Impressioni di Pilato

Sapete che mi piace ascoltare le canzoni e fantasticarci un po’ sopra, cercando magari dei legami con dei personaggi biblici o comunque delle tracce di spiritualità. Oggi pomeriggio riascoltando “Impressioni di settembre” della PFM nella cover di Franco Battiato, oltre che a godere di quel fantastico (e primo per l’Italia) assolo di moog, ho immaginato che quelle parole potessero essere dette da Pilato qualche tempo dopo aver mandato a morte Gesù. So che non appartiene alla tradizione della Chiesa l’immagine di un procuratore romano così tormentato e dubbioso, ma frasi come “cerco un sole ma non c’è… e la vita nel mio petto batte piano. Respiro la nebbia… penso a te. … e leggero il mio pensiero vola e va, ho quasi paura che si perda.”mi fanno pensare a un uomo che si interroga quasi con amarezza e paura (“no… dove sono… adesso non lo so”), a un uomo che ha salvato il suo potere (per lui il problema-Gesù non era tanto un pericolo religioso, quanto una questione di fedeltà a Cesare e a Roma) ma ha perso se stesso (“sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso”) e si ritrova a camminare solo (“no…cosa sono…adesso non lo so, sono solo il suono del mio passo”). Voglio però cogliere nelle ultime parole il segno della speranza anche per colui che, come dice una battuta, è l’unico uomo della storia a essere diventato più sporco dopo essersi lavato le mani (“ma intanto tra la nebbia filtra già. Un giorno come sempre sarà”). Se invece volessimo dare una chiave negativa anche alla parte finale, pensando a un Pilato che trova spazio solo per la rassegnazione, è sufficiente citare queste parole di Cesare Pavese: “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla accadrà, non c’è cosa più amara della inutilità… La lentezza dell’ora è spietata per chi non aspetta più nulla”.

A seguire vi posto il video nella versione dei Marlene Kuntz e il testo del brano.

Quante gocce di rugiada intorno a me,

cerco un sole ma non c’è

dorme ancora la campagna.. forse no,

è sveglia mi guarda… non so.

Già l’odore della terra, odor di grano,

sale adagio verso me,

e la vita nel mio petto batte piano.

Respiro la nebbia… penso a te.

Quanto verde tutto intorno e ancor più in là

sembra quasi un mare l’erba

e leggero il mio pensiero vola e va

ho quasi paura che si perda.

Un cavallo tende il collo verso il prato

resta fermo come me

faccio un passo, lui mi vede…è già fuggito

respiro la nebbia… penso a te

no… dove sono…adesso non lo so

sono un uomo, un uomo in cerca di se stesso

no…cosa sono…adesso non lo so

sono solo il suono del mio passo

ma intanto tra la nebbia filtra già.

Un giorno come sempre sarà.

Dal basso

Sahi. La lavanda dei piedi.jpg

In alcune classi stiamo parlando degli eventi della Passione, Morte e Resurrezione e di come essi siano stati affrontati nell’arte, nella letteratura, nella poesia, nella musica, nel cinema… Uno di quegli eventi è anche la lavanda dei piedi e a tal proposito abbiamo letto un bellissimo brano di Santucci che qui riporto, così avete modo di tornarci sopra quando volete.

E sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… versa dell’acqua in un catino e comincia a lavare i piedi ai discepoli.

La sua ora è giunta. E il primo gesto che scatta da quel fatale colpo di gong, in un rito che sembra predisposto, è andare a prendere un catino. Il Vangelo c’impone come ovvia questa logica, questa consequenzialità espressa in un giro di stretta grammatica: sapendo che la sua ora era giunta, cominciò a…

Che cosa comincia a fare, nel cenacolo, visto che deve morire? In che direzione scocca la sua prima, quasi automatica obbedienza al messaggio nero? Alzarsi da mensa, strapparsi al benessere d’una siesta incantata, lavare dei piedi.

Che cosa deve fare chi sa che di lì a poco morirà? Se ama qualcuno e ha qualcosa da lasciargli deve dettare il testamento. Noi ci facciamo portare della carta e una penna. Cristo va a prendere un catino, un asciugatoio, versa dell’acqua in un recipiente. Il testamento comincia qui; qui, con l’ultimo piede asciugato, potrebbe addirittura finire. Curvi su un foglio, noi scriviamo: «lascio la mia casa, i miei poderi a…». Gesù, curvo sul pavimento, deterge entro l’acqua i piedi dei suoi amici: nel silenzio della stanza dura a lungo lo sciacquio discreto, il respiro dell’inginocchiato si fa un poco più pesante nel passar dei minuti, i capelli gli piovono sulla fronte.

Cristo è lì all’opera, è al livello dei cani che sotto il tavolo rosicchiano l’ultimo osso spolpato dell’agnello e interrompono la loro cena pasquale per scrutare meravigliati quell’uomo che adesso è anche lui su quattro zampe. Dal basso, sì, ha voluto cominciare a salvarci. Nell’ultimo quadro ci dominerà di lassù, dal trave insanguinato, con le braccia aperte («Quando sarò innalzato trarrò tutto il mondo a me»). Ma l’inizio è questo: rattrappito come una bestia sui nostri alluci callosi, sulle nostre impoetiche unghie, sui nostri odori più scostanti. Si concede questa regale gioia di umiliarsi.

Come hai potuto amare i nostri piedi? Sopra appena di qualche spanna, Signore, la materia di cui siamo fatti non è così goffa e volgare, ci sono pezzi di noi anche belli, amabili. Filippo ha un profilo di gaio uccello, Giovanni ha dolci e lunghi occhi di ragazzo; ma a questo livello non c’è amicizia, non c’è gradevolezza di rapporto. Il piede è lontano chilometri dal sorriso di chi lo possiede, il piede è questo animale rozzo e selvatico, a guardare un piede è più duro credere all’anima dell’uomo, più facile convincerci che siamo un provvisorio fantoccio destinato a dissolversi. Per questo forse i morti sono tutto piedi, li ostentano in avanti senza più alcun pudore. Per questo, da vivi, con istintiva vergogna noi ritiriamo il piede da chi sorprende questa nostra estranea propaggine. Come fa Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno». Non fu lo zelo di non essere servito, pescatore, che ti ha fatto gridare quella protesta, fu un oscuro rispetto umano: i nostri piedi, anche se fanno tenerezza, se fanno storia col loro mai deluso andare, sono ridicoli e sporchi. Soltanto nostra madre ha potuto maneggiare senza scandalo i nostri piedi.

Invece è proprio in questo cedere di ogni vergogna sotto la manipolazione del Cristo-madre, nell’identificare lui curvo sul catino con lei quando ci nettava d’ogni sporcizia, che deve passare la nostra salvezza. «Se io non ti laverò, non avrai parte con me».

Diventare tutti madri, creature senza ripugnanze; perché in lui al di sopra ancora del maestro c’è la madre, e solo nel prendere lei ad esempio — come solo nel rifarci piccoli — si fa realtà il Regno.

«Intendete voi quello che io vi ho fatto? Voi mi chiamate il maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque ho lavato a voi i piedi io, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni agli altri. Io vi ho dato l’esempio, affinché facciate anche voi come ho fatto io».

Vi ho dato l’esempio… Se dovessi scegliere una reliquia della passione, raccoglierei tra i flagelli e le lance quel tondo catino di acqua sporca. Girare il mondo con quel recipiente sotto il braccio, guardare solo i talloni della gente; e a ogni piede cingermi l’asciugatoio, curvarmi giù, non alzare mai gli occhi oltre i polpacci, così da non distinguere gli amici dai nemici. Lavare i piedi all’ateo, al cocainomane, al mercante d’armi, all’assassino del ragazzo nel canneto, allo sfruttatore della prostituta nel vicolo, al suicida, in silenzio: finché abbiano capito.

A me non è dato poi di alzarmi per trasformare me stesso in pane e in vino, per sudare sangue, per sfidare le spine e i chiodi. La mia passione, la mia imitazione di Gesù morituro può fermarsi a questo.

Santucci L., Volete andarvene anche voi?, Mondadori, Milano 1969, pp. 205-207

In memoria delle vittime del terrorismo

Il 12 dicembre 1969 esplodeva la bomba di piazza Fontana a Milano che ha segnato l’inizio della stagione del terrore. La rivista Jesus ha messo a confronto due voci: quella di Benedetta Tobagi, figlia del giornalista ucciso il 28 maggio 1980, e dell’ex terrorista rosso Arrigo Cavallina.

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Si celebra il 9 maggio, quest’anno per la seconda volta. La Giornata della memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, istituita nell’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, è un’occasione non retorica per ricordare che furono oltre 400 le vittime di quella stagione di sangue. E che, a 40 anni dalla strage di piazza Fontana, a Milano, e a 35 da quella di piazza della Loggia, a Brescia, ancora molte verità restano sconosciute. Su questi e su altri delitti. Una giornata che invita a lavorare per recuperare ricordi e memorie e consegnare alle nuove generazioni le chiavi per interpretare quegli avvenimenti. In questi giorni, all’istituto Leone XIII di Milano, è in corso una mostra sul terrorismo rivolta proprio ai giovani e agli studenti. Il titolo, Vi.Te., con il punto in mezzo, indica l’interruzione di esistenze e storie, ma anche la capacità di riprendere a camminare. Benedetta Tobagi, figlia di Walter, il giornalista del Corriere della sera ucciso dalla Brigata XXVIII marzo il 28 maggio 1980, cura le iniziative culturali coordinate all’esposizione. Da tempo segue per le scuole percorsi didattici che aiutano a ricostruire quel periodo.

Da dove parte questa ricostruzione?

«Il mio percorso di ricostruzione parte, innanzitutto, da un discorso personale. È il tentativo, da un lato, di ricostruire una figura che mi è mancata; dall’altro di capire perché questa persona mi fosse stata portata via. L’interesse è cominciato in un momento ben preciso: nel 2002, dopo la laurea. La spinta, all’inizio, è stata il voler mettere un argine a tante polemiche che c’erano attorno all’uccisione di mio padre. Poi mi sono resa conto che, in realtà, la mia storia non riguardava soltanto me. Ho incontrato una persona determinante: Manlio Milani, l’anima della Casa della memoria di Brescia. È lui che mi ha fatto capire quale valore potesse avere la traduzione della memoria dalla sfera privata a quella pubblica. Lui per primo mi ha fatto parlare con i ragazzi delle scuole e mi ha fatto capire che è indispensabile ricostruire la memoria soprattutto qui, a Milano, dove c’è stata ogni forma di terrorismo e di violenza politica sia di destra che di sinistra».

Qual è il punto fondamentale?

«Recuperare la complessità. Mio padre aveva un grande talento nel coglierla. E poi aveva un’altissima vocazione al dialogo, come tante delle vittime del terrorismo. Sapeva che, per capire come si fosse arrivati a situazioni così esasperate, bisognava confrontarsi con tutte le voci in gioco. Per questo era scomodo ed è stato eliminato. Pansa ha detto di lui che sapeva mettere la mano nella nuvola nera. Le cose che ha scritto sull’area dell’Autonomia e sul terrorismo restano tutt’oggi tra le più chiare».

Nella complessità rientrano tutte le voci, anche quelle degli ex terroristi?

«Trovo grave non il fatto che si intervistino gli ex terroristi, ma che il giornalista non si prepari e non sia pronto a coglierli in fallo quando mentono, sono omissivi, esprimono dichiarazioni discutibili. Anche per i libri ho letto alcuni testi di ex terroristi e vi ho trovato lacune, affermazioni false, ricostruzioni apologetiche. Su queste memorie non c’è un dibattito critico. La risposta non è far sparire quelle voci e inondare il mercato di memorialistica delle vittime, ma esercitare il pensiero critico anche sulla scorta dei documenti oggi disponibili. Altrimenti siamo condannati a rimanere intrappolati in “ricordi senza memoria” come dice Giovanni Moro nel libro Anni Settanta».

Il cardinale Martini scrisse che la parabola del figliol prodigo dice di una riconciliazione mancata, perché il primo figlio va via. A che punto è il rapporto tra i due fratelli? Ed è un rapporto solo privato?

«Ho ascoltato un ex di Prima linea sostenere che la via d’uscita da quegli anni passa solo attraverso percorsi personali. È un discorso che mi ferisce perché le storie che si sono incrociate in quegli anni sono state al crocevia tra pubblico e privato, ma con una dimensione collettiva da cui non si può prescindere. È irritante vedere che un ex terrorista si limita a condividere la propria redenzione privata, perché mi sembra che rifugga dal fare i conti con quello che è stato l’impatto della sua azione sulla società. Per quanto riguarda il figliol prodigo, credo che sia stato urticante per tanti familiari delle vittime vedere l’interesse riservato ad alcuni terroristi e, parallelamente, un vuoto di attenzione per le vittime. È stato importante che la Chiesa, nel momento in cui si doveva fronteggiare l’emergenza di migliaia di giovani che passavano per tribunali e carceri, si sia fatta carico del problema. Il punto, però, è che bisognerebbe evitare che il fratello che si comporta bene si senta ferito dalla disattenzione. Non si tratta di togliere a qualcuno, ma di aggiungere, di avere cura di una persona in più. Io so, per esempio, che l’assassino di mio padre si è convertito e ha avuto una carriera professionale importante nell’ambito di un grande movimento cattolico. Per una parte di me, è difficile accettare questo. Poi, però, so che c’erano giovani che andavano recuperati. Ci sono stati cappellani delle carceri, associazioni, cooperative che hanno operato bene. Ma ci sarebbe da fare un passo in più».

Quale passo?

«Gli ebrei dicono che la conversione è un cambiamento radicale delle tue motivazioni all’azione. Dio può perdonarti perché sei talmente cambiato che non potrai mai compiere quelle azioni. Ma poiché solo Dio può vedere nel cuore degli uomini, solo Dio può perdonare. Non è la vittima che deve farlo. Il passo in più che dovrebbero fare è il prendere coscienza dell’umanità delle vittime, della gravità di ciò che hanno fatto. Ma spesso si fermano a metà strada. Sul piano umano, c’è una ferita che si perpetua: è come se a chi è stato ucciso fosse negata la sua umanità e ci fosse sempre e soltanto sulla scena l’assassino con le sue motivazioni, i suoi traumi, il suo carcere. Sarebbe bello se la Chiesa accompagnasse gli ex terroristi fino in fondo al percorso, che può anche essere senza ritorno, perché si tratta di rendersi conto di aver fatto qualcosa di irrimediabile. Chi ha subito il trauma della perdita non può sfuggire al lutto. Anche questo è un percorso duro, perché non è vero che il dolore ti migliora, anzi ti può far diventare una persona arida, morta dentro. Credo che abbiamo diritto di chiedere a chi ha compiuto il male di affrontare fino in fondo le implicazioni delle sue azioni».

In autunno uscirà, per Einaudi, un libro su suo padre. Cosa racconta?

«Ho studiato le sue carte, sia pubbliche sia private: sono la sua voce, la sua presenza, sono entrate nella mia vita, mi hanno accompagnata, mi hanno spiegato le cose. Il libro è la sua storia, ma è anche la storia del mio incontro con lui attraverso questa ricerca. Volevo raccontare da dove viene Walter Tobagi, la sua formazione, quali sono state le sue attività come storico, come giornalista, come sindacalista. Uso le sue parole per raccontare il contesto di quegli anni. E poi c’è la sua morte, affrontata per rispondere a un antico mio desiderio di ordine rispetto a tante cose dette e scritte attorno alla sua figura».

Annachiara Valle

 

 

«Sono nato in una famiglia antifascista, per metà cattolica e per metà valdese». Arrigo Cavallina negli anni di piombo è stato il fondatore e l’ideologo dei Pac, i Proletari armati per il comunismo. Il “maestro” di Cesare Battisti. Fu tra i primi a sperimentare il carcere duro e uno degli ideatori del movimento della dissociazione. Oggi vive a Verona, dedicandosi a tempo pieno all’universo carcerario con l’associazione “La fraternità”. «Da ragazzino frequentavo la parrocchia», racconta. «Le medie sono state anni difficili, segnati dalla morte di mio padre». All’epoca lavora per aiutare la madre, si iscrive a ragioneria. Entra in contatto con Gioventù Studentesca. Legge molto: romanzi, ma anche saggi di cattolici “terzomondisti”; approfondisce il protestantesimo. Finché, tra un libro e l’altro, si imbatte nel Capitale di Marx.

Che impressione le fa?

«Per un ragazzino in ricerca, era una spiegazione convincente delle differenze sociali e dello sfruttamento. Così, mentre gli amici mi convincono a prendere la tessera di Azione cattolica, mi iscrivo anche alla Federazione giovanile comunista. L’esperienza dura poco. Il Pci era invivibile: contava solo quanti tesserati portavi. Ribelle all’impostazione dogmatica, me ne vado. Fondo un giornale su cui scrivono liberamente comunisti, cattolici, liberali e anche un fascista. Una delle esperienze più belle».

Intanto è alle soglie dei vent’anni. Che cosa succede?

«La vita personale si scolla pian piano da quella politica. Fuori dal Pci ci sono una miriade di gruppetti. Li frequento, partecipo, ascolto. Leggo Mao e lo apprezzo, ma non sopporto il maoismo fatto di slogan. Ascolto Curcio. Leggo Toni Negri, una testa notevole. Entro a far parte di Potere Operaio. È il momento delle grandi rivoluzioni: Russia, Cina, Cuba. Senza armi, non si vince: si comincia a parlare di lotta armata, che agli inizi si traduceva in atti miseri: aprire un’auto, attaccare due fili a una sveglia, rubare tritolo da una cava. Gesti per cui ero negato, io che non sapevo cambiare una lampadina».

Chi parlava di lotta armata?

«Un gruppo di intellettuali. Te ne accorgi dopo, i meccanismi sono sempre gli stessi: indipendentemente dalle idee, al vertice c’è una casta. Loro teorizzano, gli “utili idioti” fanno. Tra questi c’ero anch’io. Intanto mi ero trasferito a Milano. Di giorno insegnavo, di notte le riunioni e le prime azioni: un paio di rapine di armi, l’incendio di un’impresa che finanziava il colpo di stato in Cile. Ma, quando sto per incendiare un altro capannone, mi arrestano con in tasca gli appunti della rapina del giorno prima».

Perché non li ha gettati?

«Non ne potevo più: lavoravo, non mangiavo, di notte non dormivo, avevo difficoltà economiche. E soprattutto, ero solo. Per gli altri non esistevo come persona, ero un ingranaggio. Non ricevevo nessuna comprensione. Avevo anche tentato il suicidio. Forse è per quello che non me ne sono liberato».

E dopo l’arresto?

«Tre anni di carcere. Intanto la lotta armata si disgrega. Un movimento di 120 anni in due-tre anni finisce nell’ironia generale. È stato l’inganno più grande della mia vita, però la consapevolezza dello sfruttamento resta un’acquisizione importante. In carcere mi immergo in quella classe povera che avevo difeso senza conoscerla. Me ne faccio portavoce, ma le mie trattative per i detenuti non piacciono. Vengo trasferito in un carcere speciale. Le prime due settimane sono fatte di botte e torture. C’era una violenza incredibile. È il messaggio più diseducativo: come potrei rispettare la legge, se non la rispettate voi? Accumulo una forte rabbia. I compagni fuori si organizzano e nasce il gruppo “Senza galere”, che pubblica le mie lettere».

E quando esce dal carcere?

«Mi ricongiungo agli amici di un tempo. Nascono i Pac. Il clima è cambiato, l’ipotesi rivoluzionaria è sconfitta e se ne sente tutta la frustrazione. Pensavamo: “Non cambieremo il mondo, almeno cambiamo noi”. Comunismo diventa un modo per sottrarsi a un mondo che non ci va. La maggior parte dei compagni è in galera ed è proprio sulle condizioni carcerarie che si concentrano i Pac. Dopo l’omicidio del maresciallo Santoro a Udine, prendo le distanze. Seguono altri omicidi e ferimenti, terminati con l’arresto del gruppo. Capisco che con l’illegalità si finisce male: un’evidenza, prima che una scelta etica. Ma vengo coinvolto in un altro processo. Di nuovo galera: uscirò dopo 12 anni di carcere preventivo».

È il tempo del ripensamento.

«Sì, con alcuni ex compagni nasce la dissociazione. Il movimento si allarga e diviene fondamentale per la fine del terrorismo. È anche un periodo di paura per le continue minacce: temiamo per la vita e ci guardiamo le spalle a vicenda. Constato che chi ci aiuta di più sono i cattolici: don Di Liego della Caritas e soprattutto uno straordinario cappellano, don Luigi Mélesi, vicino a Martini. Riprendo la frequentazione biblica e rileggo i temi della speranza e del perdono dentro la condizione carceraria. È l’elemento più tipico della prigione, dover fare i conti con sé stessi. Pensi: “Forse da qui non esco più ed è per colpa mia”. Sei il tuo nemico. Realizzi il male fatto agli altri. È la condizione di tutta la Scrittura. Ezechiele dice: “Io non voglio che l’empio muoia”. E capisci che davanti a te, qualunque cosa tu abbia fatto, c’è sempre la possibilità di un nuovo progetto».

Quale conseguenze ha questo lavoro interiore?

«Accorgersi che, anche in carcere, l’altro c’è. Rileggo il Samaritano: non c’è mondo dove io non possa farmi prossimo. Il carcere è il primo luogo dove comunicare agli altri il perdono che sperimento. È il compito che mi sono scelto oggi, a tempo pieno».

Giusy Baioni

 

Il monte

Considero Enzo Bianchi uno dei padri della spiritualità contemporanea, una spiritualità che è fortemente incarnata nell’uomo e nell’incontro con il tu di ogni giorno. Nell’ultimo numero di Jesus c’è un interessante approfondimento sul tema del legame tra montagna e spiritualità e uno degli articoli,che posto qui sotto e che potete trovare su http://www.stpauls.it/jesus/default.htm, è proprio scritto dal priore della comunità di Bose

Al Forte di Bard, in Val d’Aosta, si è da poco aperta una prestigiosa mostra internazionale che durerà fino al mese di agosto, dal titolo “Verso l’Alto. L’ascesa come esperienza del sacro”: un percorso fatto di famosissime opere e originali installazioni multimediali che conducono il visitatore a riflettere su un tema antico: quello del rapporto tra le vette e la spiritualità. Perché da sempre l’uomo ha cercato un contatto con il divino attraverso il suo legame con la montagna. E ancora oggi l’esperienza degli alpinisti rivela che la scalata verso la cima può essere uno spazio di contemplazione.

«Sollevo i miei occhi verso i monti / da dove mi verrà l’aiuto?» (Salmo 121,1). Il salmista non aveva grandi vette davanti a sé: pellegrino verso Gerusalemme, il monte Sion, spingeva lo sguardo verso un’altura spirituale, verso l’Altro che non poteva che trovarsi in alto rispetto alla comune condizione umana. Invocazione, imprecazione, distacco, estraniamento, abbandono: tutto questo esprimiamo con il nostro levare gli occhi al cielo, con lo sguardo proteso che pare aver bisogno di alture per poter davvero far spiccare il volo al nostro anelito. In realtà, il nostro sguardo, anche quando si alza, “si posa” alla ricerca di un luogo in cui sostare per riprendere il cammino. Quante volte, nell’ascendere verso una vetta fermiamo il passo, apparentemente per riprendere fiato, in realtà per misurarci una volta ancora con l’altrove, segno di un Altro che sembra sempre rinviare l’appuntamento a una cima ulteriore, nascosta rispetto a quella più a ridosso di noi. Allora i nostri occhi si attardano a ripercorrere idealmente sentieri che paiono danzare attorno alle falde della montagna, visitano baite e villaggi, discendono lieti dalle cime innevate ai pendii boscosi fino ai pascoli verdeggianti, rincorrono gli irrefrenabili torrenti, si riflettono nelle calme acque di laghetti alpini…

La montagna invita a una duplice contemplazione, a due prospettive speculari e complementari: salendo si fissa lo sguardo sulla vetta, ci si protende verso l’al-di-là, l’ulteriore, quasi a incalzare l’irraggiungibile di cui pure calchiamo le radici rocciose. Una volta in vetta, invece, lo sguardo si distende rappacificato in un volgersi che non è retrospettivo ma piuttosto onnicomprensivo: rileggiamo il percorso appena compiuto e nel contempo la realtà dalla quale ci siamo innalzati, abbracciamo con un solo sguardo il mondo che credevamo di conoscere e a volte, per pura grazia, come san Benedetto poco prima di morire, ci può essere dato di vedere «davanti agli occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole» (cfr. Gregorio Magno, Dialoghi II,35). La terra che tanto amiamo è lì, teneramente abbracciata al cielo cui aneliamo: questa duplice contemplazione che si dischiude nelle altezze parla alle profondità del nostro intimo e ci invita a intraprendere un viaggio la cui lunghezza non si può misurare perché fatto di memorie e di attese, di radici e di desiderio di spiccare il volo.

Capiamo meglio, allora, come mai la montagna – fosse anche «un’umile collina» come il monte Sion celebrato nei Salmi o come il dolce declivio verso il lago di Tiberiade che ha sentito scorrere sulla sua superficie la pace delle beatitudini e lo sciamare delle folle benedette – ha sempre simboleggiato il distacco dal quotidiano per perseguire l’ascesa, una ricerca di sé non autistica ma aperta al futuro, all’inatteso. Sì, accostarsi alla montagna è un cammino di ascesa interiore, vissuto con tutto il proprio corpo: i sensi spirituali si affinano grazie a quanto sperimentano le nostre membra. Così l’incontro tra il cielo e la terra è evocato dalla contrapposizione tra l’orizzontale della pianura e il verticale del monte, le alterne vicende dell’esistenza paiono simboleggiate dalla sequenza di salite e discese, la leggerezza e la semplicità sono richieste affinché l’ascesa non sia frenata dall’attaccamento all’inutile o al superfluo, il discernimento è acuito e l’oblio contrastato dal non poter tralasciare nulla di essenziale, per quanto apparentemente trascurabile, la vigilanza è tenuta desta dallo scrutare i segni del tempo e del cielo… Anche il rarefarsi dell’aria, il repentino mutare delle condizioni meteorologiche, il brusco contrasto tra passaggi ombreggiati e accecanti riflessi di sole sulla neve contribuiscono a una purificazione che nasce dalla sorprendente scoperta di come la complementarietà degli opposti plasmi il nostro sentire interiore.

Sì, inoltrarsi in montagna – ma anche solo ripercorrere con la mente e con il cuore le balze che si sono imparate a conoscere dai racconti biblici e dalle narrazioni di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita – rappresenta una inesauribile esplorazione interiore: davvero, come scriveva Dag Hammarskjöld, uomo di fede e amante della montagna, «il viaggio più lungo è il viaggio interiore». Un viaggio che richiede e al contempo stimola coraggio e resistenza, capacità di ascolto e di silenzio, solidarietà e fiducia in sé stessi e negli altri, attenta valutazione delle proprie forze per metterle al servizio di un’impresa nata in noi stessi ma destinata a dilatarsi su quanti ci stanno accanto.

Davvero muoversi «verso l’alto» può essere l’occasione non di irrefrenabile superbia ma, al contrario, di faticosa e liberante ascesi verso una dimensione più grande di noi e al contempo alla nostra portata. Da dove, infatti, ci verrà l’aiuto? «Dal Signore che ha fatto cielo e terra», canta il salmo, dal Signore che ha voluto che cielo e terra si toccassero in un abbraccio infinito.

Enzo Bianchi