“Per questa gemma ho deciso di portare una persona che rappresenta per me un esempio costante di forza, dedizione e amore autentico: mia madre. Ho deciso di portare questo tema perché credo che ciò che è “buono” nella vita non sia solo ciò che fa stare bene nell’immediato, ma ciò che costruisce, sostiene e ispira. E lei è tutto questo. Mia madre è una presenza stabile, una di quelle persone che non hanno bisogno di grandi parole per trasmettere ciò che provano. Lo fa attraverso i gesti: la cura quotidiana, l’ascolto, i sacrifici silenziosi, la capacità di esserci anche quando nessuno glielo chiede. È una persona pratica, ma allo stesso tempo capace di un’affettuosità discreta che fa sentire compresi e accolti. Quello che ammiro di più in lei è la determinazione. Nonostante le difficoltà che può incontrare, mantiene sempre un equilibrio che mi colpisce. Mi ha insegnato ad avere pazienza, rispettare gli altri, riconoscere i propri errori e rialzarsi con dignità. Sono lezioni che non si trovano sui libri, ma che valgono molto di più. La sua presenza ha modellato il mio modo di vedere il mondo: il rispetto per le persone, il valore dell’impegno, la capacità di dare senza aspettarsi nulla in cambio. E quando penso a ciò che nella mia vita rappresenta davvero un bene, qualcosa che mi aiuta a crescere e a migliorare, penso al suo esempio. Parlare di lei oggi è il mio modo per riconoscere tutto ciò che, spesso in silenzio, ha costruito intorno a me: una base solida, un senso di sicurezza e un affetto che non è fatto solo di emozioni, ma anche di responsabilità e di presenza quotidiana”. (M. classe prima).
“Quest’anno per la gemma ho voluto portare due persone: mio papà e il mio fidanzato. L’anello rosso me l’ha regalato M., il mio ragazzo, mentre quello argento mio padre. Hanno due caratteri molto diversi, ma sono entrambi fondamentali per me. Io assomiglio caratterialmente molto a mio papà, può sembrare chiuso e serio, ma in realtà è una persona meravigliosa. Spesso mi dice che invece io dovrei cercare di non essere come lui su questi aspetti, ma per me diventare come lui sarebbe un orgoglio. Anche se i miei genitori si sono separati, è sempre stato molto presente nella mia vita e ha sempre cercato di rendermi felice in qualsiasi modo e, se il modo non c’era, se lo inventava. Per questo, quando sono insieme a lui per me è sempre un momento speciale, quando d’estate andiamo in spiaggia o quando in inverno andiamo allo stadio insieme. Anche con M. non è stato tutto rose e fiori, per dei mesi non ci siamo nemmeno parlati, però ora siamo più uniti di prima. Ormai é come se facesse parte della mia famiglia e io della sua. Mi aiuta e mi ascolta sempre e, come mio papà, fa di tutto per farmi stare bene. È un ragazzo con un cuore d’oro e così tanto che, a volte, forse è anche troppo buono con me. Anche se la nostra relazione non è gradita a qualcuno, noi cerchiamo sempre di migliorarci ed impegnarci per stare bene insieme. Voglio tantissimo bene ad entrambi e li vorrei ringraziare per tutto quello che fanno per me.” (A. classe terza).
“Ho portato questo libro perché è uno dei pochissimi oggetti che mi sono rimasti dal periodo in cui vivevo in Brasile. Me l’hanno regalato i miei compagni di classe quando stavo per trasferirmi in Italia. Dentro ci sono tutte le loro firme e un biglietto che dice: “ti mandiamo Lineia perché non ti dimentichi di noi e nemmeno delle capuchinhas”. Le capuchinhas sono dei fiori, e in Brasile questa frase è un modo affettuoso per dire: “ricordati non solo di noi, ma anche di tutto quello che faceva parte della tua vita là”. Il libro in sé è un racconto per bambini, pensato per far conoscere l’arte di Monet attraverso gli occhi di due ragazzini, la sua casa, i suoi giardini, il suo mondo. In realtà non l’ho mai letto fino in fondo. Per me finirlo sarebbe come chiudere quel capitolo della mia vita. Io ho cambiato spesso paese e ho dovuto lasciare quasi tutto indietro ogni volta. Questo libro invece mi ha seguito in tutti gli spostamenti. Non lo guardo quasi mai, non è un oggetto a cui penso nella vita di tutti i giorni… ma forse proprio per questo significa così tanto: è uno di quegli oggetti che senza volerlo finisce per raccontare una parte di te, anche quando tu non ci pensi più.” (A. classe quinta)
“Oggi ho deciso di portare un libro che, a prima vista, potrebbe sembrare insolito. In realtà, dietro quella copertina semplice si nasconde una storia straordinariamente profonda e tenera, e non potevo non sceglierlo. Me lo ha regalato un’amica di mia nonna: si chiamava A. Quando penso a lei, mi torna alla mente il suo viso pulito, le guance paffute e rosate, e quello sguardo limpido e innocente di un’anziana che viveva ogni giorno con gratitudine, cercando di rendere più bella anche la vita degli altri. A. era esattamente così. Mi ricorderò per sempre che, quando andavo a trovare mia nonna, incrociavo spesso gli occhi di A.: per strada mentre passeggiava con il suo cagnolino, oppure quando andava a dare da mangiare alle sue amate pecore. La sua casa era splendida, un po’ nascosta nel bosco, proprio come piace a me. Quando decidevo di andarla a trovare , provavo un piacere sincero nel sedermi su quella sua panchina e ammirare il panorama che da lì si apriva. Lei mi aspettava sempre con gioia. Parlavamo di tantissime cose: mi raccontava una quantità infinita di aneddoti curiosi della sua vita, riuscendo ogni volta a coinvolgermi. È vero, a volte era stancante starle dietro, perché parlava così tanto che rischiavi di perderti qualche pezzo; ma in fondo adoravo quei momenti. Era come se mi prendesse per mano e mi portasse indietro nel tempo: quando ricordava suo marito, suo figlio, quando raccontava di quando da giovane insegnava ai bambini i nomi dei fiori e delle foglie…era stata un’insegnante d’asilo. La cosa che amavo più di tutto, però, era sentirla parlare di libri: il suo argomento preferito. Qualsiasi discorso, prima o poi, finiva sempre lì. Ed era meraviglioso, mi perdevo sempre nelle sue parole. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi ha portata a vedere lo studio di suo marito mancato da alcuni anni, ma sempre vivo nei suoi pensieri: due poltrone molto antiche, coperte da un velo di polvere e appoggiate al muro con incredibile delicatezza; e poi libri, ovunque. Ogni volta che la salutavo tornavo a casa con una pila di volumi che,ad annusarli, avevano quell’odore di antico, di vissuto, di memoria. Così era lei: gentile con tutti, sempre pronta ad aiutare, sempre capace di farti sentire accolta. Ho scelto di portare questo libro in suo onore, per mantenere vivo il suo ricordo nell’animo di tutti voi. È venuta a mancare pochi giorni fa, mercoledì 26 novembre, e da quel momento ho sentito un vuoto improvviso farsi largo nel mio cuore. Per me lei era come una seconda nonna, una compagna di vita, di avventure, un’amica sulla quale potevi contare in ogni situazione, una persona che sapeva ascoltarti, darti consigli preziosi e dimostrarti tutto l’affetto che poteva darti attraverso i suoi libri. Questo libro parla di pedagogia e racconta il percorso che porta a diventare un buon insegnante: proprio il lavoro che sogno di fare. Lei lo sapeva e mi ha sempre sostenuta in questa scelta. Quando le raccontavo che aiutavo tutti a scuola, mi diceva sempre: «Che bella questa cosa, tesoro. Sono molto grata di aver fatto l’insegnante, e sono felice che anche tu voglia seguire questa strada». Questo libro sarà sempre con me, con la speranza che il suo ricordo continui a vivere non solo dentro di me, ma anche in chi ascolterà questa storia. Perché le persone come A. non se ne vanno davvero: restano negli sguardi, nelle parole, nei gesti gentili che ci hanno insegnato. E questo è il mio modo di dirle grazie: per le sue parole, per la sua gentilezza, per tutto ciò che, senza saperlo, mi ha lasciato dentro. Oggi lei è qui con me ❤️.” (M. classe quarta).
Il precetto di non invocare il nome di Dio senza un motivo serio viene sistematicamente infranto, specialmente quando la divinità è strumentalizzata negli scontri politici. Questa pratica, benché antica, si rivela di una pertinenza drammatica nel presente. Il saggio più recente del filosofo Silvano Petrosino, professore presso l’Università Cattolica di Milano, intitolato Potere e religione. Sulla libertà di Dio, analizza in profondità le complesse interconnessioni tra queste due sfere cruciali. L’analisi di Petrosino spazia su concetti fondamentali quali il simbolo, la dimensione dell’abitare, l’importanza della cura e l’atto dell’amministrare. Il suo lavoro culmina nell’identificazione delle cause che generano le deviazioni e le patologie del potere, ponendo in luce la totale autonomia del Dio delle Scritture, una figura che non cerca di dominare alcuno e, parallelamente, si sottrae alla manipolazione e all’intrappolamento in riti o schemi umani privi di sostanza. Gianni Santamaria l’ha intervistato per Avvenire.
“Petrosino si muove attraverso autori da lui frequentati da una vita: filosofi, come Levinas, Girard, Blanchot, Cassirer, Rosenszweig e Kierkegaard, indagatori della psiche, da Freud a Lacan e Kristeva, fino a storici e sociologi della religione, da Eliade a Durkheim, biblisti come Beauchamp e Maggioni, grandi poeti come Goethe e Rimbaud. Fino a una citazione fondamentale per l’ossatura del saggio, presa da un autore, Roland Barthes, spesso considerato solo per i Frammenti di un discorso amoroso o per la semiotica della moda, ma che «invece su questi argomenti ha un pensiero molto preciso».
Lei utilizza concetto dell’abitare come cura dell’altro, che però subisce la “fatale attrazione” del diventare possesso: dell’altro, della terra, di Dio. Quali gli antidoti a questa tentazione? «Bisogna prima capire la ragione profonda della questione. Sono stato molto colpito da un’affermazione di Roland Barthes sulla libertà. Questa va intesa – dice – non solo come la forza di sottrarsi al potere, come libertà “da”, ma anche, e soprattutto, come volontà di non sottomettere nessuno. È sorprendente, perché dice che la libertà è non esercitare un potere. Da questo punto di vista – è la tesi centrale del libro – solo Dio è libero, perché, stando alle Scritture, è il solo che non vuole sottomettere nessuno. Il potere in sé non è male. Il problema è perché noi lo esercitiamo per sottomettere qualcuno. Secondo me perché cerchiamo continuamente una conferma alla nostra identità. A lezione faccio sempre l’esempio del bambino che dice ai genitori “guardate che mi tuffo”. Attende un riconoscimento. È un “ditemi che esisto”».
E quello che fanno tanti uomini di potere? «Il potere non va criminalizzato. Anche per fare il bene è necessario il potere. Il problema è che esso si trasforma facilmente in qualcosa di malvagio quando non viene usato per realizzare qualcosa, ma per confermare qualcuno».
È una dinamica che si può applicare anche agli scenari nel mondo di oggi? «È esattamente questo. Il sociologo Enzo Pace dice che la religione viene sfruttata nei momenti di crisi di identità. È interessante in questo senso quello che avviene negli Stati Uniti. Non lo si dice spesso, ma sono in una crisi profondissima, non per l’economia, bensì per il disastro della scuola. In una situazione così, per dare un’identità, Donald Trump usa la religione e il suo universo simbolico. Lo si è visto ai funerali di Kirk: la croce della vedova macchiata di sangue, il tema del martirio, la croce fatta transitare nello stadio. È il sintomo di una debolezza profonda a livello sociale».
Non è l’unico al mondo a usare la religione. «Certo, ma non mi stupisce quando ciò avviene nel mondo islamico, che non ha conosciuto l’umanesimo e la Rivoluzione francese. Mi sorprende che avvenga nell’Occidente cristianizzato. Ogni volta che c’è una crisi politica si gioca il potente jolly della religione. In questo si capisce il grande valore del comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. È come se Dio dicesse lasciami fuori dalle tue cose. Non uccidere in mio nome. Non tirarmi in ballo. Ma è esattamente quello che si continua a fare in modo terribile».
In Occidente c’è il duplice movimento del volersi autonomizzare dal potere e dalla religione e allo stesso tempo del sentire il fascino del “Palazzo”, come lei lo chiama. Perché? «L’uomo è questo. Perciò distinguo la religiosità dalla religione. Se la prima non trova forme istituzionalizzate, organiche, non viene certo annullata, ma si manifesta in quello che Roger Bastide chiamava il “sacro selvaggio”. Eliminare dall’umano la dimensione religiosa e quella artistica, che per me vanno sempre insieme, è illusorio. Il problema è che il modo di abitare la religiosità, può sempre deviare, come abbiamo detto, verso il dominio. La religione è un pharmakon, che può aiutare gli uomini a vivere, ma anche avvelenarli. È uno sbandamento strutturale, è il grano e la zizzania.»
Spesso si evocano i “falsi profeti”. «Per questo mi colpisce ciò che avviene negli Stati Uniti, perché l’Occidente in qualche modo aveva superato certi infantilismi: i predicatori, chi fa i miracoli in diretta… Anche chiamare Kirk “martire” è problematico. Gesù in molte parabole evoca una figura legata al tema dell’abitare: l’amministratore infedele. Non si può abitare senza amministrare e non si può amministrare senza legiferare. Ma spesso l’amministratore si concepisce come padrone. E questa è la fine. Il Levitico dice: ricordati che sei in affitto».
A queste derive lei oppone il realismo biblico. Cosa ci insegna? «Bisogna riconoscere con serietà che l’uomo continua a sbandare, che il dominio non è un accidente e non dipende dal fatto che gli uomini sono cattivi, anche se poi alcuni certamente lo sono. E dunque la religione deve continuamente sorvegliarsi per non trasformarsi in una struttura di dominio. Pericolo che è sempre dietro l’angolo. Realismo è riconoscere che, pensando di fare il bene dell’altro, in realtà te lo stai mangiando, lo stai distruggendo. Questo realismo riguarda i singoli, ma a maggior ragione chi ha posizioni apicali: i maestri, gli intellettuali, la gerarchia. Spesso si sentono cose incredibili, visioni finte, opinioni false, non dalla vecchietta o dal passante, ma dal politico, dal filosofo… l’uomo non è così».”
“Come gemma ho deciso di portare una mia esperienza in Ecuador ma anche in Colombia e in Norvegia. L’ultima volta a lezione ho citato questa associazione con cui ho fatto un po’ di viaggi. L’associazione si chiama CISV nato dall’acronimo Children’s International Summer Villages, ma in realtà ora è diventata una parola intera. CISV è un’associazione internazionale indipendente affiliata all’UNESCO, che offre l’opportunità a bambini, ragazzi e adulti di sperimentare il fascino e la ricchezza delle differenze culturali. L’educazione alla pace è la base su cui si formano tutti i principi CISV ed è dal 1951 che organizza programmi di scambi internazionali e progetti sul territorio in più di 70 paesi nel mondo. Parlando della mia esperienza, questi programmi a cui ho partecipato mi hanno aiutata veramente tanto a crescere come persona, in particolare quello di questa estate, e soprattutto mi hanno aiutata a capire molte cose che prima non capivo. Ho imparato davvero molto su vari fronti; a parte le altre culture che ho incontrato, ho iniziato a capire il significato di amicizia e ho davvero trovato una seconda famiglia. In Norvegia ci sono stata nel 2022 quindi nell’estate tra la quinta elementare e la prima media. Il programma per questa fascia d’età prevede di stare via per quattro settimane, come sempre insieme ad un adulto e altri tre ragazzi della stessa età. Diciamo che questo è il programma più giocoso e a cui partecipano più persone. Oltre ad aver superato molti ostacoli e ad aver migliorato decisamente il mio inglese e la mia capacità di comunicare con persone che non conoscono la mia lingua, ho imparato l’importanza e la profondità che alcuni legami possono avere. Essendo più piccolini ho perso quasi del tutto i contatti che avevo con queste persone (che venivano da più o meno qualunque parte del mondo) ma non dimenticherò mai la spensieratezza di quei giorni. Ho visto un enorme cambiamento invece con il viaggio che ho fatto in Colombia un anno fa. Qui erano previste due settimane ed ero molto più lontana da casa. Essendo due settimane non ho avuto la possibilità di legare veramente con molte persone. Questa è una cosa soggettiva perché effettivamente per avere un vero legame con qualcuno io ho bisogno di molto più tempo rispetto ad altre persone, però ho mantenuto molto di più i contatti ed è stata veramente un’esperienza da cui sono tornata come una persona diversa. Ma il viaggio che mi ha cambiata di più è stato senza ombra di dubbio quello in Ecuador di quest’estate. Oltre ad aver imparato moltissime cose ho capito molto più a fondo quello che è questa associazione e cosa significa farne parte, ho avuto la fortuna di incontrare di nuovo due persone che avevo incontrato l’anno prima in Colombia ed è stato veramente emozionante. Ci sono stata tre settimane e non scherzo quando dico che sono state tra le più belle della mia vita. Con le persone di quest’anno sono rimasta molto più in contatto (anche perché è passato poco tempo) e vorrei veramente tanto rivederle un giorno. Oltre a questo, data la fascia d’età, è un programma che ti fa maturare perché sei molto più indipendente e prendi più decisioni da solo. Ho incontrato persone fantastiche e creato ricordi indimenticabili e spero di avere la possibilità di fare molte più esperienze simili”. (B. classe prima).
“Come gemma di oggi vorrei parlare di mia nipote, M. Lei è nata il 12 aprile 2021 e da quando la conosco, la mia visione del mondo è cambiata. Io le sono stata sempre vicina e per me, lei è il mio mondo. Mi ha portato gioia anche nei momenti difficili. Le voglio molto bene, e per me, lei è la ragione per cui sorrido sempre e guardo avanti senza arrendermi. Io per lei sono la sua eroina, e lo stesso è lei per me” (B. classe prima).
“Quest’anno ho deciso di portare qualcosa che sento davvero mio: un duo musicale, gli Psicologi. Questa foto è di qualche mese fa, quando sono andata al loro concerto. Per me è stato un momento davvero speciale, perché finalmente ho potuto vederli dal vivo e ascoltarli davvero, non solo dalle cuffiette. La cosa più bella è che, nonostante fossi in mezzo a tantissime persone, sembrava che ci fossimo solo io e loro. Era la stessa sensazione che provavo anni fa, quando li ascoltavo da sola in camera mia. Non credo di essermi mai sentita così al sicuro: ero circondata da persone che, anche se per motivi diversi, provavano la mia stessa passione e lo stesso amore per ciò che stavamo ascoltando. Il vero motivo per cui sono così importanti per me è perché sono gli unici artisti che ascolto ancora dalle medie, quindi da più di cinque anni. Per me non è una cosa da niente, perché in tutto questo tempo sono cambiata un sacco: ho cambiato gusti musicali, modo di vestire, di truccarmi, persino come porto i capelli… e soprattutto sono cambiata io. Eppure loro sono rimasti lì, e la loro musica continua a rappresentarmi, forse anche più di prima. È un po’ come se fossero cresciuti con me. Sono quelli che ascolto quando ho bisogno di stare un po’ per conto mio o quando devo sfogarmi. E spero che continuerà a essere così ancora per molto” (B. classe quarta).
“È iniziato tutto 18 anni fa, quando sono nata. Alla mia nascita, mio padre, ha deciso di regalare questo anello a mia madre in segno di gratitudine, e poi venne consegnato a me il giorno del mio diciottesimo compleanno, il giorno in cui da ragazzi si diventa adulti, pieni di responsabilità e con il mondo che ci pesa sulle spalle. “La mia vita, la tua vita” è il bigliettino che mi sono ritrovata vicino alla scatolina il giorno più importante della mia vita. Prima di ricevere questo regalo ho passato dei mesi intensi, fatti di ansia, stress, studio e lavoro. Voglio ringraziare i miei genitori di come mi siano sempre rimasti accanto, davanti ad ogni difficoltà, continuando a supportarmi e incoraggiarmi per il futuro, per l’amore che mi donano ogni giorno. So di non essere una persona semplice e con carattere molto forte ma nonostante questo sono grata per i miei genitori” (G. classe quinta).
“In questa foto ci sono io insieme ai miei tre migliori amici: K, A e S. La nostra amicizia è nata dal nulla, quasi per caso, quando ci siamo conosciuti alle Canarie, e da allora è cresciuta in modo incredibile. K. è diventato il mio migliore amico, un vero fratellino, così legato a casa che non chiama mia mamma per nome, ma semplicemente “mamma”, come se fosse anche la sua. A. è il mio gemellino: non lo vedo mai, ma riusciamo sempre a sentirci e a rimanere vicini, ridendo e condividendo le nostre giornate. Anche S. non lo vedo spesso, ma mi chiama continuamente, soprattutto quando ha bisogno di consigli sulle ragazze o su quale storia mettere su Instagram ed è proprio per questo che lo chiamo el trauma de mi vida. La foto è stata scattata in un centro commerciale a Las Palmas. Non è speciale per la posa o per la perfezione, ma proprio per questo è bellissima: cattura la nostra amicizia, le risate e i momenti spontanei che rendono tutto più divertente. Ogni volta che la guardo, mi ricorda quanto sia importante avere amici veri, e a quanto io sia stata fortunata ad averli incontrati. Spero con tutto il cuore che la nostra amicizia non finisca mai.” (A. classe terza).
“Come gemma di religione ho deciso di portare una persona davvero speciale per me: la mia migliore amica A. Io e lei ci conosciamo da sei anni e, fin dal primo momento, è diventata una delle persone più importanti della mia vita. Con lei posso parlare di tutto, senza paura di essere giudicato. È sempre stata al mio fianco e non potrò mai ringraziarla abbastanza per tutto ciò che ha fatto per me. Spero, allo stesso modo, di essere riuscito anch’io a sostenerla quando ne aveva bisogno. Purtroppo lo scorso anno si è trasferita e da allora non riusciamo più a vederci spesso. Ma quando un’amicizia è vera, la distanza non conta davvero. Il nostro rapporto assomiglia a quello di due fratelli: anche se a volte ci prendiamo in giro o ci insultiamo per scherzo, sappiamo entrambi quanto siamo importanti l’uno per l’altra” (M. classe terza).
“Quest’anno come gemma ho deciso di portare l’amicizia: credo di saperne molto su essa e in questi anni mi ha sempre accompagnata. C’è una persona molto speciale per me e io la considero come una sorella, siamo cresciute insieme e ormai anche le nostre famiglie sono molto legate. Riusciamo a capirci anche con un solo sguardo, con lei mi sento a casa e quando sto male riesce sempre a strapparmi un sorriso e questo basta a descrivere la nostra amicizia. Lei è una parte di me talmente importante che se la perdessi, penso che non sarei più io. Ogni volta che sto male o semplicemente quando voglio parlare lei è sempre al mio fianco. Passiamo molto tempo insieme e ci vediamo anche al di fuori della scuola, per esempio pratichiamo danza insieme. Con lei il tempo non mi basta mai e soprattutto passa sempre troppo velocemente. Si dice che l’anima gemella esista solo in amore ma io ho avuto la fortuna di trovarla nell’amicizia”. (H. classe terza).
“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare la mia esperienza da animatrice. Sono già 2 estati che faccio l’animatrice nell’oratorio del mio paesino. Sono molto grata a questa esperienza perché mi ha fatto conoscere tante nuove persone, ma soprattutto mi ha fatto crescere molto come persona. I bambini, anche se non sembra, hanno molto da dare anche ai più grandi. I bambini mi hanno insegnato ad apprezzare le cose più semplici come un abbraccio la mattina o anche, banalmente un buongiorno” (A. classe terza).
“Quest’anno come gemma ho deciso di portare la mia amica E., o meglio il legame che ho con lei. Ci conosciamo dalla prima elementare, quindi da praticamente quasi 11 anni e siamo cresciute e stiamo crescendo insieme e sono molto felice di condividere questa parte della vita con lei e spero che questo continui anche in futuro. Della nostra amicizia mi piace il fatto che non è stata “forzata” dal fatto di aver trascorso 8 anni nella stessa classe e ciò può essere provato dal fatto che nonostante abbiamo poi scelto lo stesso percorso, ma in scuole diverse, continuiamo comunque a rimanere in contatto non solo telefonicamente ma anche uscendo durante i weekend, anche se ultimamente sta diventando sempre più difficile trovare una giornata nella quale siamo entrambe libere. E. è una persona solare e sempre disponibile, non ha filtri ed è una delle cose che più mi piacciono di lei, quando siamo insieme non mi sento mai giudicata e so di poter essere sempre me stessa al 100% ed entrambe sappiamo che possiamo contare l’una sull’altra. Per com’è oggi il mondo, pieno di invidia e persone false, sono molto grata per avere un’amica come lei che mi supporta e mi sopporta nonostante i miei difetti.” (E. classe terza).
Ormai un classico appuntamento del blog: quello con le Interferenze di Gabriella Greison su Avvenire. Il 14 novembre si è dedicata a Georges Lemaître.
“Georges Lemaître non indossava un camice, ma una tonaca. Non lavorava solo tra telescopi e lavagne, ma anche tra chiese e cattedrali. Era un sacerdote cattolico e, nello stesso tempo, uno dei più grandi cosmologi del Novecento. L’uomo che per primo ha osato dire una frase rivoluzionaria: “L’universo ha avuto un inizio”. Lo chiamavano “il prete che ha inventato il Big Bang”. In realtà lui preferiva parlare di “atomo primitivo”: una minuscola particella cosmica compressa oltre ogni immaginazione che, disgregandosi, avrebbe dato origine a tutto ciò che conosciamo — galassie, stelle, pianeti, persino noi. Quando Lemaître lo propose nel 1931, l’accoglienza fu tiepida se non ostile: Einstein, dopo una sua conferenza, gli disse con l’aria di chi mette un punto: i calcoli sono corretti, ma la fisica è “abominevole”. Non proprio un incoraggiamento. Eppure quel giovane prete belga non si spaventò. Continuò a fare i conti, a immaginare il cosmo come una pellicola che non si srotola solo in avanti ma può essere riavvolta: se oggi vediamo le galassie allontanarsi, allora ieri dovevano essere più vicine, e prima ancora più vicine, fino a un primo respiro, un lampo d’origine. Un universo che si espande implica un’origine, e un’origine cambia tutto. Non più un cosmo eterno e statico, ma una storia. Molti, ancora oggi, faticano a credere che Lemaître fosse entrambe le cose: sacerdote e scienziato. Come se la fede e la ricerca fossero incompatibili per statuto. Lui non vedeva alcuna contraddizione. Celebrare la Messa e scrivere equazioni erano due modi di entrare nello stesso mistero, con due grammatiche differenti. Diceva che tra l’inizio della materia e l’atto della creazione c’è un abisso che la fisica non colma e che la teologia non misura; la fisica racconta il “come”, la fede interroga il “perché”. Due domande diverse, entrambe necessarie. Per questo non usò mai la fede per tappare i buchi della scienza, né la scienza per dimostrare l’esistenza di Dio: manteneva un equilibrio raro, una distanza di rispetto tra i linguaggi. Era convinto che la matematica potesse dire l’universo con una chiarezza che nessun’altra lingua possiede, ma che il mistero del suo perché restasse oltre ogni formula. C’è un fotogramma che amo: Lemaître alla lavagna, gesso in mano, il colletto bianco in evidenza, e quegli occhi da alpinista dell’ignoto. Pochi sanno che prima della “teoria dell’atomo primitivo” c’è un suo articolo del 1927, quasi ignorato, in cui ricava — con naturalezza disarmante — l’idea che lo spazio si stia espandendo e collega la distanza delle galassie alla loro velocità di allontanamento. Quella che poi diventerà la “legge di Hubble” l’aveva già messa nero su bianco lui, con la serenità di chi non ha urgenza di intestarsi i meriti. Non cercava fama, cercava coerenza: se i dati dicono questo, è lì che dobbiamo andare, anche se la filosofia del tempo preferisce un universo. La sua tenacia era quasi monastica: niente clamore, solo lavoro. E quando negli anni ’50 qualcuno provò a trasformare la sua intuizione in bandiera apologetica — “il Big Bang conferma la creazione biblica” — Lemaître fu il primo a frenare: mischiare i piani, semplificare, usare la fisica come prova di Dio, era per lui un errore concettuale e spirituale. “La scienza non ha bisogno di Dio per funzionare. E Dio non ha bisogno della scienza per esistere.” In una riga toglieva secoli di malintesi. Il suo temperamento era così: una spiritualità silenziosa, fatta di dedizione, di studio, di ascolto del cielo. Non predicava dai pulpiti: lasciava che le equazioni diventassero finestre. E mentre il dibattito infuriava tra universi eterni e universi a nascita, tra staticità rassicuranti e dinamiche vertigini, Lemaître continuava a fare ciò che sapeva fare meglio: affinare i conti, interrogare i dati, accettare che il reale potesse essere più audace delle nostre abitudini mentali. L’idea di un “giorno senza ieri” era un terremoto non solo scientifico ma culturale: se il tempo ha una nascita, allora la storia del cosmo è davvero una storia, con un incipit, uno svolgimento, una trama che continua a dispiegarsi. Il che non “dimostra Dio” — Lemaître non lo disse mai — ma ci espone a una domanda più radicale: perché ci sono leggi così fini da permettere stelle, chimica, coscienze? Perché la musica delle costanti fisiche suona nella tonalità giusta per far emergere la vita? La scienza descrive; la spiritualità, se è onesta, non invade ma domanda. C’è anche un’altra immagine: Lemaître seduto a un tavolo di lavoro nell’Università di Lovanio, fuori la luce grigia del Belgio, dentro una lavagna piena. Accanto, non premi e medaglie, ma libri sgualciti. Poteva pretendere riconoscimenti; scelse la discrezione. Più tardi sarebbe diventato presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, proprio perché capace di tenere i ponti aperti senza confondere le sponde. Non cercò mai d’essere protagonista: preferì aprire una strada e sparire ai margini del quadro. E proprio per questo la sua figura oggi risplende: perché ha lasciato spazio all’oggetto del suo amore — l’universo — più che al soggetto che lo raccontava. Se dovessimo definire la sua spiritualità, potremmo chiamarla “spiritualità della ricerca”: lavoro silenzioso, fedeltà ostinata, meraviglia disciplinata. Non dogmi urlati, non scorciatoie. Un credente capace di custodire la trascendenza senza usarla come tappabuchi, uno scienziato capace di amare i limiti del proprio metodo senza trasformarli in muro. Ha accettato che la verità avesse più piani di profondità, che una formula potesse illuminare il come e una preghiera potesse sostenere il perché, senza che nessuna delle due pretenda l’ultima parola. In questo equilibrio sta la sua eredità più grande: la possibilità di abitare due mondi senza scegliere l’esilio. E poi c’è l’epilogo che sembra scritto per il cinema: 1965–66, la scoperta della radiazione cosmica di fondo — quel fruscio termico che ci arriva da ogni direzione, eco tiepida della prima luce — che offre una conferma potente alla visione di un universo caldo e giovane che si espande. Lemaître ne viene a conoscenza poco prima di morire. Non fa proclami, non esulta: sorride con quella compostezza di chi sa che la scienza procede per indizi, mai per trionfi definitivi. È una tappa, non un arrivo. Anche la prova più elegante è sempre una soglia. Lo confesso: quando racconto Lemaître io non sono una semplice cronista. Mi riguarda. Anche io vivo su quel crinale dove la ragione spinge e lo stupore trattiene; dove le equazioni aprono e le domande fanno aria; dove il “come” è una musica che voglio imparare e il “perché” è la vibrazione che non smette di chiamare. Non cerco dimostrazioni travestite da miracoli né miracoli travestiti da dimostrazioni. Cerco un luogo in cui ragione e poesia stiano nello stesso respiro. Per questo, quando parlo della sua teoria, non mi limito alla dinamica dello spazio-tempo che si dilata: sento, nello stesso gesto, una pedagogia del limite. La scienza non tutto può dire; la spiritualità non tutto deve dire. È nel varco tra i due che passa l’aria. Georges Lemaître è morto nel 1966, pochi giorni dopo aver appreso che il cielo conserva ancora, ovunque, la memoria termica della sua nascita. Forse gli bastava: non l’ultima parola, ma un segno. La sua lezione, oggi, suona più necessaria che mai: il cosmo non è un problema da risolvere in fretta, è una storia da contemplare con attenzione. La fisica può dirci come procede; la spiritualità ci chiede perché ci riguarda. Tenere insieme queste due posture — senza confonderle, senza contrapporle — è l’arte sottile che lui ha praticato con una grazia che fa scuola.
E allora, la domanda inevitabile: davanti a un universo che ha avuto un inizio, davanti a un cielo che porta ancora l’eco di quel primo respiro, che cosa ne facciamo noi? Preferiamo archiviare tutto come caso, o sentiamo — anche solo per un istante — che dentro quell’inizio c’è una chiamata alla responsabilità, alla gratitudine, alla ricerca? Siamo disposti a vivere nell’apertura che Lemaître ci ha consegnato — un piede sulla lavagna, un piede sull’altare — senza chiedere all’uno di divorare l’altro, ma lasciando che insieme, finalmente, ci aiutino a guardare più lontano?”
Un mesetto fa gli induisti hanno festeggiato Diwali e Il Post ha pubblicato un articolo interessante e non troppo lungo. Lo pubblico proponendo anche le stesse foto del giornale on-line.
Un negozio di lampade e decorazioni a Bangalore (fonte)
“Fra lunedì e martedì [20 e 21 ottobre, ndr] l’India e le comunità induiste in tutto il mondo festeggiano il Diwali, la festività delle luci, una delle celebrazioni più importanti dell’induismo che nel tempo ha assunto anche una grande dimensione economica. Ogni anno se ne parla anche perché nell’occasione vengono sparati molti (ma davvero molti) fuochi artificiali, motivo per cui le città indiane dopo il Diwali hanno livelli di inquinamento decisamente superiori al normale. Per Nuova Delhi, di per sé molto inquinata per gran parte dell’anno, è un problema particolarmente grave. Ma il Diwali è soprattutto una festività per cui l’India e la maggioranza dei suoi 1,4 miliardi di abitanti si fermano, così come buona parte dell’Asia meridionale. A livello di impatto sociale e culturale è una sorta di Natale indiano, che mantiene anche una forte connotazione spirituale in un paese molto religioso. Da qualche anno viene festeggiato anche in Occidente, esportato dalle molte comunità indiane all’estero (gli emigrati sono 35 milioni, solo la Cina ne ha di più). È diventato più conosciuto anche per il maggior consumo di prodotti culturali indiani sui mercati statunitensi o europei. In tre stati americani (California, Connecticut e Pennsylvania) è un giorno festivo e le scuole sono chiuse anche a New York. Nelle città britanniche dove l’immigrazione dal subcontinente indiano è maggiore le celebrazioni sono diffuse.
La parola Diwali viene dal sanscrito Dipavali e significa “fila di luci”, dall’usanza dei fedeli di accendere luci, originariamente dentro lampade di argilla (diya) fuori dalle case e dai luoghi di culto. Rappresentano la vittoria della luce sull’oscurità, della fede sul dubbio, del rinnovamento sulla conservazione, della giustizia sulla tirannia, del sapere sull’ignoranza, del bene sul male. Il concetto centrale del Diwali è questo, poi la festività assume significati religiosi diversi a seconda delle diverse zone dell’India, e coinvolge molte delle decine di divinità della religione induista. Nel nord dell’India si celebra il ritorno vittorioso del dio Rama, dopo aver sconfitto un rivale nel sud (le luci gli mostrano la via); altrove la vittoria di Krishna sul demone Narakasura; in Bengali si celebra la dea guerriera Kali. È piuttosto diffusa la tradizione di accendere luci per permettere l’ingresso in casa della dea Lakshmi, associata alla salute, all’abbondanza e all’agricoltura, che teme le tenebre. Ma Diwali è una festa anche per i sikh (che celebrano il sesto profeta), per i giainisti e i buddisti: anche un 30 per cento dei cristiani che vivono in India e il 20 per cento dei musulmani (molto più numerosi) festeggia quella che è diventata anche una festa “non-religiosa”. Per gli induisti le feste del Diwali durano cinque giorni, in cui quello del Diwali vero e proprio è il terzo: non c’è una data fissa, perché la ricorrenza è legata al calendario lunare. Cade con la luna “nuova”, cioè quando solo un primo spicchio è visibile, quasi sempre fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. Quest’anno in alcune parti dell’India il giorno è lunedì, in altre il martedì, a seconda dell’orario in cui tramonta il sole e sorge la luna.
I giorni precedenti al Diwali si procede a grandi pulizie delle case e all’allestimento di lampade a olio, candele, festoni colorati in tessuto o altri materiali (jhalaras), decorazioni geometriche sui pavimenti e sugli usci con polveri colorate, riso, petali di fiori o gesso (rangoli). Nei giorni di festa gli indiani si vestono con vestiti tradizionali, nuovi, appariscenti ed eleganti, spesso comprati per l’occasione. Si scambiano regali; sfoggiano gioielli, monili d’oro e d’argento nuovi, perché comprarli nel primo giorno delle festività, Dhanteras, è di buon auspicio (le quotazioni dei metalli preziosi aumentano in corrispondenza delle festività). Il tutto crea un notevole aumento di acquisti e alimenta l’economia legata alle festività. Poi c’è il cibo, che ha un ruolo centrale: moltissimi dolci, di cui l’India ha una tradizione millenaria. La maggior parte dei dolci, chiamati mithai, è a base di zucchero, latte e latte condensato, mentre altri ingredienti comuni sono il pistacchio, il cardamomo, la noce moscata, i chiodi di garofano, il pepe nero e le noci. Ma ci sono anche gli spuntini e gli antipasti salati, i chaat, nonché tutti i piatti classici delle varie cucine indiane. Nel giorno del Diwali poi si festeggia facendo un largo uso di fuochi d’artificio, cioè la parte più discussa delle celebrazioni.
Varie città indiane negli ultimi anni hanno provato a vietarne l’uso, ma con scarso successo. A Delhi, dove i livelli di inquinamento sono fra i più alti al mondo e assumono l’aspetto di una pervasiva nebbia, i fuochi erano proibiti dal 2020. Quest’anno la Corte suprema indiana ha autorizzato la vendita e l’uso dei cosiddetti fuochi d’artificio ecologici (o green), che dovrebbero ridurre l’impatto inquinante di circa il 30 per cento. La decisione è stata molto contestata dalla parte della popolazione meno legata alla tradizione, perché rischia di rendere meno respirabile l’aria nei giorni e nelle settimane successive alla festa.”
Ma perché le gemme? Spesso mi succede di imbattermi in esperienze o in testi che danno una risposta a questa domanda. E’ capitato con l’Ultimo banco 263 pubblicato sul Corriere da Alessandro D’Avenia e poi pubblicato sul suo blog.
“L’infelicità è carenza di sorprese. La vita ne è piena ma siamo noi a dormire: l’educazione in fondo è allenamento a star svegli e pronti a riceverle. Per questo al mattino cerco di inventare un appello diverso per «ri-svegliare» corpo e anima dei ragazzi. Qualche giorno fa ho fatto ascoltare il primo movimento del concerto per violino n.1 di Vivaldi: La primavera. Il famosissimo Allegro, forse il brano più noto al mondo, dura 3 minuti e 20, come la Donna cannone. I ragazzi l’hanno subito riconosciuto anche se magari non ricordavano nome e autore. Su una cosa però concordavano tutti: li aveva messi di buon umore in soli tre minuti.
Come ci era riuscito? Sorprendendoli. La sorpresa è infatti il primo gradino della felicità, purché per sorpresa non s’intenda la sua riduzione odierna: il bisogno continuo di choc dopaminergici da post e video per dimenticare quanto siamo insoddisfatti della vita, «sorprese» che invece di renderci vivi ci addormentano, perché sono dipendenze. Le vere sorprese (dal latino super prendere: afferrare dall’alto, esser «elevati», «sollevati») donano invece una leggerezza che non è fuga ma pieno possesso della vita, liberano perché «sorprendersi» è fare esperienza della gratuità, cioè sentire che la vita è data, gratis, anche nel ripetersi. Un arcobaleno è sempre sorprendente, così come l’Allegro della Primavera di Vivaldi. Come fare allora a essere ordinariamente aperti all’effetto sorpresa della realtà senza il quale esser felici è impossibile? Quest’anno quel concerto di Vivaldi compie 300 anni. Era il 1725 quando ad Amsterdam furono pubblicati gli spartiti del «Cimento dell’armonia e dell’invenzione», 12 concerti (in origine una forma musicale in tre tempi in cui il solista dialoga-contende, con-certa, con gli altri strumenti) per violino solista e archi, di cui i primi quattro sono le celeberrime Stagioni. Allora non essendoci supporti di registrazione, la musica rimaneva solo quando veniva pubblicata e accadeva solo ai più grandi. Eppure la prima esecuzione era avvenuta qualche anno prima a Venezia, in un orfanotrofio, «sorprendendo» tutti. Infatti Vivaldi, sacerdote cattolico, insegnava violino alle giovani accolte in una delle istituzioni di carità per orfani e poveri della città: l’Ospedale della Pietà, specifico per le ragazze, altrimenti destinate alla strada. In questo contesto venivano educate nel canto e nello strumento (perché nelle nostre scuole quest’arte indispensabile all’educazione è ridotta al flauto o alla melodica delle medie?), raggiungendo esiti passati alla storia (ascoltate lo Stabat Mater o il Gloria di Vivaldi). Vivaldi, detto «il prete rosso», per i capelli o per l’abito indossato da lui e dalle musiciste, dirigeva le ragazze celate da grate lignee al pubblico proveniente da tutta Europa (ne parlano anche Goethe e Rousseau) per ascoltarne l’incanto. Nelle Stagioni in particolare il musicista si era divertito a imitare i suoni naturali: uccelli, tuoni, cani, foglie, venti gelidi… tanto da stupire tutti per genialità compositiva, esecutiva e sociale, un fenomeno unico in un’epoca in cui alle donne era vietato suonare in chiese e teatri. I miei studenti, benché fossero le 8 del mattino, erano anche loro «sorpresi», cioè elevati a un livello di vita gioioso e sollevati dalle zavorre del XXI secolo: facevano esperienza del «gratuito». Il contrario di questa esperienza è infatti il «dare per scontato», espressione nata per indicare qualcosa di acquisito (nel senso di acquistato) perché pagato subito a fronte di uno sconto: saldato vs regalato. Solo l’esperienza della vita data «gratis» e non «per scontata» (che infatti è diventato sinonimo di: «non mi sorprende più») provoca risveglio e unione, i due elementi della gratitudine, senza la quale non è possibile esser felici. Il giorno in cui si dà qualcosa o qualcuno per scontato finisce la gioia, perché la felicità è tanta quanta lo stupore: la sorpresa di un volto o un oggetto si spengono. Allora non è la felicità a renderci grati, ma è la gratitudine a renderci felici. Ci sono persone che, pur avendo tutto, non sono felici, e persone che, avendo poco, lo sono. Come mai? La differenza sta nella pratica (è un’azione) della gratitudine, che rende capaci di ricevere l’istante come un dono, cosa che purtroppo spesso ci riesce solo quando perdiamo qualcosa o qualcuno (chi ha sofferto per amore o per un lutto lo sa). Questo significa che la capacità di sorprendersi è in noi: è interiore e va allenata. Infatti tradizioni spirituali e filosofiche millenarie e molto diverse tra loro invitano a svegliarsi e vegliare, e non perché ci vogliano insonni e ansiosi come accade oggi salvo poi invocare un po’ di mindfulness a buon mercato, ma perché ci vogliono grati, cioè felici. Il cristianesimo dovrebbe produrre un’etica della gioia (la parabola delle vergini addormentate che devono partecipare alla festa lo racconta bene), perché tutto è grazia per chi ha fiducia (fede) nella vita che è infatti «eucarestia» (in greco «ringraziamento»), rito nel quale la vita stessa di Dio è data gratis, risolto spesso in una pratica da sbrigare. Ma torniamo alle sorprese: possono riguardare anche cose brutte o consuete, perché ciò che conta è che stanno capitando a noi che siamo liberi, cioè capaci di decidere che cosa farci. Il problema non è il cosa accade ma il che cosa ci faccio. Ad esempio: che cosa ci fa un geniale musicista con delle ragazze abbandonate? Le fa diventare una Primavera immortale: Anna Maria della Pietà – violinista, clavicembalista e compositrice – fu la solista più celebrata dell’Ospedale della Pietà, a lei Vivaldi dedicò 28 concerti per violino, molti venivano a Venezia solo per ascoltarla (dopo la morte del maestro, fu lei a dirigere); Chiara della Pietà, detta «la meraviglia di Venezia» per la versatilità, suonava tutti gli strumenti a corda e a fiato; per Candida della Pietà, nota per purezza ed estensione di voce, Vivaldi scrisse arie con l’indicazione specifica «per Candida»; Apollonia della Pietà, per lei il maestro compose i suoi concerti per fagotto, strumento raro all’epoca ma che lei maneggiava come nessuno; di Barbara e Pellegrina della Pietà, cantanti soliste, le cronache riferiscono che «i forestieri, udendo le loro voci, giuravano di trovarsi in paradiso». Per queste ragazze senza cognome se non l’appellativo «della Pietà» la musica fu salvezza e riscatto. Chi le aveva ascoltate senza vederle dietro le paratie di legno, quando poi le incontrava di persona si stupiva di trovarsi davanti popolane non troppo aggraziate e dai modi semplici. Una vera «sorpresa». La tomba della felicità è il «dato per scontato» o «dato per scartato». Chi dà per «scontato» o «scartato» non riceve, chi non riceve non è grato, chi non è grato non è felice. E la scuola è proprio il luogo in cui si impara a essere sempre aperti alla vita, dove ci si allena quindi a essere, in sequenza: svegli, sorpresi, grati, felici, vivi. A cominciare dall’appello o da un po’ di buona musica. Magari un Allegro di Vivaldi.”
Dal settembre 2025 la coalizione jihadista JNIM assedia Bamako e controlla le vie d’accesso, bloccando carburante e beni alimentari e paralizzando gran parte del Mali. Il gruppo, affiliato ad al-Qa’ida, ha guadagnato terreno approfittando della crisi politica seguita al colpo di Stato del 2020, all’espulsione delle forze internazionali e alla debolezza dell’esercito maliano. Si prospettano tre scenari: una difficile riconquista militare da parte dello Stato, la possibile ma rischiosa presa di Bamako da parte dei jihadisti, oppure un negoziato tra governo e JNIM. Quest’ultima ipotesi appare la più probabile, benché implichi concessioni significative, tra cui un possibile ruolo politico per l’Islam radicale. Ma ecco l’approfondito articolo di Alessio Iocchi dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). A fondo pagina anche la puntata di Stories di ieri, 18 novembre, a cura di Cecilia Sala.
“Da settembre 2025 la coalizione jihadista Jama’at Nusrat al-Islam wa’l Muslimin (JNIM) assedia Bamako, capitale del Mali dopo aver accerchiato altre importanti città: Mopti, Ségou, Nioro, San, Koutiala, Farabougou, Kayes, Timbuktu. I jihadisti pattugliano gli assi di circolazione per l’accesso alle città, bloccando tir e camion, sequestrando autisti, trasportatori e anche passeggeri dei bus di linea. Di conseguenza, come molte altre città maliane prima, Bamako è rimasta senza benzina e senza la quotidiana consegna di beni alimentari e animali dalle campagne. Il greggio, importato dai vicini Senegal, Costa d’Avorio e Guinea, è particolarmente vitale per il paese, essendo il Mali senza sbocco sul mare, senza riserve e dipendente dalla benzina per far funzionare i generatori e, dunque, tutto il sistema elettrico nazionale. Uffici e scuole sono rimaste chiuse per diversi giorni, ma a partire dal 8 e 9 novembre alcuni camion cisterna e tir sono potuti entrati nella capitale, a Ségou e San, consentendo la parziale ripresa di attività economiche e lavorative, il resto del Mali rimane virtualmente paralizzato. Con più di 4 milioni di abitanti, Bamako è non solo la città più grande ma anche il centro amministrativo, economico e culturale del paese, che finora era rimasto poco toccato da un’insorgenza limitata in prevalenza alle campagne. Che l’assedio sia il prodromo di un’avanzata che porterà JNIM a conquistare la capitale e il cuore del potere? Bamako potrebbe essere una nuova Damasco, conquistata nel dicembre 2024 da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), anch’essa, come JNIM, organizzazione della galassia al-Qa’ida, ora al potere in Siria e transitata su posizioni decisamente più moderate? Oppure come Kabul, riconquistata dai Taliban nell’agosto 2021 a coronamento degli Accordi di Doha?
Gli incontri e gli scontri tra JNIM ed esercito JNIM è una coalizione formata nel 2017 dai leader di Ansar al-Din, al-Murabitun, Katiba Macina ed elementi di al-Qa’ida nel Maghreb islamico (AQMI), gruppi jihadisti attivi nel corso della guerra civile maliana iniziata nel 2012. Guidata da Iyad ag Ghali e dal vice Amadou Koufa e affiliata ufficialmente ad al-Qa’ida, dal 2019 la coalizione è coinvolta in un conflitto con la provincia saheliana dello Stato Islamico (Islamic State-Sahel Province, ISSP) per il controllo di territorio e risorse, specie nel meridione del Mali. La competizione fra i due gruppi ha gettato la gran parte del paese nel caos e l’insicurezza sul territorio si è presto tradotta in instabilità istituzionale. Tra il 2020 e il 2021, sostenuto da proteste popolari organizzate dall’imam salafita Mahmoud Dicko, il colonnello Assimi Goïta rovesciava il contestato governo di Ibrahim Boubakar Keita (2013-2020). Il colpo di stato segnava anche l’inizio di una profonda rottura diplomatico-militare con la Francia, espulsa dal paese nel febbraio 2022 dopo un decennio di alti e bassi e presto seguita dal resto delle forze europee nel paese e dal contingente di peacekeeper ONU della MINUSMA. Liberatosi dalla complessa architettura securitaria francese e onusiana, Goïta accoglieva il gruppo paramilitare russo Wagner Group. Nel caos seguito all’espulsione di MINUSMA è possibile rinvenire le dinamiche che caratterizzano il conflitto anche oggi: se l’esercito, con enorme dispendio di uomini e risorse, riesce a riconquistare città e nodi strategici respingendo le milizie nelle campagne, queste ultime si pongono in controllo degli assi per l’approvvigionamento delle città fino alle frontiere – unici punti d’ingresso delle merci per un paese senza sbocchi sul mare. La pressione contro le forze governative ha visto un generale aumento nel corso degli ultimi dodici mesi. Nel 2024, dopo la brutale sconfitta inflitta a luglio all’esercito e agli ex Wagner (ora Africa Corps) nel villaggio di Tinzawaten dalle milizie secessioniste tuareg non-jihadiste, a settembre JNIM avvia la sua offensiva con il grande attacco alle caserme e all’aeroporto di Bamako – primo attacco nella capitale dal 2015 –, seguito dalle conquiste di diverse basi militari (Dioura, Boulkessi, Timbuktu, Mahou, Kayes, Farabougou, Nioro) e culminata con l’attuale accerchiamento delle città più importanti, inclusa Bamako.
E ora? Gli scenari possibili sono tre, ma solo uno appare probabile – e auspicabile. Il primo consiste nella liberazione degli assi di approvvigionamento diretti alle città da parte dell’esercito maliano. Per giungere a questo risultato, tuttavia, l’esercito dovrebbe dirigere una mobilitazione armata tale da concentrare il grosso delle forze nel quadrante sud-ovest del paese, tra Senegal e Costa d’Avorio. Questa strategia risulta difficilmente realizzabile per diverse ragioni: il generale indebolimento in cui versa l’esercito; le scarse possibilità di poter contare sugli alleati dell’Alleanza degli Stati del Sahel-AES (ovvero i due regimi golpisti di Burkina Faso e Niger); infine, la riluttanza del governo nel ricercare la cattura di punti chiave con la forza. Finora, esercito, secessionisti e jihadisti hanno preferito il ritiro graduale di fronte all’avanzamento delle forze opposte, come accaduto a Kidal. Infine, l’ipotesi di supporto da parte degli stati vicini dell’ECOWAS (l’organizzazione regionale dalla quale i tre regimi dell’AES sono ufficialmente usciti) – in primis da parte del Senegal – risulta al momento improbabile. Il secondo scenario consiste nella conquista della capitale e nel rovesciamento del regime di Assimi Goïta da parte di JNIM. Si tratterebbe di uno scenario inedito. La conquista militare definitiva è un evento estremamente raro nei conflitti africani, e fino ad ora tutti i tribolati stati del Sahel sono riusciti ad evitarla. Al contrario, si sono spesso verificate lunghe e logoranti battaglie per il controllo, invero solo temporaneo, delle città più grandi, come Kidal o Timbuktu. La strategia di JNIM è chiara: soffocare il paese, renderlo ingovernabile e spingere l’esercito a negoziare. Tale strategia indica la volontà di raggiungere la massima posizione di vantaggio rispetto all’esercito, da usare come leva in un possibile negoziato. Tuttavia, la conquista di una capitale – palazzi delle istituzioni, banche, emittenti pubbliche, aeroporti – rappresenterebbe uno straordinario successo simbolico, e non solo, che potrebbe determinare il corso della guerra e dei negoziati. Se anche dovesse riuscirvi – e fosse poi in grado di mantenerne il controllo – JNIM dovrebbe comunque gestire, oltre a un’eventuale, vigorosa, controffensiva dell’esercito sulla capitale, il fronte rurale contro ISSP. E dovrebbe farlo disponendo di un minor vantaggio strategico rispetto, per esempio, ai Taliban nello scontro con la Islamic State Khorasan Province (IS-KP) nell’Afghanistan del 2021. I due gruppi, infatti, si scontrano nel paese dal 2015, ma è solo grazie al cruciale supporto militare americano richiesto nel corso degli Accordi di Doha a partire dal 2018, che i Taliban sono riusciti a mettere IS-KP alle corde. Inoltre emergono, sullo sfondo, importanti interrogativi politici. Al contrario di HTS in Siria, JNIM non ha mai tagliato i ponti con al-Qa’ida né perseguito in maniera programmatica l’obiettivo del cambio di regime politico, rimanendo fermo sulle posizione massimaliste e radicali tipiche del salafismo jihadista. In quanto coalizione, JNIM non dispone di un organo di governo centrale (come HTS o i Taliban), è frammentato su territori diversi e opera, rapido e mobile, soprattutto negli spazi rurali. Contrariamente ai Taliban, JNIM non dispone di partner internazionali che possano sponsorizzare un accordo come quello di Doha. Anche perché JNIM non veicola alcun messaggio di unità nazionale, come il deobandismo pashtun dei Taliban oppure “l’entità sunnita” evocata da HTS. Dentro JNIM convivono piuttosto diverse istanze: il comunitarismo fulbe e l’irredentismo tuareg, la lotta contro “istituzioni apostate” rappresentate dallo stato post-coloniale e un revanscismo etnico che maschera conflitti agrari.
L’opzione negoziale Il terzo scenario, più realistico, è quello di un accordo negoziato fra le due parti. Il tema del “dialogo con i jihadisti”, per anni osteggiato dalla Francia, è divenuto finalmente concreto nel 2021 quando, in accordo con il governo militare, l’Alto Consiglio Islamico ha intrapreso il dialogo con ag Ghali e Koufa. Già nel 2012 ag Ghali aveva aperto al dialogo con le istituzioni e nel 2017 Koufa aveva esplicitato le richieste per trattare: l’espulsione delle forze militari “apostate” (Francia, MINUSMA) e la discussione sulla sharia. Se la prima condizione ha, col tempo, trovato la giunta militare dello stesso sentire dei jihadisti, la seconda rimane contestata. Il principio di laicità, di eredità coloniale, è intrinseco alla Repubblica del Mali e riformarlo equivarrebbe a cambiare in maniera indelebile le istituzioni. Il regime militare si trincera dietro la solita retorica: “i terroristi sono in missione per conto del neocolonialismo”. Eppure molte voci, anche vicine al governo, aprono non solo alla possibilità di dialogare, ma evocano direttamente il nome di Dicko, auto-esiliatosi in Algeria, per mediare. Il nome di Dicko e del suo movimento, divenuto inviso alla giunta militare a causa delle critiche al governo, è da tempo al centro del dibattito pubblico sulla possibilità di negoziare con JNIM a causa del suo reiterato impegno alla promozione del dialogo con “i terroristi”. Pragmaticamente, il governo – come i jihadisti – ha tutto l’interesse a negoziare, se vuole evitare la paralisi di Bamako e garantire l’arrivo e la partenza di camion cisterna per il carburante e di tir per le derrate alimentari. Una volta aperto il canale di comunicazione, forti della posizione di vantaggio, i jihadisti potrebbero ottenere la nomina di un governo meno ostile, forse anche apertamente islamico – qualcosa di impensabile fino a poco fa. Ag Ghali, abile stratega e negoziatore, già anni fa capitalizzò sulla sua partecipazione alle rivolte tuareg per ottenere importanti incarichi, prima in Mali e poi in Arabia Saudita. Oggi, alla guida di una coalizione più forte, tiene in scacco l’esercito e la capitale. Per il regime militare si tratterebbe di un salto nel vuoto che costerebbe credibilità e popolarità, ma le opzioni alternative sono terminate. Gli incoraggianti esempi di dialogo fra istituzioni e jihadisti intrapresi, in contesti diversi, in Mauritania ed Algeria, vedevano gli esecutivi in vantaggio strategico sui jihadisti, al contrario del Mali. Isolato diplomaticamente, il Mali non può contare neanche sulle possibilità di sostegno dagli stati della AES: il Burkina versa in una situazione solo leggermente migliore, con il capitano Traoré trincerato nel Palazzo Kosyam a Ouagadougou, minacciato da golpe interni, e il grosso dell’esercito impegnato nel nord e nell’est del paese proprio a contenere l’espansione di JNIM verso la capitale; il Niger, invece, affronta da qualche mese una fortissima offensiva di ISSP nella regione di Tillaberi, a circa un centinaio di chilometri dalla capitale Niamey. Proprio Niamey, un centinaio di chilometri circa da Tillaberi, è la sede designata per la Forza Unificata dell’AES (FU-AES), unità militare congiunta dei tre paesi, definita operativa in settembre e tuttavia non ancora intervenuta sul campo. Gli scenari evocati, del tutto speculativi, non permettono previsioni ulteriori. Quel che è certo, purtroppo, è che la crisi decennale in Mali non vedrà una conclusione a breve.”
“Quest’anno ho deciso di portare un film: Pierrot le fou (o Il bandito delle undici in italiano). Ho scelto questo film perché è stato tra i primi che ho visto in completa autonomia e che mi ha fatta avvicinare di più al mondo del cinema. Diretto da Jean-Luc Godard, questo film parla della enigmatica storia d’amore tra Ferdinand Griffon e Marianne Renoir: due giovani adulti che partono da Parigi verso la Costa azzurra lasciandosi dietro le responsabilità e la routine. Nel loro viaggio affrontano varie tematiche come la criminalità, l’euforia romantica e l’instabilità emotiva. Il loro sogno di libertà man mano si sgretola e diventa tragedia: Marianne tradisce Ferdinand e lui, solo e incapace di trovare un senso, si suicida dopo essersi dipinto il volto di blu come un moderno “Pierrot” (il “Pierrot” è originariamente bianco ma in questa versione atipica prende il colore blu per raffigurare il lutto e il mare, elementi fondamentali del film). Si tratta di un gesto poetico ma violento, tipico dell’estetica di Godard, che fa riflettere e interpretare queste parti più “astratte” allo spettatore. Marianne, impulsiva ed enigmatica, cerca di vivere il momento indipendentemente dai mezzi mentre lui, malinconico e riflessivo, cerca di trovare un senso di autenticità lontano dalla sua vita borghese. Lui cerca il significato, lei cerca il piacere immediato. Nessuno dei due ha ragione o torto ma la loro relazione è la metafora di un amore impossibile e disturbato. Questo film mi ha aiutata molto a capire che bisogna fare la propria parte per portare avanti una qualsiasi relazione e dare un senso al caos” (I. classe prima).
“Quest’anno ho deciso di portare come gemma la casa al mare. Con il passare degli anni mi sono accorta che l’unico luogo che mi ha davvero visto crescere e cambiare è stata proprio lei: la casa al mare. È il posto dove passo tutte le mie estati da quando ero piccola. Ogni volta che arrivo lì mi sento subito a casa, come se il tempo non fosse mai passato. Le giornate sono sempre state piene di giochi insieme ai miei cugini: correvamo sulla sabbia, costruivamo castelli, inventavamo giochi e ridevamo per qualsiasi cosa. Le sere d’estate sono quelle che ricordo meglio. Ogni sera mangiavo un gelato mentre guardavo il mare. Era un momento tranquillo, in cui potevo pensare a tutto o anche a niente. La casa al mare non è solo una casa: è il luogo che mi ha accompagnata nella crescita e che conserva i miei ricordi più belli. A 17 anni, rimane per me un posto speciale, dove mi sento sempre me stessa” (S. classe quarta).