei, le richieste crescenti della scuola e della famiglia. C’è anche chi non ha voglia di tornare a quell’epoca della propria vita: la tiene chiusa in un cassetto come se fosse un frammento di materiale radioattivo, che ancora sprigiona energie misteriose, mai rielaborate, che potrebbero interferire con la maschera di rispettabilità e sicurezza dietro la quale molte vite adulte amano celarsi.
Ma per non fare torto agli adolescenti di oggi, ciascuno di noi dovrebbe ritornare all’adolescente che è stato, coi suoi umori incerti, le sue grandi passioni, i suoi imbarazzi, le sue angosce, i suoi slanci. Attraverso la nostra memoria interiore, una memoria non solo razionale ma emotiva, possiamo entrare in sintonia con le grandi domande che i giovani ci pongono, le stesse che anche noi ci siamo posti all’età loro e alle quali si spera che siamo rimasti fedeli nel costruire la nostra vita successiva, all’insegna della ricerca di verità e pienezza. Possiamo anche entrare in sintonia coi disagi che i giovani di oggi esprimono in forma più o meno diretta. E rifuggire così da qualsiasi giudizio sbrigativo, da qualsiasi tentazione di etichettare i ragazzi sulla base del racconto superficiale che spesso ne danno i media […].
Se operiamo questo esercizio di immedesimazione capiremo che i tanti, troppi giovani che non studiano e non lavorano – i cosiddetti Neet (acronimo dell’inglese Neither in employment nor in education or training) – non hanno rinunciato a formarsi per mancanza di curiosità: la curiosità, la sete di conoscere e capire, è uno degli impulsi principali dell’essere umano in crescita. Né hanno rinunciato a cercare un’occupazione per pigrizia, perché quando si è giovani si teme assai di più la noia della fatica. E quindi la passività in cui questi ragazzi vivono, l’apparente mancanza di desideri, stimoli e prospettive, è il frutto di un presente incapace di investire su di loro, dei limiti delle nostre politiche educative, di un mondo del lavoro che sacrifica i diritti ai profitti, la formazione alle performance.
Capiremo che i sempre più numerosi giovani che preferiscono vivere chiusi nelle proprie stanze, rifiutando qualsiasi contatto col mondo reale a vantaggio di un’esistenza ripiegata nel virtuale, forse ci stanno indicando le pecche di un sistema di relazioni fondato sull’adeguatezza a standard non solo inarrivabili, ma inutili: canoni estetici e di consumo, di possesso, di successo, di un’autoaffermazione che si gioca spesso sull’escludere, il deridere, il sottomettere l’altro. Chi non si adegua, chi non si conforma, chi magari manifesta le proprie difficoltà attraverso sintomi come i disturbi alimentari, l’autolesionismo, l’abuso di sostanze o il ricorso a rituali violenti, viene facilmente etichettato come malato, vittima o delinquente. Invece credo che dovremmo imparare a leggere dentro questi comportamenti – che come adulti ci provocano e ci mettono alla prova – anche una risorsa preziosa di comunicazione. Un tentativo, per quanto sofferto, di stabilire un contatto, ricordandoci che quello che non va, a qualsiasi età, non può essere detto sottovoce.
La pandemia ha suscitato reazioni emotive forti in ciascuno di noi. E non c’è da stupirsi se gli adolescenti, mutilati per lunghi mesi dall’esprimere la propria componente più vitale attraverso i contatti fisici, il rapporto quotidiano fra pari, a scuola, nel gruppo, messi addirittura da qualcuno sotto accusa come principali untori del virus, stiano oggi dando voce alle proprie frustrazioni, paure e aspettative di ritorno alla normalità. C’è chi lo fa in modo più costruttivo e chi più ingenuo, magari scomposto: ciascuno in base agli strumenti culturali di cui dispone, al carattere, all’esempio che ha respirato in famiglia. L’importante è ascoltare, ascoltare, ascoltare. E rispondere attraverso modelli di comportamento credibili, che non si limitino a predicare l’educazione, lo studio e l’impegno, ma dimostrino di praticarli nel quotidiano. E insieme di praticare sempre lo stupore, grazia spontanea della gioventù, ma anche imperativo di qualsiasi vita adulta che si voglia piena e autentica”.

Amu, mare

La settimana scorsa ho scattato questa foto a Mariasole. Stava correndo in leggera salita. Ieri, guardando la foto, la nonna le ha chiesto “Cosa c’è laggiù?” indicando l’orizzonte, e lei ha risposto “Amu”, il suo modo di dire “Mare”. Ma quando correva Mariasole non lo sapeva, non sapeva che dopo la salita e oltre la balaustra ci sarebbe stato qualcosa di bellissimo e che lei ama tanto. E lo sguardo meravigliato di un bimbo quando viene sorpreso dall’inaspettato, dall’inatteso, dal sorprendente, dal bello, è qualcosa di unico perché è senza filtri, senza finzioni, senza freni: è gioia pura. Ed è contagioso! Perché ne vieni colpito anche tu che hai la fortuna di incrociare quello sguardo. A volte capita di vederlo anche a scuola, anche se molto più raramente. E’ l’espressione che ha in faccia chi dopo la salita, dopo aver superato le varie balaustre, ha colto con lo sguardo il mare, l’orizzonte. Compito mio da insegnante è mostrare le strade, accompagnare, motivare, dare l’idea, smuovere al movimento, far intuire una goccia del mare e poi, perché no?, fare come Sara in questa seconda foto: correre dietro a Mariasole perché non si fiondi in mari troppo pericolosi per lei 😉

Un occhio generativo

Mi sto dedicando alla lettura notturna di L’appello di Alessandro D’Avenia. Ho l’abitudine di prendere nota dei passi che mi colpiscono e di riportarli poi su dei quadernetti (anche se è un po’ che non faccio quest’ultima operazione e mi manca farlo). Come si vede nella foto sono arrivato a pagina 50 e le citazioni sono già tante (come sempre mi capita con i libri del prof siciliano). Oggi mi voglio soffermare su alcuni di quei passi per restare sul tema dell’ultimo post: i buoni propositi per il nuovo anno.

E’ il prof. Romeo a parlare, il docente non vedente di un liceo scientifico: “Dare un nome proprio e dare alla luce sono la stessa cosa. Da quando sono cieco ho capito che la luce non è semplicemente quella che si riflette sulle cose, ma quella che ne esce quando le chiami per nome. […] Per riuscire a insegnare devo concentrarmi sulla presenza dei ragazzi e non sulle mie aspettative, devo lasciare che siano loro a venire alla luce e non io a illuminarli. Almeno ci devo provare…” (pag. 37). L’anno scorso sono riuscito a farlo in alcune classi e da loro sono uscite cose meravigliose che mi hanno emozionato e meravigliato. Le ore emozionanti e che generano meraviglia e stupore sono quelle che rimangono più impresse, quelle generative: lo sono per me, penso lo siano anche per loro. E con questo mi lego alla seconda citazione, è una studentessa a parlare, Elisa, anzi Virginia: “Soffoco tra queste mura così strette e mi chiedo che ci facciamo qui, tutti i giorni, a morire di noia. Perché volete costringere la vita nella taglia XXS dell’abitudine? Spero che lei possa raccontarci qualcosa che non abbiamo mai visto… Altrimenti la mia anima sarà costretta ad andarsene anche durante queste ore, pur di respirare. Non ho mai sentito una nota di meraviglia nelle parole della nostra professoressa di scienze.[…] Così è la mia vita, professore, fuggo sempre da dove ci si annoia e mi abbandono a lunghi sogni di trasformazione. Viaggio con l’anima e divento tutto ciò che mi stupisce. E devo farlo per forza, se non voglio morire di realtà.” (pag. 48).

Ecco quindi, dopo l’orecchio bambino del precedente post, altri due propositi: far venire alla luce e generare meraviglia (che mi suonano decisamente affini). C’è di che rimboccarsi le maniche.

Andirivieni tra bellezze

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Faticosetta la mattina di oggi: prima ora in succursale, seconda in centrale, terza in succursale, quarta in centrale, quinta in succursale. Potrei anche evitare l’amichevole di stasera, per oggi mi sono allenato…
Poi ripenso un attimo: una studentessa racconta la sua passione per un cantante che non ti aspetti, Mario Tessuto; un’altra dopo un’unica visione ti riporta per filo e per segno il videoclip “Jesus walks” di Kanye West; altri si meravigliano davanti al genio di Jesus Christ Superstar; una classe quinta segue con attenzione la quarta delle sette brevi lezioni di fisica di Rovelli e riflette sull’importanza della ricerca della verità anche quando significa riconoscere di aver buttato 40 anni di ricerca; poco dopo si emoziona davanti alla storia di una bimba affetta da hiv raccontata da Spike Lee; con una prima emerge il tema dell’identità e dell’importanza delle relazioni, con tutte le conseguneti contraddizioni; un’altra seconda, dopo che una studentessa ha raccontato l’emozione di “Collateral Beauty”, si cimenta con la lentezza cinematografica di Decalogo 1 di Kieslowski e si interroga sulla frase “Dio esiste, è molto semplice, se ci si crede”. Infine una quarta si appassiona ai riti quotidiani dell’induismo e ammira la bellezza e la colorata precisione di alcuni mandala, dopo che uno studente ha proposto una riflessione sulla possibilità di cercare la fortuna anche là dove sembra che non ci sia.
Ecco allora che quell’andirivieni tra succursale e centrale acquisisce un senso e mi fa capire che senza di esso mi sarei perso tutta questa bellezza. Un po’ di meraviglia in meno sarebbe entrata nella mia vita.

Gemme n° 299

Più che per la canzone ho portato questo video per il personaggio raccontato, a cui sono molto affezionata: Peppino Impastato, che ha dedicato la propria vita a combattere la mafia.” Ha poi presentato brevemente alcuni aspetti della vicenda B. (classe terza), spiegando il motivo del titolo del brano e l’attività di Radio Aut, fondata da Peppino.
Un suo prezioso insegnamento: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”.

Gemme n° 287

La mia gemma è il trailer del film-documentario “I bambini sanno”: tocca alcuni temi importanti come la vita, l’amore, l’omosessualità, la crisi economica, l’amicizia. Il tutto dal punto di vista dei bambini. Trovo che sia un film profondo che faccia riflettere: i bambini sanno qualcosa di più dei grandi. Si dice che siano il futuro ma non si dà loro modo di esprimersi.” Questa è stata la gemma di C. (classe terza).
Dentro ciascuno di noi ritengo ci sia una parte bambina da nutrire e mantenere per continuare a provare lo stupore e la meraviglia. Lascio qui la canzone The child inside dei Depeche Mode che proprio oggi un’alunna di prima ha citato come la sua canzone preferita.

https://www.youtube.com/watch?v=IpMktdUA_6c

Pura bellezza

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Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear… Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.” (Carlo Rovelli, “Sette brevi lezioni di fisica”).
Sono passati 100 anni: l’articolo in cui Einstein presenta la sua teoria scientifica è del novembre 1915.

Volti

Tanti gli spunti offerti da questo articolo di Alessandro D’Avenia sul volto di Dio e sulla Sindone, tante possibilità di riflessione e meditazione. Pubblicato su La Stampa del 19 aprile.
Vedere Dio. Chi per verificare che non esiste, chi per dirgliene quattro o scambiare quattro chiacchiere, chi per godersi la sua bellezza. Che lo ammettiamo o no, credenti o no, vorremmo vedere Dio. Per il poeta Eliot ogni cultura non è altro che la risposta data a questo desiderio: nessun uomo se n’è sottratto, anche gli uomini di quelle culture che negavano la possibilità di rappresentare il volto di Dio. Tra i due poli, culture iconoclaste e culture che hanno rappresentato gli dei, ci sono tante sfumature, ma i due poli rendono il punto chiaro, perché lo toccano uno da un margine uno dall’altro: Dio deve avere un volto.
Gli Ebrei, proprio perché negavano la possibilità di nominare il nome dell’Altissimo e di rappresentarlo (le teofanie sono iniziative divine: sia che si tratti di fenomeni naturali come il roveto ardente per Mosè, sia che si tratti di presenze di aspetto umano come i visitatori di Abramo), svilupparono un concetto di volto di Dio, totalmente nuovo rispetto alle altre religioni. Il fedele cerca il volto (panim) di Dio, pur non potendolo vedere. Panim è il termine ebraico per indicare il volto come sede visibile dei sentimenti: ira, misericordia, dolcezza, gelosia, amore… Il volto, pur non essendo visibile o riproducibile in immagine, si riempie di un valore essenziale: rappresenta la possibilità di rapportarsi all’Altissimo. Dio è relazione con l’uomo e quindi ha un volto che esprime tutte le sfumature di una relazione d’amore, e il non rappresentarlo in immagini serve a preservarlo da qualsiasi riduzione umana e idolatrica.
D’altro canto i Greci intuirono qualcosa di analogo, ma con esiti opposti. Erano convinti che qualsiasi cosa influisse sull’uomo e ne causasse azioni, idee, pensieri, parole non potesse essere di natura inferiore all’uomo. Per questo i loro dei, che si differenziavano dall’uomo per un unico aspetto (l’immortalità), erano antropomorfi, ma non per questo si potevano vedere direttamente. Quando si mostravano agli uomini si travestivano: apparivano come altri uomini o animali o sogni… ma la loro teofania non era mai svelata (prosopon è il termine greco per indicare sia il volto sia la maschera). Se qualcuno avesse visto un dio direttamente sarebbe perito, come racconta il terribile mito di Diana e Atteone, divorato dai suoi cani da caccia, dopo esser stato trasformato in cervo per aver visto la dea bagnarsi nelle acque di un fiume; o come il bellissimo mito di Amore e Psiche, in cui la ragazza, nonostante il divieto, nottetempo spia alla luce di una candela l’aspetto del dio che l’ha fatta sua e per questo viene cacciata dalle sue grazie, e dovrà patire ogni dolore e prova, prima di poter riavere Amore. Le teofanie sono possibili solo attraverso un camuffamento, altrimenti sono letali. Ciò però non preclude all’uomo la possibilità di poter rappresentare gli dei, anzi l’arte greca nasce proprio dall’anelito di vedere gli dei e farseli vicini: è teofania qualificata. La statua di un dio, come ha spiegato Vernant, era considerata un doppio del dio stesso, quasi costretto così, per via di bellezza, ad essere presente. L’arte era lo strumento umano per costruire la soglia tra il mondo profano e il mondo divino, rigorosamente separati.
Mostaert. Cristo coronato di spineIl cristianesimo, che ha il suo mistero centrale nell’incarnazione di Dio, spezza questa distanza o impossibilità: sacro e profano non sono più separati, perché Dio si è fatto uomo, si è fatto volto, si è fatto parola e immagine, divinizzando da dentro il profano. Non solo si può vedere Dio senza morirne, ma si può toccarlo sino a farlo morire. Così l’estetica cristiana, nutrendosi delle due tradizioni, giudaica e greca, le fonde e supera in una nuova: una gara di bellezza per rendere ancora presente, il più degnamente possibile, la corporeità e il volto di Dio (prosopon viene usato dai teologi cristiani per definire il concetto stesso di “persona”).
Le due tradizioni sono infatti ben rappresentate anche nel racconto evangelico. Filippo, ebreo discepolo di Gesù, chiede al suo maestro: “Mostraci il Padre e ci basta”, azzardando la richiesta quasi sacrilega di vedere il volto di Dio. E Gesù gli risponde: “Chi vede me vede il Padre”. In un’altra occasione un gruppo di Greci, desiderosi di conoscere Cristo, si accostano a quello stesso Filippo e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. E quando Filippo riporta la richiesta, Cristo risponde enigmaticamente con l’esempio del chicco di grano: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Risponde alla greca, con “altre spoglie”, e non per nascondersi, ma perché la teofania deve ancora avvenire: la visibilità di Dio, in Cristo, sarà completa nel momento di massima ostensione della sua donazione all’uomo, cioè con la passione, morte e resurrezione. Il cerchio si chiude: per vedere il Padre bisogna vedere Cristo, per vedere Cristo bisogna vedere la sua “passione” di uomo e per l’uomo. Il frutto è una teofania storica affidata poi agli uomini, la visibilità di Cristo per tutti i tempi a venire: la vita dei cristiani stessi, decisi a seguirlo sulle sue tracce (“Chi vuol venire dietro a me mi segua e dove sono io là sarà anche lui”, “Da questo riconosceranno che siete miei, dal fatto che vi amate gli uni gli altri”). Per vedere occorre seguire, perché Dio offre il suo volto solo a chi liberamente si mette sulle sue tracce. In questo senso la sindone è “superflua” per un credente. Egli vede Cristo seguendolo, scorge le sue sindoni quotidiane nei luoghi in cui Cristo ha detto che lo avrebbero visto: nell’altro (“chi serve uno di questi piccoli serve me”), nel culto (“chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha in sé la vita e io e il Padre mio dimoreremo in lui”), nella speranza della visione definitiva dopo la morte (“sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”).
Se un credente dimentica queste teofanie, la Sindone rischia di diventare oggetto di superstizione, fine SacraSindonea se stesso, limite e non soglia per un’ulteriore e più piena tracciabilità del divino. Per il non credente la Sindone può e deve essere curiosità (curioso viene da cura: un guardare con attenzione, senza liquidare pregiudizialmente e frettolosamente), perché nessuno scienziato (l’accanimento su quest’oggetto è unico nella storia dell’archeologia) è riuscito ancora a spiegare come questa immagine si sia costituita, dato che non è riproducibile né con colori né con le tecnologie più avanzate. Il lenzuolo è allo stato attuale l’inspiegabile “selfie di Dio”, fatto con la luce sprigionatasi direttamente dalla materia del corpo che conteneva, il corpo di un morto imploso o esploso senza strappi, che conserva tutti i segni della incompletezza della vita umana, una teofania di luminosa imperfezione, questo il paradosso (lo stesso del chicco di grano): dolore, sangue, abbandono, violenza, solitudine, morte sono visibili su quel telo e riscattati dalla e nella luce.
Per questo anche per il non credente “il selfie di Dio” resta una sfida che provoca l’istintivo desiderio di vedere Dio. Se mi dicessero che è stato trovato il ritratto di un mio avo di duemila anni fa sarei curioso di vederlo, non mi cambierebbe la vita, ma arricchirebbe il mio senso estetico se si trattasse di opera artistica, della memoria e della storia se si trattasse di opera archeologica, il mio senso etico dal momento che si tratta di un uomo torturato e ucciso violentemente (bellissimo a questo proposito il romanzo di Potok, Il mio nome è Asher Lev), ma se scoprissi che quell’uomo, che diceva di essere Dio, si è fatto una foto in modo inspiegabile per la scienza e la tecnica, la mia curiosità si trasformerebbe in apertura curiosa e, chissà, magari, in ricerca.”

Gemme n° 80

Ho proposto una canzone sulla capacità di stupirsi: spesso le nostre giornate si succedono molto simili e penso sia importante dare rilievo anche a piccole cose, magari a stupidaggini, che hanno la capacità di renderci felici”: sono le parole con cui S. ha commentato questo brano di Povia:

E’ vero, S., a volte basta veramente poco, anche solo un modo diverso di vedere le cose:

Allergie

Corsica_557 copia smallSono allergico alle graminacee, alle composite e alle betullacee. Sono allergico a chi giudica, a chi crede di aver sempre ragione, a chi pensa che la via percorribile sia una sola, che guarda caso è la sua. Sono allergico a chi si ritiene indispensabile. Penso che le cose non siano solo nere o bianche, che ci siano le sfumature e i colori, che ci sia spazio, che le strade siano molte e con esse le curve e gli incroci e che ognuno sia libero di cercare, scoprire e percorrere le sue. Credo nell’inedito, nel potenziale di tutto quanto non è stato ancora espresso, nella possibilità di potermi meravigliare, nello stupore, nella strada non ancora battuta, convinto che anche lì ci sia il senso di cosa ancora non so.

Parole abbaglianti

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Sabato sono stato a un convegno sulle mafie in Friuli Venezia Giulia e durante la pausa pranzo, col freddo che faceva e la pioggia battente, dopo essermi rifocillato, sono andato a fare un giretto in libreria. Uno dei libri che ho comprato è un testo di Alda Merini che avevo dovuto riporre, per motivi economici, a inizio gennaio, nell’ultima visita alla Feltrinelli. Ebbene, nella prima poesia che ho letto c’è così tanta ricchezza e sensibilità che potrei fermarmi lì col semplice pensiero “ne è valsa la pena”: fulminante! Questo è quello che vorrei essere in grado di dire quando qualche studente mi chiede: “ma prof, lei, che Gesù conosce?”. Questo è il Gesù di cui vorrei sentir parlare più spesso.

Io che sono vicina alla morte,

io che sono lontana dalla morte,

io che ho trovato un solco di fiori

che ho chiamato vita

perché mi ha sorpreso,

enormemente sorpreso

che da una riva all’altra

di disperazione e passione

ci fosse un uomo chiamato Gesù.

Io che l’ho seguito senza mai parlare

e sono diventata una discepola

dell’attesa del pianto,

io ti posso parlare di lui.

Io lo conosco:

ha riempito le mie notti con frastuoni orrendi,

ha accarezzato le mie viscere,

imbiancato i miei capelli per lo stupore.

Mi ha resa giovane e vecchia

a seconda delle stagioni,

mi ha fatta fiorire e morire

un’infinità di volte.

Ma io so che mi ama

e ti dirò, anche se tu non credi,

che si preannuncia sempre

con una grande frescura in tutte le membra

come se tu ricominciassi a vivere

e vedessi il mondo per la prima volta.

E questa è la fede, e questo è lui,

che ti cerca per ogni dove

anche quando tu ti nascondi

per non farti vedere

(Alda Merini, Corpo d’amore)