Gemma n° 1870

“Lei è A.
Questa foto fu scattata più o meno a giugno dell’anno scorso, avevamo appena finito il nostro doppio e nonostante non avessimo più fiato eravamo felici, davvero felici. Io e A. ci siamo appunto conosciute circa 5 anni fa ad allenamento, inizialmente pensavo fosse come le altre ragazze più grandi, che non considerano le nuove arrivate poiché lei aveva iniziato nuoto qualche anno prima di me.
Con il passare del tempo abbiamo iniziato ad instaurare un legame fortissimo. Inizialmente eravamo un gruppo di 5 ragazze, ci volevamo molto bene ed eravamo sempre pronte ad ascoltarci a vicenda, poi invece, col passare del tempo abbiamo capito che ci serviva dello spazio. Ma io e A. non ci siamo separate.
Ne abbiamo passate tante assieme.
Lei riesce a convincermi a fare tutto, anche le cose più stupide, che magari, per come sono fatta, non farei mai e viceversa.
Tornando alla foto di prima voglio raccontarvi il retroscena.
Sfortunatamente A. era da anni che non riusciva più a esibirsi durante le gare perché soffriva molto di attacchi di ansia, si fermava durante la coreografia e non riusciva a completare un esercizio.
Lei, la persona più disponibile e generosa di tutte, non era in grado però di gestire le sue paure.
Poi, arrivò il giorno in cui facemmo il nostro doppio per la prima volta assieme. Inutile dire che riuscì a finirlo tutto e per questo, subito dopo l’esibizione ci abbracciamo fortissimo. Io perché ero orgogliosa di lei e di come era riuscita ad affrontare questo suo grande ostacolo, lei aveva capito che la nostra amicizia era talmente forte che grazie ad essa era riuscita a trovare quel conforto che le serviva da tempo.
Non so spiegarvi quanto sono grata di avere una persona del genere al mio fianco, ci capiamo solo con uno sguardo e capita spesso che diciamo le stesse cose nello stesso momento. Forse siamo un po’ strane sì, ma vi assicuro che nella nostra stranezza riusciremmo a perderci per giorni interi, a ridere, cantare a squarciagola e ballare. Con lei provo quel senso di libertà che nessun’altra persona mi ha dato prima.
Non ho paura di essere giudicata e posso sempre dirle tutto e lei è sempre pronta ad ascoltarmi.
Auguro anche a voi di trovare una A.”
E’ stata forte l’emozione destata dalla gemma di A. (classe terza), un elogio dell’amicizia in tutte le sue dimensioni. Jorge Luis Borges è autore di questi versi:
Non posso darti soluzioni
per tutti i problema della vita
Non ho risposte per i tuoi dubbi o timori,
però posso ascoltarli e dividerli con te
Non posso cambiare né il tuo passato
né il tuo futuro
Però quando serve starò vicino a te
Non posso evitarti di precipitare,
solamente posso offrirti la mia mano
perché ti sostenga e non cadi
La tua allegria, il tuo successo e il tuo trionfo
non sono i miei
Però gioisco sinceramente quando ti vedo felice
Non giudico le decisioni che prendi nella vita
Mi limito ad appoggiarti a stimolarti
e aiutarti se me lo chiedi
Non posso tracciare limiti
dentro i quali devi muoverti,
Però posso offrirti lo spazio
necessario per crescere
Non posso evitare la tua sofferenza,
quando qualche pena ti tocca il cuore
Però posso piangere con te e raccogliere i pezzi per rimetterlo a nuovo.
Non posso dirti né cosa sei né cosa devi essere
Solamente posso volerti come sei
ed essere tua amica.

Mio nonno Giovanni Papini

Meno di un mese fa, il 20 luglio, si è spenta, a 85 anni, l’attrice Ilaria Occhini. La scorsa settimana, facendo un po’ di ordine tra tagli e ritagli di vecchi giornali che avevo messo da parte, ho scovato un’intervista fattale da Gabriella Mecucci per Fondazione Liberal in cui parla del nonno Giovanni Papini, di cui proprio quest’estate mi sono ripromesso di leggere qualcosa. Mi piace proporla qui.

“«Sospetto che Papini sia stato immeritatamente dimenticato»: così scriveva il grande Borges nell’ormai lontano 1975. E aveva ragione da vendere se persino oggi nel cinquantenario della morte (l’intervista è del 2006, Papini muore l’8 luglio 1956) non è stato fatto quasi nulla per ricordarlo. I suoi libri sono scomparsi dagli scaffali delle librerie. Eppure di questo intellettuale si può dire tutto tranne che non abbia segnato con la sua presenza la vita culturale italiana. Intendiamoci, il suo nome ancora circola fra gli addetti ai lavori: qualche convegno affronta la sua robusta personalità e qualche giovane critico medita di sottrarlo alla damnatio memoriae, ma è poco. Troppo poco. Ilaria Occhini, grande attrice e moglie di Raffaele La Capria, è stata la sua nipotina preferita. Il nonno l’ha amata teneramente e lei ha conservato tutto intero il calore di quel rapporto. E lo racconta, intrecciandolo qua e là con la vita importante e difficile di Giovanni Papini, con le sue avventure culturali e letterarie.

            Perché signora Occhini suo nonno è stato dimenticato?
Dimenticato? Io direi epurato. Nonostante però che non si studi più nelle scuole e nelle università, nonostante il tentativo vergognoso di farlo sparire, la sua figura è così gigantesca che l’operazione è destinata a fallire. Papini ha un ruolo troppo importante nel Novecento italiano, nella rivoluzione del Novecento per ridurlo al silenzio. Può essere amato o detestato, si può considerare o no un grande scrittore, ma non si può cancellare. È stato il fondatore di tre riviste che hanno profondamente segnato la vita intellettuale italiana: Leonardo, Lacerba e La Voce. Non si può negare che attraverso questi canali è entrata nel nostro Paese la cultura europea. Mio nonno è stato certamente un grande sprovincializzatore. C’è poco da fare, alla fine lo dovranno riscoprire. Non si può parlare di Prezzolini e Soffici saltando Papini.

Da “Il Mattino” del 15 aprile 2016

            E perché allora questa damnatio memoriae?
La prima ragione è Gramsci che espresse su di lui e sulla sua opera giudizi sferzanti. Non le ho mai lette ma so che quelle parole molto dure hanno pesato parecchio in un Paese come il nostro a egemonia culturale comunista. Probabilmente questa è la causa principale. Mio nonno è stato molto importante nella vita culturale italiana, una stroncatura di Papino poteva far male. Lui, dal canto suo, aveva una penna facile, era spregiudicato, non gradava in faccia a nessuno e non risparmiò nessuno. Voglio dire che fu irriverente anche verso gli accademici di prima fila. Insomma, di nemici se ne fece parecchi. Nessuno osò attaccarlo in vita, anzi la sua lunga e terribile malattia fu seguita dalla stampa con attenzione, con affetto. Subito dopo la morte però si scatenarono.

            Basta questo per spiegare il tentativo di rimozione?
Questo conta parecchio, ma probabilmente c’è anche dell’altro. Certamente lo ha danneggiato il suo essere catalogato come fascista. Anche se mio nonno non fu mai organico al regime. Non adulò mai – come tanti altri intellettuali – Mussolini e i gerarchi che pure conosceva. Non chiese loro alcun favore. Scrisse al duce una sola volta per chiedergli di fare una strada a Bucciano, altrimenti i contadini potevano salire solo con la mula. La lettera è molto bella ed è conservata nell’Archivio di Stato. Certo, del fascismo condivideva alcuni valori di fondo, ma fu l’ultimo a essere nominato accademico d’Italia. Quando la Repubblica di Salò gli offrì il posto di Gentile, dopo l’uccisione del filosofo, disse di no. Né fece mai parte di coloro che lodavano il nazismo. Andò a Weimar, dopo aver detto ben tre no ai tedeschi che continuavano a invitarlo, e fece un discorso tutto letterario. Non una parola di politica.

            Tanti intellettuali sono stati fascisti, ma non per questo hanno subito l’epurazione?
Lo so. Erano molti quelli che osannavano le gesta del duce. Che sostenevano cose da vergognarsi. Mio nonno non si comportò mai così. Il peccato che ha determinato quella che ho chiamato epurazione non è stato il filofascismo, ma il non essere diventato, a regime caduto, un fervente antifascista. Non aver imboccato – come hanno fatto in tanti – la strada dell’intellettuale organico al Pci. Se avesse fatto questa scelta avrebbe partecipato alla schiera dei redenti. Ecco, mio nonno non è un redento.

            Quanto pesò la malattia nella vita e nella produzione culturale di suo nonno?
Un morbo, allora non diagnosticato, lo privò prima dell’uso della mano destra, condannandolo a non poter scrivere, poi della mano sinistra, poi delle due gambe e infine della parola. Questo calvario, durato cinque anni e sopportato con spirito profondamente cristiano, non lo fece smettere mai di lavorare. Anche quando non parlava più, trovò un modo per dettare. Mia cugina Anna Paszkowski si sedeva accanto a lui e snocciolava l’alfabeto, quando arrivava alla lettera giusta, mio nonno faceva un segno col capo ed emetteva un suono gutturale. E così, faticosamente, consonante dopo vocale, veniva composta la parola. Anna col passare del tempo era diventata molto brava: le bastavano una o due sillabe per intuire quale fosse l’intera parola. Con questo metodo il nonno riuscì a scrivere La spia del mondo che è un volume di Schegge. Secondo me una delle cose più belle di Papini. In quei lunghissimi anni, tormentati dal dolore, non ha mai smesso di pensare, dettare, sperare. Non si è mai lamentato.

            Lei ha parlato di spirito profondamente cristiano, che importanza ha avuto nella vita di suo nonno la conversione?
Ilaria Occhini si alza e mi porta un brevissimo, folgorante scritto di Giovanni Papini. Nessuno meglio di Papini stesso ha raccontato il suo rapporto con la malattia e con Dio. Sotto il titolo Morte quotidiana, poche righe:
Sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso. La morte non è che immobilità taciturna nelle tenebre. Io muoio dunque un po’ per giorno, a piccole dosi, secondo il modulo omeopatico. Ma io spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all’ultima giornata con l’anima intera.

            Da questo scritto e dai suoi racconti, nonostante una malattia terribile, Giovanni Papini aveva una intensa vita intellettuale e spirituale…
Sì, e anche se piò apparire incredibile, era allegro. Ricordo che insieme abbiamo fatto qualche grande risata. Era ironico e autoironico. Da buon toscano amava la battuta. Gliene venivano di buone. Dello scrittore e critico Carlo Bo disse che aveva l’ingegno più corto del nome. E la frase arrivò alle orecchie anche del destinatario che per la verità non se la prese più di tanto. Anzi, reagì bene.

            Torniamo al Papini irriverente, che con le sue stroncature o magari con le sue battute si fece parecchi nemici. Persone che fin quando era in vita preferirono tacere, ma che – come lei raccontava poc’anzi – in morte si scatenarono. Cosa successe dunque dopo la sua scomparsa?
Le racconto un fatto preciso. Mio nonno scriveva sul Corriere della Sera, ne era un collaboratore. Quando era ancora in vita quel quotidiano aveva raccontato la sua malattia con rispetto e affetto. Il giorno dopo la morte, fu il primo giornale che andai a leggere. Il necrologio del Corriere era un articolo pieno di critiche acide e di cattiverie. Una vera e propria stroncatura di Papini. Ci rimasi malissimo. Non potevo credere che si potesse pensare tanto male di mio nonno anche perché in passato era stato molto omaggiato. Come immaginare che avesse critici così feroci? E come accettare che si appalesassero solo dopo la sua scomparsa? Mi sembrò terribile.

            Lei era la nipote prediletta di Giovanni Papini. Che rapporto aveva con suo nonno?
Io sono nata in casa sua. Lui appuntò sulla sua agenda il giorno e l’ora della mia nascita e scrisse su quelle pagine della sua grande gioia. Quando ero piccola fu il mio compagno di giochi, il mio asilo. Se avevo bisogno di qualcosa, correvo da lui. Se ne combinavo qualcuna delle mie, la punizione che mio padre mi infliggeva consisteva nel non poter stare con lui. Una volta detti una rispostaccia e mi venne vietato di uscire con il nonno. Papini era solito prendere una volta alla settimana la carrozza per andare a fare una passeggiata. Spesso mi portava con sé. Il giorno che scattò la punizione saremmo dovuti andare insieme al ristorante Le Logge. Mia nonna telefonò a mia madre e le disse: «Così non mettete in castigo l’Ilaria, ma mettete in castigo Papini».

            Un grande legame…
Non c’è dubbio. Ricordo che si scappava insieme in campagna e ci buttavamo giù per la Ripaccia, una stradina molto scoscesa, pericolosa per una bambina ancora piccola e per un anziano signore quasi cieco e pieno di acciacchi. Eppure andavamo all’avventura e ci divertivamo un mondo. Un giorno non riuscivamo più a tornare a casa e, quando dopo parecchie ore rientrammo, la nonna ci mise in punizione a tutti e due.

            Quando lei è cresciuta, questo tenero rapporto è diventato anche uno scambio intellettuale?
Ne La mia Ilaria scrive che per fortuna io non lo conosco per il suo graffiare sui fogli, ma per altro. Seguiva da vicino i miei studi. Veniva a sapere che a scuola facevamo Leopardi? Subito si preoccupava di farmi trovare i libri più interessanti sull’argomento. Aveva una gigantesca biblioteca con oltre ventimila volumi ben ordinati. Ricordava a memoria la collocazione di tutti. Capitava quando lo andavo a trovare che mi portasse in quella grande stanza. Appena entrati mi dava indicazioni precise su dove era collocato un certo libro che pensava mi interessasse o di cui mi voleva parlare. Io lo prendevo, lo aprivo e trovavo alcune righe sottolineate da lui perché le leggessi. Era il suo modo di aiutarmi a conoscere. Senza pedanterie, senza atteggiamenti professorali. Così, quasi giocando.

            Lei è diventata un’attrice molto brava e apprezzata, Papini come ha vissuto la sua scelta?
Quando mio nonno è morto, ero ancora una ragazza, alle prime armi come attrice. Mio padre non voleva che intraprendessi questa carriera, ma mi disse che, se davvero lo desideravo, mi avrebbe lasciata libera di iscrivermi all’accademia. A una condizione, però: avrei dovuto trovare i soldi per mantenermi. Non potevo aggiudicarmi una borsa di studio, perché per concorrere bisognava essere nullatenenti. E io non lo ero. Mio nonno non condivideva la mia scelta, ma alla fine fu lui a mettermi a disposizione le 25 mila lire al mese che mi servivano per vivere e studiare a Roma. Insomma, non gli piaceva che facessi l’attrice ma non cercò di impedirmelo. Non si oppose, anzi mi aiutò.

            Papini ha mai potuto vedere una sua esibizione?
No. Solo una volta, quando era già molto malato, gli capitò di sentirmi recitare per radio. Ero alle prime armi e non ero un granché. Non era soddisfatto di quella mia esibizione. Lui del resto era abituato a ben altro. Aveva conosciuto Eleonora Duse e con lei aveva avuto un fitto scambio epistolare. Era poi un grande esperto di teatro mentre io avevo ancora molto da imparare. E me lo disse. Mi raccontò che un soffio, un sospiro della Duse si sentiva fino in fondo al teatro. Mi raccomandò di non strillare perché non serviva a nulla. Tutte queste osservazioni lì per lì mi dispiacquero, ma poi me le sono ricordate. Mi sono tornate alla mente tante volte e probabilmente mi hanno aiutata a crescere, a migliorare come attrice.

            Suo nonno a un certo momento della sua vita si convertì. Da anarchico senza Dio si trasformò in un convinto cattolico. Vi è mai capitato di parlarne?
La nostra era una famiglia cattolica, ma non parlavamo molto del nostro rapporto con la religione. Per mio nonno la conversione fu un passo importantissimo, una scelta profondamente vissuta. Qualcuno è riuscito persino a sostenere che la fede di Papini non fosse vera, che fosse un gesto di opportunismo venuto a seguito del grande successo internazionale della Storia di Cristo. Una sorta di invenzione per amplificare l’impatto già straordinario di quel libro. Niente di più falso. Mio nonno ha testimoniato con la sua vita, con il suo dolore vissuto cristianamente la propria fede. Poco prima di morire, quando quasi non riusciva più a respirare chiese che gli venisse letto Sant’Agostino. Era un grande credente. La verità è che la sua conversione fu così autentica da risultare ad alcuni insopportabile. Anche questo probabilmente fu una delle cause dell’epurazione di cui parlavo prima.

            All’inizio di questa conversazione lei ha accennato al ruolo di sprovincializzatore della cultura italiana che ebbe Papini, aveva una fitta rete di rapporti italiani e internazionali?
Sì. Dialogava con i più grandi intellettuali francesi e anglosassoni: da André Gide a Henry James. Nel suo archivio c’è un importante epistolario dal quale si ricava la rete dei rapporti che intratteneva. Ci sono, ad esempio, dieci cartoline postali attraverso le quali Ungaretti inviava a Papini le poesie scritte dal fronte. Si tratta dei versi poi raccolti e pubblicati in Porto sepolto.

            Qual è l’opera di suo nonno che preferisce?
L’uomo finito mi sembra un grande libro. Mi piace molto anche La seconda nascita, dove racconta la sua conversione.

            Quale rapporto aveva suo nonno con la campagna dove viveva, con i contadini? E quale con la sua città, Firenze?
Con i contadini aveva un rapporto molto stretto. Viveva con loro. La porta di casa era sempre aperta e loro la sera venivano dal nonno per giocare a briscola. Le mogli aiutavano la nonna nei lavori di casa. Tra l’ambiente fiorentino e Papini c’era una grande differenza. Lui, che pure sui fatti letterari non risparmiava critiche a nessuno, non parlava mai male degli altri dietro le spalle, che fossero amici o semplici conoscenti. Non gli ho mai sentito fare un pettegolezzo né dire una cattiveria. A Firenze invece era tutto uno sparlare l’uno contro l’altro. Un modo di fare persino imbarazzante.

            Chi è stato l’uomo di lettere più legato a suo nonno?
Certamente Soffici. Dal periodo del futurismo antimarinettiano sino alla fine della vita hanno sempre continuato a parlarsi, a incontrarsi. È stato lui il grande amico.

            Suo nonno che rapporto ha avuto con Gentile?
Che io sappia nessuno o giù di lì. Papini il rapporto vero lo ha avuto con Benedetto Croce. Il filosofo lo ha stimato e ammirato per tutta una fase, come dimostra il carteggio. Poi fra i due ci fu una brutta rottura. Perché accadde non glielo saprei dire. So solo che non si videro né sentirono mai più.

            Quanto ha pesato nella sua vita l’essere la nipote di Papini?
In alcune occasioni mi ha favorito. Qualche volta forse può avermi danneggiato. In realtà però io ho sempre potuto scegliere liberamente. Dietro di me c’erano un nonno e un padre importanti, ma non mi hanno mai schiacciata. Ho trovato la mia strada: sono diventata Ilaria Occhini. Il teatro mi ha dato molto. L’ho molto amato e mi sono anche molto divertita. E la televisione mi ha fatto percepire l’affetto della gente. Un tempo, tanti fra attori e registi definivamo la tv un elettrodomestico, ne parlavamo con un po’ di puzza sotto il naso. Snobismo. Adesso è cambiato tutto: c’è la ressa per recitare in una fiction, anche se spesso di artistico non hanno nulla.”

Gemma n° 350

Ho deciso di portare questa canzone perché parla del tempo che passa sempre più veloce; le giornate sono sempre più uguali con ritmi definiti e prestabiliti, resta poco tempo per noi stessi e per realizzare quello che ci piacerebbe. Benjamin Franklin, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti affermava: “Il tempo è la sostanza di cui è fatta la vita”. Ma il tempo della nostra vita coincide veramente con quello dell’orologio? Le ore dei nostri giorni corrono all’impazzata o sembrano non finire mai. E’ come se il tempo si fosse staccato da quello convenzionale scandito dalle lancette. Ma nonostante esso sia presente in noi o comunque ci circonda, rimarrà sempre irraggiungibile persino alle tecnologie più avanzate. Le nostre esperienze quotidiane contano veramente, è il tempo dentro di noi che ci condiziona. Secondo lo scrittore Stefan Klein, sta a noi scoprire come prenderci cura del tempo e di conseguenza di noi stessi. Inoltre egli afferma: “Possiamo vivere dietro la paura di affondare nel vortice del tempo ma siamo noi che abbiamo la possibilità di imparare a nuotare e dominare il suo scorrere”. Secondo me, nonostante giorni monotoni e vita di corsa, dobbiamo riuscire a trovare il tempo per noi stessi perché siamo noi che dobbiamo realizzarci”. Questa è stata l’articolata gemma di G. (classe quarta).
In pochi giorni è la seconda gemma che tratta del tempo e del suo uso da parte dell’uomo. Lascio qui due frasi. La prima è di Borges: “Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco.” La seconda frase, invece, è di Tiziano Terzani, e aiuta a gettare uno sguardo a una questione che affronteremo in quinta… non voglio dire altro… “L’inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un’illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c’è progresso. Non c’è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono.”

Fuggirò con occhio storto, e griderò

16 LE TINTORET CAIEN ET ABEL.jpgGli studenti di quinta lo sanno: uno dei temi che più mi affascinano è l’uomo davanti al male. Un libro di Paul Ricoeur si intitola “Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia”, sintesi perfetta. Nella Bibbia, uno dei primi testi è l’uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Ne scrive Alessandro Zaccuri su Avvenire, e qui riporto una parte:

“Quanta necessità e, al contrario, quanta intenzione sia presente nel delitto dei delitti è la domanda che si ripete nelle interpretazioni moderne della vicenda. Un’ambiguità che si riverbera, ancora una volta, sulla distinzione, all’improvviso controversa, tra vittima e carnefice. È questo il nucleo attorno al quale si sviluppa il Caino del tedesco Friedrich Koffka, che dopo molti anni torna disponibile per il lettore italiano grazie alla bella edizione curata da Eloisa Perone per Claudiana (pagine 84, euro 9). Nato a Berlino nel 1887 e morto nel 1951 a Londra, dove aveva trovato rifugio alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Koffka legò la parte più significativa della sua attività alla stagione sperimentale del teatro espressionista.

Caino fu, anche da questo punto di vista il suo capolavoro. Il testo fu scritto nel 1913, venne pubblicato nel 1917 e andò in scena l’anno seguente a Berlino, attirandosi critiche niente affatto benevole. Lo stile scabro di Koffka fu scambiato per artificioso, la finezza del richiamo scritturistico quasi completamente ignorata a discapito dell’ambientazione in apparenza contemporanea, ma situata in realtà in uno spazio fuori dal tempo. Il dramma, infatti, non si svolge nel giardino dell’Eden, ma nell’interno di una casa di campagna. Adamo ed Eva sono contadini laboriosi e uno dei loro figli, Abele, li aiuta prendendosi cura del bestiame. Caino sembrerebbe lo scansafatiche di famiglia, ma la sua scontentezza non è pigrizia. A tormentarlo è semmai una spasmodica ricerca di purezza, che lo induce a strappare la maschera della perfezione dal volto di Abele. Le intemperanze che vengono imputate al ragazzo troverebbero facilmente perdono nella preghiera, ma Caino sa di essere uno di «quelli cui Dio non permette di pregare». Non potendo essere il «guardiano» del fratello, ne diventa il boia, esegue la sentenza con un colpo di scure e poi si congeda da Eva annunciandole il proprio destino di reietto: «Madre, non verrà per me la morte. Madre, sarò ramingo sulla terra, un malvagio. Madre, fuggirò con occhio storto, e griderò…».

… Che tra i fratelli corra un rapporto più complesso della mera contrapposizione è, del resto, la convinzione di Jorge Luis Borges, che nella brevissima prosa di “Leggenda” (in Elogio dell’ombra, 1969) immagina che i due si incontrino da qualche parte, dopo la morte di Abele, senza più ricordare chi fra loro sia l’ucciso e chi l’uccisore. «Dimenticare è perdonare», ammette Caino, confortato dalla massima con cui Abele conclude l’apologo: «Finché dura il rimorso dura la colpa». Non è un caso che, mentre il teatro indugia sul prodursi della ferita, i romanzi ispirati all’episodio cruciale della Genesi suggeriscono spesso la prospettiva di un possibile risanamento…

Per questo in libri come Abel Sánchez di Miguel de Unamuno (del 1917, stesso anno del Caino di Koffka) e più ancora nella Valle dell’Eden di John Steinbeck (1952) il giudizio rimane sospeso, come se nel narratore subentrasse la consapevolezza che condannare Caino significa, in fondo, condannare noi stessi. Un dubbio che può condurre a una sorta di paralisi morale, ben rappresentata dal Max Gallo di Caino e Abele (2011), ma che in altri casi lascia intravedere lo spiraglio di una pur dolorosa soluzione mistica, come accade nel sorprendente Caino di Paola Capriolo (2012), dove il sangue dell’innocente è misteriosamente assimilato al sangue che Gesù versa sulla Croce.”

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Più in là del nostro oblio

La fatica che faccio a liberarmi delle cose, il piacere che mi danno certi oggetti, pur conoscendo il loro essere effimero… e il rischio di una vita effimera (il rosso specchio a occidente in cui arde illusoria un’aurora).

LE COSE

Le monete, il bastone, il portachiavi,mercato_antiquariato.jpg

la pronta serratura, i tardi appunti

che non potranno leggere i miei scarsi

giorni, le carte da gioco e la scacchiera,

un libro e tra le pagine appassita

la viola, monumento d’una sera

di certo inobliabile e obliata,

il rosso specchio a occidente in cui arde

illusoria un’aurora. Quante cose,

atlante, lime, soglie, coppe, chiodi,

ci servono come taciti schiavi,

senza sguardo stranamente segrete!

Dureranno più in là del nostro oblio;

non sapran mai che ce ne siamo andati.

(Jorge Luis Borges, da “Elogio dell’ombra”, 1969)

 

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