Guarda caso

puntualita_discos.jpgGuarda caso il 19 marzo, giorno della messa di inizio pontificato, il Corriere pubblica il libro “La Chiesa di Francesco”… Guarda caso il libro è di Vittorio Messori, puntualissimo…  Avevo scritto che mi mette tristezza quello che scrive quest’uomo; aggiungo ora che mi mette tristezza quello che fa quest’uomo; spero di non arrivare ad aggiungere altro.

Schiacciate l’infame (sigh!!!)

Leggo, incuriosito ed esterefatto, questa notizia, con la curiosità di sapere il restante 50% di cui si parla. Certo non penso che si riuscirà a riparare al danno fatto da questo… La notizia è presa dall’edizione fiorentina di Repubblica. Senza altre parole…

Cattura3.JPG“Sono contenta che non ci sia più la Santa Inquisizione, non mi sarebbe piaciuto troppo finire arrostita come Giordano Bruno”. E’ con questa battuta che l’astrofisica Margherita Hack commenta la presenza di una sua fotografia – insieme a quelle di Piergiorgio Odifreddi, Corrado Augias, Vito Mancuso, Stalin, Hitler e Mao – nel presepe contro “il fanatismo laico” allestito nella chiesa di San Felice in Piazza San Felice a Firenze dal parroco don Gianfranco Rolfi. Secondo il parroco, il suo presepe è ancora un’opera incompiuta: «Manca il 50% della cattiveria». E quindi non vuol spiegare perché, a un passo dall’altare, quest’anno abbia scelto di rappresentare il Natale così, con un cartello che sovrasta la capanna e gli ulivi, le immagini dei quattro intellettuali e dei dittatori. Un triangolo rovesciato e un’esortazione: «Schiacciate l’infame». Il male della Storia e il (presunto) male della contemporaneità. Almeno, secondo l’iconologia e la visione del mondo firmata don Rolfi. Che però si nega, nicchia, svia. In fondo sono le 17.30, è già sera, le fedeli aspettano ed è quasi l’ora della novena, e mica può spiegare il senso di quel messaggio prima che «il presepe sia completo. È giusto sia prima la mia gente a sapere. Mi faccia finire, manca ancora il 50% della cattiveria. Anzi, della perfidia. Che è pure peggio», dice. E poi aggiunge: «Naturalmente metto ciò che per me è perfido. Io sono perfido, lo so, ma non sono mica un prete alla Mancuso».

Ma scusi, padre, non è un messaggio forte, violento, da associare al presepe e soprattutto a persone viventi? Dal Natale ci si aspettano messaggi di pace… Silenzio, il don rientra in canonica: «Proprio la Repubblica viene a chiedere a me se è un messaggio forte con tutto quello che scrive sulla Chiesa e Gesù. Non mi prenda per i fondelli, per piacere». Poi esce, scivola lungo la navata, va verso l’abside di sinistra, la capanna e gli alberelli. Ma scusi, padre, ha scritto “schiacciate l’infame”? «Voi giornalisti siete degli ignoranti, non leggete, non avete cultura». «Schiacciate l’infame» è una frase famosa di Voltaire, un grido di battaglia che lo scrittore e filosofo francese scrisse all’epoca del Trattato sulla tolleranza contro la condanna a morte di tre persone accusate di miscredenza. Nella sua riflessione era un invito a usare la ragione e a lottare contro ogni forma di fanatismo religioso. Contro l’integralismo dei dogmi e a favore di una società aperta al dialogo fra le confessioni, ma governata da una giustizia civile. È un appello alla laicità e alla compassione. Ma usato nello stile di Rolfi non fa esattamente quell’effetto. E non si capisce se per lui la Hack, Mancuso, Augias e Odifreddi siano una sorta di antifrasi voltairiana, insomma una specie di rappresentazione del fanatismo laico o ateo. Le fedeli entrano e strabuzzano gli occhi. «O my god»,dicono tre ragazze americane. «Non capiscono? Lo so lo so – dice don Rolfi – una donna ieri ha avuto una crisi isterica. Mi denuncino o aspettino».

“Quello mi sembra che sia un gran bischero, mi fa più ridere che piangere e poi non me ne frega nulla di questa iniziativa”. E’ la laconica chiosa dell’astrofisica dell’Università di Trieste. “Stare accanto a Odifreddi, Augias e Mancuso – afferma la professoressa – mi sembra un buon segno e mi fa piacere perchè sono persone che stimo. Essere accostata a Hitler è invece un’offesa grave perché quello era un pazzo feroce”.

Il peso del futuro… e dello spreco…

Difficilmente scrivo dei post per il gusto di fare polemica. Ora, sono 5 giorni che aspetto di scrivere questo post. Nel nostro liceo, come nelle altre scuole superiori, sta arrivando il libercolo “Vie al futuro” prodotto (e deduco finanziato) dalla nostra Regione (o quantomeno pagato da un altro ente pubblico). Lo sconcerto nasce dalla grammatura della carta: sono anni che non mi capita di sentire uno spessore del genere all’interno di un libro! L’ho anche messo sul dorsetto: sta in piedi da solo… In un periodo come questo è necessario? Essendo diretto a ragazzi di quinta, che su internet ci navigano come Giovanni Soldini sul mare, si potrebbero iniziare a immaginare dei canali informativi che utilizzino tali strumenti… a tutto vantaggio di toner e carta risparmiati. Mi scuso per lo sfogo, ma era una cosa a cui tenevo.

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Insidioso

Al volo, dedicata a chi vede complotti ovunque…

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Triste progresso

“Acquasantiera elettronica realizzata completamente a mano in materiale metilmetacrilato, con sistema di apertura con chiave per ricarica acqua. Risolve il problema dei batteri che si formano nella vaschetta d’acqua dove tutti mettono le mani. Basta mettere la mano sotto al rubinetto e l’acqua benedetta scende, senza appoggiarsi o immergere la mano da nessuna parte.”

Che tristezza!!!

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Gita non gita…


 

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Sabato mattina sono in treno verso Padova per andare a un matrimonio insieme a mia moglie. Abbiamo comprato il Messaggero: ci piace leggerlo insieme. Oddio, leggerlo: diciamo sfogliarlo. Arriviamo a pagina 22 e dico “Eccolo qua”. Sara mi chiede: “Cosa?”. Io: “La risposta alla domanda che ogni anno mi fanno gli studenti, cioé – Prof! Ma perché non ci porta in gita? – . E io rispondo che non mi sento tutelato dallo Stato. Però loro mi chiedono  – In che senso? – e lì faccio fatica a spiegarmi. Allora ricorro ad un esempio: ecco io vorrei questo. Che se siamo in gita ed è prevista la buonanotte, che ne so, per le 24.00, io ho il compito di fare il giro per le stanze ed assicurarmi che ogni studente sia nella stanza assegnatagli. Dopo di che ho il sacrosanto diritto di entrare nella mia stanza ed andare a dormire. Se uno si ubriaca, va in giro, vuole dare una mano di colore alla stanza, fare tarzan sulle reti del letto RISPONDE, perché ho una buona considerazione di voi e penso che un ragazzo delle superiori le cose le capisca… Ecco, ora non ho più bisogno di ricorrere all’esempio, basta leggere questo articolo….”. Il viaggio è proseguito con un pizzico di tristezza nel cuore e tanta rabbia nella testa…

Ecco l’articolo

UDINE. Gite scolastiche: i professori che accompagnano gli studenti devono controllare la sicurezza delle stanze. Sono tenuti a un «obbligo di diligenza preventivo» che impone loro di reperire strutture alberghiere il più possibile sicure. Non solo, sono tenuti anche a effettuare «controlli preventivi» delle stanze dove alloggiano i ragazzi. Lo ha stabilito la suprema corte di Cassazione nell’accogliere il ricorso di S.Q., di San Leonardo, ex studentessa dell’istituto tecnico commerciale “Deganutti” , che, nel marzo 1998, si era seriamente ferita nell’albergo di Firenze scelto dalla scuola, scivolando da una terrazza dell’hotel. La ragazza, secondo quanto ricostruito dalla sentenza 1769 dell’8 febbraio 2012, salita su un parapetto del balcone della stanza, aveva guadagnato la terrazza insieme a un compagno e, scivolando, era precipitata nel vuoto per circa 12 metri, riportando gravissime lesioni e rimanendo completamente invalida. Da qui la richiesta di risarcimento danni, sia nei confronti del ministero della Pubblica istruzione, della scuola, dell’albergo e dei genitori del compagno di scuola – che poco prima dell’incidente aveva offerto uno spinello alla giovane -, lamentando «mancanza di controllo e di sorveglianza degli alunni da parte del professore in gita con la classe e mancanza di sicurezza dell’albergo». Sia il Tribunale (marzo 2005) che la Corte d’Appello di Trieste (ottobre 2009) avevano respinto la richiesta risarcitoria della giovane, rilevando, tra l’altro che gli studenti erano prossimi alla maggiore età per cui tutti erano «presumibilmente dotati di un senso del pericolo». I verdetti sono stati ribaltati dalla Cassazione che ha accolto la tesi difensiva della ex studentessa rimasta invalida. Nel dettaglio, i giudici della Suprema corte chiamano in causa la scuola e ricordano che «proprio perché il rischio che, lasciati in balia di se stessi, i minori possano compiere atti incontrollati e potenzialmente autolesivi, all’istituzione è imposto un obbligo di diligenza per così dire preventivo, consistente, quanto alla gita scolastica, nella scelta di vettori e di strutture alberghiere che non possano, al momento della loro scelta, nè al momento della fruizione, presentare rischi o pericoli per l’incolumità degli alunni». La Cassazione spiega ancora che «incombe all’istituzione scolastica la dimostrazione di avere compiuto controlli preventivi e di avere impartito le conseguenti istruzioni agli allievi affidati alla sua cura e alla sua vigilanza». Nel caso in questione, dunque, il personale accompagnatore, spiega la Suprema Corte, «avrebbe dovuto rilevare, con un accesso alle camere stesse, il rischio della facile accessibilità al solaio di copertura per adottare poi misure idonee alle circostanze», quali anche «il rifiuto di alloggiare» in una stanza tanto insicura. Sarà ora la Corte d’Appello di Trieste (chiamata a una pronuncia bis), cui la Cassazione ha rinviato la vicenda, a stabilire l’esatto risarcimento per la studentessa, tenendo anche conto delle responsabilità della scuola, del ministero della Pubblica istruzione, e della struttura alberghiera. Esclusa invece la responsabilità dei genitori dell’ex studente salito sulla terrazza con la giovane. La vicenda della studentessa di San Leonardo suscitò, all’epoca dei fatti, molto scalpore. I ragazzi della terza classe del “Deganutti”, nel marzo del 1998, fecero un viaggio in treno fino a Firenze e trovarono alloggio all’hotel “Mirage” di Novoli. Il drammatico incidente accadde la sera stessa dell’arrivo nella città toscana. Furono due compagne di stanza della giovane a trovare il corpo esanime a terra dopo un volo di 12 metri. La studentessa rimase per lungo tempo in coma, poi si riprese, ma purtroppo rimase invalida.

Amarezza

 

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61 anni fa esatti moriva George Bernard Shaw. “La libertà significa responsabilità: ecco perché molti la temono” è una sua frase. Mi è venuta in mente stamattina quando, dopo un ponte festivo di 3 giorni, in una classe mancavano metà alunni per evitare delle verifiche… Amarezza.

Se gli affari per Padre Pio non girano più…

Il 4 luglio 2009 ho postato un pezzo sulla cripta dorata della nuova chiesa di San Pio da Pietrelcina, a San Giovanni Rotondo. Ecco che oggi mi cade l’occhio su questo lungo, dettagliato, ricco articolo de Linkiesta.

«Nelle case ormai c’è più l’immagine di Padre Pio che non un crocifisso o una Madonna.padre_pio_chiesa_san_giovanni_rotondo.jpg Comincio a preoccuparmi, la gente dice “io credo a Padre Pio”, ma io la domenica non lo professo nel Credo né dico ‘credo ai santi’». È quasi rassegnato don Alessandro Amapani, dal 2002 al 2008 responsabile italiano della Giornata mondiale della gioventù e oggi voce critica nel barese. A San Giovanni Rotondo, 27mila anime nel Parco Nazionale del Gargano, fa spesso da guida a giovani fedeli nella cripta dorata del frate da Pietrelcina. «L’uomo è misericordioso – spiega il 36enne con 13 viaggi in Terra Santa – tra Pio e i giovani c’è un dialogo fortissimo e non è facile perché ti mettono sempre in discussione. Ne hanno sentito parlare da nonni e bisnonni ma ora si danno da fare per conoscerlo, è ridicolo dire che è più vicino a noi solo perché ha vissuto il Novecento. Andate ad Assisi a vedere l’invasione di famiglie giovanissime lì per San Francesco o solo per curiosità».

“Padre Pio è il santo più amato dagli italiani” diceva un sondaggio di Casa.it sulle immagini sacre nelle case del Belpaese. Più di Sant’Antonio e San Francesco d’Assisi. «Guardi – replica Amapani – è nei bunker dei mafiosi e camorristi perché appare più potente addirittura di Dio, sembra ci sia del magico semplicemente nel rivolgersi a questa entità forte e misteriosa. Chi arriva ha un bisogno di protezione autentico e di salvezza spirituale ed è convinto che risolva i problemi fisici. Dà risposte molto forti a situazioni di vita drammatiche. È una figura mistica ancora tutta da conoscere, ma non sempre i pellegrini vanno in profondità».

Francesco Forgione (questo al secolo il nome di Padre Pio) per Agostino Gemelli resta uno “psicopatico”, per Andreotti “l’uomo del secolo”, per Wojtyla venerabile nel ‘90, beato nel ’99 e santo nel 2002. Qui son saliti Bartali nel 1947, Lefebvre nel 1968, lo stesso Giovanni Paolo II nel 1987 e Benedetto XVI nel 2009 quando l’hanno trasferito nella nuova chiesa. L’ha disegnata Renzo Piano. Inaugurata nel 2004, è tra le più grandi e discusse d’Italia. Chiedetelo a Ravasi e Sgarbi. L’hanno voluta i frati per ospitare la marea di fedeli che negli anni ha invaso quella realizzata nel ’59, la Santa Maria delle Grazie che appena finita appare “una scatola di fiammiferi” allo stesso Padre Pio. Oggi c’è uno scatolone di 6mila metri quadri per 7mila persone e fino a 40mila sul sagrato. Croce di bronzo dorato di Arnaldo Pomodoro e tabernacolo di Floriano Bodini. Nella chiesa inferiore la cripta con la salma, 3 sale conferenze, 31 confessionali e ampie zone per pregare. In più 2mila metri di mosaici in oro (e non solo) di un artista e teologo sloveno, Ivan Rupnik: 36 nicchie (a destra la vita di San Pio e a sinistra quella di San Francesco) e 16 temi spirituali, dalla “chiamata” fino alla “felicità nella vita dello Spirito Santo”. Tutto questo Padre Pio non lo sa, direbbe De Gregori. Ma non è semplice trovare un ponte anche con Lourdes, Fatima o Medjugorje. Silvia Godelli, assessore regionale alla Cultura e Turismo, guarda al popolo della Puglia. «Padre Pio non ha omologato la spiritualità della gente – dichiara a Linkiesta – il tessuto sociale è intriso di devozione e la venerazione dei santi patroni resiste al tempo e ai flussi migratori. Ogni borgo è uno scenario di culti autentici e di attaccamento alla tradizione, tra cerimonie millenarie, religiose ma anche pagane, di grandissimo fascino e di rappresentazione scenica assolutamente teatrale. Si pensi a San Nicola a Bari, Sant’Oronzo a Lecce, San Michele a Monte Sant’Angelo, ma anche alla Focara di Novoli, ai Fucacoste di Orsara e alle Fracchie di San Marco in Lamis».

Dei e diavoli. Etica e capitali. Sud e magia. Da Erodoto a Weber fino a Ernesto De Martino, la partita è ancora aperta. Il 23 settembre scorso, il giorno della festa di San Pio, i frati hanno donato ai bambini dell’ospedale il fumetto “Piuccio e Lolek”, Padre Pio e Giovanni Paolo II in favole per piccini. Lo ricorda a Linkiesta Francesco Colafemmina, filologo e autore nel 2010 del libro “Il mistero della Chiesa di San Pio”. «I frati hanno trasformato la devozione in fenomeno da baraccone – taglia corto lo studioso barese – è un pellegrinaggio per eventi. Con quei fumetti stanno banalizzando la santità. Chi viene cerca un luogo riconoscibile, la tomba o i luoghi in cui Pio ha vissuto e invece trova la nuova chiesa senza nemmeno inginocchiatoi. La vecchia cripta era un luogo semplice e racchiusa nel neoromanico, ora ci sono le etichette con le spiegazioni perché tra l’oro e i mosaici la gente si distrae». Ma il santo, ammette Colafemmina, ha una “affinità elettiva” col dna del Sud. «Anche se i fedeli seguono i santi che ritengono fare più grazie e c’entra poco il marketing della santità, sentite cosa vi risponde un meridionale se gli chiedete chi è Edith Stein (Santa Teresa nel 2008 e patrona d’Europa, ndr)». I meridionali qui piangono, ma singhiozzano anche bresciani, polacchi, irlandesi e coreani. Il luccichio spiazza i novizi. «I mosaici – precisa Amapani – sono un’esperienza di fede che ha bisogno di tempo per essere capita e vissuta, c’è l’ignoranza di chi vuole subito toccare il corpo perché prima arrivi e prima non so che ti succede. Un genio di spiritualità come Pio si manifesta anche con un genio artistico come Rupnik. Un capannone come altrove sarebbe stato squallidissimo». E il San Francesco delle elementari? «Quando parla della liturgia delle chiese e delle messe, dice che bisogna usare l’oro più prezioso, così devo preparare il meglio che ci sia nei riti in cui Cristo si rende presente. Quando l’uomo smetterà di fare arte e bellezza il mondo sarà finito».

Laici e cattolici, post comunisti ed ex scudi crociati, sono tutti d’accordo: l’unica eredità del frate è l’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza. Misteri e miracoli a parte, è Padre Pio infatti che nel 1940, nella provincia di Di Vittorio, coltiva il sogno di «una sanità dal volto umano», una sorta di Primavera alla Dubcek per le malattie del mondo. Il nosocomio è oggi un centro d’eccellenza per la sanità in deficit del Meridione (e non solo): nel 2010 agli ambulatori sono giunti 125mila pazienti, più di 1 milione di prestazioni e 56mila ricoveri ordinari. Medicina rigenerativa, oncogenomica, oncologia sperimentale, cellule staminali somatiche e pluripotenti indotte. Ha anche le banche biologiche, tra cui la banca cordonale (nel 2009 con la maggior raccolta in Italia) e quella del latte umano. «Basta ad alimentare la fede dei credenti e dunque i pellegrinaggi – conferma la Godelli – se la città fosse soltanto un luogo finto, un parco a tema religioso, un mercato del sacro, non avrebbe visto decine di milioni di persone raggiungere il Santuario». Il mercato, in realtà, va avanti dal 1918. Sboccia con la vendita occulta di false pezzuole intrise di sangue appena Padre Pio dice di avere le stimmate, le ferite divine del suo ispiratore, San Francesco. Oggi si parla di “Padre Pio spa”, un flusso di quattrini, tra donazioni, fondi per l’Ospedale, diritti editoriali sui libri, antenne tv, giornali, siti internet, banner pubblicitari e souvenir. Secondo una ricerca del 2007 di Marketing Tv, il brand ha in mano il 4% del mercato italiano. Ma la chiesa di Piano e le bancarelle sono staccate. A gennaio 2010 i carabinieri qui scoprono un clan che spaccia droga, così nel 2004. A 2-300 metri, con 130 euro si fa la spesa: francobolli da 800 lire del ‘98 a 70 cent, magneti per il frigorifero e angeli proteggi-bimbi a 4, portachiavi per auto a 6, la statua con saio a 8, l’acquasantiera per la casa a 9, il nocino alle erbe di Padre Pio e l’altarino in legno a 10, la candela col santo nascosto nella cera a 6 e 50, l’orologio da taschino a 15 e con 50 il modellino in scala del carro funebre del ’68. Vicini a orecchiette, caciocavallo e al rosso locale, il nero di Troia. A Roma, con uva moscata, pasta e mandorle, nel 2002 hanno tirato fuori il “gelato del Santo”. I fedeli sono cambiati. Sono nei gruppi di preghiera: 3324 in tutto il mondo, 2580 in Italia e 744 all’estero. Pregano, cantano, raccolgono soldi per opere di beneficenza e tornano «rinati nello spirito e nel corpo», dicono. Hanno rosari, ma anche tablet. L’applicazione? “Padre Pio Tv”, le funzioni locali live da Tele Radio Padre Pio. «Amplifica il messaggio del santo che in vita comunicava con radio e giornali di tutto il mondo» dice a Linkiesta Stefano Campanella, direttore del canale nato nel 1987, come Radio Tau, su idea dei cappuccini di Sant’Angelo e Padre Pio. Satellite, digitale terrestre e internet non bastano più. «Ci chiedono i fatti ma anche soluzioni ai problemi di tutti i giorni attraverso l’esempio di Padre Pio che è la via per arrivare a Cristo e non il monopolio dei santi. Già in vita il frate aiutava e accoglieva i sacerdoti di Santa Rita». Per Don Alessandro, con forme e formule diverse, il fenomeno “bancarellaro” è nella storia dei pellegrinaggi e non è solo ecclesiale. «Ci sarà sempre un business – sottolinea il parroco – in Terra Santa hanno portato via i pezzi del sepolcro e sulla nuova basilica hanno cominciato a fare prima le croci nei muri per dire ‘io sono stato qui’ e poi a portar via la polvere del santuario. Così coi rosari e le immagini a Medjugorje o nei santuari buddisti e musulmani. Il mondo religioso e dei souvenir non è Padre Pio ed è fuori dalla basilica. I frati nel sagrato non fanno vendere neppure un rosario. Danno al luogo e al personaggio la vera identità come a Lourdes e a Fatima e tolgono garanzie a chi ha questo senso religioso». Intanto gli alberghi e “chi ha questo senso religioso” hanno cambiato la città. Per l’Organizzazione mondiale del turismo (Wto) San Giovanni Rotondo è la quarta meta mondiale della fede. Da 7 anni, tra Foggia e i Comuni dauni, espositori e buyers del pianeta son qui per la Bitrel, la Borsa Internazionale del turismo religioso (Aurea fino al 2009), stile Expocattolica di San Paolo. Quest’anno, dal 26 al 31 ottobre, si è tornati sulle Vie Francigene del Sud, i sentieri longobardi da Otranto a Roma, passando per la grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo. Santuari e mercati, ma col Gargano mal collegato (vedi la frana di Montaguto), nemmeno l’aeroporto “Gino Lisa” di Foggia riesce a far decollare il turismo. Ci prova invano dal 1989, ma con una pista di 1.560 metri, Boing 737 e Airbus A320 fanno fatica. Così Aeroporti di Puglia, con l’ok di Comune, Provincia e Camera di Commercio di Foggia, ha deciso di portarla a 2.000 metri contando su 14 milioni di fondi Fas per il Mezzogiorno (sbloccati solo a luglio scorso). Ultima parola ora a Regione e conferenza di servizi. Resta però un “aeroporto bonsai”: costa tanto e viene usato poco. Tra arrivi e partenze, il traffico aumenta, ma è sotto i 72mila viaggiatori nel 2010 (68mila nel 2009). E dopo Club Air, Myair e Air Alps, i voli sono ancora per poco in mano alla svizzera Dream Airline che, in tre anni, ha fatto volare circa 130mila viaggiatori da e per Milano, Torino e Palermo. Sì, perché il 5 novembre lo scalo chiude i battenti: la Regione ha deciso di non versare più l’annuale cofinanziamento di 4,8 milioni.

Nel 2010 la città è tra le 31 bellezze mondiali per il New York Times. L’anno scorso, stando ai dati del Comune sul turismo locale (Istat e Agenzia di promozione turistica locale), sono arrivati da ogni parte del globo in 7 milioni e 45mila, tra pellegrini, turisti, gente in visita a parenti o in ospedale. Un record per gli ultimi 15 anni e più del 2008, quando l’ostensione delle spoglie di San Pio ne fa porta 6 milioni e 567mila (420mila in meno rispetto al 2009). Il problema è un altro: non entrano negli alberghi. Sono 163, inclusi bed&breakfast, affittacamere, case per ferie, villaggi e campeggi. La Camera di Commercio la chiama “industria dell’accoglienza”: un indotto senza 5 stelle e con circa 4mila addetti colpito dalla crisi e dalla moria di clienti. Ha registrato 426mila arrivi nel 2009 e appena 276mila lo scorso anno. E in 36 mesi l’uso medio dei posti letto è sceso da 118 giorni a 74, il peggior dato dal ’96, quando i cuscini servivano per 286 notti. In 12 mesi hanno chiuso i battenti 3 albergatori, anche se la cura dimagrante ha partorito 87 posti più del 2009. I turisti vanno anche a San Marco in Lamis, Vieste e Barletta e la media di permanenza è quasi la stessa da anni: nei 6.392 lettini dormono meno di due giorni (1,74). «È colpa della crisi economica – è la tesi del direttore Campanella -, tra l’altro Padre Pio consigliò a una persona, che faceva tutt’altro, di comprarsi un albergo ma senza sfruttare i pellegrini. Non aveva una visione trascendentale della vita, aveva i piedi per terra, poi è la legge di mercato che misura il business». Ma la politica cosa ha fatto? Chi ha messo mani al turismo o è andato a casa o ha dato il sonnifero ai piani di rilancio. Come quello di Federico Massimo Ceschin, l’esperto di marketing urbano che nel 2010, su incarico del sindaco di centrosinistra Gennaro Giuliani (in carica dal 2008 a natale scorso), stila un “Proposta progettuale per lo sviluppo del turismo” e poi arrivederci. “Dovevo riportare in equilibrio la città anche con la partecipazione popolare al nuovo piano urbanistico generale – chiarisce il manager che oggi cura la Bitrel per la Regione – la parola d’ordine era “normalità” contro le contraddizioni urbanistiche. Si pensava a una crescita qualitativa riportando spiritualità e senso autentico di devozione a partire dal centro storico, ripercorrendo i passi del frate, senza esagerazioni, senza egemonie, con l’immagine reale di un borgo capace di ritrovarsi con la ruralità e con l’ambiente, e i flussi turistici finalmente opportunità per uno sviluppo fondato sulla lentezza di questa terra». Così lenta che aspetta i guadagni sognati col Giubileo quando da Roma arrivano 50 miliardi di lire (8 per mille escluso) in deroga al piano regolatore e tirano su nuovi alberghi e vecchie pensioni. E con la beatificazione del ’99, il sindaco di centrosinistra Davide Pio Fini (dal ’96 a 2000 e poi delega al turismo con Giuliani) sfrutta il momento. «Recuperiamo un ritardo trentennale per la viabilità e per l’accoglienza – diceva – ed è giusto farlo ora che i mezzi ci sono. Tutte queste opere tornano a vantaggio degli abitanti di San Giovanni Rotondo e dei Comuni vicini». Con 20 miliardi anche per i parcheggi, Fini dice poi sì a 36 nuovi alberghi, ma riceve altre 464 domande. Il passo sembra più lungo della gamba. La sinistra locale va in crisi, la città viene commissariata e a maggio scorso passa al centrodestra (Luigi Pompilio). «Ma per ricucire quello strappo urbanistico ci vorrà molto tempo – spiega Ceschin -. C’è una sola area verde, il Parco del Papa, senza un piano di gestione e senza piscina, auditorium, centro congressi, pista ciclabile, impianto sportivo o valorizzazione del contesto rurale o forestale cittadino». Sembra di essere tornati al paesello selvaggio di pastori ritratto nel 1957 da Vittorio Sala per l’Istituto Luce, “Le capitali d’estate. Itinerario adriatico da Pescara a Ravenna”. C’erano solo la foresta e l’ospedale, ma anche allora San Giovanni Rotondo era in bianco e nero.

Provocazioni

Lunedì 17 ottobre si è tenuto a Todi,  presso il convento francescano di Montesanto, il seminario “La buona politica per il bene comune”, promosso dal Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro. Alla fine del convegno, il direttore di Unimondo Fabio Pipinato ha pubblicato una riflessione ricca di spunti e provocazioni 

bdb0c7b7-4cdf-4b2c-b7cc-50b0b9e498e9.jpgL’appuntamento di Todi è stato importante. L’aver ritrovato un tavolo comune, tra fratelli in diaspora, non è banale in tempi ove l’individualismo va alla grande. Il titolo sobrio e quanto mai attuale: “Una buona politica per il bene comune”. Sin qui tutto bene. L’esito? Non me ne vogliano, ma mi sembra un po’ scontato. Lo riporto pur sapendo di perdere metà lettori: un governo più forte, un no alle elezioni anticipate, una nuova legge elettorale, un rafforzamento del welfare e una riforma del fisco che metta al centro la famiglia. Non dico che ci si sarebbe aspettato un Codice di Camaldoli ma qualche riflessione in più intra anziché extra poteva ben emergere. Che significa “intra”? I cattolici si sono dati appuntamento per dire cosa gli altri (alias, il governo) – dovrebbero fare? (extra). Legittimo. Forse sarebbe meglio cambiare angolatura per comprendere cosa i cattolici potrebbero fare. E ne avremmo a sufficienza. Prima di rimuovere la trave che è nell’occhio di tuo fratello forse è il caso di spostare la capriata che sta nel nostro; parafrasando il Vangelo. Tento, quindi, di declinare qualche verbo che ci possa aiutare ad affrontare la crisi prima di senso e poi economica ed ambientale.

Rinunciare all’8 x mille che non sia specificamente destinato alla Chiesa cattolica. Nel contempo si rinuncia al privilegio del non pagare le tasse (l’Iva) se l’opera (l’albergo) è “di religiosi” o se la struttura ha annessa una cappelletta/chiesetta. Insomma, in uno Stato dai privilegi diffusi serve qualcuno che faccia il primo passo in tutt’altra direzione.

Vendere. Non mi riferisco solo alle Diocesi, alle parrocchie ma, in primis, alle associazioni cattoliche di cui sono parte. Sono spesso appesantite da immobili; strutture. Alcuni circoli non parlano d’altro. Forse dovremmo diventare più leggeri; più agili. Vendere le strutture per dare un futuro alle organizzazioni già esistenti che necessitano d’ossigeno. Un cambio di paradigma: non più muri ma persone.

Appassionare. Non basta più impiegare; non abiteremo il nostro tempo. Appassionare è un imperativo. Basta con gli impiegati demotivati con l’orologio in mano, recupero ore, lungo elenco di diritti acquisiti, tutti telefono, caffè e gossip. E poi ci permettiamo di criticare i ministeriali. Chi lavora per il welfare deve essere appassionato al “bene comune”; alla costruzione della cattedrale. Certo. Servono forti iniezioni di formazione, motivazione ma soprattutto incentivi meritocratici che si ispirino un po’ più al toyotismo che al fordismo, per dirla con l’economia applicata.

Incentivare. Abbiamo l’obbligo, in tempi di lavoro scomposto, d’incentivare i giovani più meritevoli con un’addizionale di reddito pari a quella data dal servizio civile. Perché? Le associazioni cattoliche sedute attorno al tavolo di Todi sono state fondate quando c’era la Chiesa di Pio XII, i partiti di massa, l’associazionismo di massa. V’erano contratti indeterminati, ferie pagate, baby pensioni; oggi tutto è cambiato. Molte persone hanno contribuito non poco alla crescita di queste Istituzioni donando il surplus di tempo in forma volontaria. Ma lo potevano fare perché erano coperti da un minimo salariale. Oggi possiamo chiedere ai giovani di “esser parte/farsi carico” solo se garantiamo loro le risorse minime che andranno a sommarsi ad altre loro entrate.

Ridurre. Le associazioni cattoliche sono pronte a chiedere una riduzione dei costi della politica. Più che legittimo in tempi di crisi economica e non solo. Ma la sfida, anche qui, non sta all’esterno ma al proprio interno. Il divario tra il costo dei dirigenti, segretari generali ed i giovani di cui sopra deve ridursi drasticamente se vogliamo recuperare credibilità agli occhi della gente. E’ semplicemente immorale che un dirigente di un’Associazione cattolica possa superare il reddito di un parlamentare. Potremmo, invece, ricavare nuove risorse per garantirci futuro.

Aprire. Il tavolo di Todi è una modalità per conoscere l’altro che sta accanto a me e con il quale potrei collaborare, visto il “comun sentire”. Ma guai se diventa una roccaforte in difesa del “noi”. Se sta in collina anziché scendere a valle. L’approccio dell’ “economia civile” dovrebbe rileggere i tempi. Non siamo più noi “primo mondo” che dettiamo legge e vangelo agli altri mondi ma una dose di umiltà ci potrebbe portare ad apprendere dai laboratori implementati da altre religioni sparsi nel pianeta. Dalle tigri asiatiche al Brasile passando per il Sudafrica. Insomma, per stare al mondo bisogna conoscere il mondo.

Allocare. Immorale è investire in “banche armate“, in banche che favoriscono il commercio d’armi con i Sud del mondo. Oggi esistono alternative consolidate come Banca Etica e altre banche che hanno fatto scelte precise o moltissimi istituti di microcredito e microfinanza che investono sul lavoro e non sulla speculazione finanziaria che è concausa di questa crisi. Questi mondi come il commercio equo e solidale, il biologico non appartengono più alla sfera della “simbologia” ma sono parte dell’economia reale. Qui servirebbe un cambio di passo da parte del mondo cattolico che ha contribuito, peraltro, a far nascere questi mondi.

Negoziare. Dovremmo anche aprire lo scrigno dei principi non negoziabili. Suvvia; lo stanno facendo anche i talebani a Kabul per la transizione nel 2014 e la libertà di stampa sta entrando in Myanmar. Se tutto si riduce alla difesa intransigente del “non negoziabile” non se ne esce. Nei comportamenti morali non c’è differenza tra laici e cattolici in quanto a Todi metà erano divorziati come, parimenti, non pochi giovani della GMG si sono “appartati usando anticoncezionali”. Insomma, si dovrebbe cercare di andare oltre la contrapposizione ideologica.

Privilegiare. Il rapporto Caritas dà una fotografia drammatica dell’Italia di oggi: oltre 8 milioni di poveri. Possiamo inserire al primo posto in tutti gli odg (ordine del giorno) di tutti gli incontri a tutti i livelli cosa possiamo fare noi (non il governo) come associazioni cattoliche per i nostri poveri? I poveri non possono stare tra le “varie ed eventuali” perché non sono eventuali. Ci sono. E saranno sempre con noi. Punto.

Nuove lapidazioni

Non avevo intenzione di scrivere su Roma. Poi mi sono imbattuto sul sito di Dimensioni Nuove in un articolo di Domenico Sigalini che commenta un pezzettino di Vangelo (qui sotto un estratto). E il mio pensiero, seppur trasversalmente, è andato a Roma, a tutti quegli imbecilli sempre pronti a usare la violenza, a voler far valere la ragione del più forte, a voler lapidare le idee degli altri. Non è questa la via, non può mai essere questa la via…

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I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo. Gesù rispose loro: “Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre mio; per quale di esse mi volete lapidare?”. Gli risposero i Giudei: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”… Ritornò quindi al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui si fermò. Molti andarono da lui e dicevano: “Giovanni non ha fatto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero”. E in quel luogo molti credettero in lui.

Non avevano potuto lapidare l’adultera, gli si erano a forza aperte le mani per lasciare cadere il sasso, ciascuno aveva rivisto al rallentatore la sua vita ed erano stati costretti a reprimere una catarsi fin troppo comoda, irresponsabile, assassina. È sempre facile la tentazione di farsi una coscienza pulita scaricando la colpa sugli altri, su quella povera donna, su quella famiglia fallita. Stavolta però sono tornati i sassi in quelle mani, e la presa è più forte e sicura. Saremo moralmente non irreprensibili; siamo fatti tutti di carne, è pur vero ma bestemmiatori no! Noi sappiamo stare al nostro posto. Dio è l’altissimo, sia sempre benedetto il suo nome, noi sappiamo di essere creature. La nostra religione è la forza che tiene assieme il nostro popolo Lui è la roccia, noi siamo il popolo e gregge del suo pascolo. In quelle mani contratte, in quelle dita che trattengono nervosamente le pietre c’è tutta la storia, la cultura, ma anche l’ingessatura di un cuore indurito, di una religione tentata di fondamentalismo. E Gesù cerca di smontare questa schiavitù interiore. Ne va della sua missione! Dio Padre, l’abbà dei miei colloqui quotidiani, non è il Dio delle lapidazioni, ma dell’amore. Cercavano allora di prenderlo di nuovo. Gesù era veramente braccato, doveva giocare d’astuzia. Il suo primo nemico non era solo l’establishement, ma la gente di “parrocchia”, i cristiani della messa prima, i cattolici del conformismo, noi che ci siamo abituati a Dio come al colore delle pareti. E noi ci trova dovunque fuorché nel Getsemani, là dove ci si deve convertire, purificare, affrontare anche nella solitudine il fallimento e il necessario cambiamento di vita.

Un 8 marzo fuori stagione

Una piccola riflessione appena suggerita, un piccolo accostamento.

Tina Ceci, 37 anni. Matilde Doronzo, 32. Giovanna Sardaro, 30 anni. Antonella Zaza, 36. E Maria Cinquepalmi, 14 anni, figlia dei proprietari di quel maglificio nel sottoscala della palazzina di Barletta dove le donne sono morte. Un maglificio del quale non c’era traccia, tutte lavoratrici in nero, per meno di quattro euro l’ora. «Ma queste erano donne normali! Lavoravano per bisogno, mica per divertimento. Avevano bisogno di pagare il mutuo, la benzina. Non avevano il contratto ma avevano la tredicesima pagata. Magari non erano proprio assunte, ma il lavoro da queste parti serve, mica ci si sputa sopra».

1908, New York, 129 operaie dell’industria tessile Cotton scioperano per protestare contro le terribili condizioni in cui sono costrette a lavorare. L’8 marzo (o il 25 secondo alcuni), il proprietario Mr. Johnson blocca tutte le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire dallo stabilimento. Scoppia un incendio doloso e le 129 operaie prigioniere all’interno dello stabilimento muoiono arse dalle fiamme. Da allora, l’8 marzo è stata proposta come giornata di lotta internazionale, a favore delle donne.

 

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La cripta di Padre Pio

Che dolore! Il pezzo qui sotto è preso da un blog. Io non riesco, non ce la faccio proprio a tacere quando vedo queste cose. Se penso al messaggio gesuano, se penso allo spirito francescano… Sono dell’idea che la chiesa sia una grande famiglia che accoglie tutti, ma come in tutte le famiglie a volte si baruffa perché non si va d’accordo, e lo spirito è quello della crescita, del miglioramento… Soprattutto affinché cose del genere non capitino più!

cripta-padre-pio1.jpgE’ finalmente pronta la cripta della nuova chiesa di San Pio da Pietrelcina, a San Giovanni Rotondo che ospiterà il corpo di Padre Pio. La cripta, inaugurata da Benedetto XVI nel corso della sua recente visita, è completamente realizzata in oro massiccio, accumulato dai monaci in questi ultimi 20 anni grazie alle donazioni fatte dai fedeli. Molte polemiche ha sollevato questa imponente opera, decorata con dei mosaici dal padre gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik, uno dei più grandi esperti di arte sacra, in quanto sono in molti a non ritenerla cripta-padre-pio2.jpgin linea con il pensiero di Padre Pio e dell’ordine francescano da sempre improntato sulla povertà e la semplicità. Se si calcola che un grammo d’oro oggi viene valutato circa 24,86 Euro e che il totale della superficie dei mosaici in oro massiccio è di 2mila metri quadrati ci si può fare un’idea del valore monetario (e terribilmente terreno) della cripta. “E’ un’opera d’arte di livello straordinario: se non la si contempla dal vivo, non la si può descrivere. Non ci sono parole efficaci’‘ è, invece, il commento di frate Antonio Belpiede, portavoce dei frati minori cappuccini di San Giovanni Rotondo che vuole sottolineare meramente il valore artistico e culturale dell’opera. “‘Il corridoio che si attraversa per arrivare alla cripta è stato realizzato secondo lo stile delle antiche basiliche cristianecripta-padre-pio3.jpgcontinua frate Belpiede – tende cioè a rallentare il ritmo del pellegrino per dargli la possibilità di pregare e di contemplare. Ci sono le vite in parallelo dei due santi: san Francesco e san Pio. Ero lì a due metri dal papa, alla presenza del maestro Rupnikquando l’ha visitata e inaugurata. Vedendo quell’opera il santo padre ha commentato letteralmente: ‘non solo e’ un’opera di straordinaria bellezza ma costituisce una lezione di teologia magistrale“. Il ricorso all’uso dell’oro e le polemiche che ne sono succedute vengono così smorzate da padre Belpiede: “Qualcuno, pochi in verità, ha contestato l’uso dell’oro e lo sfarzo. Ma l’uso dell’oro c’è in tutte le basiliche antiche della cristianità e anche nella basilica inferiore di Assisi dove si celebra il passaggio dalla morte alla vita: l’unico dipinto in oro è quello che celebra la gloria di San Francesco. Di fronte alla gloria di san Francesco salta via tutta l’austerità e la povertà. Noi – conclude frate Belpiede – per la cripta dedicata a San Pio abbiamo pensato di seguire la tradizione antica e di celebrare con un baluginio di oro la gloria di padre Pio che entra ricco di gloria nella gloria dei cieli. La Chiesa ha sempre fatto questo tipo di scelta. Se qualcuno non la pensa allo stesso modo è libero di farlo“.

Magdi Allam, il nuovo crociato

Allego una lettera aperta di Magdi Cristiano Allam al papa. E’ lunghetta, ma la fatica vale la pena di essere fatta.

Lettera aperta al Papa Benedetto XVI.doc

Rispondo non con parole mie ma con le parole di 60 anni fa del Concilio, sperando che Benedetto XVI chiarisca una volta per tutte:

“La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno. Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà”.

Il documento è la Nostra Aetate. Basta crociate, grazie!

Seminari: e i seminatori?

Traggo dal sito di Adista un’interessante notizia

 

UN PRETE DENUNCIA: I SEMINARI CI FORMANO PER ESSERE FUNZIONARI DI UNA CHIESA SONNOLENTA

34612. ROMA-ADISTA. Qualche tempo fa (v. Adista n. 45/08), raccontavamo la vicenda di un seminarista – Cristian Leonardelli – che, per poter diventare prete aveva dovuto trasmigrare dalla sua diocesi – Trento – fino a Livorno. Motivo: il suo “eccessivo” spirito critico, unito alla lettura di una stampa considerata non “edificante” per un aspirante presbitero, come quella di Adista, aveva suggerito al vescovo di Trento, mons. Luigi Bressan, di soprassedere all’ordinazione. Ebbene, qualche giorno fa don Cristian ci ha scritto, per precisare ulteriormente la sua vicenda e inserirla all’interno della più generale questione di come avviene oggi la formazione dei nuovi preti. La riproduciamo qui di seguito (v. g.)

Cara Adista,

sono don Cristian e scrivo in relazione all’articolo del n. 45 di Adista, intitolato: “Hai spirito critico? Leggi Adista? Allora non puoi fare il prete.” In esso si racconta brevemente della mia traversia nella diocesi di Trento conclusasi poi con l’ordinazione nella diocesi di Livorno. Ci tenevo a far sì che quanto mi è accaduto non si riducesse ad una faccenda personale tra me e il vescovo, ma desse l’opportunità per una riflessione di più ampio respiro, magari su Adista, riguardo i criteri di selezione dei candidati al sacerdozio. Penso infatti che questi criteri siano lo specchio di come oggi vive e ragiona la nostra Chiesa. Quale prete vogliamo oggi? E quale Chiesa sogniamo? Sono due facce della stessa domanda. La mia esperienza mi dice che nella “recluta” e nella formazione dei preti ben difficilmente sono “premiate” quelle persone leali, vere e dotate di quello spirito di amore per la ricerca e per la critica costruttiva. Quasi sempre sono preferite persone conformiste, inquadrate nei ranghi e che raramente sollevano questioni: è ovvio sono più funzionali alla nostra sonnolenta istituzione Chiesa che preferisce non aver a che fare con “rompiscatole” che potrebbero mettere in discussione modi di fare e di pensare. Difficilmente trovano spazio quelle persone che portano avanti “visioni” differenti da quelle ufficiali, coloro che manifestano dissenso, anche se affettuoso e creativo, fanno fatica ad esprimersi… come mai? Quale idea di Chiesa e, ancora più profondamente, quale idea di Dio nasconde questo modo di fare e di agire? Forse che arruolando nel clero (o tra i cristiani con responsabilità ecclesiali) persone appiattite nel sistema, prive di “spina dorsale”, di capacità critica, di amore per la verità, si pensa di portare elementi di pace? Penso che scansare problemi, evitare i riscontri, negarsi la realtà non siano elementi di pace ma piuttosto il modo per introdurre conflitti più ampi. Rinviare il confronto significa accumulare equivoci, frustrazioni, voglia di rivalsa. La pace di Cristo è proiettata nel futuro e non può crescere e realizzarsi finché ci sono ipocrisie in agguato, pronte a rivangare problemi accantonati. Pensare secondo Dio, uscire dall’individualismo, cercare il bene comune anche a rischio di generare conflitti: ecco il Regno di Dio. Infatti sovente nella storia i seguaci di Gesù sono stati perseguitati, e non soltanto da chi militava su fronti avversi, ma anche da appartenenti all’ambiente cristiano, da coloro che usano strumentalizzare il nome di Cristo per adattarlo a interessi di governo e di potere. L’indicazione è sempre la stessa: non chi dice “Signore Signore” rischia persecuzioni, ma “chi fa la volontà del Padre” (Mt 7,21). Certo non è utile nessuna contrapposizione conflittuale, ma solo un paziente, deciso e perseverante lavoro di trasformazione, per poter continuare a credere che al ripetersi della domanda: “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8), ci sarà qualcuno che risponderà: “Eccomi!”.

P. S. Dalla lettera di don Milani a don Coccio (3/2/1961):

“La vocazione di don Abbondio (cioè quella che in un seminario viene presentata come perfezione sotto il falso nome di Prudenza, Umiltà, Sottomissione) non era la vocazione dei Martiri che han fatto la Chiesa. E se l’essere cristiano non implicasse automaticamente l’opposizione alle autorità costituite, ai benpensanti, ai potenti, Gesù non sarebbe stato condannato a morte e nessuno degli altri suoi martiri che vennero dopo di lui. Dunque dai seminari così come sono ora non può in nessun modo uscire un cristiano cioè un chiamato alla persecuzione dei potenti (compresi i potenti ecclesiastici) e se è necessario al martirio”.

Spunto

Prima di tutti vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendermi, e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Bertolt Brecht

Le notizie in Italia

Ecco la prima pagina del Corriere…

La stretta di mano tra Mancini e Vieira e l’opinione di Marina Berlusconi su Luxuria contano più di quanto succede in Tibet…

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