“Come gemma ho deciso di portare il valore che ha per me viaggiare e conoscere cose nuove. Da quando sono bambina i miei genitori hanno reputato il viaggio una parte fondamentale della crescita sia mia che di mia sorella: esso mi ha aiutata a sviluppare un certo senso di tolleranza verso il diverso, che comprende verso città e culture nuove, ma soprattutto verso le persone. Amo viaggiare anche perché in qualsiasi posto dove io sia stata sono andata alla ricerca dell’arte e dell’architettura, cose che porterò nella gemma del prossimo anno. Partire rappresenta anche un momento per unire la mia famiglia dato che per la scuola non passo tanto tempo con loro. Ho scelto questa foto perché rappresenta il primo viaggio che ho fatto senza restrizioni per il covid. Durante il periodo della quarantena e poi di tutte le restrizioni tra regioni ho sofferto parecchio il distacco da quella che ormai era diventata un’abitudine. Questa è una foto che ho scattato a Sappada, luogo molto caro a me e tutta la mia famiglia perché era una delle mete predilette dei miei nonni. Mi ricorda quindi tutti quei momenti che non potrò più passare con loro ma allo stesso tempo mi torna in mente la felicità di quegli attimi” (G. classe quarta).
Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. Il primo è esplicato da Donatella Di Cesare, insegnante di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. Lo si può trovare a questo link.
“Nell’età del libero odio e della regressione violenta il fango non ha risparmiato né l’accoglienza né l’altro. Come se si trattasse di un buonismo caricaturale, di un precetto per anime belle, di quell’etica che ha fatto il suo tempo. Quante storie, insomma, per la cosiddetta «differenza», quella delle donne, degli ebrei, degli omosessuali, dei diversi da «noi», quante storie per gli altri, gli stranieri, gli estranei, quelli che vengono da fuori, non invitati, i malvenuti. Prima veniamo «noi», poi gli altri! E prima del noi – s’intende – vengo «io». Ecco la nuova «morale» del XXI secolo, ben centrata sull’ego, uguale a se stesso, coincidente con sé. Un ego che si chiude, anzi si blinda, erige muri, innalza frontiere, installa videocamere, nell’angoscia quotidiana che l’altro, l’ospite indesiderato, o meglio, il nemico, possa sopraggiungere d’un tratto. Questo io snervato dalla paura, barricato in se stesso, ogni tanto si rende conto che, da solo, proprio non ce la fa; piuttosto che spiare fuori, apre un po’ la porta. Lascia entrare l’altro – solo per breve tempo e solo a certe condizioni. Chissà, potrebbe magari tornargli utile. Si mostra addirittura tollerante, parla di «assimilazione», «integrazione». È l’altro che deve rendersi simile, è l’altro che deve adeguarsi. Se questo non accade, se l’altro, nella sua alterità, fa ostacolo, se per caso si ribella, rivendicando la sua differenza, prima ancora della sua libertà, allora l’io potrebbe spazientirsi e fargliela pagare. Il femminicidio – estremo gesto di una violenza diffusa e sistematica sulle donne – va considerato in questo complessivo naufragio dell’etica. «Tolleranza» è una brutta parola. È la parola pronunciata dall’io sovrano che, dall’alto del suo potere, sopporta la differenza dell’altro. Il cristiano tollera l’ebreo (fino a un certo punto), il bianco tollera il nero. Il presunto autoctono tollera lo straniero. L’io lascia all’altro un piccolo posto nella propria casa – ma potrebbe scacciarlo quando vuole. Si esaurisce qui il modello illuminato della coabitazione tollerante. Questa morale non va più. Certo, è meglio che essere intolleranti. Ma il punto è che non si può pretendere di immunizzarsi dall’altro. L’io rintanato in sé finisce per girare su se stesso in una fallimentare girandola. Accogliere l’altro significa aprirsi alla sua irriducibile alterità. Perché l’altro non è il limite contro cui urtiamo, ma al contrario, solo l’altro, non senza scuotere e inquietare, può davvero portarci oltre i nostri limiti.”
Un articolo apparso su Confronti il 20 settembre: è a firma di Soumaya Bourougaaoui e tratta della Tunisia e della sua tradizione di dialogo interculturale e interreligioso.
“La Tunisia, nella sua storia è diventata simbolo di accoglienza: sempre aperta e tollerante, è il luogo dell’incontro dove non si impongono limiti culturali, religiosi o politici. Promuove le diversità, resta un modello di pluralismo e di incrocio di religioni e culture. Ricordiamo le parole di Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, intervenendo all’Assemblea dei rappresentanti del popolo tunisino (Arp) nel febbraio 2016: «La Tunisia è un modello di pluralismo e tolleranza».
La Tunisia è indiscutibilmente un esempio di convivenza pacifica e del dialogo interculturale ed interreligioso. Non si scorda Sidi Mehrez (951-1022), considerato il patrono di Tunisi, che è stato soprattutto convinto protettore delle minoranze religiose… Il suo nome è legato alla fondazione del quartiere ebraico della città vecchia di Tunisi ovvero Elhara, per quasi 10 secoli, Elhara è stato effettivamente il cuore pulsante della comunità ebraica di Tunisi, la cui localizzazione sarebbe stata scelta gettando un bastone dall’alto della moschea che oggi porta il suo nome (David Cohen, Le parler arabe des Juifs de Tunis, Parigi, 1964). Quindi, la minoranza ebraica di Tunisi ebbe modo di vivere all’interno della città, mentre precedentemente gli ebrei ne erano esclusi e dovevano rimanere all’esterno durante la chiusura delle porte, dovevano passare la notte nei pressi del villaggio.
Oggi l’isola di Djerba, la perla del Mediterraneo, è anche nota per la sua minoranza ebraica, che abita sull’isola da secoli. Quest’anno, ha ospitato migliaia ebrei all’antica sinagoga di Ghriba. Ogni anno, il 33° giorno dalla Pasqua ebraica e in occasione della festa di Lag Ba’omer, la Ghriba – che in arabo significa “straniero” – diventa meta di un pellegrinaggio che mobilita migliaia di credenti.
«La Tunisia resterà un Paese di apertura e coabitazione di religioni», afferma il premier tunisino Youssef Chahed, nel periodo di effettuazione di questa tradizionale ricorrenza, nel corso della giornata di domenica 14. Inoltre, in quest’occasione, è stato annunciato che Tunisi presenterà ufficialmente la richiesta all’Unesco per l’inserimento dell’isola di Djerba tra i siti patrimonio dell’umanità, esempio di convivenza di fedi diverse da millenni: musulmana, ebraica e cristiana.
Un altro esempio di vicinanza tra comunità religiose diverse (alla Goulette hanno convissuto a lungo tunisini, francesi, maltesi, italiani), la messa dell’Assunzione di Maria, che fino al 1962 prevedeva anche la processione della Madonna di Trapani fino al mare. La Goulette è diventata il polo d’attrazione dei giovani grazie alla tradizionale tolleranza.
Il filologo e mediterraneista Alfonso Campisi (professore ordinario di Filologia Romanza presso l’università la Manouba a Tunisi e presidente dell’Aislli, Associazione per lo Studio della Lingua e Letteratura Italiana, sezione Africa. Studioso della Sicilia e del Maghreb, si occupa di identità, lingua e storia dell’emigrazione siciliana in Tunisia e negli Stati Uniti) scrive: «Il quartiere de La Petite Sicilie, alla Goulette, nasce intorno alla chiesa della Madonna di Trapani, celebrata dai trapanesi il 15 agosto. Secondo gli archivi da me consultati, la Madonna usciva dalla chiesa attraversando le stradine de La Goulette accompagnata da una banda musicale. La giornata si concludeva con i fuochi d’artificio e un concerto sulla piazza principale. Dornier così descrive la processione: “La processione della Madonna di Trapani, a La Goulette, non è un semplice corteo dove si cammina in fila, cantando inni o recitando il rosario. La Vergine è portata su un carro da una dozzina di uomini che si alternano. E tutto intorno alla Vergine c’è una folla eterogenea, che vuole toccare la statua, chi con un fazzoletto, o chi con la mano. A questa folla si mescolano donne musulmane velate, ebrei praticanti, che erano venuti anch’essi a pregare la Madonna. Alcuni seguono la processione scalzi per esaudire un voto, andando da La Goulette a Tunisi. Nelle ore serali, intorno alle 20:30, saranno le prostitute accompagnate dai loro protettori a fare il rito chiamato Le rite de la Madeleine prostrandosi ai piedi della croce”» (si veda “La comunità siciliana di Tunisia: La Goulette,un esempio di tolleranza”, del prof. Alfonso Campisi).
Nella prima metà dell’800, l’emigrazione italiana nel Maghreb è prima un’emigrazione intellettuale e borghese, di fuorusciti politici, di professionisti, di imprenditori. Liberali, giacobini e carbonari, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: «Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti». Dopo i falliti moti di Genova del 1834, in Tunisia approda una prima volta, nel 1836, Giuseppe Garibaldi, sotto il falso nome di Giuseppe Pane. Nel 1849 ancora si fa esule a Tunisi.
«Ma la grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne sul finire dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, con la crisi economica che colpì le nostre regioni meridionali. Si stabilirono questi emigranti sfuggiti alla miseria nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Anche sotto il protettorato francese, ratificato con il Trattato del Bardo del 1881, l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più massiccia. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna. Gli emigrati già inseriti, al di là o al di sopra di ogni nazionalismo, erano organizzati in sindacati, società operaie, società di mutuo soccorso, patronati degli emigranti. Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vicepresidente della Camera. Visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: “Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del Sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte”» (Francesco Casula, Il Mediterraneo tra illusione e realtà, integrazione e conflitto nella storia e in letteratura).
Con la scrittrice Marinette Pendola si scopre la storia dei siciliani di Tunisia. Pendola è nata a Tunisi da genitori di origine siciliana e come molti ha dovuto abbandonare la terra natale. Ricostruisce queste vicende personali della sua infanzia nel romanzo La riva lontana (Sellerio, 2000), è autrice di L’erba di vento (Arkadia Editore, 2014), ha insegnato lingua e letteratura francese nelle scuole superiori, vive a Bologna e fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui L’alimentazione degli italiani di Tunisia (2006). Per i “Quaderni del Museo dell’Emigrazione di Gualdo Tadino” ha pubblicato Gli italiani di Tunisia. Storia di una comunità (XIX-XX secolo) (2007). Inoltre, ha creato il sito http://www.italianiditunisia.com, con questi obiettivi:
Creare un luogo di scambio e di ritrovo fra tutti gli italiani di Tunisi sparsi nel Mondo.
Mantenere viva la memoria dell’esperienza storica e del patrimonio culturale italo-Tunisino.
Diffondere la conoscenza dell’esperienza storica e culturale italiana in Tunisia.
Raccogliere materiale di vario genere sulla comunità italiana di Tunisia.
Promuovere la ricerca attraverso la premiazione di tesi di laurea e di dottorato sulla storia, costumi, e la cultura degli italiani di Tunisia.
In Tunisia, nel settore dell’educazione e della ricerca, presso la Facoltà di Lettere, delle Arti e dell’Umanità di Manouba, è stato attivato il Master di ricerca in civiltà e religioni comparate. È stata una buona iniziativa e unico modo per partecipare alla costruzione di un futuro di pace e di convivenza armonica di diverse culture, ovvero, lanciare un messaggio di pace, e consolidare la coesistenza pacifica sottolineando come la tolleranza e la convivenza interreligiosa, siano un valore distintivo della società tunisina.
«Nel 2007, la Tunisia aveva 10 milioni di abitanti, di cui 20.000 cattolici, provenienti da 60 nazioni diverse. È veramente una Chiesa… cattolica! La domenica alla Messa, su 100 persone presenti, possono essere rappresentate ben 50 nazionalità diverse. Ciò porta una grande ricchezza culturale, spirituale e liturgica. Oggi la Tunisia è un Paese musulmano moderato, molto aperto; riconosce il suo passato cristiano e bizantino. La Chiesa è rispettata e tollerata. Coloro che sono in contatto con noi, ci apprezzano» (mons. Marun Lahhm, vescovo di Tunisi dal 2005, “Cristiani che vivono tra i musulmani”. L’articolo è tratto da una conferenza tenuta a Brescia presso la parrocchia di s. Francesco di Paola).
In Tunisia ebrei e musulmani e cristiani coabitano in pace da sempre, la Tunisia si conferma una terra dove la tolleranza e il rispetto non mancano. E le minoranze non hanno mai avuto problemi nel professare il loro credo. Il decano della Facoltà di Lettere, delle Arti e dell’Umanità di Manouba, professor Habib Kazdaghli, in una conferenza, tenuta il 28 marzo 2017, presso la Biblioteca “Diocésaine” di Tunisi, sulle minoranze tunisine tra ricordo e oblio, organizzata dal giornalista Hatem Bourial, dice: «La minoranza è la fonte della grandezza della maggioranza, e le minoranze fanno parte della storia di Tunisia».”
António Guterres, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), un anno fa, aveva chiesto ai capi religiosi presenti a un dialogo su “Fede e protezione”, un “Codice di condotta per capi religiosi”. Questa settimana, a pochi chilometri da qui, a Vienna si sta riunendo l’assemblea di Religions for Peace, all’interno della quale è stato reso noto un documento alla cui stesura, tra gli altri hanno collaborato il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, Islamic Relief Worldwide, la Federazione mondiale luterana e l’Unione mondiale evangelica, il Centro di studi hindu di Oxford e il Consiglio mondiale delle chiese.
La prima parte del documento, che allego in pdf, riporta gli impegni dei capi religiosi, mentre la seconda mostra l’importanza, nelle diverse religioni, dell’accoglienza dello straniero.
La notizia l’ho tratta da un aticolo di Roberta Leone su Vatican Insider.
Pubblico la prima parte di un articolo di Rainews24 pensando a quanti danni possono causare le religioni che diventano assolutismi radicali e ideologie cieche e univoche.
“Non sono valsi a nulla gli appelli agli jihadisti che occupavano Timbuctu affinché non scatenassero la loro rabbia per l’imminente sconfitta contro il patrimonio culturale e storico della ‘porta del Sahara’: prima di lasciare la città – leggenda – da oggi ormai completamente controllata da francesi e maliani – hanno bruciato un edificio che custodiva migliaia di rari manoscritti, andati irrimediabilmente distrutti.
Un atto di violenza gratuita che era però era temuto, perché proprio a Timbuctu gli jihadisti hanno dato prova di volere cancellare quello che per loro è un modo errato di onorare Allah e le parole del Profeta. Da quando conquistarono la città, hanno fatto a pezzi le molte statue di Alfarouk, il mitico angelo protettore della città, e poi gran parte dei mausolei di sabbia e legno che ornavano, come pietre preziose, la città per ricordare i suoi “333 santi”, come vengono chiamati religiosi e studiosi musulmani che scelsero per i loro ultimi giorni questo avamposto della cultura e dell’Islam più tollerante.
Timbuctu è stata da sempre una città votata alla cultura (nel Sedicesimo secolo ospitava 2500 studenti che oggi potremmo definire universitari, su una popolazione di 100 mila persone) e la raccolta e la cura dei manoscritti antichi è stato il tratto comune alle famiglie più abbienti, che per generazioni li hanno acquistati e custoditi gelosamente. Ed il paradosso è che ad andare bruciati, nell’incendio appiccato dagli jihadisti, sono stati quei manoscritti ceduti da alcune delle famiglie al centro Ahmed-Baba per essere esposti e studiati. Manoscritti non solo di carattere religioso, ma anche scientifico (molti i trattati di astronomia) in lingua araba, ma anche songhai e tamasheq…”
A Milano si è aperta una mostra che celebra i 1700 anni dall’editto di Milano (editto di Costantino). Sui giornali si celebra la bellezza dell’iniziativa e i tanti capolavori esposti. Spicca il parere tranciante di Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma. Ecco cosa dice al giornalista Giacomo Galeazzi.
Rabbino Di Segni, perché teme un “uso strumentale” delle celebrazioni del 17° centenario costantiniano?
«La conversione dell’imperatore al cristianesimo non è affatto l’inizio della tolleranza religiosa, anzi è da lì che hanno preso il via le persecuzioni inflitte alle altre religioni. Da quell’infausta data in poi tutti i non cristiani iniziarono ad essere perseguitati. Perciò costituisce palesemente una truffa fornirne un’interpretazione in termini positivi ed addirittura esaltarla come un passo in avanti per l’umanità».
Teme un’operazione di politica culturale?
«Mi pare evidente. Ed è ancora più pericoloso e preoccupante se si vuole strumentalizzare un remoto passato per diffondere nell’odierna società globalizzata modelli inquietanti di predominio religioso che ostacolano la pacifica convivenza tra i credenti. La lezione da trarre da questa triste pagina semmai è un’altra. E questa sì andrebbe attualizzata».
E cioè quale?
«Forzature così assurde testimoniano ancora una volta il dato amaro e incontrovertibile che la storia viene sempre scritta dai vincitori. Per questo, diciassette secoli dopo si può celebrare la conversione di Costantino decontestualizzandola e contrabbandando per autentica una finta “pacificazione” che in realtà altro non fu che l’inizio delle persecuzioni da parte dei cristiani».
Perché la ritiene una data infausta?
«Con la conversione di Costantino è cambiato tutto. Quell’evento ha inciso in maniera decisiva sulla storia ed è strettamente connesso alla persecuzione antiebraica. Nulla dopo quella data fu più come prima e nessuno meglio del popolo ebraico può testimoniarlo. La conversione di Costantino costituisce uno spartiacque epocale, ha diviso la storia tra un prima e un dopo, determinando un drammatico sconvolgimento a cui ha inutilmente tentato di porre rimedio l’ottimo imperatore Giuliano ribattezzato per questo polemicamente e ingiustamente dai cristiani l’Apostata».
È compito degli storici porre rimedio alla “forzatura” che lei denuncia?
«Negare ciò che quella data rappresenta va contro ogni evidenza storica. E questa vale in assoluto come principio, al di là del fatto che la conversione dell’imperatore fosse sincera oppure fosse solo un’astuta mossa politica».
Per una più completa informazione riporto l’editto:
“Già da tempo, considerando che non deve essere negata la libertà di culto, ma dev’essere data all’intelletto e alla volontà di ciascuno facoltà di occuparsi delle cose divine, ciascuno secondo la propria preferenza, avevamo ordinato che anche i cristiani osservassero la fede della propria setta e del proprio culto. Ma poiché pare che furono chiaramente aggiunte molte e diverse condizioni in quel rescritto in cui tale facoltà venne accordata agli stessi, può essere capitato che alcuni di loro, poco dopo, siano stati impediti di osservare tale culto. Quando noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, giungemmo sotto felice auspicio a Milano ed esaminammo tutto quanto riguardava il profitto e l’interesse pubblico, tra le altre cose che parvero essere per molti aspetti vantaggiose a tutti, in primo luogo e soprattutto, abbiamo stabilito di emanare editti con i quali fosse assicurato il rispetto e la venerazione della Divinità: abbiamo, cioè, deciso di dare ai cristiani e a tutti gli altri libera scelta di seguire il culto che volessero, in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità. Con un ragionamento salutare e rettissimo abbiamo perciò espresso in un decreto la nostra volontà: che non si debba assolutamente negare ad alcuno la facoltà di seguire e scegliere l’osservanza o il culto dei cristiani, e si dia a ciascuno facoltà di applicarsi a quel culto che ritenga adatto a se stesso, in modo che la Divinità possa fornirci in tutto la sua consueta sollecitudine e la sua benevolenza. Fu quindi opportuno dichiarare con un rescritto che questo era ciò che ci piaceva, affinché dopo la soppressione completa delle condizioni contenute nelle lettere precedenti da noi inviate alla tua devozione a proposito dei cristiani, fosse abolito anche ciò che sembrava troppo sfavorevole ed estraneo alla nostra clemenza, ed ognuno di coloro che avevano fatto la stessa scelta di osservare il culto dei cristiani, ora lo osservasse liberamente e semplicemente, senza essere molestato. Abbiamo stabilito di render pienamente note queste cose alla tua cura perché tu sappia che abbiamo accordato ai cristiani facoltà libera e assoluta di praticare il loro culto. E se la tua devozione intende che questo è stato da noi accordato loro in modo assoluto, deve intendere che anche agli altri che lo vogliono è stata accordata facoltà di osservare la loro religione e il loro culto – il che è chiara conseguenza della tranquillità dei nostri tempi – così che ciascuno abbia facoltà di scegliere ed osservare qualunque religione voglia. Abbiamo fatto questo perché non sembri a nessuno che qualche rito o culto sia stato da noi sminuito in qualche cosa. Stabiliamo inoltre anche questo in relazione ai cristiani: i loro luoghi, dove prima erano soliti adunarsi e a proposito dei quali era stata fissata in precedenza un’altra norma anche in lettere inviate alla tua devozione, se risultasse che qualcuno li ha comprati, dal nostro fisco o da qualcun altro, devono essere restituiti agli stessi cristiani gratuitamente e senza richieste di compenso, senza alcuna negligenza ed esitazione; e se qualcuno ha ricevuto in dono questi luoghi, li deve restituire al più presto agli stessi cristiani.
Se coloro che hanno comprato questi luoghi, o li hanno ricevuti in dono, reclamano qualcosa dalla nostra benevolenza, devono ricorrere al giudizio del prefetto locale, perché nella nostra bontà si provvedeva anche a loro. Tutte queste proprietà devono essere restituite per tua cura alla comunità dei cristiani senza alcun indugio. E poiché è noto che gli stessi cristiani non possedevano solamente i luoghi in cui erano soliti riunirsi, ma anche altri, di proprietà non dei singoli, separatamente, ma della loro comunità, cioè dei cristiani, tutte queste proprietà, in base alla legge suddetta, ordinerai che siano assolutamente restituite senza alcuna contestazione agli stessi cristiani, cioè alla loro comunità e alle singole assemblee, osservando naturalmente la disposizione suddetta, e cioè che coloro che restituiscono gli stessi luoghi senza compenso si attendano dalla nostra benevolenza, come abbiamo detto sopra, il loro indennizzo. In tutto questo dovrai avere per la suddetta comunità dei cristiani lo zelo più efficace, perché si adempia il più rapidamente possibile il nostro ordine, così che grazie alla nostra generosità si provveda anche in questo alla tranquillità comune e pubblica. In questo modo, infatti, come si è detto sopra, possa restare in perpetuo stabile la sollecitudine divina dei nostri riguardi da noi già sperimentata in molte occasioni. E perché i termini di questa nostra legge e della nostra benevolenza possano essere portati a conoscenza di tutti, è opportuno che ciò che è stato da noi scritto, pubblicato per tuo ordine, sia esposto ovunque e giunga a conoscenza di tutti, in modo che la legge dovuta a questa nostra generosità non possa sfuggire a nessuno”.
A questo punto mi chiedo: è infausto l’editto o la storia che lo ha seguito? Fa problema l’editto o l’uso che ne ha fatto l’uomo? Non penso siano sofismi i miei. Certo, concordo col fatto che non si possa dire che da quel momento sono discesi 1700 anni di tolleranza religiosa, ma le premesse non mi parevano così negative.
In classe abbiamo parlato a lungo proprio di quello di cui scrive su Sette Stefano Jesurum. L’argomento è ancora il video Innocence of Muslims. Ecco un interessante estratto dell’articolo.
“… l’involontario cortocircuito credo imponga di ragionare su un tema vitale per le nostre (e le loro) società: il rapporto tra sensibilità cultural-religiosa e democrazia come libertà di espressione. Perché la reazione dei fondamentalisti che hanno devastato e ucciso non ha affatto per bersaglio stupide vignette o pellicole blasfeme bensì la natura stessa degli Stati che ne permettono la diffusione e non esercitano la censura: le democrazie appunto. Ciò che sarebbe necessaria, dunque, è una profonda primavera araba delle idee. Tuttavia è pur vero che, lo ha ricordato Branca (Paolo, docente di Islamistica all’Università Cattolica di Milano), la libertà va sempre coniugata con la responsabilità. O ci serve forse una legge che dica fino a che punto è legittimo insultare gli altri? O vogliamo educare i giovani a fare ciò che passa loro per la testa ignorandone le conseguenze? Sono interrogativi non più rimandabili, che tornano a riproporsi ciclicamente attraverso fatwe come la condanna a morte di Salman Rushdie per i suoi Versi satanici, insurrezioni e sgozzamenti per vignette danesi o francesi che siano, pellicole e altro materiale più o meno volgarmente in contrasto con l’aniconismo, che non è prerogativa unicamente dell’Islam. Non si tratta affatto di scusare chi considera la laicità un peccato da punire con la morte né tanto meno di tacere di fronte alle farneticazioni criminali di sedicenti guardiani di non si sa quali ortodossie. Si tratta però di non cadere negli stereotipi, evitando l’insensata paura, evitando di vivere l’arabo come popolo truce che brandisce la scimitarra contro il mono esterno. Anche perché, constata il professor Branca, loro sono un miliardo e mezzo, e se fossero tutti come quelli che hanno infiammato le piazze noi non saremmo qui a parlarne.”