Il linguaggio simbolico di Benedetto e Francesco (e Leone)

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Negli ultimi anni si è parlato molto dell’utilizzo di simboli religiosi all’interno del linguaggio politico. Ovviamente si tratta di un uso spesso opportunistico, ma non mi aspetto molto di diverso da un personaggio politico di questo periodo storico. Ma se provassimo a dare un’occhiata ai simboli religiosi in ambito religioso? In particolare a quelli, gesti simbolici compresi, utilizzati dagli ultimi pontefici? Un approfondito articolo di Martina Marradi, pubblicato su Pandora Rivista, affronta proprio questo aspetto. Buona lettura.

“Tutte le religioni si esprimono attraverso un repertorio simbolico composto da gesti, immagini e oggetti capaci di evocare significati profondi e condivisi all’interno di una comunità (cfr. Clifford Geertz, Interpretation Of Cultures, Basic Books, New York 1973, pp. 99, 104, 112-11). In ambito sacro, il simbolo non è mai neutro: come sottolineato da Jung, esso racchiude un contenuto che trascende la parola, rivelando un senso che rinvia all’invisibile e all’inconscio collettivo (cfr. Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionnaire des symboles: Mythes, rêves, coutumes, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, Robert Laffont, Parigi 1982, pp. XVII-XVIII). I simboli religiosi operano su un doppio registro: da un lato sono profondamente evocativi, dall’altro lato sono intrinsecamente arbitrari. La loro capacità di trasmettere significati spirituali e valori condivisi non risiede in una qualità oggettiva delle forme o dei materiali che li compongono, ma nel significato culturale che viene attribuito loro. Un esempio emblematico è la croce: due semplici pezzi di legno disposti in forma perpendicolare non assumono un valore simbolico universale, ma acquisiscono significato solo per chi riconosce in quella forma il riferimento alla crocifissione del Cristo. Ne consegue che la sacralità di un oggetto può risultare del tutto irrilevante, o persino impercettibile, per chi non condivide lo stesso orizzonte simbolico.
Tuttavia, questa arbitrarietà non nega il valore esperienziale dei simboli, che è legato indissolubilmente alla loro materialità. I simboli religiosi sono sempre incarnati in oggetti, gesti, immagini o spazi che coinvolgono i sensi e il corpo. È attraverso la loro tangibilità che riescono a suscitare emozioni, a radicarsi nella memoria collettiva e a favorire un senso di appartenenza. L’icona della Vergine Maria venerata in una chiesa ortodossa, la statua del Cristo portata in processione in una città mediterranea o il rosario che scorre tra le dita di un fedele sono tutti esempi di come la religione si esprima e si trasmetta attraverso forme materiali. La fede stessa, pur riferendosi a una realtà trascendente e invisibile, trova nella concretezza dei simboli un mezzo privilegiato per essere vissuta, comunicata e interiorizzata. Il segno della croce, tracciato sul proprio corpo, non è solo un gesto identitario: è una forma di preghiera che richiama la Passione di Cristo. Analogamente, la mano del sacerdote che si posa sul capo dei cresimandi non è soltanto un gesto rituale, ma un veicolo di riconoscimento comunitario. In questo senso, la religione ha bisogno di oggetti, immagini e azioni per rendere visibile l’invisibile, per mediare la relazione tra l’umano e il divino, tra la carne e lo spirito (cfr. Ugo Fabietti, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015).
In questo contesto, il modo in cui il Papa, in quanto massima autorità religiosa riconosciuta nella Chiesa cattolica, utilizza i simboli diventa un indicatore significativo del suo orientamento spirituale, teologico e pastorale. E proprio analizzando i pontificati di Benedetto XVI e di Francesco emergono due visioni profondamente diverse ma altrettanto efficaci del potere simbolico della Chiesa; mentre segnali ancora diversi provengono dalle prime scelte compiute da Leone XIV.

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Rinnovamento nella tradizione: la performatività dei gesti e delle scelte di Benedetto XVI
Durante il suo pontificato, Benedetto XVI intraprende un’opera di rinnovamento ecclesiale radicata nella tradizione, facendo leva sul potere evocativo della simbologia: unendo la spiritualità con la fisicità cerca di rivitalizzare il cattolicesimo attraverso il recupero dei riti e dei simboli ormai in disuso (cfr. Giacomo Galeazzi, Ratzinger. Il Papa sceso dal trono, Rubbettino, Soveria Mannelli 2023). Tale orientamento, pur mosso da una profonda motivazione spirituale, «La cosa importante è che la fede duri oggi. Io vedo questo come il compito centrale» (Benedetto XVI, Last testament in his own words in Peter Seewald (a cura di), Bloomsbury Continuum, Londra 2017), riflette un’oculata strategia. Nella società dell’immagine anche la Chiesa è consapevole di quanto siano rilevanti i simboli, poiché è da essi che un credo può rinascere, e se la scelta benedettina viene etichettata come conservatrice, il Pontefice ritiene che la Chiesa non debba adattarsi ai costumi del tempo, poiché essa «può essere moderna proprio essendo antimoderna», non allineandosi con l’opinione dominante (Cfr. Joseph Ratzinger, Salt of the Earth. Christianity and the Catholic Church at the End of the Millennium, in Peter Seewald (a cura di), traduzione di Adrian Walker, Ignatius Press, San Francisco 1997).
La strategia adottata si inserisce in un quadro analitico coerente con le osservazioni del sociologo Berger, secondo cui i movimenti religiosi caratterizzati da un’impostazione conservatrice e soprannaturalista sono quelli che mostrano maggiore vitalità di fronte alla secolarizzazione: il successo di tali gruppi risiederebbe proprio nella loro capacità di offrire certezze simboliche in un mondo frammentato e relativista, soddisfacendo un bisogno crescente di identità e radicamento spirituale. Benedetto è consapevole della percezione di anacronismo che grava sulla Chiesa, ma è convinto che solo difendendo la propria identità senza scendere a compromessi sarà possibile riportare in auge il cattolicesimo (Cfr. Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, Garzanti, Milano 2020). In questa prospettiva, nella roccaforte europea il cattolicesimo necessiterà di riaffermare la propria alterità dottrinale, entrando in dialogo, anche conflittuale, con le nuove identità religiose che si affermano nel continente. Tale riaffermazione richiede, a suo avviso, una rinnovata unità del cristianesimo, condizione necessaria per rendere la fede cristiana la possibile «religione civile dell’Europa» (Silvio Ferrari, Europa cristiana? L’eredità di Giovanni Paolo II, fra luci e ombre, «Limes», 20 maggio 2005).
Dal giorno della sua elezione, Benedetto indossa paramenti di tipo tradizionale con l’obiettivo di rivitalizzare la Chiesa, preservare la sacralità del culto ed evitare l’erosione dei valori cristiani in Occidente: «È chiaro […] che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi» (Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald, Ultime conversazioni, Garzanti, Milano 2016). Il significato simbolico delle sue scelte è duplice. Da un lato, egli vuole dare valore a ogni elemento della liturgia, nel senso spirituale del termine: «Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì “in persona di un Altro”. […] [Ciò significa] “rivestirsi di Cristo”, parlare ed agire in persona Christi» (Benedetto XVI, Santa Messa del crisma. Omelia di Sua Santità Benedetto XVI, Vatican.va, 5 aprile 2007). Dall’altro lato, il richiamo alla tradizione favorisce un’identificazione ecumenica, poiché il recupero di forme rituali condivise, come l’abbigliamento liturgico, crea continuità simbolica con altre Chiese cristiane, in particolare quella ortodossa.
Coerentemente con tale logica, il Pontefice promuove anche il recupero del latino come lingua liturgica. Per esprimere l’unità della Chiesa, ne raccomanda l’utilizzo durante le grandi celebrazioni, nella recita delle preghiere più comuni e nel canto gregoriano, esortando i seminaristi a conoscerlo, a celebrarne l’uso e a trasmetterne il significato ai fedeli. Per recuperare il senso della liturgia ripristina la somministrazione della Comunione in bocca e in ginocchio nella liturgia papale e per motivazioni di carattere pastorale e teologico invita i sacerdoti a celebrare la liturgia ad orientem, ossia dinanzi all’altare, rivolti nella stessa direzione dei fedeli. Anche l’altare e il trono papale vengono ricollocati al centro della scena liturgica, al fine di sottolinearne la centralità simbolica.

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Missione ad gentes: la performatività dei gesti e delle scelte di Francesco
Il pontificato di Francesco, al contrario, si distingue per una forte carica simbolica che riflette uno stile pastorale ostinatamente sobrio. Per ciò che concerne l’abbigliamento, nonostante erediti l’intero guardaroba papale dei predecessori, egli sceglie quasi sempre di indossare una semplice talare bianca e le sue scarpe ortopediche nere, evidenziando così la sua volontà di presentarsi come servus servorum Dei. Dopo l’elezione utilizza il pulmino dei Cardinali per tornare in albergo, paga di persona il conto lasciato in sospeso lì dove ha alloggiato durante il Conclave, si rifiuta di sedersi sul trono per ricevere l’obbedienza dei Cardinali e decide di risiedere a Santa Marta, piuttosto che nella residenza papale a lui dedicata. Gesti come il rifiuto di avere un assistente personale o un portaborse incaricato di aprirgli lo sportello dell’automobile costituiscono segnali performativi di un preciso stile pontificale, veicolando il messaggio secondo cui il potere non si esprime nel dominio, bensì nel servizio agli altri (cfr. Dario Edoardo Viganò, La predicazione di papa Francesco, in Andrea Riccardi (a cura di), Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, Laterza, Roma-Bari 2022).
È anche estremamente simbolica la scelta di celebrare la messa in luoghi non convenzionali per evidenziare come la Chiesa sia protesa verso gli emarginati. Nel primo viaggio al di fuori dei confini vaticani, Francesco si reca a Lampedusa e lì celebra la messa dinanzi a un altare ricavato da un’imbarcazione impiegata da alcuni migranti per raggiungere l’isola. Nel 2016, invece, officia la messa a Ciudad Juárez, una città di frontiera messicana al confine con gli Stati Uniti nota per la sua violenza e per la concentrazione di migliaia di migranti latinoamericani.
Nel ravvivare i momenti di fede attraverso l’introduzione o il potenziamento di rituali, Bergoglio non privilegia l’aspetto dottrinale, ma orienta la spiritualità cristiana verso le sfide contemporanee: così facendo cerca di trascendere la comunità dei cristiani per rivolgersi anche ai non credenti e mostra come la Chiesa sia capace di adattarsi ai problemi del nostro secolo (cfr. Marco Politi, Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 2014). Emblematiche sono in tal senso le Giornate mondiali istituite durante il suo pontificato: nel 2014 istituisce la Giornata mondiale dei movimenti popolari e la Giornata mondiale dei poveri, nel 2015 la Giornata mondiale della preghiera per la cura del Creato e la Giornata internazionale di preghiera e sensibilizzazione contro la tratta di esseri umani, nel 2021 la Giornata mondiale dei nonni e degli anziani e nel 2024 la Giornata mondiale dei bambini. Questi eventi non hanno solo lo scopo di coinvolgere i fedeli, ma anche quello di mobilitarli. In genere, le Giornate mondiali della Chiesa cattolica includono iniziative di sensibilizzazione e di beneficenza – per esempio, durante la Giornata mondiale dei poveri molte parrocchie organizzano raccolte di cibo e denaro da destinare ai senza dimora – e ottengono un’importante copertura mediatica: usualmente le agenzie di stampa come Associated Press e Reuters coprono il discorso del Pontefice, mentre altri media evidenziano le citazioni che affrontano questioni sociali o politiche di rilevanza e le integrano con analisi approfondite.
Particolarmente significativa è la benedizione Urbi et Orbi del 2020 e la Via Crucis al Colosseo del 2022: anche in queste occasioni il Pontefice unisce un tradizionale rito cristiano con un momento di riflessione sulle questioni contemporanee. Il 27 marzo 2020, egli decide di tenere una benedizione apostolica in una Piazza San Pietro completamente vuota a causa delle restrizioni dovute alla pandemia da Covid-19. Le fotografie che lo ritraggono da solo durante questa cerimonia religiosa diventano celebri in tutto il mondo e l’evento, trasmesso sia in diretta televisiva sia in diretta streaming, è seguito solo in Italia da oltre undici milioni di persone. Simboliche sono anche le scelte che vengono fatte durante la celebrazione: il Pontefice non raggiunge il leggio da dentro San Pietro, ma dall’esterno, come un normale visitatore, e non si protegge dalla pioggia durante il suo percorso. La vasta copertura mediatica è attribuibile non solo alla straordinarietà dell’evento, ma anche alla forza simbolica con cui il Papa riafferma la leadership morale della Chiesa nei momenti di crisi. Il 15 aprile 2022, invece, egli ripristina la Via Crucis dopo la pandemia. Per l’occasione modifica una parte del testo della cerimonia per adattarlo agli eventi della contemporaneità, fa portare la croce a una donna ucraina e a una russa e si fa accompagnare dalle famiglie, discutendo ad ogni stazione della processione i problemi che esse devono affrontare nella vita di tutti i giorni.

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Tra sobrietà e tradizione: i primi gesti simbolici di Papa Leone XIV
Nonostante il pontificato di Papa Leone XIV sia iniziato da poco tempo, si possono già cogliere alcuni segnali simbolici significativi nel suo stile pontificale, che suggeriscono la direzione che intende imprimere alla Chiesa. Per esempio, la scelta del nome pontificale richiama immediatamente la figura di Papa Leone XIII, Pontefice noto per il suo impegno sociale, di cui l’enciclica Rerum Novarum, da lui emanata, è l’emblema principale. In tal senso, il nome scelto da Prevost potrebbe indicare l’intenzione di proseguire lungo la linea del dialogo tra Chiesa e società, con particolare attenzione alle questioni sociali e ai diritti dei lavoratori.
Sin dalle sue prime apparizioni pubbliche, inoltre, l’attuale Papa opta per un abbigliamento sobrio, ma tradizionale: la scelta di indossare la mozzetta rossa, assente nel pontificato francescano, ma presente in quello benedettino, potrebbero segnalare un desiderio di equilibrio tra semplicità e solennità. L’uso di una croce pettorale non eccessivamente elaborata, seppur ricca nei dettagli, sembra voler indicare una Chiesa che mantiene la sua dignità istituzionale senza rinunciare alla prossimità al popolo. In definitiva, i primi gesti simbolici di Papa Leone XIV sembrano voler inaugurare un pontificato all’insegna del dialogo, della sobrietà e della continuità con alcune delle grandi eredità del passato, in particolare nel campo dell’impegno sociale. Ma saranno i prossimi passi a confermare se questo equilibrio tra tradizione e rinnovamento diventerà il tratto distintivo del suo magistero petrino.

Tornando a Papa Benedetto XVI e Papa Francesco, entrambi attraverso scelte simboliche profondamente divergenti ma ugualmente intenzionali, mostrano due vie complementari per rendere visibile l’invisibile: il primo attraverso il recupero della tradizione liturgica, il secondo mediante gesti di rottura e prossimità. In entrambi i casi, il simbolo si conferma strumento centrale di comunicazione spirituale e politica della Chiesa. Come Pontefice, Ratzinger restituisce modernità alla tradizione. Per lottare contro il relativismo dei valori e rilanciare la religione cattolica, decide di dare forza ai simboli e ai riti: l’impiego di paramenti liturgici di tipo tradizionale, la celebrazione della messa in latino, la valorizzazione del canto gregoriano sono alcuni dei fattori caratteristici del suo ministero che fanno emergere l’obiettivo di evitare che la secolarizzazione possa provocare un’emorragia inarrestabile di fedeli. Benedetto si impegna per l’unità del cristianesimo europeo nella convinzione che l’ecumenismo sia essenziale per la preservazione della fede. Francesco, invece, presenta uno stile pastorale sobrio, evidente in numerosi gesti simbolici che compie all’inizio del suo pontificato. Per lottare contro il relativismo dei valori e rilanciare la religione cattolica, egli decide di rivitalizzare i momenti di fede mediante l’introduzione o il rafforzamento di alcuni rituali, non ponendo attenzione alla dimensione dottrinale, bensì mettendo in luce i problemi mondiali e le sfide contemporanee da affrontare. Per il Pontefice l’obiettivo più urgente consiste nel ricreare un tessuto spirituale nella società che possa permettere alle religioni di riottenere un peso specifico nella vita pubblica e politica.”

L’omelia

Pubblico il testo integrale dell’omelia del cardinal Re, decano del Collegio Cardinalizio, durante i funerali di Papa Francesco, il 26 aprile 2025 (fonte sito del Vaticano).

“In questa maestosa piazza di San Pietro, nella quale Papa Francesco tante volte ha celebrato l’Eucarestia e presieduto grandi incontri nel corso di questi 12 anni, siamo raccolti in preghiera attorno alle sue spoglie mortali col cuore triste, ma sorretti dalle certezze della fede, che ci assicura che l’esistenza umana non termina nella tomba, ma nella casa del Padre in una vita di felicità che non conoscerà tramonto.
A nome del Collegio dei Cardinali ringrazio cordialmente tutti per la vostra presenza. Con intensità di sentimento rivolgo un deferente saluto e vivo ringraziamento ai Capi di Stato, ai Capi di Governo e alle Delegazioni ufficiali venute da numerosi Paesi ad esprimere affetto, venerazione e stima verso il Papa che ci ha lasciati.
Il plebiscito di manifestazioni di affetto e di partecipazione, che abbiamo visto in questi giorni dopo il suo passaggio da questa terra all’eternità, ci dice quanto l’intenso Pontificato di Papa Francesco abbia toccato le menti ed i cuori.
La sua ultima immagine, che rimarrà nei nostri occhi e nel nostro cuore, è quella di domenica scorsa, Solennità di Pasqua, quando Papa Francesco, nonostante i gravi problemi di salute, ha voluto impartirci la benedizione dal balcone della Basilica di San Pietro e poi è sceso in questa piazza per salutare dalla papamobile scoperta tutta la grande folla convenuta per la Messa di Pasqua.
Con la nostra preghiera vogliamo ora affidare l’anima dell’amato Pontefice a Dio, perché Gli conceda l’eterna felicità nell’orizzonte luminoso e glorioso del suo immenso amore.
Ci illumina e ci guida la pagina del Vangelo, nella quale è risuonata la voce stessa di Cristo che interpellava il primo degli Apostoli: “Pietro, mi ami tu più di costoro?”. E la risposta di Pietro era stata pronta e sincera: “Signore, Tu conosci tutto; Tu sai che ti voglio bene!”. E Gesù gli affidò la grande missione: “Pasci le mie pecore”. Sarà questo il compito costante di Pietro e dei suoi Successori, un servizio di amore sulla scia del Maestro e Signore Cristo che “non era venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per tutti” (Mc.10,45).
Nonostante la sua finale fragilità e sofferenza, Papa Francesco ha scelto di percorrere questa via di donazione fino all’ultimo giorno della sua vita terrena. Egli ha seguito le orme del suo Signore, il buon Pastore, che ha amato le sue pecore fino a dare per loro la sua stessa vita. E lo ha fatto con forza e serenità, vicino al suo gregge, la Chiesa di Dio, memore della frase di Gesù citata dall’Apostolo Paolo: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti, 20,35).
Quando il Card. Bergoglio, il 13 marzo del 2013, fu eletto dal Conclave a succedere a Papa Benedetto XVI, aveva alle spalle gli anni di vita religiosa nella Compagnia di Gesù e soprattutto era arricchito dall’esperienza di 21 anni di ministero pastorale nell’Arcidiocesi di Buenos Aires, prima come Ausiliare, poi come Coadiutore e in seguito, soprattutto, come Arcivescovo.
La decisione di prendere il nome Francesco apparve subito come la scelta di un programma e di uno stile su cui egli voleva impostare il suo Pontificato, cercando di ispirarsi allo spirito di San Francesco d’Assisi.
Conservò il suo temperamento e la sua forma di guida pastorale, e diede subito l’impronta della sua forte personalità nel governo della Chiesa, instaurando un contatto diretto con le singole persone e con le popolazioni, desideroso di essere vicino a tutti, con spiccata attenzione alle persone in difficoltà, spendendosi senza misura, in particolare per gli ultimi della terra, gli emarginati. È stato un Papa in mezzo alla gente con cuore aperto verso tutti. Inoltre è stato un Papa attento al nuovo che emergeva nella società ed a quanto lo Spirito Santo suscitava nella Chiesa.
Con il vocabolario che gli era caratteristico e col suo linguaggio ricco di immagini e di metafore, ha sempre cercato di illuminare con la sapienza del Vangelo i problemi del nostro tempo, offrendo una risposta alla luce della fede e incoraggiando a vivere da cristiani le sfide e le contraddizioni di questi nostri anni di cambiamenti, che amava qualificare “cambiamento di epoca”.
Aveva grande spontaneità e una maniera informale di rivolgersi a tutti, anche alle persone lontane dalla Chiesa.
Ricco di calore umano e profondamente sensibile ai drammi odierni, Papa Francesco ha realmente condiviso le ansie, le sofferenze e le speranze del nostro tempo della globalizzazione, e si è donato nel confortare e incoraggiare con un messaggio capace di raggiungere il cuore delle persone in modo diretto e immediato.
Il suo carisma dell’accoglienza e dell’ascolto, unito ad un modo di comportarsi proprio della sensibilità del giorno d’oggi, ha toccato i cuori, cercando di risvegliare le energie morali e spirituali.
Il primato dell’evangelizzazione è stato la guida del suo Pontificato, diffondendo, con una chiara impronta missionaria, la gioia del Vangelo, che è stata il titolo della sua prima Esortazione Apostolica Evangelii gaudium. Una gioia che colma di fiducia e speranza il cuore di tutti coloro che si affidano a Dio.
Filo conduttore della sua missione è stata anche la convinzione che la Chiesa è una casa per tutti; una casa dalle porte sempre aperte. Ha più volte fatto ricorso all’immagine della Chiesa come “ospedale da campo” dopo una battaglia in cui vi sono stati molti feriti; una Chiesa desiderosa di prendersi cura con determinazione dei problemi delle persone e dei grandi affanni che lacerano il mondo contemporaneo; una Chiesa capace di chinarsi su ogni uomo, al di là di ogni credo o condizione, curandone le ferite.
Innumerevoli sono i suoi gesti e le sue esortazioni in favore dei rifugiati e dei profughi. Costante è stata anche l’insistenza nell’operare a favore dei poveri.
È significativo che il primo viaggio di Papa Francesco sia stato quello a Lampedusa, isola simbolo del dramma dell’emigrazione con migliaia di persone annegate in mare. Nella stessa linea è stato anche il viaggio a Lesbo, insieme con il Patriarca Ecumenico e con l’Arcivescovo di Atene, come pure la celebrazione di una Messa al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, in occasione del suo viaggio in Messico.
Dei suoi 47 faticosi Viaggi Apostolici resterà nella storia in modo particolare quello in Iraq nel 2021, compiuto sfidando ogni rischio. Quella difficile Visita Apostolica è stata un balsamo sulle ferite aperte della popolazione irachena, che tanto aveva sofferto per l’opera disumana dell’ISIS. È stato questo un Viaggio importante anche per il dialogo interreligioso, un’altra dimensione rilevante della sua opera pastorale. Con la Visita Apostolica del 2024 a quattro Nazioni dell’Asia-Oceania, il Papa ha raggiunto “la periferia più periferica del mondo”.
Papa Francesco ha sempre messo al centro il Vangelo della misericordia, sottolineando ripetutamente che Dio non si stanca di perdonarci: Egli perdona sempre qualunque sia la situazione di chi chiede perdono e ritorna sulla retta via.
Volle il Giubileo Straordinario della Misericordia, mettendo in luce che la misericordia è “il cuore del Vangelo”.
Misericordia e gioia del Vangelo sono due parole chiave di Papa Francesco.
In contrasto con quella che ha definito “la cultura dello scarto”, ha parlato della cultura dell’incontro e della solidarietà. Il tema della fraternità ha attraversato tutto il suo Pontificato con toni vibranti. Nella Lettera Enciclica “Fratelli tutti” ha voluto far rinascere un’aspirazione mondiale alla fraternità, perché tutti figli del medesimo Padre che sta nei cieli. Con forza ha spesso ricordato che apparteniamo tutti alla medesima famiglia umana.
Nel 2019, durante il viaggio negli Emirati Arabi Uniti, Papa Francesco ha firmato un documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la Convivenza Comune”, richiamando la comune paternità di Dio.
Rivolgendosi agli uomini e alle donne di tutto il mondo, con la Lettera Enciclica Laudato si’ ha richiamato l’attenzione sui doveri e sulla corresponsabilità nei riguardi della casa comune. “Nessuno si salva da solo”.
Di fronte all’infuriare delle tante guerre di questi anni, con orrori disumani e con innumerevoli morti e distruzioni, Papa Francesco ha incessantemente elevata la sua voce implorando la pace e invitando alla ragionevolezza, all’onesta trattativa per trovare le soluzioni possibili, perché la guerra – diceva – è solo morte di persone, distruzioni di case, ospedali e scuole. La guerra lascia sempre il mondo peggiore di come era precedentemente: essa è per tutti sempre una dolorosa e tragica sconfitta.
“Costruire ponti e non muri” è un’esortazione che egli ha più volte ripetuto e il servizio di fede come Successore dell’Apostolo Pietro è stato sempre congiunto al servizio dell’uomo in tutte le sue dimensioni.
In unione spirituale con tutta la Cristianità siamo qui numerosi a pregare per Papa Francesco perché Dio lo accolga nell’immensità del suo amore.
Papa Francesco soleva concludere i suoi discorsi ed i suoi incontri dicendo: “Non dimenticatevi di pregare per me”.
Caro Papa Francesco, ora chiediamo a Te di pregare per noi e che dal cielo Tu benedica la Chiesa, benedica Roma, benedica il mondo intero, come domenica scorsa hai fatto dal balcone di questa Basilica in un ultimo abbraccio con tutto il popolo di Dio, ma idealmente anche con l’umanità che cerca la verità con cuore sincero e tiene alta la fiaccola della speranza.”

Mandi

Era il 2005, sempre aprile, il 2. Non avevo ancora iniziato a tenere un blog, Facebook esisteva ma non impattava ancora, gli altri social praticamente non c’erano. Le notizie non le cercavi su internet, ma usavi tv, radio, televideo e giornali (di carta). Quel 2 aprile 2005 se ne andava Giovanni Paolo II, l’ultima volta che è morto un papa “in carica”.
Poi c’è stato il 28 febbraio 2013, la data in cui Benedetto XVI diede le dimissioni: l’impatto sul web fu ben diverso, anche perché enorme fu la sorpresa… (personalmente ricordo ancora quello che stavo facendo quando seppi la notizia).
Della morte di Francesco ho saputo da un vicino mentre stavo andando a passare la Pasquetta a Lignano con la famiglia. Durante il giorno ho letto pochissimo dallo smartphone, poi, in tarda serata, ho avuto un po’ di tempo, ho fatto accesso ai social e sono scappato. Stiamo trasformando tutto in uno scontro, in una discussione in un conflitto: e deve essere immediato, estremo, forte, certo. Stiamo diventando esperti di polarizzazione.
Non voglio farne parte. Ne esco senza parole e usando un linguaggio che da un po’ non bazzico ma che riconosco come vicino al mio sentire: quello della fotografia. Era la fine di aprile del 2013 e Jorge Mario Bergoglio era da poco diventato Francesco e aveva stupito il mondo con un semplice “Buonasera”. Sara ed io eravamo in piazza San Pietro e ho fatto questi scatti. Letteralmente Mandi Francesco.

La sacralità della terra

E’ un argomento che affrontiamo specificatamente in quinta quello della globalizzazione, dello sviluppo e delle risorse del nostro pianeta. Ma cerco di pubblicare spesso articoli sul tema, in modo che anche studenti delle altre classi possano leggere qualcosa.
Oggi, su Vatican Insider, l’approfondimento de La Stampa dedicato a quanto succede intorno al pianeta-Chiesa, Iacopo Scaramuzzi ha scritto dell’incontro tra Papa Francesco e i partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals”.

“Il Papa ha messo in guardia dal «sentiero pericoloso» di ridurre lo sviluppo alla crescita del Prodotto interno lordo (PIL), una convenzione che porta a «sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani», in un discorso dedicato all’Agenda internazionale 2030 per uno sviluppo sostenibile, ricordando che, invece, è necessaria una «impostazione integrata degli obiettivi» e bisogna «rispondere adeguatamente sia al grido della terra sia al grido dei poveri». Francesco ha citato in particolare il modello delle popolazioni indigene, in vista del Sinodo sull’Amazzonia del prossimo ottobre, mettendo in evidenza che «sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre».
«Proporre un dialogo su uno sviluppo inclusivo e sostenibile richiede anche di riconoscere che “sviluppo” è un concetto complesso, spesso strumentalizzato», ha detto il Papa nell’udienza ai partecipanti alla conferenza “Religions and the Sustainable Development Goals (SDGs): Listening to the cry of the earth and of the poor” (Le religioni e gli obiettivi per uno sviluppo sostenibile: ascoltare il grido della terra e del povero), organizzata da ieri a domani dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale e dal pontificio consiglio per il Dialogo interreligioso.
«Quando parliamo di sviluppo dobbiamo sempre chiarire: sviluppo di cosa? Sviluppo per chi? Per troppo tempo l’idea convenzionale di sviluppo è stata quasi interamente limitata alla crescita economica», ha sottolineato Francesco. «Gli indicatori di sviluppo nazionale si sono basati sugli indici del prodotto interno lordo (PIL). Ciò ha guidato il sistema economico moderno su un sentiero pericoloso, che ha valutato il progresso solo in termini di crescita materiale, per il quale siamo quasi obbligati a sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani».
E invece, «come ha messo in risalto il mio predecessore San Paolo VI – ha proseguito il Pontefice – parlare di sviluppo umano significa riferirsi a tutte le persone – non solo a pochi – e all’intera persona umana – non alla sola dimensione materiale». Pertanto, «una fruttuosa discussione sullo sviluppo dovrebbe offrire modelli praticabili di integrazione sociale e di conversione ecologica, perché non possiamo svilupparci come esseri umani fomentando crescenti disuguaglianze e il degrado dell’ambiente».
Papa Francesco, che ha citato ampiamente la Caritas in veritate di Benedetto XVI ed ha menzionato l’appello di Giovanni Paolo II ad una «conversione ecologica», ha notato che «l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite propone di integrare tutti gli obiettivi attraverso le “cinque P”: persone, pianeta, prosperità, pace e partnership», una «impostazione integrata», ripresa anche dalla conferenza vaticana, che, ha proseguito Francesco citando la sua enciclica Laudato si’ «può servire anche a preservare da una concezione della prosperità basata sul mito della crescita e del consumo illimitati, per la cui sostenibilità dipenderemmo solo dal progresso tecnologico. Possiamo ancora trovare alcuni che sostengono ostinatamente questo mito, e dicono che i problemi sociali ed ecologici si risolvono semplicemente con l’applicazione di nuove tecnologie e senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo», e invece «un approccio integrale ci insegna che questo non è vero» poiché «gli obiettivi economici e politici devono essere sostenuti da obiettivi etici, che presuppongono un cambiamento di atteggiamento, la Bibbia direbbe un cambiamento di cuore».
Quanto alla risposta delle «persone religiose», il Papa ha messo in evidenza, in particolare, il ruolo delle popolazioni indigene: «Sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, esse si prendono cura di quasi il 22% della superficie terrestre. Vivendo in aree quali l’Amazzonia e l’Artico, aiutano a proteggere circa l’80% della biodiversità del pianeta». Inoltre, «in un mondo fortemente secolarizzato, tali popolazioni ricordano a tutti la sacralità della nostra terra. Per questi motivi, la loro voce e le loro preoccupazioni dovrebbero essere al centro dell’attuazione dell’Agenda 2030 e al centro della ricerca di nuove strade per un futuro sostenibile. Ne discuterò anche – ha sottolineato il Papa – con i miei fratelli Vescovi al Sinodo della Regione Panamazzonica, alla fine di ottobre di quest’anno».
Papa Francesco ha concluso il suo discorso evidenziando che «le sfide sono complesse e hanno molteplici cause; la risposta pertanto non può che essere a sua volta complessa e articolata, rispettosa delle diverse ricchezze culturali dei popoli. Se siamo veramente preoccupati di sviluppare un’ecologia capace di rimediare al danno che abbiamo fatto, nessuna branca delle scienze e nessuna forma di saggezza dovrebbero essere tralasciate, e ciò include le religioni e i linguaggi ad esse peculiari. Le religioni – ha detto Jorge Mario Bergoglio citando la Popolorum progressio di Paolo VI – possono aiutarci a camminare sulla via di un reale sviluppo integrale, che è il nuovo nome della pace».

Rischio tecnocrazia

“Roboetica: Persone, Macchine, Salute” è il titolo del Workshop aperto al pubblico che si è svolto il 25 e 26 febbraio 2019, all’interno dell’Assemblea della Pontificia Accademia per la Vita. Papa Francesco ha ricevuto in udienza i partecipanti alla plenaria e Salvatore Cernuzio ne ha scritto su La Stampa.

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“La macchina che domina l’uomo, i robot che sostituiscono la persona umana, la logica del dispositivo che soppianta la ragione umana. Il futuro distopico prefigurato da cinema e letteratura già mezzo secolo fa rischia di divenire un pericolo reale con l’avvento e l’aumento delle nuove tecnologie. Il monito non giunge da scienziati e antropologi ma da Papa Francesco, il quale […] avverte: «L’odierna evoluzione della capacità tecnica produce un incantamento pericoloso: invece di consegnare alla vita umana gli strumenti che ne migliorano la cura, si corre il rischio di consegnare la vita alla logica dei dispositivi che ne decidono il valore».
Un vero e proprio «rovesciamento» che, secondo Bergoglio, è destinato a produrre «esiti nefasti: la macchina non si limita a guidarsi da sola, ma finisce per guidare l’uomo. La ragione umana viene così ridotta a una razionalità alienata degli effetti, che non può essere considerata degna dell’uomo». In questo senso va rivista la denominazione stessa di “intelligenza artificiale” che, «pur certamente di effetto, può rischiare di essere fuorviante», annota Francesco. «I termini occultano il fatto che – a dispetto dell’utile assolvimento di compiti servili (è il significato originario del termine “robot”) –, gli automatismi funzionali rimangono qualitativamente distanti dalle prerogative umane del sapere e dell’agire. E pertanto possono diventare socialmente pericolosi». È del resto già reale «il rischio che l’uomo venga tecnologizzato, invece che la tecnica umanizzata»: lo si vede già adesso che «a “macchine intelligenti” vengono frettolosamente attribuite capacità che sono propriamente umane». Bisogna allora «comprendere meglio che cosa significano, in questo contesto, l’intelligenza, la coscienza, l’emotività, l’intenzionalità affettiva e l’autonomia dell’agire morale», dice il Pontefice. «I dispositivi artificiali che simulano capacità umane, in realtà, sono privi di qualità umana», aggiunge. «Occorre tenerne conto per orientare la regolamentazione del loro impiego, e la ricerca stessa, verso una interazione costruttiva ed equa tra gli esseri umani e le più recenti versioni di macchine» che si diffondono a vista d’occhio nel mondo e «trasformano radicalmente lo scenario della nostra esistenza». «Se sapremo far valere anche nei fatti questi riferimenti, le straordinarie potenzialità dei nuovi ritrovati potranno irradiare i loro benefici su ogni persona e sull’umanità intera», assicura il Papa.
Il primo passo è ricominciare a comprendere la tecnologia non come forza «estranea e ostile» all’uomo, ma come «prodotto del suo ingegno attraverso cui provvede alle esigenze del vivere per sé e per gli altri». La tecnologia dovrebbe apparire «una modalità specificamente umana di abitare il mondo», sottolinea il Pontefice. Oggi invece si assiste ad un «drammatico paradosso»: «Proprio quando l’umanità possiede le capacità scientifiche e tecniche per ottenere un benessere equamente diffuso, secondo la consegna di Dio, osserviamo un inasprimento dei conflitti e una crescita delle disuguaglianze».
Declina così «il mito illuminista del progresso» e «l’accumularsi delle potenzialità che la scienza e la tecnica ci hanno fornito non sempre ottiene i risultati sperati». Anzi, mentre da un lato «lo sviluppo tecnologico ci ha permesso di risolvere problemi fino a pochi anni fa insormontabili», dall’altro emergono «difficoltà e minacce talvolta più insidiose delle precedenti», afferma Papa Francesco. «Il “poter fare” rischia di oscurare il chi fa e il per chi si fa. Il sistema tecnocratico basato sul criterio dell’efficienza non risponde ai più profondi interrogativi che l’uomo si pone; e se da una parte non è possibile fare a meno delle sue risorse, dall’altra esso impone la sua logica a chi le usa».”
Non solo. Si assiste anche ad un progressivo «logorarsi» del tessuto delle relazioni familiari e sociali e si diffonde sempre di più «una tendenza a chiudersi su di sé e sui propri interessi individuali, con gravi conseguenze sulla grande e decisiva questione dell’unità della famiglia umana e del suo futuro». E se a tutto ciò aggiungiamo anche «i gravi danni causati al pianeta, nostra casa comune, dall’impiego indiscriminato dei mezzi tecnici», risulta chiaro che le prospettive del futuro siano piuttosto negative.
Il Papa esorta allora a ripristinare quel concetto di «ecologia integrale» descritto e promosso nella Laudato si’: nel mondo odierno, «segnato da una stretta interazione tra diverse culture», occorre portare lo specifico contributo dei credenti alla ricerca di «criteri operativi universalmente condivisibili, che siano punti di riferimento comuni per le scelte di chi ha la grave responsabilità di decisioni da prendere sul piano nazionale e internazionale», afferma.
In quest’ottica, «l’intelligenza artificiale, la robotica e le altre innovazioni tecnologiche» vanno impiegate «al servizio dell’umanità e alla protezione della nostra casa comune invece che per l’esatto opposto, come purtroppo prevedono alcune stime», chiosa il Pontefice. «L’inerente dignità di ogni essere umano va posta tenacemente al centro della nostra riflessione e della nostra azione».”

Una mano che strozza in guanti bianchi

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Venerdì 1 febbraio, come ho già avuto modo di scrivere, ero a Trieste per partecipare a ControMafie, gli Stati generali di Libera. Durante la plenaria di apertura c’è stato l’intervento di don Luigi Ciotti, che ho registrato. Questo pomeriggio mi sono messo a riascoltarlo per farne un pezzo da mettere qui. Quanta fatica! E mi è tornato in mente che ho faticato molto anche mentre ero nell’Aula Magna dell’Università… Ecco, rettore Fermeglia, al giorno d’oggi, un’amplificazione migliore, l’Università giuliana la meriterebbe.
Per questo motivo non riesco a riportare per intero l’intervento di don Ciotti, ho cercato di fare del mio meglio…

“Io vorrei partire da una domanda cui tutti siamo chiamati a rispondere: come mai dopo 150 anni parliamo di mafia? …
I giornalisti hanno subito chiesto come mai a Trieste.

  1. Innanzitutto perché quando nasce Libera, il primo incontro pubblico è stato fatto a Trieste. Paolo Rumiz ha moderato l’incontro, c’era Caselli, c’ero io e soprattutto c’era una persona eccezionale per questa città, don Mario Vatta.
  2. Abbiamo un debito di riconoscenza, un atto di responsabilità con chi è stato assassinato, con chi non c’è più, con chi è rimasto solo, con le famiglie. Già allora eravamo arrivati per tuo zio (dice rivolto a Silvia Stener, nipote di Eddie Cosina) e torniamo perché i nomi di chi non c’è più non basta dirli con la bocca, dobbiamo sentirli un pochettino qui dentro, altrimenti diventa la retorica della memoria. Noi non vogliamo la retorica della memoria, non possiamo permettercelo, non dobbiamo farlo. E non possiamo dimenticare a nordest un ragazzo di Trento, meraviglioso anche lui, Antonio Micalizzi, giovane giornalista che a Strasburgo ha perso la vita. Le speranze di chi non c’è più devono camminare sulle nostre gambe; noi dobbiamo impegnarci per fare in modo che la memoria sia viva. Noi dobbiamo esser vivi, più degni, più coraggiosi per costruire intorno a noi vita, perché vinca davvero la vita e la morte sia sconfitta.
  3. Ma mi piacerebbe che da questa sala ci si ponesse ancora dei dubbi, perché i dubbi sono più sani delle certezze: quando incontro qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, mi preoccupo. Anzi, se trovate qualcuno che ha capito tutto e che sa tutto, a nome mio e di Giancarlo Caselli, salutatecelo personalmente e cambiate strada. Siamo tutti piccoli. Abbiamo il dovere di continuare a leggere la realtà: l’Italia e la maggior parte degli italiani si sono fermati alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Sono passati 26 anni! E voi (rivolto ai magistrati e alle forze dell’ordine) ci testimoniate come le mafie siano profondamente cambiate. Siamo venuti nel nordest per far emergere le cose belle e positive di questa terra, ricordando anche le parole del papa sull’ecologia integrale: disastri ambientali e disastri sociali non sono due crisi diverse, ma un’unica crisi socio-ambientale.

Allora, 5 anni del rapporto della direzione nazionale antimafia, le antenne dei nostri presidi sui territori, la società civile: quello che emerge impone a tutti noi, anche a chi è già impegnato il morso del più, uno scatto in più. Il problema non sono i migranti, il problema sono i mafiosi nel nostro paese! La commissione antimafia, con voto unanime, scrive che “le organizzazioni mafiose italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni assumendo forme organizzative nuove e modelli di azione sempre più multiformi e complessi”. Cito alcune caratteristiche:

  1. progressivo allargamento del raggio d’azione: non c’è regione d’Italia che possa dichiararsi esente
  2. profili organizzativi: presidi reticolari
  3. più accentuata vocazione imprenditoriale espressa nell’economia legale e nei mercati: lì è possibile situare il consolidamento del potere delle mafie
  4. promozione di relazioni con attori della cosiddetta area grigia (al confine tra sfera legale e illegale). Non è un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma una commistione tra le due aree. Si tratta di confini mobili, opachi e porosi tra lecito e illecito.

Tocca a noi cogliere quello che ci viene consegnato dagli organi competenti, metterlo insieme alle nostre conoscenze e alle nostre forze per assumerci di più la nostra parte di responsabilità. Abbiamo il dovere di guardare alle cose positive, ma anche di prendere coscienza che le mafie si rigenerano.
Molta gente oggi ha scelto la neutralità: non è possibile scegliere la neutralità. Abbiamo il dovere umile, umile, umile di schierarci. Un abbraccio ai genitori dei ragazzi morti di droga in questa regione: l’onda lunga dell’assenza di futuro per molti giovani comincia a farsi sentire. L’eroina è tornata più di prima, più di vent’anni fa. La droga resta uno degli zoccoli delle organizzazioni criminali mafiose.
Abbiamo leggi che ci vengono invidiate, peccato che vi siano piccole virgole o singole parole in grado di stravolgerne l’efficacia. Abbiamo bisogno di chiarezza: azioni chiare, parole autentiche, misurate ma ferme e inequivocabili, capaci di esprimere a un tempo il dolore, la compassione, la condanna, ma sempre anche la speranza. Tutto ciò anche contro i mormoranti, coloro che mormorano per i corridoi…
Non dimentichiamoci che gli altri sono i termometri della nostra umanità, compresi quanti vengono da lontano. Non facciamo della legalità un mito: essa è il mezzo, la via per raggiungere quell’obiettivo che si chiama giustizia. La legalità non è il fine. Essa va saldata fortemente alla responsabilità. Leggere nel Rapporto Censis che l’Italia è il fanalino di coda nell’istruzione e nella formazione ci fa sobbalzare sulla sedia. La cultura deve svegliare le coscienze. La legalità senza civiltà, senza educazione, senza cultura, senza lavoro si svuota.
Le mafie sono parassiti e traggono forza dai vuoti sociali, dai vuoti culturali. La corruzione è una mano che strozza in guanti bianchi. Siamo chiamati a studiare, a documentarci per attuare un’etica incarnata che inizi dalle piccole cose della quotidianità: cittadini attenti al bene comune e alla responsabilità.
Un’ultima parola per la Chiesa. Papa Francesco ha voluto un gruppo di lavoro sulla corruzione e sulle mafie. La Chiesa deve parlare chiaro senza reticenze, non limitarsi a predicare il Vangelo, ma viverlo nella sua ricerca di verità e nel suo impegno contro le ingiustizie, le prepotenze, gli abusi di potere. In questi anni il papa, dopo aver incontrato un migliaio di parenti delle vittime, è andato sulla piana di Sibari e senza mezzi termini ha gridato che le mafie sono adorazione del male e disprezzo del bene comune e ha detto con forza che tutto questo va combattuto, allontanato, ma ha anche detto che gli ‘ndranghetisti, i mafiosi non sono in comunione con Dio e ha usato un termine molto chiaro: “sono scomunicati”.

La speranza per il domani poggia sulla resistenza dell’oggi. Le leggi devono tutelare i diritti, non i poteri; devono promuovere la giustizia sociale, non le disuguaglianze o le discriminazioni. La speranza è un diritto ma anche l’orizzonte di una politica seriamente impegnata nella promozione del bene comune; se la politica non fa questo tradisce la sua essenza, non è politica. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizione del potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, perché è da 150 anni che noi continuiamo a parlare di mafie.”

L’impronta, la traccia

impronta

Pochi giorni fa si è tenuta in Polonia la Gmg. Ho letto in rete vari titoli, spesso polemici, sul discorso del papa alla veglia di preghiera: debole, buonista, semplicistico, banale… Finalmente stamattina, con calma, sono riuscito a leggerlo. Ne ho dedotto un’unica domanda e un ricordo.
La domanda: cosa c’è di diverso da quanto annunciato da Gesù nei Vangeli?
Il ricordo: Alessandro, scomparso nel 1999 a 23 anni dopo una battaglia contro la malattia. Ha lasciato un messaggio che trovo calzare a pennello con le parole di papa Francesco: “Io purtroppo ho dovuto sempre lottare nella mia vita, lottare per andare avanti, visto i miei numerosi problemi di salute. Nonostante ciò ho capito una cosa importantissima, direi fondamentale: l’importanza della vita e dell’amore di ogni persona. Giovani amate la vostra vita, non buttatela in stupide sciocchezze. Amatela fino in fondo, lottate per essa, abbiate il coraggio e speranza sempre, in ogni momento. Affidate pienamente la vostra vita al Signore e non avrete più paura di nulla. Che la vostra vita non sia una vita sterile … siate utili… “lasciate traccia“. Siete voi che dovete illuminare il mondo con la fiamma della vostra fede, del vostro amore.”

E queste sono le parole di Bergoglio al Campus Misericordiae di Cracovia:
Cari giovani, buona sera!
E’ bello essere qui con voi in questa Veglia di preghiera.
Alla fine della sua coraggiosa e commovente testimonianza, Rand ci ha chiesto qualcosa. Ci ha detto: “Vi chiedo sinceramente di pregare per il mio amato Paese”. Una storia segnata dalla guerra, dal dolore, dalla perdita, che termina con una richiesta: quella della preghiera. Che cosa c’è di meglio che iniziare la nostra veglia pregando?
Veniamo da diverse parti del mondo, da continenti, Paesi, lingue, culture, popoli differenti. Siamo “figli” di nazioni che forse stanno discutendo per vari conflitti, o addirittura sono in guerra. Altri veniamo da Paesi che possono essere in “pace”, che non hanno conflitti bellici, dove molte delle cose dolorose che succedono nel mondo fanno solo parte delle notizie e della stampa. Ma siamo consapevoli di una realtà: per noi, oggi e qui, provenienti da diverse parti del mondo, il dolore, la guerra che vivono tanti giovani, non sono più una cosa anonima, per noi non sono più una notizia della stampa, hanno un nome, un volto, una storia, una vicinanza. Oggi la guerra in Siria è il dolore e la sofferenza di tante persone, di tanti giovani come la coraggiosa Rand, che sta qui in mezzo a noi e ci chiede di pregare per il suo amato Paese.
Ci sono situazioni che possono risultarci lontane fino a quando, in qualche modo, le tocchiamo. Ci sono realtà che non comprendiamo perché le vediamo solo attraverso uno schermo (del cellulare o del computer). Ma quando prendiamo contatto con la vita, con quelle vite concrete non più mediatizzate dagli schermi, allora ci succede qualcosa di forte: tutti sentiamo l’invito a coinvolgerci: “Basta città dimenticate”, come dice Rand; mai più deve succedere che dei fratelli siano “circondati da morte e da uccisioni” sentendo che nessuno li aiuterà. Cari amici, vi invito a pregare insieme a motivo della sofferenza di tante vittime della guerra, di questa guerra che c’è oggi nel mondo, affinché una volta per tutte possiamo capire che niente giustifica il sangue di un fratello, che niente è più prezioso della persona che abbiamo accanto. E in questa richiesta di preghiera voglio ringraziare anche voi, Natalia e Miguel, perché anche voi avete condiviso con noi le vostre battaglie, le vostre guerre interiori. Ci avete presentato le vostre lotte, e come avete fatto per superarle. Voi siete segno vivo di quello che la misericordia vuole fare in noi.
Noi adesso non ci metteremo a gridare contro qualcuno, non ci metteremo a litigare, non vogliamo distruggere, non vogliamo insultare. Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il terrore con più terrore. E la nostra risposta a questo mondo in guerra ha un nome: si chiama fraternità, si chiama fratellanza, si chiama comunione, si chiama famiglia. Festeggiamo il fatto che veniamo da culture diverse e ci uniamo per pregare. La nostra migliore parola, il nostro miglior discorso sia unirci in preghiera. Facciamo un momento di silenzio e preghiamo; mettiamo davanti a Dio le testimonianze di questi amici, identifichiamoci con quelli per i quali “la famiglia è un concetto inesistente, la casa solo un posto dove dormire e mangiare”, o con quelli che vivono nella paura di credere che i loro errori e peccati li abbiano tagliati fuori definitivamente. Mettiamo alla presenza del nostro Dio anche le vostre “guerre”, le nostre “guerre”, le lotte che ciascuno porta con sé, nel proprio cuore. E per questo, per essere in famiglia, in fratellanza, tutti insieme, vi invito ad alzarvi, a prendervi per mano e a pregare in silenzio. Tutti.
(SILENZIO)
Mentre pregavamo mi veniva in mente l’immagine degli Apostoli nel giorno di Pentecoste. Una scena che ci può aiutare a comprendere tutto ciò che Dio sogna di realizzare nella nostra vita, in noi e con noi. Quel giorno i discepoli stavano chiusi dentro per la paura. Si sentivano minacciati da un ambiente che li perseguitava, che li costringeva a stare in una piccola abitazione obbligandoli a rimanere fermi e paralizzati. Il timore si era impadronito di loro. In quel contesto, accadde qualcosa di spettacolare, qualcosa di grandioso. Venne lo Spirito Santo e delle lingue come di fuoco si posarono su ciascuno di essi, spingendoli a un’avventura che mai avrebbero sognato. La cosa cambia completamente!
Abbiamo ascoltato tre testimonianze; abbiamo toccato, con i nostri cuori, le loro storie, le loro vite. Abbiamo visto come loro, al pari dei discepoli, hanno vissuto momenti simili, hanno passato momenti in cui sono stati pieni di paura, in cui sembrava che tutto crollasse. La paura e l’angoscia che nascono dal sapere che uscendo di casa uno può non rivedere più i suoi cari, la paura di non sentirsi apprezzato e amato, la paura di non avere altre opportunità. Loro hanno condiviso con noi la stessa esperienza che fecero i discepoli, hanno sperimentato la paura che porta in un unico posto. Dove ci porta, la paura? Alla chiusura. E quando la paura si rintana nella chiusura, va sempre in compagnia di sua “sorella gemella”, la paralisi; sentirci paralizzati. Sentire che in questo mondo, nelle nostre città, nelle nostre comunità, non c’è più spazio per crescere, per sognare, per creare, per guardare orizzonti, in definitiva per vivere, è uno dei mali peggiori che ci possono capitare nella vita, e specialmente nella giovinezza. La paralisi ci fa perdere il gusto di godere dell’incontro, dell’amicizia, il gusto di sognare insieme, di camminare con gli altri. Ci allontana dagli altri, ci impedisce di stringere la mano, come abbiamo visto [nella coreografia], tutti chiusi in quelle piccole stanzette di vetro.
Ma nella vita c’è un’altra paralisi ancora più pericolosa e spesso difficile da identificare, e che ci costa molto riconoscere. Mi piace chiamarla la paralisi che nasce quando si confonde la FELICITÀ con un DIVANO / KANAPA! Sì, credere che per essere felici abbiamo bisogno di un buon divano. Un divano che ci aiuti a stare comodi, tranquilli, ben sicuri. Un divano, come quelli che ci sono adesso, moderni, con massaggi per dormire inclusi, che ci garantiscano ore di tranquillità per trasferirci nel mondo dei videogiochi e passare ore di fronte al computer. Un divano contro ogni tipo di dolore e timore. Un divano che ci faccia stare chiusi in casa senza affaticarci né preoccuparci. La “divano-felicità” / “kanapa-szczęście” è probabilmente la paralisi silenziosa che ci può rovinare di più, che può rovinare di più la gioventù. “E perché succede questo, Padre?”. Perché a poco a poco, senza rendercene conto, ci troviamo addormentati, ci troviamo imbambolati e intontiti. L’altro ieri, parlavo dei giovani che vanno in pensione a 20 anni; oggi parlo dei giovani addormentati, imbambolati, intontiti, mentre altri – forse i più vivi, ma non i più buoni – decidono il futuro per noi. Sicuramente, per molti è più facile e vantaggioso avere dei giovani imbambolati e intontiti che confondono la felicità con un divano; per molti questo risulta più conveniente che avere giovani svegli, desiderosi di rispondere, di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni del cuore. Voi, vi domando, domando a voi: volete essere giovani addormentati, imbambolati, intontiti? Volete che altri decidano il futuro per voi? Volete essere liberi? Volete essere svegli? Volete lottare per il vostro futuro? Non siete troppo convinti… Volete lottare per il vostro futuro?
Ma la verità è un’altra: cari giovani, non siamo venuti al mondo per “vegetare”, per passarcela comodamente, per fare della vita un divano che ci addormenti; al contrario, siamo venuti per un’altra cosa, per lasciare un’impronta. E’ molto triste passare nella vita senza lasciare un’impronta. Ma quando scegliamo la comodità, confondendo felicità con consumare, allora il prezzo che paghiamo è molto ma molto caro: perdiamo la libertà. Non siamo liberi di lasciare un’impronta. Perdiamo la libertà. Questo è il prezzo. E c’è tanta gente che vuole che i giovani non siano liberi; c’è tanta gente che non vi vuole bene, che vi vuole intontiti, imbambolati, addormentati, ma mai liberi. No, questo no! Dobbiamo difendere la nostra libertà!
Proprio qui c’è una grande paralisi, quando cominciamo a pensare che felicità è sinonimo di comodità, che essere felice è camminare nella vita addormentato o narcotizzato, che l’unico modo di essere felice è stare come intontito. E’ certo che la droga fa male, ma ci sono molte altre droghe socialmente accettate che finiscono per renderci molto o comunque più schiavi. Le une e le altre ci spogliano del nostro bene più grande: la libertà. Ci spogliano della libertà.
Amici, Gesù è il Signore del rischio, è il Signore del sempre “oltre”. Gesù non è il Signore del confort, della sicurezza e della comodità. Per seguire Gesù, bisogna avere una dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti, capaci di contagiare gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio, la gioia che lascia nel tuo cuore ogni gesto, ogni atteggiamento di misericordia. Andare per le strade seguendo la “pazzia” del nostro Dio che ci insegna a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo. Andare per le strade del nostro Dio che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Che ci stimola a pensare un’economia più solidale di questa. In tutti gli ambiti in cui vi trovate, l’amore di Dio ci invita a portare la Buona Notizia, facendo della propria vita un dono a Lui e agli altri. E questo significa essere coraggiosi, questo significa essere liberi!
Potrete dirmi: Padre, ma questo non è per tutti, è solo per alcuni eletti! Sì, è vero, e questi eletti sono tutti quelli che sono disposti a condividere la loro vita con gli altri. Allo stesso modo in cui lo Spirito Santo trasformò il cuore dei discepoli nel giorno di Pentecoste – erano paralizzati – lo ha fatto anche con i nostri amici che hanno condiviso le loro testimonianze. Uso le tue parole, Miguel: tu ci dicevi che il giorno in cui nella “Facenda” ti hanno affidato la responsabilità di aiutare per il migliore funzionamento della casa, allora hai cominciato a capire che Dio chiedeva qualcosa da te. Così è cominciata la trasformazione.
Questo è il segreto, cari amici, che tutti siamo chiamati a sperimentare. Dio aspetta qualcosa da te. Avete capito? Dio aspetta qualcosa da te, Dio vuole qualcosa da te, Dio aspetta te. Dio viene a rompere le nostre chiusure, viene ad aprire le porte delle nostre vite, delle nostre visioni, dei nostri sguardi. Dio viene ad aprire tutto ciò che ti chiude. Ti sta invitando a sognare, vuole farti vedere che il mondo con te può essere diverso. E’ così: se tu non ci metti il meglio di te, il mondo non sarà diverso. E’ una sfida.
Il tempo che oggi stiamo vivendo non ha bisogno di giovani-divano / młodzi kanapowi, ma di giovani con le scarpe, meglio ancora, con gli scarponcini calzati. Questo tempo accetta solo giocatori titolari in campo, non c’è posto per riserve. Il mondo di oggi vi chiede di essere protagonisti della storia perché la vita è bella sempre che vogliamo viverla, sempre che vogliamo lasciare un’impronta. La storia oggi ci chiede di difendere la nostra dignità e non lasciare che siano altri a decidere il nostro futuro. No! Noi dobbiamo decidere il nostro futuro, voi il vostro futuro! Il Signore, come a Pentecoste, vuole realizzare uno dei più grandi miracoli che possiamo sperimentare: far sì che le tue mani, le mie mani, le nostre mani si trasformino in segni di riconciliazione, di comunione, di creazione. Egli vuole le tue mani per continuare a costruire il mondo di oggi. Vuole costruirlo con te. E tu, cosa rispondi? Cosa rispondi, tu? Sì o no?
Mi dirai: Padre, ma io sono molto limitato, sono peccatore, cosa posso fare? Quando il Signore ci chiama non pensa a ciò che siamo, a ciò che eravamo, a ciò che abbiamo fatto o smesso di fare. Al contrario: nel momento in cui ci chiama, Egli sta guardando tutto quello che potremmo fare, tutto l’amore che siamo capaci di contagiare. Lui scommette sempre sul futuro, sul domani. Gesù ti proietta all’orizzonte, mai al museo.
Per questo, amici, oggi Gesù ti invita, ti chiama a lasciare la tua impronta nella vita, un’impronta che segni la storia, che segni la tua storia e la storia di tanti.
La vita di oggi ci dice che è molto facile fissare l’attenzione su quello che ci divide, su quello che ci separa. Vorrebbero farci credere che chiuderci è il miglior modo di proteggerci da ciò che ci fa male. Oggi noi adulti – noi, adulti! – abbiamo bisogno di voi, per insegnarci – come adesso fate voi, oggi – a convivere nella diversità, nel dialogo, nel condividere la multiculturalità non come una minaccia ma come un’opportunità. E voi siete un’opportunità per il futuro. Abbiate il coraggio di insegnarci, abbiate il coraggio di insegnare a noi che è più facile costruire ponti che innalzare muri! Abbiamo bisogno di imparare questo. E tutti insieme chiediamo che esigiate da noi di percorrere le strade della fraternità. Che siate voi i nostri accusatori, se noi scegliamo la via dei muri, la via dell’inimicizia, la via della guerra. Costruire ponti: sapete qual è il primo ponte da costruire? Un ponte che possiamo realizzare qui e ora: stringerci la mano, darci la mano. Forza, fatelo adesso. Fate questo ponte umano, datevi la mano, tutti voi: è il ponte primordiale, è il ponte umano, è il primo, è il modello. Sempre c’è il rischio – l’ho detto l’altro giorno – di rimanere con la mano tesa, ma nella vita bisogna rischiare, chi non rischia non vince. Con questo ponte, andiamo avanti. Qui, questo ponte primordiale: stringetevi la mano. Grazie. E’ il grande ponte fraterno, e possano imparare a farlo i grandi di questo mondo!… ma non per la fotografia – quando si danno la mano e pensano un’altra cosa -, bensì per continuare a costruire ponti sempre più grandi. Che questo ponte umano sia seme di tanti altri; sarà un’impronta.
Oggi Gesù, che è la via, chiama te, te, te a lasciare la tua impronta nella storia. Lui, che è la vita, ti invita a lasciare un’impronta che riempia di vita la tua storia e quella di tanti altri. Lui, che è la verità, ti invita a lasciare le strade della separazione, della divisione, del non-senso. Ci stai? Ci stai? Cosa rispondono adesso – voglio vedere – le tue mani e i tuoi piedi al Signore, che è via, verità e vita? Ci stai? Il Signore benedica i vostri sogni. Grazie!”.

Gemme n° 215

So che sembro ripetitiva quando parlo di questo argomento, ma lo faccio perché per me è molto importante, veramente molto importante”. Con queste parole M. (classe quarta) ha presentato la sua gemma, questo video:

La vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo… Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!… Quando parliamo di ambiente, del Creato, il mio pensiero va alle prime pagine della Bibbia, al Libro della Genesi, dove si afferma che Dio pose l’uomo e la donna sulla terra perché la coltivassero e la custodissero (cfr 2,15). E mi sorgono le domande: che cosa vuol dire coltivare e custodire la terra? Noi stiamo veramente coltivando e custodendo il Creato? Oppure lo stiamo sfruttando e trascurando? Il verbo “coltivare” mi richiama alla mente la cura che l’agricoltore ha per la sua terra perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta attenzione, passione e dedizione! Coltivare e custodire il Creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti…”. Sono tutte frasi dell’attuale pontefice.

Bergoglio e Stati Uniti

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Un interessante articolo di Massimo Faggioli sul “primo papa del XXI secolo in senso geopolitico”. Compare su Europa.

Dalla liturgia della Chiesa alle liturgie della comunicazione globale: la conferenza stampa dal ritorno del viaggio papale è ormai diventata un appuntamento tipico del pontificato di Francesco, quasi come le omelie del mattino a Santa Marta.
Questa conferenza stampa era attesa più di altre per il quadro internazionale in cui la visita in Corea si è svolta: la questione cinese e la divisione della Corea, la guerra permanente tra Israele e Hamas a Gaza, ma soprattutto la lettera datata 9 agosto al segretario generale dell’Onu circa la situazione delle minoranze religiose attaccate dall’Isis in Iraq.
La conferenza stampa si è concentrata sulle questioni internazionali, e la tentazione è di cercare nelle parole del papa una “dottrina Bergoglio” che non esiste.
Ma Francesco si trova di fronte a una situazione che spinge a riconsiderare sotto una nuova luce il dovere della comunità internazionale all’ingerenza umanitaria per proteggere le popolazioni a rischio di genocidio. Papa Benedetto XVI non dovette confrontarsi con una crisi internazionale di questo tipo.
E invocare (come si fa in alcuni circoli cattolici) il carattere profetico del discorso di Ratisbona sull’Islam è solo un modo per evitare di capire la congiuntura attuale.
Dall’intervista di papa Francesco è chiaro il linguaggio usato per esprimere la consapevolezza della Chiesa che interventi umanitari si sono talvolta tramutati in guerre di conquista, e il ribadire che l’interlocutore di riferimento sono le Nazioni Unite. L’Europa politica svolge un ruolo radicalmente marginale nel linguaggio bergogliano, e non è soltanto sfiducia verso Bruxelles. Non si tratta più del papato globale di Giovanni Paolo II post-Muro di Berlino, che si sgancia dal ruolo di garante morale e spirituale della Nato. Quello di Francesco è un papato globale de iure e de facto che non si sente più legato a quel progetto di Occidente post-1945 «concepito in Vaticano e partorito a Washington», come disse il teologo protestante tedesco Martin Niemoller.
Una delle espressioni più audaci usate da Francesco al ritorno dalla Corea per descrivere la situazione attuale è quella di una «terza guerra mondiale fatta a pezzetti». È una visione delle cose tipica di un non europeo, che non vede nella fine della Seconda guerra mondiale l’inizio di una pax europea estesa al resto del globo: quella pace è stata già rotta da tempo e i conflitti lambiscono i confini dell’Unione, non senza responsabilità europee e americane. Nel tardo secolo XX una visione di questo genere sarebbe stata accusata di terzomondismo, frutto di una politica “non allineata”. Ma papa Francesco è non soltanto il primo papa del post-Concilio in senso teologico, ma anche il primo papa del secolo XXI in senso geopolitico. Questo comporta un ridimensionamento della centralità europea sulla mappa della ecclesia globale e della centralità nordatlantica nel giudicare lo stato del mondo.
Francesco ha un evidente “problema americano”. Non è certo un lapsus quel passaggio in cui ricorda ai cattolici (statunitensi) l’insegnamento morale della Chiesa circa la tortura. Ma interessante è anche la volontà di papa Francesco di tenere in sospeso i cattolici americani circa l’ipotizzata visita del settembre 2015: in parte per rimproverare al vescovo di Philadelphia, Chaput, la volontà di accreditarsi in pubblico, qualche mese fa, come colui che aveva convinto il papa a venire in America; ma anche perché per Francesco la Chiesa americana rappresenta un’incognita e allo stesso tempo una Chiesa come le altre. Se c’è un papa che non crede nell’eccezionalismo americano, questo è proprio l’argentino Bergoglio.
Le parole della conferenza stampa di papa Francesco sono state divulgate solo un paio d’ore prima della conferenza stampa di Barack Obama sui fatti di Ferguson. È tutto dire che il presidente avrebbe voluto parlare più di Iraq che dei tumulti a sfondo razziale in Missouri: un altro segnale del declino della rilevanza dell’America nella geopolitica mondiale. Il papa sudamericano è cosciente di questo declino. Ma in questo momento Francesco non può fare a meno del potere americano, per salvare qualcosa di quel cristianesimo che nell’area mediorientale era vitale già secoli prima che i vescovi di Roma fossero chiamati papi.”

Presenze necessarie

Roma20130428_0067 fb.jpgL’altroieri leggevo delle parole del papa (già dette a giugno ma ripetute in questi giorni): “Quando ho deciso di vivere a Santa Marta non è stato tanto per ragioni di semplicità, perché l’appartamento papale è grande ma non lussuoso. Ho scelto di vivere a Santa Marta per il mio modo di essere, io non posso vivere da solo, chiuso, ho bisogno del contatto con la gente. Posso riassumerlo così. Ho scelto di vivere a Santa Marta per ragioni psichiatriche, perché non posso stare da solo. E anche per ragioni economiche, perché altrimenti avrei dovuto pagare molto uno psichiatra! E’ per stare con la gente. Lì vivono una quarantina di vescovi e sacerdoti che lavorano nella Santa Sede, e sacerdoti, vescovi, cardinali, laici che vengono a Roma vivono lì”.

Mi sono tornate alla mente ieri mentre leggevo il libro “La pazienza del nulla” di Arturo Paoli (100 anni lo scorso novembre). Nel passo che qui riporto si fa riferimento a Francesco, il santo di Assisi, ma…:

“Un amico di Dio, e per un cristiano, un amico di Gesù, che vive con serietà l’esclusività del suo rapporto, è una persona capace di amicizia e di amore al punto che il suo passaggio lascia nostalgia e la sua presenza è desiderata. […] La conversazione di Gesù con i discepoli di Emmaus, durante il cammino, non è precisamente amorosa: comincia col rimproverarli perché hanno una fede abbastanza tiepida, e poi dà loro una lezione di teologia biblica. Eppure, rifacendo un feedback della giornata, i compagni osservano che «il loro cuore ardeva» quando erano con Lui. […] E’ l’amore di Cristo che scende così impetuoso in Francesco e lo rende così fragile che gli amici sono necessari per accoglierlo, ha bisogno non di compagnia, ma di tenerezza, di calore umano. Il «crudo sasso» lo ha lacerato tanto che non potrebbe vivere senza la carezza di mani amiche”.

Tra Stratovarius e Bergoglio…

Vado ancora di accostamenti improbabili? Sì, mi diverto troppo…Stratovarius_-_Elements_Pt.2.jpg

Gli Stratovarius sono un gruppo metal di Helsinki; nel 2004 pubblicano un album e di certo non è uno dei loro più riusciti… Vi è contenuto un brano che ho trovato assonante con le parole che il papa va ripetendo in queste giornate di Gmg a Rio, quando sottolinea l’importanza di non lasciarsi rubare la speranza. Il titolo è “Season of faith’s perfection”. Cantano: Cosa farai quando tutto fallirà? Quando ti senti una nave senza vele? Quando la disperazione riempie la tua mente e il dolore ti rende cieco? Nella mia verità silente urlo queste parole: “La speranza è forte, non mollare mai”. E nell’ultima parte si esprimono due concetti cari al pontefice: il sapersi guardare con benevolenza e l’essere gentili nel nome della tenerezza con cui Dio stesso guarda l’uomo. Cantano: La stagione della perfezione della fede tieniti stretto la tua cosa buona. Ogni giorno c’è una nuovo possibilità per cominciare ancora una volta la stagione della perfezione della fede. Perdona te stesso, lascia andare il passato, sii gentile, capisci…

E speranza e guardare a se stessi con bontà sono aspetti che possono accomunare credenti, non credenti e scettici.