Uccidere in nome di Dio

In questi giorni in III stiamo parlando dell’Islam e degli Islam, mentre in V a breve inizieremo a trattare l’argomento del terrorismo di matrice ideologica e religiosa. Allora posto questo articolo di Nicola di Mauro tratto dall’ultimo numero di Dimensioni Nuove.

Tanto negli States quanto in Europa. Allarmi improvvisi, che per fortuna rientrano, creano tensione e insicurezza. Con la crisi economica che sembra non finire, il terrorismo aprirà le porte a un futuro inquietante?

I guerriglieri martiri, i terroristi, le cellule integraliste islamiche, i kamikaze della Jihad, la guerra santa in nome di Maometto, hanno una nuova, sconcertante identità: vengono formati anche tra giovani occidentali, di nazionalità, per esempio, belga, olandese, o francese, che i servizi segreti europei azzardano a definire come «più pericolosi e fanatici». Caso paradigmatico di questa inquietante realtà relativa al terrorismo internazionale di matrice integralista islamica, in base alla documentazione rilasciata dalla polizia belga, è quello di Muriel Degauque, una giovane donna di nazionalità belga, di 37 anni, con i capelli biondi e gli occhi chiari.

Si era fatta esplodere in Iraq. Proveniva da Charleroi, una cittadina povera a sud di Bruxelles (dove abitano molti italiani ex minatori). La sua esistenza poteva comunque già definirsi di quelle «a rischio». Aveva un temperamento svogliato e aggressivo. Frequentava cattive amicizie, faceva uso di droga, svolgeva qualche lavoretto saltuario. Il padre impiegato della Previdenza sociale, e la madre segretaria in uno studi medico. La ragazza si era sposata con un turco, ma la relazione non continuò, così fece la conoscenza a Bruxelles di Issam Goris, un belga di genitori marocchini, e di sette anni più giovane di lei. Viene convinta a convertirsi all’islam, prende il nome di Myriam, studia anche l’arabo, porta il velo, il burka e si trasforma in una jihadista, una guerrigliera integralista. Il 9 novembre 2005, a Baghdad, Muriel, la prima kamikaze di origine europea, s’immola facendo una strage in nome di Allah. Da allora sono passati cinque anni, e l’onda rosa delle kamikaze aumenta.

«Ad abbracciare l’islam radicale sono giovani precari, per lo più senza lavoro, non frequentano le scuole, e vivono in aree fortemente urbanizzate». Di questo tenore era un’informazione passata dai servizi segreti transalpini a proposito dei giovani che vogliono sacrificare la propria vita come «combattenti islamici». Oggi sappiamo che non è più così. Possono essere benestanti e acculturati, parlare tre lingue e amare la bella vita. I proseliti e seguaci sono anche di nazionalità europea. Il processo di conversione all’islam avviene intorno ai 30 anni. È il salafismo la forma di culto a cui tendono ad aderire. Si tratta di un movimento religioso che educa all’odio verso l’Occidente, ha come fine precipuo la rottura definitiva con la cultura, i costumi, il modo di vivere occidentali, definiti «corrotti», perciò da annientare. Da un’indagine resa pubblica dalla testata francese di Le Monde, nel 37% dei casi sono giovani nati in suolo francese, con genitori maghrebini, e abitanti nelle periferie; il 27% diventa salafista in seguito a matrimoni o concubinati; il 15% è oggetto o vittima di predicazione, plagio e proselitismo; il 4% si converte all’islam integralista anche dietro le sbarre, in prigione. E se quasi il 50% di questi giovani non ha un diploma, molti sono laureati. Ma quello che spinge è il consenso che questi gesti trovano presso le masse islamiche, specie fra i disoccupati. Questa base sostiene le «cellule dormienti». Per loro, basta un niente e scatenano l’inferno.

In Europa ci sono venti milioni di musulmani: di origine algerina in Francia; marocchina in Spagna; turca in Germania; pakistana in Gran Bretagna. Sono in molti a volersi integrare e salire la scala sociale. Ma da parte dei figli e nipoti islamici europei di seconda e dunque terza generazione, si sta verificando un preoccupante dietro-front. Che si configura nella non volontà a integrarsi, ad assimilarsi culturalmente, trovando nella fede islamica una barriera di opposizione efficace, decisa e perentoria. Questi giovani possono costituire un potenziale di contrasto violento non indifferente, già manifestatosi in maniera eclatante nelle rivolte recenti delle periferie parigine, facilmente adescabile dai predicatori fondamentalisti islamici. Diventano facile humus per il terrorismo di matrice islamica, per la Jihad. Non a caso, la rivista Time li ha identificati con l’espressione generation Jihad.

Morire martire in Iraq o in Afganistan è il sogno del più fervente terrorista islamico. Chi abbraccia l’ideologia di Al Qaeda ed è pronto a eseguire attentati suicidi o sparare a morte contro soldati e gente innocente proviene per la maggior parte dai Paesi confinanti o circostanti: saudiani, siriani, kuweitiani, giordani, maghrebini, algerini, tunisini, marocchini, libici. L’aspirante suicida o guerrigliero di Allah ha un’età compresa tra i 19 e i 25 anni; è studente in scienze, genio civile, medicina, diritto religioso, studi islamici, informatica; è anche sposato; possiede o no figli; e vive anche agiatamente, quasi da benestante; fa il commerciante o svolge una professione amministrativa. Solo una bassa percentuale è reduce dall’Afghanistan, dalla Cecenia o dal Kashemire. Molti poi non hanno nemmeno un’esperienza militare, non provengono tutti da campi d’addetramento, e imparano però presto a imbracciare e usare il kalashnikov.

A volte non esiste nessun legame diretto con Al Qaeda, Bin Laden o Abu Zarqawi. Il terrorista, che può agire con il suo carico di morte in una qualunque città europea, è soltanto animato da odio e da una fanatica e insensata determinazione a uccidere. Possono essere soggetti – secondo le descrizioni fornite da intelligence europei, in particolare britannici -, che svolgono la loro missione assassina, senza coordinazione alcuna, senza che vi sia dietro un «cervello», collegato con una rete del terrorismo internazionale. Cellule isolate e impazzite. Può trattarsi di persone che non sono state indottrinate in moschee, ma che hanno deciso di immolarsi per Allah, di propria iniziativa, decidendo di comune accordo con altri all’interno di un bar, di una casa privata, di una palestra. Costituiscono pertanto una minaccia difficile da controllare e intercettare, essendo «unità autosufficienti, che possono colpire in ogni momento», così almeno trapela dai documenti d’indagine delle polizie occidentali.

I terroristi – in base alle informazioni e le analisi dei servizi segreti europei, americani e israeliani – possono interagire secondo tre modalità d’attacco. La più catastrofica delle ipotesi di strage prevede l’esplosione nel centro di una metropoli di un mini-ordigno nucleare primitivo, venduto al mercato nero e proveniente dagli arsenali ex-sovietici, che si può installare nell’interno di uno zainetto. Con danni irreversibili e incalcolabili, che richiederebbero 4 anni prima che la vita torni normale nell’area devastata. Il secondo scenario comprende l’uso di agenti chimici come il gas nervino, che può arrivare a uccidere il 95% delle persone che si trovano nel raggio d’azione, con danni per 350 milioni di euro. Il ritorno alla normalità è previsto intorno ai 4 mesi. Una terza opzione di aggressione terroristica è quella configurabile con bombe di costruzione artigianale o meglio casalinga, fai-da-te, che possono essere fatte scoppiare dentro stazioni, mezzi di trasporto, luoghi pubblici frequentati o metropolitane. Il numero di morti può essere limitato, ma l’impatto psicologico di questo tipo di attacco è molto forte, l’effetto bomba è poi continuato dalla diffusione mediatica della notizia della strage terroristica. A noi non resta che una domanda: si può uccidere in nome di Dio?

http://www.dimensioni.org/marzo10/articolo4.html

Islam e pregiudizi

In IVDL, in attesa di andare al Centro Balducci di Zugliano, abbiamo ripassato l’argomento “Islam” affrontato l’anno scorso dando un’occhiata a stereotipi e pregiudizi. Pubblico i tre files letti stamattina in classe.

Intervista alla prof Calasso.doc

Non mi piacciono i film di fantascienza.doc

Principali pregiudizi.doc

Alla fiera di Pasqua

Penso che moltissimi abbiano ascoltato o canticchiato una volta nella loro vita la filastrocca “Alla fiera dell’est” di Angelo Branduardi. Ebbene, ecco cosa ho trovato su internet.

 

Da http://www.branduardi.info/innisfree/alla_fiera_dell_est.htm

Il canto originale scaturisce dall’antichissima tradizione della cena per la Pasqua ebraica, in cui si celebra il miracolo della liberazione dalla schiavitù egiziana. Al termine della lettura del libro della Narrazione della Pasqua, interrotta secondo tradizione dalla cena pasquale dopo aver mangiato l’ultimo pezzo di pane azzimo (rappresentante il pane dell’afflizione assaporato nel Deserto), si intonano le 10 strofe di questo bellissimo canto. Nella versione originale, però, non si parla di un topolino, ma di un capretto. Il canto, come tutto il testo della Narrazione, cela una quantità di significati profondi

1.        Un capretto, un capretto che mio padre comprò per due soldi. 

Nella tradizione ebraica il padre di cui si parla nel canto rappresenta il dio di Abramo, che prima della creazione era solo con sé stesso. Il capretto è lo stesso Abramo, comprato per due soldi: acquistare qualcosa implica l’attribuire al denaro lo stesso valore di ciò che vogliamo acquisire. I due soldi (monete d’oro) rappresentano l’intera creazione (cielo e terra), che vale esattamente quanto Abramo, il primo uomo a riconoscere l’opera del Creatore.

2.        E venne il gatto, che mangiò il capretto, che mio padre comprò per due soldi.

Il gatto (una specie di gatto selvatico) rappresenta il secondo regno, quello di Babilonia, sotto il re Nimrod. Il re, che odiava il Creatore e il suo messaggero Abramo, venne e mangiò il capretto. Secondo la tradizione ebraica, infatti, Abramo fu gettato in una fornace ardente, da cui uscì però miracolosamente.

3.        E venne il cane, che morse il gatto, che…

Il cane simboleggia il terzo regno, quello del faraone, che morse il ‘gatto’ di Babilonia. «Un cane», insegna la tradizione ebraica, «ritorna sui propri escrementi, così come un pazzo alla propria follia». Proprio come il faraone che, a dispetto delle piaghe citate nel libro dell’Esodo continuava a rifiutare la libertà al popolo ebraico. L’Egitto superò Babilonia nella potenza senza mai però affrontare uno scontro diretto: ecco perché «morse» ma non «mangiò» l’avversario!

4.        E venne il bastone, che picchiò il cane, che…

Il bastone sarebbe la verga che Dio consegnò a Mosè per colpire gli Egizi, lo strumento prodigioso che si tramutava in serpente, toccava le acque del Nilo per trasformarle in sangue e che spezzò, infine, la dura schiavitù. Simboleggia il quarto regno, quello d’Israele sulla propria terra, dove gli ebrei, sotto il segno dello scettro (di nuovo il bastone) del regno di Giuda costruirono il santuario di Gerusalemme. Fino a quando non venne il fuoco…

5.        E venne il fuoco, che bruciò il bastone, che…

Quando il popolo ebraico si allontanò dalla Torah, un leone di fuoco scese dal cielo, assumendo la forma del regno babilonese di Nabucodonosor e bruciando il bastone (il potere temporale) d’Israele: il tempio fu divorato dalle fiamme, gli ebrei deportati in schiavitù. Ma contro il fuoco c’è un rimedio…

6.        E venne l’acqua, che spense il fuoco, che…

Il sesto regno è quello di Persia e Media, le cui fortune si sollevarono come le onde del mare sommergendo la potenza di Babilonia. «Le loro voci ruggiscono come le onde marine», scrive il profeta Geremia riferendosi alla Media.

7.        E venne il bue, che bevve l’acqua, che…

Il toro è il segno celeste che secondo la tradizione ebraica contraddistingue le fortune della Grecia, una presenza che i saggi del Talmud associano all’oscurità spirituale: i greci cercarono di oscurare la vista degli ebrei riproponendo loro l’immagine del bue e ricordando di aver perduto la connessione con il Creatore a causa dell’episodio legato a un quadrupede della stessa specie, il vitello d’oro. Il toro della Grecia macedone si bevve in un sorso l’acqua della Media.

8.        E venne il macellaio, che uccise il bue, che…

Il destino del bue di Macedonia finì poi nelle mani del macellaio di Roma! Nessun’altra cultura più di quella romana è tinta nella tradizione ebraica con maggior decisione nel rosso del sangue. Affermatosi sotto il segno guerresco del pianeta Marte, Roma è la discendente spirituale di Esaù, il  primo figlio di Isacco, che nacque, secondo la Genesi, coperto su tutto il corpo di una peluria rossastra. Roma rappresenta il dominio di una cultura materialistica, lo stesso al quale secondo la tradizione rabbinica sottostiamo ancora oggi attraverso il potere dei suoi eredi spirituali.

9.        E venne l’angelo della morte, e uccise il macellaio, che…

Secondo la cultura ebraica, l’arrivo del Messia sarà preceduto da un periodo di grande confusione, durante il quale l’ordine naturale è destinato a essere sovvertito. La barbarie sarà spacciata per cultura e la cultura apparirà vuota di significati. La brama di consumare e di possedere crescerà a dismisura, ma troverà sempre meno occasioni di placare la propria voracità. Il materialismo rappresentato da Roma sarà percorso da una rapacità che lo condurrà all’autodistruzione, fino a diventare l’angelo della morte nei confronti di sé stesso. Ma da questa caduta risorgerà la dinastia messianica del re Davide. Secondo i profeti vi saranno tre guerre e quindi l’avvento del penultimo regno, quello del Messia.

10.       E venne l’Unico, benedetto egli sia, e uccise l’angelo della morte, che uccise…

Alla decima strofa il cerchio si chiude con il necessario ritorno al punto di partenza. L’Eterno rimuoverà definitivamente tutto il veleno spirituale cosparso sulla Terra. Anche l’istinto di fare del male (l’angelo della morte) sarà sradicato. «Allora Dio»,  promette il Talmud,  «asciugherà le lacrime da ogni viso e riprenderà possesso del suo regno». Solo quando il circolo sarà completo la gioia potrà regnare in un riconciliato rapporto tra l’uomo e il suo Creatore. 

Ancora su croci e minareti

Pubblico questo bellissimo pezzo di Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, davvero illuminante. Mi sono permesso di mettere in grassetto un pezzettino.

Enzo Bianchi

Non si sono ancora spenti gli echi della polemica sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche in Italia ed ecco irrompere il risultato del referendum popolare in Svizzera che vieta l’edificazione di minareti……

Le due tematiche sono solo apparentemente affini, in quanto in un caso si tratta della presenza di un simbolo religioso in aule pubbliche non destinate al culto, nell’altro invece di un elemento caratterizzante un edificio in cui esercitare pubblicamente e comunitariamente il diritto alla libertà di culto. Resta il fatto che si fa sempre più urgente una seria riflessione sugli aspetti concreti e quotidiani della presenza in un determinato paese di credenti appartenenti a religioni diverse e delle garanzie che uno stato democratico deve offrire per salvaguardare la libertà di culto. E questa riflessione dovrebbe nascere e fondarsi sulla nostra idea di civiltà e di convivenza, sul nostro tessuto storico, culturale e religioso, sul lungo e faticoso cammino compiuto verso la tolleranza e il rispetto reciproco: non dimentichiamo, per esempio, che la Svizzera – giunta al suffragio universale appena due anni prima – tolse solo nel 1973, a seguito di un referendum, il divieto per i gesuiti di risiedere nel territorio elvetico; né che, sempre in Svizzera, gli immigrati presi di mira dalla prima iniziativa popolare xenofoba del 1974 erano gli italiani e gli spagnoli, in maggioranza cattolici.

Né ha senso accampare la pretesa della reciprocità nel rispetto delle minoranze sancito dalle diverse legislazioni: quando una società riconosce e concede determinati diritti è perché lo ritiene eticamente giusto, non per avere una contropartita. Senza contare che la faccia deteriore della reciprocità si chiama ritorsione: l’atteggiamento che le società occidentali hanno verso i musulmani può comportare pesanti conseguenze per i cristiani che vivono in alcuni paesi islamici; come sorprenderci se la loro vita quotidiana si ritroverà ancor più circondata da diffidenza e ostilità o se qualche musulmano moderato si ritrova spinto tra le braccia dei fondamentalisti?

La paura esiste, è cattiva consigliera e porta a percezioni distorte dalle realtà – come dimostra anche il recente sondaggio sui timori degli italiani nei confronti degli immigrati – ma proprio per questo non deve essere lasciata alla sua vertigine, ma va oggettivata, misurata e ricondotta alla razionalità, se si vuole una umanizzazione della società. Altrimenti, dove arriverà, in nome di paure più fomentate che reali, la nostra regressione verso l’intolleranza e il razzismo spicciolo di chi non perde occasione per manifestare con sogghigni, battute, insulti, reazioni scomposte la propria ostilità nei confronti del diverso? Del resto è proprio l’essere “concittadini”, il conoscersi, il vivere fianco a fianco, condividendo preoccupazioni per il lavoro, la salute, la salvaguardia dell’ambiente, la qualità della vita, il futuro dei propri figli, porta a una diversa comprensione dell’altro, che aiuta a vedere le persone e le situazioni con un occhio diverso, più acuto e lungimirante. Dirà pure qualcosa, per esempio, il fatto che tra i pochissimi cantoni svizzeri che hanno respinto la norma contro i minareti ci siano quelli di Ginevra e di Basilea, caratterizzati dalla più alta presenza di musulmani.

In Italia l’esito del referendum svizzero contro i minareti ha rinfocolato le polemiche, e non è mancato chi ha invocato misure analoghe anche nel nostro paese, impugnando di nuovo la croce come bandiera, se non come clava minacciosa per difendere un’identità culturale e marcare il territorio riducendo questo simbolo cristiano e una sorta di idolo tribale e localistico. Così, lo strumento del patibolo del giusto morto vittima degli ingiusti, di colui che ha speso la vita per gli altri in un servizio fino alla fine, senza difendersi e senza opporre vendetta, viene sfigurato e stravolto agli occhi dei credenti. La croce, questa “realtà” che dovrebbe essere “parola e azione” per il cristiano, è ormai ridotta a orecchino, a gioiello al collo delle donne, a portachiavi scaramantico, a tatuaggio su varie parti del corpo, a banale oggetto di arredo… Tutto questo senza che alcuno si scandalizzi o ne sottolinei lo svilimento se non il disprezzo, salvo poi trovare i cantori della croce come simbolo dell’italianità, all’ombra della quale si è pronti a lanciare guerre di religione. Ma quando i cristiani perdono la memoria della “parola della croce” e assumono l’abito del “crociato”, rischiano di ricadere in forme rinnovate di antichi trionfalismi, di ridurre il vangelo a tatticismo politico: potenziali dominatori della storia umana e non servitori della fraternità e della convivenza nella giustizia e nella pace.

Va riconosciuto che la chiesa – dai vescovi svizzeri alla Conferenza episcopale italiana, all’Osservatore Romano – ha colto e denunciato quest’uso strumentale della religione da parte di chi nutre interessi ideologici e politici e non si cura del bene dell’insieme della collettività, ma resta vero che in questi ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva erosione dei valori del dialogo, dell’accoglienza, dell’ascolto dell’altro: a forza di voler ribadire la propria identità senza gli altri, si finisce per usarla e ostentarla contro gli altri. Se la croce è brandita come una spada, è Gesù a essere bestemmiato a causa di chi si fregia magari del suo nome ma contraddice il vangelo e il suo annuncio di amore. La vera forza del cristianesimo è invece il vissuto di uomini e donne che con la loro carità hanno umanizzato la società, mossi dall’invito di Gesù: “Chi vuol essere mio discepolo, abbracci la croce e mi segua” e dal suo annuncio: “Vi riconosceranno come miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri”. Quando i cristiani si mostrano capaci di solidarietà con i loro fratelli e sorelle in umanità, quando rinunciano a guerre sante e restano nel contempo saldi nel rendere testimonianza a Gesù, a parole e con i fatti, allora potranno essere riconosciuti discepoli del loro Signore mite e umile di cuore.

Sì, le dispute su crocifissi e minareti non dovrebbero farci dimenticare che la visibilità più eloquente non è quella di un elemento architettonico o di un oggetto simbolico, ma il comportamento quotidiano dettato dall’adesione concreta e fattiva ai principi fondamentali del proprio credo, sia esso religioso o laico.

La Stampa del 7 dicembre 2009

Profanata la memoria di Rehman Baba

Sempre a proposito dell’Islam è importante sottolineare che la maggiorparte dei musulmani non la pensa “alla talebana” e che per questo è preseguitata, come sottolineato in questo articolo.

Colpito un mausoleo sufi per “talebanizzare” il Pakistan

di Qaiser Felix

Peshawar (AsiaNews) – L’attacco terrorista al mausoleo del poeta sufi Rehman Baba dimostra il “modello di nazione” nel quale i “fanatici talebani” vogliono trasformare il Pakistan. Ancor più grave è che il tempio sia stato attaccato “perché era aperto anche alle donne”. In questo modo si va verso “il deterioramento del livello di sicurezza nel Paese”. È il grido d’allarme lanciato dalla Commissione pakistana per i diritti umani (Hrcp), secondo la quale il paese corre il rischio di una progressiva “talebanizzazione”.

Ieri a Peshawar – capitale della North-West Frontier Province, al confine con l’Afghanistan – i talebani hanno colpito il mausoleo del poeta sufi del 17° secolo, di lingua Pashtun, la cui figura è molto amata in tutta la provincia e nel vicino Afghanistan. Rehman Baba è considerato un simbolo di pace e tolleranza e i suoi scritti sono studiati ancora oggi per il loro messaggio di “amore a Dio” e di rispetto verso il prossimo. L’esplosione è avvenuta ieri alle 5.10 del mattino; l’edificio in marmo bianco ha subito danni pesanti, ma non vi sono morti o feriti.

Hrcp ricorda che Rehman Baba è un’icona “non solo del popolo Pasthun, ma di tutto il Pakistan” ed è “ironico” che il mausoleo di un poeta “riverito per la sua opposizione all’oppressione e la rivendicazione dei principi di pace e tolleranza sia stato oggetto dell’attacco dei talebani”.

Fonti del governo locale riferiscono che nei giorni scorsi i talebani hanno lanciato un avvertimento, esigendo il divieto per le donne di entrare nel mausoleo. Secondo la polizia il principale imputato per l’attacco è Mangal Bagh, capo del movimento estremista Lashkar-i-Islam. In passato gruppi di persone con capelli e barba lunga si erano più volti avvicinati al luogo dell’attentato.

Oggi la popolazione locale ha indetto una manifestazione di protesta contro l’attacco. Una dura condanna arriva anche dal premier pakistano Yusuf Raza Gilani, che chiede agli inquirenti “indagini approfondite” perché “siano consegnati alla giustizia” i responsabili.

Passi indietro per le donne pakistane

In III stiamo parlando dell’Islam. Purtroppo è di questi giorni la notizia di un abbruttimento della situazione delle donne pakistane. Da AsiaNews ho preso questo articolo preoccupante.

Per le donne iniziano i divieti con la Sharia nella Swat Valley

di Qaiser Felix

Peshawar (AsiaNews) – Da ieri le corti islamiche hanno preso in mano l’amministrazione della giustizia nella Swat Valley. Con l’entrata in vigore della sharia nel distretto di Malakand le donne non possono più muoversi da sole, parlare in pubblico ed il velo diventa obbligatorio. Le scuole femminili, per lo più legate ai missionari, ma frequentate per il 95% da ragazze musulmane, rischiano la chiusura definitiva dopo gli attentati esplosivi negli ultimi mesi che, pur non causando vittime, hanno reso impossibile a circa mille studentesse di frequentare le lezioni.

Per le comunità cattoliche e protestanti presenti nella regione, circa mille persone, si profila un futuro difficile. PAKISTAN_(F)_0317_-_Swat_valley_sharia.jpgImpiegati come manovali e spazzini, o presso gli ospedali e le scuole dei missionari, temono il clima di discriminazione e molti hanno già lasciato le loro case per spostarsi in altre città e zone in cui non vige la sharia. Dall’inizio dell’anno i talebani hanno compiuto centinaia di attentati contro scuole, negozi di musica e cd, barbieri e attività pubbliche e commerciali ritenute anti-islamiche.

Con l’introduzione della cosidetta Nizam-e-Adl Regulations 2009, sono decaduti i tribunali e di giudici civili ed il loro posto è stato preso dal sistema dei Qazis, i giudici islamici che rispondono alla legge coranica. Sono sette, per ora, i tribunali approvati nello Swat dopo l’accordo tra le milizie talebane del Tehreek-i-Nafaz-i-Shariat-i-Muhammadi (Tnsm) ed il governo del presidente Asif Ali Zardari. Sono stabiliti nei due distretti di Dir e in quelli di Buner, Malakand Agency, Shangla, Kohistan e Chitral. Iftikhar Hussain, ministro per le comunicazioni della  North West Frontier Province (Nwfp), ha affermato che i nuovi tribunali saranno da modello per gli altri distretti della provincia in cui non sarà necessaria l’approvazione presidenziale per l’instaurazione di corti islamiche.

Dando l’annuncio dell’entrata in vigore definitiva della sharia, Sufi Muhammad, capo delle milizie Tnsm,  ha spiegato che i tribunali islamici risponderanno ad una nuova corte suprema, la Darul Qaza, per cui sono già stati selezionati due dei tre giudici che la compongono. Sufi ha anche affermato che i qazis che non applicheranno nel modo corretto la sharia saranno subito sostituiti.

L’Alta corte di Peshawar ha espresso preoccupazione per le minacce del capo del Tnsm e chiesto alle autorità della Nwfp di garantire la sicurezza dei giudici.

Terrorismo fondamentalista

In V abbiamo parlato del terrorismo e di quando esso si lega ai fondamentalismi religiosi. Abbiamo poi letto la parte iniziale di questo documento che qui vi allego per intero e che così potete downloadare. Il testo è del prof. Giovanni De Sio Cesare.

IL TERRORISMO ISLAMICO.doc

Essere donna in Afghanistan

Da www.corriere.it

La prigione delle ragazze afghane: schiave, spose forzate, suicide

Il governo di Kabul ammette: «Le figlie restano proprietà delle tribù»

HERAT—Sorride dolce Leilah, l’assassina. Arrossisce Fatemeh, l’adultera. Si nasconde Guldestan che in un paio di settimane ha perso tutto: papà, mamma, tre sorelle, l’intera rete familiare, probabilmente il futuro. Ha visto il padre uccidere la madre perché sospettava che sotto il burqa covasse il tradimento; ha visto lo zio uccidere il padre per vendicare l’onore della sorella; lei stessa è diventata assassina sparando a quello stesso zio che aveva adottato lei e le sorelle. L’uomo dormiva dopo averla stuprata. Guldestan è in prigione, le sorelline, dai 3 agli 11 anni, in orfanotrofio.

La maggior parte delle detenute del carcere minorile di Herat non sono arrivate a tanto. Sono colpevoli di aver disobbedito alla legge tribale e alla tradizione. Ragazze in fuga da matrimoni forzati con uomini che non avevano mai visto, più o meno vecchi, danarosi o poligami, comunque decisi a portarsi a casa manodopera gratuita e compagnia notturna. Sono ragazze pagate al padre-padrone 5-6 mila dollari oppure tre tappeti, otto capre e due paia di scarpe, come nel caso di Sarah. Ragazze che a 13-14 anni si sono trovate una mattina il mullah in casa che chiedeva loro se volevano fidanzarsi, il padre che le minacciava e l’aspirante sposo che le blandiva con un vestito nuovo in mano. «La famiglia prepara tutto in segreto—racconta Chiara Ciminello, cooperante per l’Ong italiana Intersos — e senza capire quel che succede le bambine si ritrovano fidanzate. A quel punto dire “no” diventa reato».

Se l’adulterio viene consumato, in teoria, la condanna è ancora la lapidazione prevista dalla Sharia, ma il governo di Kabul ha imposto una moratoria. Gli ospedali funzionano abbastanza da verificare la verginità e, se non c’è stato tradimento, la condanna per la ribellione di una minorenne varia da 3 mesi a un anno di carcere. Il peggio viene dopo. Le famiglie non vogliono riaccogliere chi, con la disobbedienza, ha portato il disonore. La Ong inglese World Child lavora a Herat per aiutare proprio il reinserimento delle reprobe. Ma il problema è enorme. Lo stigma della rivolta mette queste ragazze ai margini della società. Chi non ha una rete familiare attorno non può lavorare, affittare casa, vivere sola. L’esito della ribellione per amore o libertà diventa così la prostituzione.

Meglio morire. Lo pensano in tante. Così a Kabul le fidanzate a sorpresa o le giovani spose si danno fuoco al ritmo di due-tre a settimana. In tutto l’Afghanistan si calcola che le suicide siano minimo una al giorno. Herat, forse la provincia più sviluppata del Paese, non fa eccezione. Nel 2006, una (rara) Commissione governativa ha contato una media di 7 torce umane al mese. «Il nodo è che le figlie sono considerate una proprietà. Prima dalla famiglia del padre poi da quella del marito — spiega ancora Ciminello —. A Herat la situazione è particolare a causa della vicinanza all’Iran. Mentre tra i sunniti, soprattutto se pashtun, le cifre sono importanti, tra gli sciiti di influenza iraniana l’uso di pagare la moglie è quasi simbolico. A volte lo sposo firma una sorta di caparra, la shirbaha, per cui in caso di divorzio si impegna a risarcire la donna con una buona uscita che le permetta di tirare avanti. Ma quel che manca in entrambi i gruppi è il rispetto della volontà delle ragazze».

Andrea Nicastro

07 febbraio 2009

Hajj

Da Asianews 

Rischio attentati e problema alloggi per i fedeli diretti alla Mecca
Al tradizionale pellegrinaggio islamico parteciperanno oltre 2 milioni e mezzo di musulmani: 1 milione e 750 mila stranieri e 750 mila sauditi o immigrati nel regno. Livello di allerta massimo per il pericolo di attentati, ma le vere minacce sono traffico, occupazione abusiva di suolo pubblico e la ricerca di una stanza.

Mecca (AsiaNews/Agenzie) – Saranno oltre 2,5 milioni i musulmani di tutto il mondo che dal 6 dicembre si riuniranno alla Mecca per celebrare l’Hajj, il tradizionale pellegrinaggio islamico che costituisce il quinto dei pilastri dell’islam. Gli stranieri previsti si aggirano attorno al milione e 750mila, ai quali si uniranno altri 750mila cittadini sauditi o lavoratori immigrati nel regno. hajj-735922.jpg

Due i problemi che il governo saudita dovrà affrontare per garantire il regolare svolgimento del pellegrinaggio: il pericolo di attentati, anche se non vi sono al momento specifiche minacce, e il problema della logistica, che spazia dall’accoglienza dei pellegrini al traffico caotico della città, dall’occupazione abusiva di suolo pubblico al pagamento della tassa prevista per il pellegrino.

Il pellegrinaggio è stato sovente segnato dal sangue, per la folla immensa che preme per tutte le strade della città, oltre che nei luoghi più propriamente religiosi. Nel 2006 oltre 364 persone sono morte nel corso del rito della “lapidazione del diavolo” – che prevede il lancio di sassi contro immagini del demonio – e 76 per il crollo di un ostello. Morti sono stati causati anche da manifestazioni o attentati: il più grave è probabilmente quello del 1979, quando centinaia di persone – il numero esatto non si è mai saputo – perirono in seguito all’attacco di un gruppo di fondamentalisti che riuscirono ad impadronirsi della Grande moschea.

Sul fronte sicurezza il principe Naif, ministro saudita dell’interno, fa sapere che le forze dell’ordine sono pronte ad affrontare qualsiasi tipo di minaccia e sapranno garantire la sicurezza dei fedeli durante il pellegrinaggio. “Non abbiamo informazioni specifiche [di minacce] – afferma il ministro – ma abbiamo preso tutte le precauzioni del caso”. Egli si augura anche che venga “rispettata la santità dell’evento” e nessuno metta in pericolo la vita dei fedeli musulmani.

I maggiori problemi arrivano invece dal versante della logistica: a causa dell’impennata dei prezzi degli alloggi durante la stagione del pellegrinaggio, molti fedeli improvvisano soluzioni di fortuna. Circa 500 pellegrini siriani, imitati da un altro sparuto gruppetto, ha preso in affitto le aule di una scuola privata della città, senza il permesso ufficiale delle autorità.

I responsabili dell’ordine pubblico hanno fatto inoltre sapere che non sarà possibile piantare tende attorno ai luoghi sacri e per le vie della città, perché causano problemi al traffico e alla sicurezza dei cittadini. Saeed Al-Qahtani, direttore dei reparti speciali addetti all’ordine pubblico, sottolinea come “le tende usate dai pellegrini che bivaccano per le strade ostruiscono il traffico e causano grossi problemi agli altri fedeli”. Le tende impediscono il passaggio delle ambulanze e dei reparti del pronto intervento e ostacolano l’assistenza ai fedeli colti da malore durante il pellegrinaggio. L’occupazione abusiva di suolo pubblico, fra l’altro, è contraria alla Sunna e ai precetti di Maometto. Il direttore dei reparti di sicurezza lancia infine l’allarme incidenti: l’aumento delle auto in circolazione, aggravato dalla stanchezza, dalla spericolatezza e dall’incapacità dei conducenti è spesso causa di scontri con morti e feriti.

Infine una buona notizia per i pellegrini stranieri: da quest’anno è infatti possibile procedere al pagamento della tassa prevista per l’ingresso in Arabia Saudita e la partecipazione al pellegrinaggio direttamente via internet, evitando così le lunghe ore di attesa – spesso senza acqua né cibo – presso gli uffici del governo dislocati all’interno dell’aeroporto.

Magdi Allam, il nuovo crociato

Allego una lettera aperta di Magdi Cristiano Allam al papa. E’ lunghetta, ma la fatica vale la pena di essere fatta.

Lettera aperta al Papa Benedetto XVI.doc

Rispondo non con parole mie ma con le parole di 60 anni fa del Concilio, sperando che Benedetto XVI chiarisca una volta per tutte:

“La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà”.

Il documento è la Nostra Aetate. Basta crociate, grazie!

PDM in Somalia

Dal Corriere della Sera

Somalia: lapidata adultera, un parente la aiuta e nel conflitto a fuoco muore bimbo

Sentenza eseguita dalle Corti islamiche. Ma per i familiari non ha ricevuto un processo coranico equo

CHISIMAIO (SOMALIA) – Miliziani somali fedeli alle deposte Corti islamiche hanno giustiziato in pubblico una giovane donna accusata di adulterio, ricorrendo all’arcaico e macabro metodo della lapidazione: lo hanno denunciato testimoni oculari, secondo cui l’esecuzione è avvenuta nella tarda serata di lunedì a Chisimaio, città portuale situata circa 520 chilometri a sud-ovest di Mogadiscio, davanti a centinaia di spettatori, molti dei quali costretti ad assistervi, parenti della vittima compresi.

La ragazza si chiamava Asha Ibrahim Dhuhulow e aveva 23 anni; tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, è stata condotta sul luogo del supplizio a bordo di un furgone per poi essere massacrata. Ai presenti è stato detto che lei stessa aveva riconosciuto la propria colpa, e accettato il suo crudele destino: ma, al momento di essere trucidata, si è messa a urlare e a divincolarsi, mentre i carnefici la immobilizzavano legandole mani e piedi. A quel punto un congiunto le è corso incontro, tentando di aiutarla, ma gli integralisti di guardia hanno aperto il fuoco per fermarlo, e hanno ucciso un bambino. Secondo i familiari, Asha non ha ricevuto un processo coranico equo: «L’Islam», ha ricordato uno di loro, «non permette che una donna sia messa a morte per adulterio se non sono presentati pubblicamente l’uomo con cui ha avuto rapporti sessuali e quattro testimoni del fatto». I giudici fondamentalisti si sono però limitati a replicare che puniranno in maniera adeguata la guardia responsabile della morte del bimbo. È il primo episodio del genere di cui si abbia notizia in Somalia da due anni: da prima cioè che, alla fine del 2006, le truppe del governo transitorio di Mogadiscio sconfiggessero le Corti islamiche con il determinante appoggio militare dell’Etiopia. I ribelli hanno però intrapreso una guerriglia difficile da contrastare, e lo scorso agosto si sono reimpadroniti di Chisimaio, reimponendovi leggi ispirate alla più vieta concezione dell’Islam; in città, per esempio, è proibita qualsiasi forma di svago perchè considerata blasfema.

La libertà religiosa

Prendo da Spiritual seeds:

In oltre sessanta Paesi del mondo, la libertà religiosa è gravemente conculcata. Già questo semplice (e drammatico) dato sarebbe sufficiente per leggere con attenzione dati del Rapporto 2008 sulla Libertà Religiosa nel Mondo, realizzato dall’associazione Acs – Aiuto alla Chiesa che Soffre. Secondo alcune anticipazioni, in Africa è delicata la situazione dell’Eritrea, dove nell’agosto 2007 le autorità hanno ordinato alla Chiesa cattolica di cedere al ministero per il benessere sociale e il lavoro tutte le strutture sociali, quali scuole, cliniche, orfanotrofi e centri d’istruzione per le donne. Varie fonti indicano che in Eritrea ci sono non meno di 2 mila detenuti per ragioni religiose arrestati a partire dal maggio 2002 per la loro fede, incarcerati per mesi e anni senza accuse formali e senza processo, spesso in carceri militari, con condizioni di vita molto dure e senza assistenza medica. Ma è l’Arabia Saudita il Paese islamico in cui la libertà religiosa viene negata con maggiore evidenza, anche da un punto di vista formale. I Paesi islamici non sono comunque gli unici in cui viene negata la libertà religiosa: il rapporto cita il caso dell’India, dove ancora continuano gli attacchi e le stragi di cristiani. Un rapporto, dunque, da leggere con attenzione.

 

Yom Kippur

Stasera, al tramonto del sole, gli ebrei entrano nello Yom Kippur, il periodo 1208554139.jpgpiù sacro del calendario ebraico. E’ un giorno di digiuno totale, in cui ci si astiene dal mangiare, dal bere e da qualsiasi lavoro o divertimento e ci si dedica solo al raccoglimento e alla preghiera. Prima di Kippur si devono essere saldati i debiti morali e materiali che si hanno verso gli altri. Si deve chiedere personalmente perdono a coloro che si è offesi: a Dio per le trasgressioni compiute verso di Lui, mentre quelle compiute verso gli altri uomini vanno personalmente risarcite e sanate.

In occasione della ricorrenza il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha scritto un articolo per l’Osservatore Romano (e già questo è un segno dei tempi) in cui ripercorre le interpretazioni della festività nella tradizione rabbinica e fa delle interessanti considerazioni sulla differente concezione del perdono nell’ebraismo e nel cristianesimo.

Intanto, negli Stati Uniti, proprio in occasione di Yom Kippur è scoppiata una polemica per l’eccessivo uso degli strumenti informatici nell’ebraismo. Il culto ebraico, sostengono infatti i rabbini, ha valenza prevalentemente comunitaria, per cui non vale piazzarsi davanti (per esempio) alla Jewish Tv Network per essere a posto con la coscienza. Anche, sia detto per inciso, quest’ultima resta un gran bello strumento per chi (ebreo o no che sia) non ha la sinagoga sotto casa ma vuol dare un’occhiata al suo interno.

Talebani e Afghanistan

Tratto da www.combonifem.it

 

Fermato il coraggio di Malalai, protettrice delle donne
Ieri mattina a Kandahar è stata uccisa Malalai Kakar, la poliziotta afghana che aveva tolto il burqa per dirigere il Dipartimento Crimini contro le donne. L’assassinio è stato rivendicato dai talebani

29.09.2008: L’hanno aspettata fuori casa per ucciderla, perché aveva osato disobbedire al divieto di lavorare, andando oltre, assumendo un incarico di potere che le consentiva di disporre di un’arma, prerogativa per il fondamentalismo afghano prettamente maschile. L’hanno assassinata perché aveva avuto la “sfacciataggine” di mettersi a capo di un Dipartimento chiamato Crimini contro le donne, in una città storicamente talebana come Kandahar.
E ieri mattina dopo averle sparato, gli stessi talebani, che lapidavano le donne per molto meno di quel che aveva ardito fare lei, hanno emanato un glaciale comunicato dal linguaggio militare: “Abbiamo ucciso Malalai Kakar. Era un nostro bersaglio e con successo l’abbiamo eliminato”.
E’ finita così la vita della poliziotta afghana divenuta simbolo di libertà e di lotta delle donne. Malalai, 40 anni, madre di 6 figli, aveva scelto una strada difficile, con coscienza e coraggio, sapendo ogni giorno il rischio che affrontava. Dal 2005 aveva tolto il burqa e dall’età di 15 anni aveva scelto di studiare per entrare in polizia e seguire la strada del padre e dei fratelli. Ma ha fatto la stessa fine della donna che, due anni fa, aveva sostituito. Perché quel Dipartimento Crimini contro le donne continua a dar fastidio a chi non riconosce la legge scritta e vorrebbe l’intero mondo femminile avvolto in un burqa che cancelli i diritti umani.

Ancora sul Tibet

Ho ricevuto questa mail dal centroi buddhistico di Polava

 

 

Vi invito a guardare la foto!0245037013cef6287324ec740ef34ca2.jpg

(via satellite, from:Britain’s GCHQ, the government
communications agency)scattata prima degli scontri
e la rivolta di Lhasa in Tibet.

Questi monaci hanno causato violenze a in tibet?

Pechino orchestrava la rivolta nel Tibet.
Canada Free Press [Venerdi, 21 Marzo, 2008 10:20]

Tibet

marcia di solidarietà

per il popolo tibetano

UDINE 

giovedì 3 aprile 2008

ore 19.30/20.00

ritrovo e partenza

da piazza matteotti

“la non violenza non è solo assenza della violenza. Essere

non-violenti significa astenersi dal far male quando se ne avrebbe

l’occasione. La non-violenza è come il riflesso dell’espressione

dell’amore umano e della compassione umana”

S.S. il XIV° Dalai Lama

Dalai Lama in Italia

Governo tibetano: l’economia è importante, ma i diritti umani vengono prima
Commentando l’accoglienza riservata al Dalai Lama dal governo italiano, il portavoce del Dipartimento rapporti internazionali del governo tibetano in esilio spiega ad AsiaNews che non si vuole mettere in imbarazzo nessuno, ma questo non giustifica che la causa dei diritti umani sia sottoposta ai vantaggi commerciali. Importante il sostegno popolare al leader buddista: dimostra che la causa tibetana non è morta. 

4e68cea41c571b59e55bd21e84e661ab.jpgRoma (AsiaNews) – I governi europei “hanno tutto il diritto di pensare alla loro stabilità e crescita economica, ma non dovrebbero dimenticare che questi fattori si fondano sui diritti umani e sulla libertà di espressione:  il Dalai Lama è uno dei campioni di questi valori, e non incontrarlo significa metterli in secondo piano”. E’ quanto dice ad AsiaNews Thubten Samphel, portavoce del Dipartimento rapporti internazionali del governo tibetano in esilio, commentando l’accoglienza ricevuta dal leader buddista in Italia.
Secondo il rappresentante tibetano, “il Dalai Lama non vuole mettere in situazioni imbarazzanti nessun governo o politico, se questi non possono riceverlo: eppure, sarebbe un buon modo per conoscere la reale situazione del popolo e della regione tibetana”. E’ inoltre “comprensibile il nuovo atteggiamento di tanti governi, che cercano di limitare o comunque dare meno peso alla presenza del Dalai Lama nel loro territorio. La Cina ha aumentato il suo peso internazionale, economico e diplomatico, ed è noto l’atteggiamento paranoico di Pechino nei confronti dei tibetani”.
I governi europei “devono però ricordare che il commercio e l’economia sono molto importanti, ma non sono la base di una civiltà: il primo posto l’avranno sempre il rispetto dei diritti umani, della libertà personale e di quella di espressione. Avere un’economia stabile è possibile soltanto se gli uomini che la mantengono sono liberi”. Per questo, “bisogna guardare al governo tedesco, che gioca un ruolo importante nell’economia mondiale ma è allo stesso tempo fermo sulla questione dei diritti umani e non ha mai fatto passi indietro, nei confronti del Dalai Lama ma anche di tante altre situazioni in cui l’essere umano è perseguitato o in catene”.
Tuttavia, “noi siamo molto felici e diamo molta importanza al fatto che il nostro leader venga sempre accolto con sentimenti di simpatia e di rispetto dalle popolazioni di tutto il mondo, che dimostrano il loro affetto nei confronti suoi e della causa che rappresenta”. Proprio queste manifestazioni “ci consentono di andare avanti, nonostante l’esilio e la dominazione cinese della nostra regione. Sono la dimostrazione che vi è una preoccupazione internazionale per la questione tibetana, e che la nostra battaglia non è perduta. Sono molto importanti”.
Per quanto riguarda le ultime polemiche, legate alla partecipazione di Miss Tibet ad un concorso di bellezza internazionale, Samphel ha un atteggiamento chiaro: “Noi, di base, non apprezziamo queste manifestazioni e riteniamo poco opportuno che questa elezione avvenga a Dharamsala, la casa del Dalai Lama. Ritengo inoltre che la cosiddetta Miss Tibet, chiunque essa sia, viene invitata in giro per il mondo perché si sa che questo scatenerà Pechino, portando pubblicità all’evento. E’ comunque pesante dover sostenere che la Cina non consente mai, in nessuna occasione, l’affermazione di un’identità tibetana”.

Dalai Lama

PECHINO: “SERIE RIPERCUSSIONI” SE IL DALAI LAMA INCONTRA IL PAPA
Il leader buddista dovrebbe essere a Roma il prossimo 13 dicembre. Pur non avendo relazioni diplomatiche con la Santa Sede , il ministero cinese degli Esteri minaccia danni ai rapporti bilaterali in caso di incontro fra Benedetto XVI ed il Dalai Lama.

Pechino (AsiaNews/Agenzie) – Il governo cinese ha minacciato ieri il Vaticano di “serie ripercussioni” alle relazioni bilaterali se il Papa dovesse incontrare il Dalai Lama, che dovrebbe essere a Roma il prossimo 13 dicembre. Al momento, Pechino e la Santa Sede non hanno rapporti diplomatici.
 

Liu Jianchao, portavoce del ministero cinese degli Esteri, ha detto: “Speriamo che il Vaticano non faccia nulla che possa colpire i sentimenti della popolazione cinese, e mostri sincerità nel migliorare i rapporti con la Cina intraprendendo azioni concrete”.

Pechino ha sempre sostenuto che il Dalai Lama non è un leader religioso, ma un pericoloso separatista che cerca l’indipendenza del Tibet, invaso dalle truppe cinesi nel 1950. In quest’ottica, il governo cinese ha condannato con forza i recenti incontri fra il leader tibetano ed i vertici politici di Stati Uniti, Canada e Germania avvenuti nell’ultimo anno.

Il governo americano, inoltre, ha conferito al Dalai Lama la medaglia d’oro del Congresso, la più alta onorificenza civile del mondo statunitense. In risposta, Liu ha sostenuto che “quei Paesi che decidono di trattare bene il capo dei separatisti tibetani, danneggiano la propria immagine”.

Myanmar

Pubblico dal sito di Limes questo articolo comparso su La Repubblica del 5 ottobre. Non è di facilissima lettura perchè dà alcune cose per scontate, ma cercando di andare oltre i molti nomi citati si afferra qualcosa di quanto sta succedendo:

Vecchi e nuovi alleati per la prigione Myanmar

di Raimondo Bultrini

Il sorprendente flusso di informazioni e immagini via Internet dall’interno della Birmania ha scavalcato per 10 giorni le spesse mura di questo Paese Prigione producendo un’ondata emotiva di un’intensità senza precedenti. Ma presto al moto di spontanea partecipazione per la struggente lotta dei monaci scalzi e dei cittadini in longgi sotto il diluvio monsonico è subentrato un inevitabile senso di impotenza e sconfitta sia fuori che – soprattutto – dentro i confini geografici dell’Unione di Myanmar.

Ora che le manifestazioni sono state disperse a Rangoon e altrove dai lacrimogeni e dai proiettili dei soldati guidati dal generalissimo Than Shwe – autoisolato dentro un bunker della nuova capitale ribattezza Naypyidaw, Città dei Re – altre notizie dal mondo hanno inevitabilmente retrocesso le cronache birmane nelle pagine interne dei quotidiani e tra le notizie brevi dei telegiornali.

Metaforicamente è come se le sbarre si fossero di nuovo richiuse alle spalle di 50 milioni di esseri umani, condannati senza appello dai tempi del golpe di Ne Win del 1962 da un manipolo di ufficiali corrotti e superstiziosi, alternatisi nel tempo alla guida di governi dittatoriali definiti Consiglio Rivoluzionario, Consiglio di Stato per la Restaurazione della Legge e dell’Ordine (SLORC) e – infine – Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (SPDC).

Molti si domandano a cosa debba la sua imbattuta longevità il più impenetrabile regime militare dell’Asia, sopravvissuto alla caduta in disgrazia a turno dei suoi uomini di vertice, come lo stesso Ne Win, Sein Lwin, Saw Mong (che “vide” Gesù Cristo in Tibet prima di proclamarsi reincarnazione di un antico re guerriero) e Khin Nyunt (agli arresti per corruzione). Se a lungo si è attribuito il merito agli inconfessabili alleati delle mafie che gestivano per loro conto i traffici di oppio del Triangolo d’Oro e all’appoggio incondizionato di Pechino, in questa fase storica di globalizzazione sono usciti allo scoperto nuovi e sorprendenti partner attratti dalle risorse naturali del paese, dai suoi passaggi di terra e di mare verso mercati redditizi, dall’affidabilità del suo esercito in termini di sicurezza strategica.

Da decenni il mondo sa che molti villaggi birmani sono veri e propri campi di concentramento dove si scavano a mani nude i rubini, i diamanti e la giada venduti nei mercati di Singapore, Seoul, Pechino, Amsterdam o New York, dove si costruiscono col lavoro forzato i gasdotti e le dighe per rifornire di energia le industrie di Bangalore, Kunming e Bangkok.

E’ il crudo contesto economico e geopolitico che ha condizionato e – salvo improbabili scrupoli di coscienza della nuova generazione dei militari – condizionerà anche in futuro la sorte dei 50 milioni di birmani, karen, shan, karenni, kachin e mon, per citare alcune delle innumerevoli etnie coinvolte senza troppe speranze in una guerra contro 400mila uomini armati e motivati dai benefici concessi alle truppe fedeli.

Nei giorni in cui i monaci venivano arrestati e picchiati, la vecchia alleata Cina – spinta dagli Usa a chiedere blandamente ai generali di non esagerare con l’uso della violenza – non era la sola a bloccare una risoluzione di condanna delle Nazioni Unite. Il presidente russo Vladimir Putin definiva le repressioni “un fatto interno” mentre i suoi inviati firmavano a Naypyidaw un trattato che permetterà a due imprese nazionali – la governativa Zarubezhneft e la privata Itera Oil – l’esplorazione in joint venture con l’indiana Sun Group e la birmana MOGE dei giacimenti di gas naturali al largo del Mare delle Andamane. Non a caso le stesse parole di Putin verranno usate dal nuovo comandante dell’esercito indiano che ha stretto un’alleanza con i tadmadaw (i soldati birmani) per impedire ai Naga e alle altre etnie ribelli dell’Assam e di Manipur di rifugiarsi oltreconfine. A firmare il trattato di Naypyidaw nello stesso giorno delle rivolte c’era il ministro del Petrolio indiano Murli Deora, membro della compagine governativa del Congresso di Sonia Gandhi che anni fa insignì Aung San Suu Kyi del prestigioso premio Nehru “Per la Comprensione Internazionale”.

L’amicizia tra Delhi e Rangoon (prima del cambio di capitale) risale formalmente all’ottobre del 2004 quando Than Shwe fu ricevuto con tutti gli onori dopo 24 anni di gelo diplomatico. Il cambio di prospettiva geopolitica da parte della progressista India fu certamente accelerato dalla scoperta che la Cina – a forza di spingersi verso Occidente grazie all’amicizia con i generali – aveva piazzato basi di monitoraggio davanti a casa propria, nelle isole Coco in pieno Oceano Indiano. Senza contare i progetti di superstrade che da Kunming nello Yunnan porteranno un giorno le merci cinesi fino al Golfo del Bengala e da qui in Medio Oriente ed Europa, sfruttando eventualmente il porto di Chittagong – qualora il Bangladesh aderisse al progetto – o un altro eventuale porto lungo le coste centro-settentrionali del Myanmar.

Che i diritti umani passino in secondo piano nella spietata competizione di mercato tra India e Cina lo dimostra la posta in gioco nella gara tra tutti i paesi vicini per accaparrarsi dalla giunta – tra gli altri – i diritti di sfruttamento dei giacimenti di gas chiamati A1 e A3 Shwe (in omaggio al generalissimo?) al largo del porto di Sittwe nello stato di Arakan.

Se la Cina ha il vantaggio di un legame storico con la giunta e la possibilità di sfruttare in senso inverso l’eventuale gasdotto per gli acquisti dai paesi africani e del Medio Oriente, alla gara di Sittwe concorre anche un altro paese limitrofo guidato da una giunta installata dopo un golpe militare, la Thailandia , dove vivono gran parte dei tre milioni di birmani spinti a emigrare dalla fame.

Da anni il governo di Bangkok è il principale partner commerciale della Birmania soprattutto in termini di volume di acquisti, non la Cina come molti ritengono. Vende tecnologie e importa energia con diversi progetti in ballo oltre al gas, come le due grandi centrali idroelettriche sul fiume Salween per le quali – ancora una volta – è in competizione con la Cina. I thai non fanno mistero che un’eventuale adesione al cartello occidentale per le sanzioni contro la giunta potrebbe favorire Pechino. Lo stesso vale per ognuno dei tredici paesi – alcuni insospettabili – che operano nei progetti di sfruttamento delle risorse energetiche birmane, dall’Australia all’Inghilterra, dal Canada all’Indonesia, alla Corea del Sud, alla Malesia, senza contare la francese Total e l’americana Unocal, coinvolte in polemiche e scandali finiti nelle aule dei tribunali internazionali.

Sull’onda delle proteste domate nel sangue per l’elevatissimo aumento del carburante, ben pochi si sono posti il problema del paradosso – come sottolinea l’analista della sicurezza Alfred Oehlers sulla rivista Irrawaddy – per cui la Birmania tanto ricca di materia prima importi a prezzi esorbitanti gran parte del combustibile raffinato, specialmente il diesel usato per gran parte degli automezzi e dei generatori che suppliscono la cronica carenza di elettricità nelle città e nelle campagne. All’interno del paese esistono due mercati, uno legale gestito dal ministero per l’Energia che distribuisce a prezzi di rimessa il combustibile per gli uffici dell’amministrazione statale, uno semi-clandestino gestito spesso dai comandanti dell’esercito che rivendono le loro quote a prezzi molto più alti sul mercato nero.

Molti avanzano l’ipotesi che l’ultima impennata di aumenti sia servita per favorire le imprese di un tycoon molto vicino al generalissimo Than Shwe. Quanto fosse calcolato il conseguente rischio di rivolta è difficile da stabilire. Di certo la famosa Convenzione Nazionale per la Democrazia in corso da anni per riscrivere la costituzione e ridimensionare eventualmente i poteri della giunta, è ora rinviata a data da destinarsi.