Hegel in una paginetta

Visto il titolo, la maggior parte dei lettori si aspetterà di trovare una paginetta con la sintesi del pensiero hegeliano. Niente di tutto ciò. Semplicemente una pagina scritta da Stefano Cazzato su Rocca n° 9 di quest’anno. Ha fatto molto sorridere anche Oscar, un collega che insegna filosofia (“peccato che non ci sia però quella paginetta” mi ha rivelato alla fine della lettura). La dedico a tutti i miei studenti ed ex-studenti che sono alla ricerca di quel telos di cui si parla verso la fine.

“Senti collega, tu che sei filosofo, non è che avresti una sintesi di Hegel?

Potrei scriverti qualcosa sullo spirito della sua filosofia!

hegel, telos, filosofia, senso, vita, passioneMagari! Ti ringrazio, a nome di mia figlia. Stanno studiando Hegel all’Università e non stanno capendo niente. Io le ho detto che non deve capire tutto Hegel ma solo la tesi fondamentale. Il fatto è che è una ragazza onesta, responsabile e vuole andare a fondo.

Dovresti essere contenta di tua figlia. E’ un simbolo dell’eticità, così rara oggi, incarna il dovere.

Sarà! Certo che Hegel è proprio na iena, un osso duro. Come si fa a farlo capire a sti ragazzini. Altri saperi sono più abbordabili.

La filosofia è tutta un’altra storia.

Un mio professore di storia della filosofia al Liceo ci diceva che Hegel era indeciso tra la filosofia e la storia e allora, nell’incapacità di decidersi, si inventò la filosofia della storia. Io non ho mai capito che cos’era la filosofia della storia, ma la battuta mi piaceva.

Oggi qualcuno contesta Hegel sostenendo che è più importante la filosofia della storia. Ma anche questa è un’altra storia. Comunque un sistema per far capire Hegel c’è. C’è una logica, una volta che si è capita quella, più o meno si è capito Hegel. Cercherò di essere il più concreto possibile.

Bravo, gli ho dato una letta a Hegel e mi sembra troppo astratto.

Assolutamente no!

Fai tu, è veramente provvidenziale il tuo aiuto.

Sì, però i concetti fondamentali la ragazza deve conoscerli. Quanto tempo ho?

Falle una paginetta. Sennò diventa una storia infinita.

Una soltanto? Provo a farne tre, per arrivare a un minimo di conoscenza ce ne vogliono almeno tre. Poi, se non è sufficiente ne facciamo altre tre! E se è necessario altre tre. Con un autore così non si può andare a caso.

Vabbé, ti ringrazio, quando hai finito me lo dici.

Hegel è come un viaggio avventuroso, lo inizi e non sai mai quando lo finisci. In realtà poi si trova un modo per arrivare alla conclusione. Dai, vedrai che tutto è bene quel che finisce bene.

Io vorrei che mia figlia fosse più disinvolta, vorrei che non si facesse tanti problemi di coscienza. Vorrei che fosse più spiritosa e meno spirituale. Bùttate! A questo mondo te devi buttà.

Più che buttarsi deve usare l’astuzia della ragione. Andare per tappe, piano piano, gradatamente, acquisendo una graduale consapevolezza delle difficoltà, superarle con lo studio e con l’impegno e tutto si risolve prima o poi.

E lei fa così. Invece si deve fare furba, come si fanno furbe le amiche sue, che si presentano agli esami quando sono ancora a metà della preparazione. Lei… deve studiare tutto! Ma perché tutto? E’ una coscienza infelice mia figlia. Ma che te manca, le dico io? Se non arriva la sera, i libri non li lascia.

Meglio un eccesso di telos che la superficialità e lo smarrimento dei nostri tempi. Che ne dici?

Cioè?

Il telos è tutto in Hegel. Senza telos non si va da nessuna parte e tanto meno dalla parte giusta.

Non ti capisco, collega!

Telos, freccia, direzione, meta, obiettivo, tendere verso qualcosa, appassionarsi a qualcosa, impegnare le forze in vista di un risultato.

Cioè successo, competizione, sbrigarsi per arrivare prima degli altri perché la vita è una gara.

Non esattamente.

Non mi confondere le idee e falle stà paginetta, okay?

La intitoliamo: ciò che è leale è anche razionale! Ti piace?

Certo che siete proprio strani voi filosofi! Na paginetta eh, non t’allargare! Che deve far presto! Bisogna stare al passo coi tempi.”

Una battaglia infinita

Avevo già scritto qualcosa sul copiare-non copiare: ci torno sopra con questo articolo breve di Massimo Gaggi comparso oggi su Sette.

braccio-finto_1.jpeg“Copiare – copiare un compito, una tesina, copiare a un esame – è una piaga che scuole e università sono chiamate a combattere da quando gli alunni scrivevano col pennino e il calamaio. Con le tecnologie digitali tutto è diventato più difficile tra “copia e incolla”, compravendita di testi online, o l’illuminazione improvvisa che arriva a uno studente, durante un esame, da uno “smartphone” casualmente poggiato sulle ginocchia. I casi di plagio in questi anni si sono moltiplicati ovunque, coinvolgendo anche maestri della cultura “alta” e portando perfino alla decimazione di intere classi di Harvard, l’università più celebre d’America, accusate di aver copiato massicciamente e in modo sfacciato. La tecnologia facilita e accelera questi processi, ma offre anche gli strumenti per intercettare chi si appropria di lavori altrui. E anche per radiografare il fenomeno. Un professore della Rutgers University, che ha analizzato i lavori di oltre cinquemila studenti è, per esempio, arrivato alla conclusione che i ragazzi iscritti alla Business School copiano molto più dei loro colleghi degli altri istituti e facoltà. E se molti siti come Wordprom offrono agli studenti saggi d’ammissioni alle grandi università americane già usati ma facili da “ricondizionare” e riutilizzare, le accademie si attrezzano adottando software come Turnitin che hanno la capacità di scandagliare questi lavori alla ricerca di citazioni o paragrafi che ricalcano quelli di altri “paper” sullo stesso argomento. Ma anche questi meccanismi possono essere aggirati usando la tecnologia giusta e camuffando meglio un testo acquistato in Rete. Una battaglia senza fine alimentata anche dal fatto che nella cultura digitale dei giovani il “copia e incolla” non ha più lo stigma dell’atto illecito: è vissuto come una pratica che confina col crowdsourcing. Anche perché molti sono ormai convinti che la scuola, più che far assorbire nozioni ai giovani, deve insegnare loro come trovare le conoscenze di cui hanno bisogno nel momento nel quale gli servono davvero. Una percezione che, oltretutto, cambia da Paese a Paese. L’economia è globalizzata, la cultura no: gli studenti asiatici, per esempio, usano lavori altrui in misura molto superiore a quelli occidentali perché non percepiscono questa pratica come immorale. Il 70 per cento degli studenti cinesi che chiedono di iscriversi alle università americane presentano documenti in parte copiati che loro ritengono di aver arricchito con la pratica del cosiddetto “remix”. Una battaglia tra guardie e ladri sempre più sofisticata che, secondo molti, vedrà comunque alla fine perdenti le accademie perché le tecnologie digitali e la cultura della Rete spingono verso il superamento del concetto stesso di plagio.”

Un dove o un chi?

Prendo spunto da un dialogo del film Matrix (e mi accorgo che sono già passati 14 anni dalla sua uscita, gosh!). Chi non l’avesse visto sappia che Thomas Anderson è un programmatore informatico e, come hacker, utilizza lo pseudonimo di Neo. Viene contattato dal misterioso Morpheus. Ecco uno dei primi dialoghi:

Morpheus: Immagino che in questo momento ti sentirai un po’ come Alice che ruzzola nella tana del Bianconiglio.

Neo: L’esempio calza.

Morpheus: Lo leggo nei tuoi occhi: hai lo sguardo di un uomo che accetta quello che vede solo perché aspetta di risvegliarsi. E curiosamente non sei lontano dalla verità. Tu credi nel destino, Neo?

Neo: No.

Morpheus: Perché no?

Neo: Perché non mi piace l’idea di non poter gestire la mia vita.

Morpheus: Capisco perfettamente ciò che intendi. Adesso ti dico perché sei qui. Sei qui perché intuisci qualcosa che non riesci a spiegarti. Senti solo che c’è. E’ tutta la vita che hai la sensazione che ci sia qualcosa che non quadra nel mondo. Non sai bene di che si tratta, ma l’avverti. E’ un chiodo fisso nel cervello, da diventarci matto. E’ questa sensazione che ti ha portato da me. Tu sai di cosa sto parlando…

Neo: Di Matrix.

Morpheus: Ti interessa sapere di che si tratta, che cos’è? Matrix è ovunque, è intorno a noi, anche adesso nella stanza in cui siamo. E’ quello che vedi quando ti affacci alla finestra o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai al lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. E’ il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi, per nasconderti la verità.

Neo: Quale verità?

Morpheus: Che tu sei uno schiavo. Come tutti gli altri sei nato in catene, sei nato in unaPILLOLE MATRIX.jpg prigione che non ha sbarre, che non ha mura, che non ha odore, una prigione per la tua mente. Nessuno di noi è in grado purtroppo di descrivere Matrix agli altri. Dovrai scoprire con i tuoi occhi che cos’è. E’ la tua ultima occasione: se rinunci, non ne avrai altre. Pillola azzurra: fine della storia. Domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa: resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.”

Ho citato il film non per parlare di misteriose realtà nascoste sotto quello che stiamo vivendo (o pensiamo di vivere, per restare nell’atmosfera del film), o per introdurre il tema del complottismo, ma semplicemente per utilizzarlo come metafora del cammino dell’uomo alla ricerca di se stesso: a volte risultiamo imperscrutabili anche a noi stessi, facciamo fatica a capire chi siamo, a comprendere quali sono le cose significative per noi. Sento spesso le persone parlare di desiderio di fuggire, di scappare da una realtà che non sentono più loro, di difficoltà di sentirsi appartenenti a un luogo che non sentono più proprio. Ecco allora che mi chiedo: quello che non si trova è un posto dove stare o un chi essere in qualsiasi luogo ci si trovi?

Un Boss a fior di pelle

E’ partito dalla Norvegia, da Oslo, il nuovo tour di Bruce Springsteen. Piero Negri ne ha scritto su La Stampa:

Bruce-Springsteen-la-scaletta-del-concerto-di-Oslo-video_h_partb.jpg“Alle sette e 35, con un leggero ritardo sull’orario previsto, Bruce Springsteen è salito sul palco della Telenor Arena, a Oslo, Norvegia, ha ceduto per pochi minuti l’onore della scena al vecchio compare Steven Van Zandt, tornato a suonare con lui dopo una licenza concessagli per girare una serie tv, e ha colpito il suo pubblico con un trittico ripescato dai suoi anni ’70-’80: Two Hearts, No Surrender, Badlands. Il messaggio è chiaro: lo show rock più potente del Pianeta è tornato in Europa per confermarsi, più che per sorprendere. E gli italiani, che già hanno portato vicino all’esaurito due date su quattro, potranno presto rendersene conto: a Napoli, il 23 maggio, a Padova, il 31, a Milano, il 3 giugno, a Roma, l’11 luglio (in occasione di Rock in Roma).

Un paio d’ore prima, concluse le velocissime prove, lo stesso Springsteen aveva spiegato a una rappresentanza della stampa europea che cosa attendersi da questi concerti: «Siamo cresciuti in un’epoca in cui i grandi maestri della costruzione degli show erano ancora attivi – aveva detto – e sto parlando di gente come James Brown, Sam and Dave, i maestri della musica soul che a loro volta avevano imparato l’arte dai pastori, alla Messa della domenica: domanda e risposta, vi dico qualcosa perché voglio da voi una risposta. È un’arte perduta, quella dello show, col tempo, chissà perché, si è cominciato a pensare che lo spettacolo sia artificio. Sbagliato, è una presentazione che se è fatta bene, rende più profondo e più efficace ciò che stai cercando di dire». Della perduta arte dello show, Springsteen si sente insomma l’ultimo sacerdote. Le immagini religiose nascono spontanee ad assistere allo show, che spesso ha accenti gospel, e ancor di più incontrando Springsteen, che questa volta indossa all’orecchio sinistro un minuscolo pendaglio a forma di croce: «È come dice Al Pacino nel Padrino: più cerco di uscirne, più mi spingono dentro. Ho avuta un’educazione cattolica, e dunque cattolico lo sarò sempre, almeno in parte, e si capisce bene dalla mia musica. Ho trascorso otto anni della mia vita in una scuola cattolica, tutte le mattine sono stato indottrinato, e non lo dico solo in senso negativo: per un bambino quello è un mondo molto poetico, e anche molto drammatico».

Il risultato è che oggi Springsteen incarna una figura unica nel panorama mondiale, un po’ leader politico, un po’ guida morale. Lui non sembra dolersene: «Politica e spiritualità, oggi non riesco bene a distinguerle, più cresci probabilmente più è difficile farlo. È chiaro, la mia espressione migliore, sia politica sia spirituale, è la musica, che non intende mai essere polemica, o schierata: semplicemente, vuole raccontare come vive la gente. Penso alle mie canzoni come a quei discorsi che si fanno la sera in cucina, con la famiglia, dopo una giornata di lavoro. Tutto qui, tutto molto semplice. Vita vera. Il mio lavoro consiste prima di tutto nello scrivere, e scrivere è un atto dell’immaginazione. Però ho passato i primi diciotto anni della mia vita in una piccola città, con miei genitori, e come tutti sanno i primi diciott’anni di vita non ti lasciano mai. Quella persona è sempre dentro di te, e il modo di vedere il mondo non cambia più per il resto della tua vita. Quando il mattino leggo il giornale, interpreto gli avvenimenti con quel modo di pensare, è la mia prima natura. Poi, se fai l’artista sviluppi un vocabolario e un’abilità nell’indossare le scarpe altrui, impari anche a camminarci dentro, se sei un grande come Martin Scorsese fai bellissimi film sulla mafia pur non essendo un mafioso. Non sono un politico, ma i problemi della società americana sono evidenti, negli ultimi trent’anni la forbice tra chi ha e chi non ha si è allargata a dismisura, e questo non smette di indignarmi. Ma lo faccio sempre con la mia prima natura».

La musica, allora: se questo sessantaduenne del New Jersey, statura media, forma fisica invidiabile, origini piccolo borghesi (madre segretaria in uno studio legale, padre incapace di tenere a lungo un posto di lavoro) è diventato una star mondiale, è certamente grazie a concerti come questi, interminabili, esaltanti, divertenti, a tratti emozionanti. Glielo diciamo e lui la questione l’analizza così: «Il nostro gruppo è un po’ particolare, siamo 16 sul palco, ma siamo in grado di fare una svolta di 180 gradi sullo spazio di una monetina. Il nostro spettacolo non è pianificato, non abbiamo luci né scenografie che ci vincolano, siamo una band da bar. Il bello di suonare nei bar è che è tutto molto informale, non conta tanto come ti presenti, conta quanto sei flessibile, devi essere capace di suonare per cinque ore in una sola sera. Io posso decidere quale canzone suonare e cambiare idea, in tre, cinque secondi, batterista e bassista leggono il mio labiale e trascinano tutti quanti. E tutto ciò è fondamentale, perché personalizza ogni serata, nessuno deve avere mai l’impressione di assistere a uno show qualunque, lo show in cui ci sei tu deve essere il tuo show, diverso da quello di chiunque altro. Il nostro concerto riconosce la tua individualità».”

Tra estremismi e fondamentalismi

Il giornalista Mostafa El Ayoubi su Nigrizia di maggio scrive della situazione degli estremismi religiosi in Egitto.

egitto, morsi, fondamentalismi, estremismi, islam, copti, fratelli musulmani“L’ascesa al potere degli islamisti in Egitto, dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011, preoccupa molto la comunità cristiana in questo paese, la cui scena politica è dominata dal movimento islamista dei Fratelli musulmani (Fm). Di fatto tutti i poteri (giudiziario, legislativo ed esecutivo) sono concentrati nelle mani di Mohammed Morsi, il primo presidente eletto democraticamente dopo decenni di dittatura militare. Morsi è membro del movimento dei Fm, il quale ambisce a “reislamizzare” le istituzioni e la società civile. Le frange estremiste della confraternita dei Fm e quelle del movimento salafita, suo alleato, sono molto ostili ai copti: li considerano dei miscredenti ai quali lo stato deve impedire di costruire chiese e deve reintrodurre per loro lo statuto di dhimmi (cittadini non musulmani sottomessi con l’obbligo di pagare la jizya, una tassa prescritta dalla legge islamica).

In passato, anche sotto i regimi militari, cosiddetti laici, la vita dei copti non è sempre stata facile. Spesso sono stati strumentalizzati, specie nel trentennio Mubarak, per canalizzare la rabbia popolare verso lo scontro interconfessionale tra cristiani e musulmani, con lo scopo di sviare l’attenzione degli egiziani dai problemi della giustizia sociale, della libertà e della corruzione da un lato, e giustificare lo stato di polizia e la repressione dall’altro. Oggi, sotto il regime islamista, la questione copta continua a essere strumentalizzata. A quasi un anno dall’elezione di Morsi e a sei mesi da quella del nuovo patriarca copto ortodosso Tawadros II, nulla è stato fatto riguardo al processo di riconciliazione tra musulmani e copti. Gli episodi di violenza che all’inizio di aprile scorso hanno coinvolto cristiani, musulmani e forze dell’ordine, ripropongono le stesse dinamiche dei tempi passati in maniera ancora più drammatica; ne sono la dimostrazione gli scontri sanguinosi nel recinto della cattedrale di San Marco al Cairo, avvenuti il 7 aprile durante la celebrazione dei funerali di quattro copti rimasti uccisi due giorni prima in uno scontro con i musulmani. L’attacco alla cattedrale, luogo simbolo dei copti ortodossi, è stato considerato un atto gravissimo «senza precedenti» nella storia dell’Egitto dal patriarca Tawadros II, che ha esplicitamente chiamato in causa Morsi: «Ha promesso di fare di tutto per proteggere la cattedrale ma non è quello che noi vediamo». Un lancio della France Presse del 9 aprile ha parlato di «immagini diffuse da varie tivù che mostravano la polizia sparare lacrimogeni in direzione della cattedrale». Accuse gravi che denotano una tensione tra i vertici della Chiesa copta e lo stato. L’elezione di un islamista come raïs della repubblica post rivoluzionaria ha accentuato il sentimento di insicurezza e di marginalizzazione degli 8 milioni di copti.

La Chiesa copta imputa a Morsi di aver imposto agli egiziani una costituzione che favorisce gli islamisti nel loro intento di istituire l’islam come unica fonte della legislazione. Per questo, i copti si sono ritirati dalla commissione incaricata di redigere la nuova costituzione. È utile ricordare che questa è stata approvata nel dicembre 2012 con il sì del 63,8% della popolazione, ma con un tasso di partecipazione inferiore al 33%. Nonostante abbia dichiarato di voler essere il «presidente di tutti» e abbia condannato la violazione della sacralità della cattedrale di San Marco, Morsi (e i Fm) nutre risentimenti nei riguardi della comunità copta. Alle presidenziali i copti hanno votato in maggioranza per Ahmed Shafik, ex ministro di Mubarak, e al referendum sulla costituzione hanno votato “no”. Occorre inoltre rammentare che il precedente patriarca, Shenuda III, era a favore del passaggio del potere al figlio di Mubarak.

Le frange estremiste degli islamisti, non nutrono solo risentimento nei confronti della comunità copta e di altri cristiani. La massiccia diffusione dei canali tivù via satellite ha favorito il proliferare di telepredicatori jihadisti che seminano odio nei confronti dei copti, che considerano «infedeli», e di tutti coloro che non condividono la loro dottrina. E un estremismo tira l’altro. Anche dalla parte cristiana, vi sono frange intransigenti che attraverso le tivù diffondono all’interno della loro comunità impulsi islamofobi e fomentano lo scontro interconfessionale. Due giorni prima della violenza alla cattedrale, ragazzi copti hanno disegnato una croce sulla facciata di un istituto islamico nella città Al-khoussous: un pretesto servito su un piatto d’argento ai fanatici dell’altra sponda per replicare. Di fronte a questa nuova escalation di scontri tra musulmani e cristiani, il nuovo regime accusa fouloul a-nidam (i resti del vecchio regime) di strumentalizzare il discorso interconfessionale per mettere in difficoltà gli islamisti al potere e provocare il caos.”

Percezione

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Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebbe all’uomo come essa veramente è, infinita. (William Blake)

Tauran e il buddhismo

tauran, ecumenismo, dialogo interreligioso, religioni, buddhismo, cristianesimoLa sera dell’annuncio dell’elezione del nuovo papa, sul balcone centrale di piazza San Pietro è apparso per l’“Habemus papam” il cardinale francese Jean Louis Tauran. Il web ha immediatamente cominciato a ironizzare in modo anche feroce su di lui, sul suo intercalare incerto e sulle sue movenze particolari (dovuti al morbo di Parkinson). Il cardinale è il presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso; rivolgendosi al mondo buddista in occasione dell’annuale festa di Vesakh ha affermato: «Il nostro autentico dialogo fraterno esige che noi buddisti e cristiani facciamo crescere ciò che abbiamo in comune, e specialmente il profondo rispetto per la vita che condividiamo». «L’amorevole gentilezza verso tutti gli esseri è la pietra angolare dell’etica buddista e l’amore di Dio e l’amore del prossimo sono invece il centro dell’insegnamento morale di Gesù». Penso, ha continuato il porporato che «sia urgente creare, sia per i buddisti che per i cristiani, sulla base dell’autentico patrimonio delle nostre tradizioni religiose, un clima di pace per amare, difendere e promuovere la vita umana».

L’articolo da cui ho preso le parole è di Luca Rolandi e appare su Vatican Insider.

Tra strumenti e contenuti (e competenze?)

Su Avvenire Roberto I. Zanini intervista Giovanni Reale (sì, lo stesso del manuale di filosofia insieme ad Antiseri). Ne riporto i tratti che mi sembrano salienti.

Riferendosi alla decisione del ministero dell’Istruzione di sostituire obbligatoriamente dal 2014 nelle scuole i testi cartacei con quelli digitali, Reale afferma: «Ho letto alcuni articoli che hanno 277-0-33923_scuola libri digitali.jpgparagonato questa iniziativa alla diffusione della stampa nel Rinascimento, in cui si sosteneva che proprio la stampa ha fatto nascere la cultura della scrittura. Un errore storico gravissimo. La cultura della scrittura è precedente a Platone. E non è vero che l’uso diffuso della scrittura ha fatto nascere la filosofia, semmai è il contrario. È stata la necessità di conservare i dialoghi di Socrate a costringere i suoi discepoli a trascriverli, perché la semplice memoria non poteva essere sufficiente. Erano famosi i dialoghi trascritti da Simone il ciabattino, nella cui bottega spesso Socrate si intratteneva. Quando il filosofo usciva, Simone ne trascriveva le parole. Insomma, la diffusione della stampa ha rafforzato una cultura che esisteva da migliaia di anni, non l’ha creata né promossa. E le nuove tecnologie nei fatti capovolgono quello che per 2500 anni è stato diffuso con la scrittura, che ne esce sconfitta».

Poi continua: «Bisogna tornare a comprendere che tutto ciò che si apprende è frutto di fatica e il grado di istruzione è direttamente proporzionale all’impegno. Oggi invece c’è chi si presenta per la laurea con tesi scopiazzate da internet. Recentemente a un premio per i giovani sull’Europa sono stati trovati tre temi uguali. Gli autori, esclusi, si sono ribellati sostenendo di essersi impegnati nel fare ricerca. Ma hanno fatto solo copia e incolla dallo stesso sito web».

«Il problema non sono le nuove tecnologie, ma l’uso sbagliato che se ne fa. Internet lo uso e mi è utile. Ma lo uso come mezzo, non come fine della mia conoscenza. Quando venni chiamato dal ministro Berlinguer nel gruppo di studio per la riforma scolastica, mi trovai in conflitto con alcuni dei colleghi (gli stessi che hanno ispirato il ministro Profumo) che sostenevano che i classici a scuola sono superatissimi. “Basta con i classici” dicevano, bisogna dare strumenti multimediali. Io obiettavo che gli strumenti non sono i contenuti. Loro a insistere che i contenuti vengono fuori dall’uso degli strumenti. Ma questi strumenti non possono essere considerati dei creatori di contenuti. Gli strumenti servono per diffonderli, non per crearli. Chi mette i contenuti negli strumenti?».

«Un Paese che vuole costruire futuro deve fare in modo che la scuola non perda il suo ruolo di costruttrice di rapporti umani e di quella forza produttiva che è l’intelligenza dell’uomo, che costruisce le macchine e le usa, ne idea e ne costruisce altre. Come diceva Marco Aurelio, “al mattino, quando ti svegli e ti senti stanco, devi dire: mi alzo per compiere il mio mestiere di uomo”. E allora dobbiamo chiederci con sincerità: ma l’uomo ipertecnologico come se la cava nel mestiere ultimativo che è quello di essere vero uomo? Oggi a chi è affidato il compito di costruire gli uomini di domani? Alle macchine?».