I monaci e TikTok

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Un interessante articolo de Il Post, pubblicato l’11 marzo.

“Tra gli oltre 7 milioni di utenti di TikTok in Cambogia c’è una piccola nicchia, quella dei monaci buddisti, che lo usano perlopiù per diffondere i principi del buddismo theravada, la scuola più antica e prevalente nel paese. Il problema è che il codice monastico ha regole molto rigide, pensate per evitare che i monaci attirino l’attenzione su di sé: una cosa che contrasta nettamente con il modo in cui funziona TikTok e con il senso stesso dei social network.
Per questi motivi, come ha raccontato il sito di news internazionali Rest of World, di recente fra i religiosi è nato un dibattito che riguarda proprio l’utilizzo di TikTok: c’è chi lo ritiene un canale utile per coinvolgere più fedeli, e chi invece lo reputa uno strumento controverso e da usare con grande cautela, se non da evitare.
Tra i monaci buddisti cambogiani che hanno un account su TikTok ci sono Bo Pisey e Hak Sienghai: entrambi vivono in un monastero a Battambang, nel nord-ovest del paese, e hanno rispettivamente più di 132mila e 550mila follower. Nella gran parte dei casi sia loro sia gli altri monaci postano foto di momenti di preghiera o video in cui parlano degli insegnamenti del Buddha e del percorso che i buddisti dovrebbero seguire per metterli in atto (Dharma). Ogni tanto però condividono anche video che vanno al di là della religione, per esempio quelli in cui incontrano i turisti o in cui si riprendono assieme agli animali.
In certi casi poi gli account TikTok dei monaci, soprattutto quelli dei novizi, sono molto simili a quelli delle altre persone adolescenti: ci sono selfie, video spiritosi e foto che in qualche caso sembrano voler attirare attenzioni non esattamente religiose, per esempio mostrando i monaci a petto nudo.
In Cambogia più di un terzo della popolazione usa TikTok. Da tempo i monaci usavano social network come Facebook e YouTube per diffondere i loro insegnamenti e condividere video in cui parlavano di temi vari. Con TikTok, che si basa prevalentemente sui contenuti che sono di moda e diventano facilmente virali, la loro posizione però è un po’ più scomoda. Le violazioni del codice monastico adottato dai monaci buddisti nel Sud-est asiatico infatti possono comportare punizioni che vanno dai blandi richiami fino all’espulsione dall’ordine.
I principi del buddismo theravada prevedono tra le altre cose che i monaci non possano fare sesso, non debbano uccidere né rubare; anche i novizi sono poi tenuti a seguire altri precetti, tra cui non danzare, non cantare e in generale mantenere un comportamento estremamente sobrio e rispettoso. Come ha spiegato a Rest of World Yon Seng Yeath, vice rettore di un’università buddista di Phnom Penh, la capitale del paese, almeno la metà di queste regole è pensata per fare in modo che i monaci non attirino l’attenzione su di sé: un principio che sembra essere molto difficile da rispettare su un social network in cui è facile raggiungere rapidamente un pubblico molto ampio, al di là delle intenzioni del singolo.
Bo Pisey sostiene di voler solo diffondere il Dharma e di non voler ricavare nient’altro dal suo profilo di TikTok, che ritiene un buono strumento per interagire con le persone, se usato bene. Hak Sienghai dice che è naturale utilizzare TikTok, in un mondo in cui la tecnologia ha rivoluzionato il modo di comunicare con le persone: sostiene di volersi avvicinare ai follower ma non troppo, e spiega di voler essere un esempio per giovani monaci che potrebbero non usare i social nella maniera più opportuna.
Altri monaci sostengono invece che mettersi in mostra su TikTok sia contrario ai valori buddisti, e che soprattutto i novizi non dovrebbero usarlo per non distrarsi dallo studio degli insegnamenti. C’è poi chi propone di introdurre un codice di condotta, come il monaco San Pisith, che al momento studia in Estonia: San Pisith non si dice in favore di un divieto totale, ma per esempio suggerisce che i contenuti condivisi siano esclusivamente didattici.
Seng Yeath fa anche parte dell’autorità regionale dei monaci, che ha il compito di vigilare sul loro comportamento in 4 delle 25 province della Cambogia e stabilire eventuali punizioni in caso di infrazioni. Finora non ci sono state grosse punizioni contro i monaci che condividevano contenuti su TikTok, ha spiegato: sono state osservate solo piccole violazioni, come aver cantato o ballato, che di norma sono state punite solo con l’obbligo di chiedere scusa al tempio. Alcuni gesti, conclude, sono considerati comunque meno gravi se fatti dai giovani.”

Gemma n°2017

“Ho portato una foto di mia nonna e di mio zio. La tengo in camera perché io e mia nonna eravamo molto legati, molto vicini. Quando è morta non sono riuscito ad essere vicino a lei perché era in terapia intensiva e i bambini non potevano accedervi, quindi nei suoi ultimi due mesi di vita non sono riuscito a vederla”.

Mi affido alla spiritualità orientale per commentare la gemma di G. (classe prima): “Ogni sofferenza è un seme di buddha, perché la sofferenza spinge i mortali a cercare la saggezza” (Bodhidharma).

Aikidō, distacco e sorriso interiore

Un interessantissimo articolo del prof. Gian Paolo Terravecchia, preso da La ricerca. Vi si parola di aikidō, buddhismo, controllo, disciplina, sorriso interiore, distacco.
C’è un aneddoto sul Buddha che compendia molti dei principi dell’aikido verbale [qui si trova: L’aikidō è una delle arti marziali più affascinanti. Il suo nome è un manifesto: ai sta per “armonioso”, o “bilanciato”; ki sta per “vita, spirito” o “energia, forza”, mentre dō sta per “via”. Perciò il nome, nel suo intero, si può rendere con: “la via dello spirito armonioso”, oppure “la via per un’energia bilanciata”]. Un uomo, saputo della reputazione di Buddha, venne da lontano per mettere questi alla prova. Arrivato, gli si avvicinò e cominciò a gridargli ogni sorta di insulto: “Chi ti credi di essere per insegnare agli altri? Sei stupido come loro, non sei nient’altro che un impostore!”. L’uomo continuò a riversare su Buddha insulti, ma questi rimase immobile. Quando l’attacco cominciò a scemare, Buddha finalmente disse: “Posso farti una domanda?”. L’uomo assentì, dicendo: “Beh, cosa?”. “Se qualcuno ti offre un dono e tu lo declini, a chi appartiene quel dono?”. L’uomo pensò per un secondo, poi rispose: “Beh, in tal caso esso appartiene alla persona che l’ha offerto”. “Giusto – continuò lui – così, se hai cercato di darmi qualcosa che ho rifiutato, a chi dunque appartiene?”. L’uomo se ne andò.
La storia insegna molte cose: vediamone alcune. Innanzitutto, l’attacco verbale non va a segno per il solo fatto che qualcuno formula degli insulti: ci vuole dell’altro. La dignità di Buddha, infatti, non viene compromessa dall’attacco sferrato, anzi: questo finisce per mettere in risalto la grandezza di Buddha. A un attacco gratuito, rozzo e violento, egli ha replicato con pace, gentilezza e arguzia. Mentre il semplice silenzio sarebbe stato segno di assenza di risorse o di disdicevole supponenza, Buddha ha scelto il giusto momento per entrare: quando cioè la violenza dell’attacco scemava, senza aver ancora sortito alcun effetto. Il silenzio iniziale fa da scudo a Buddha. Esso poi, insieme alla gentilezza della richiesta di poter fare una domanda, destabilizza l’avversario e lo mette in difficoltà. Buddha ha dunque schivato l’attacco e, dopo la prima domanda, sta prendendo il controllo della situazione, ha l’iniziativa: ora l’altro è costretto a rispondere. Soprattutto, come detto, la domanda destabilizza l’attacco: il discorso è portato altrove e non è più in discussione Buddha. Entrambi gli interlocutori si stanno indirizzando verso qualcosa di terzo.
A questo punto arriva la seconda domanda, che porta il discorso ancora più lontano dall’attacco iniziale e segna la definitiva presa dell’iniziativa da parte di Buddha. Questi ha scelto bene la propria entrata: la prima domanda destabilizzava ed era irresistibile, ora questa nuova continua nella direzione della precedente e segna la definitiva presa del controllo da parte di Buddha. L’altro deve stare attento a non fare una figuraccia. Quando Buddha si muove, mostra di essere altrove rispetto alla direzione dell’attacco. Questa è la chiave dell’aikido: si tratta dell’Irimi, la posizione nella quale si è fuori pericolo e si prende il controllo della situazione.
[…] Quella scelta dal Buddha è una via di collaborazione: egli non si giustifica, né insulta a sua volta, ma domanda e tratta l’interlocutore con rispetto, come qualcuno che sa, che può aiutarlo a capire. L’altro non è umiliato. Intanto, però, Buddha lo sta portando dove vuole, senza che questi possa farci niente. Con la terza domanda, Buddha chiude il discorso e finisce per vincere il confronto. Va notato che Buddha ottiene il massimo risultato con il minimo sforzo: l’aikido verbale non è una disciplina di potenza, ma di grazia ed eleganza. Buddha non asserisce alcunché, né accusa, né contesta: al contrario, lascia passare i colpi, senza esserne affetto – poi, con la leggerezza di tre domande, chiude il confronto.
Ciò è possibile solo se si riesce a mantenere il distacco. Perché ciò avvenga è necessario possedere un sorriso interiore, dice Luke Archer nel suo Verbal Aikido. Il sorriso interiore è fondamentale ed è quello stesso atteggiamento col quale Buddha riesce a ributtare tutti gli insulti subiti sull’altro, senza esserne colpito. L’energia dell’attacco si scarica su colui che lo ha esercitato. Se l’attaccante avesse avuto lo stesso sorriso interiore, avrebbe riso col Buddha della strategia brillante di questi, mostrando così a propria volta di essere un uomo forte, e deviando quanto il Buddha gli stava restituendo. In tal caso, i due avrebbero potuto continuare a conversare serenamente, da spiriti illuminati, forse da amici. L’uomo però, purtroppo, non ne fu capace, e perciò ne uscì sconfitto.”

Il seme nella pagoda

Kha Khat

Massimo Morello è un giornalista che vive a Bangkok. Stamattina ho letto un suo interessante articolo su Studio.
«Non credo in Dio. Il Buddha è un Maestro. L’uomo non deve pregare, deve seguire la via» dice Phra, il Venerabile, Phitoo. «Dio non esiste. Se esistesse dovrebbe essere buono. Quindi non ci sarebbe il male» dice Ashin, il Maestro, Kelasa. Entrambi sono monaci della foresta, di quelli che in Thailandia, Laos o Birmania, là dove è più forte l’ortodossia della scuola Theravada, si dedicano alla meditazione in luoghi isolati. Il primo in un villaggio nell’estremo nord-est della Thailandia, verso il confine col Laos. Il secondo in un luogo ancor più remoto, tra i monti dello Shan meridionale, in Birmania.
Incontri non casuali. «Se vuoi capire vieni nel mio posto» aveva detto Phra Phitoo nel nostro incontro al Wat Mahadhatu di Bangkok, un tempio che ospita la più importante università buddhista thai.
«Nulla è impossibile per chi vuole comprendere davvero» aveva detto Ashin Kelasa, quando l’avevo incontrato a Mandalay, dopo avermi dato poche, scarne indicazioni per raggiungerlo nel suo eremo.
Quel che volevo capire era il cosiddetto “integralismo buddhista”. Credevo nella magia del buddhismo. I suoi valori di compassione, nel senso di empatia, comprensione, rispetto, mi apparivano antitetici con le “Milizie degli Illuminati” che in tutto il sud-est asiatico cercano di trasformare il Dharma, la legge morale, in legge dello Stato, dottrina politica. Un fenomeno che in Birmania si è manifestato con le esplosioni d’intolleranza e violenza nei confronti della minoranza musulmana (circa il 5% su una popolazione di 60 milioni): nell’ultimo anno si sono susseguiti veri e propri pogrom anti-islamici, con oltre 250 morti e circa 150.000 persone rimaste senza casa.
Un “terrore buddhista”, come strillato nella copertina di Time del 1° luglio, che ha il volto di un monaco: Wiseitta Biwuntha, noto come Ashin Wirathu, leader del movimento 969, che si richiama ai 9 attributi del Buddha, i sei del suo insegnamento e ai nove del “Sangha”, la comunità dei fedeli. In un paese, come tutti gli altri dell’area, ossessionato dalla numerologia, 969 è divenuto il simbolo della difesa del “savanna”. Questo termine pali, che ingloba la comunità buddhista e l’essenza stessa dell’insegnamento del Buddha, da oltre due millenni giustifica ogni deviazione dall’insegnamento stesso.
«Quando lasci che il seme di un albero metta radici in una pagoda, all’inizio ti sembra piccolo. Ma sai che dovrai tagliarlo prima che cresca troppo e distrugga l’edificio» ha detto Ashin Wirathu, secondo cui i musulmani minacciano l’identità birmana.
«I monaci non devono occuparsi di politica» commenta infastidito Phra Phitoo, quando gli chiedo un commento. Secondo quel tranquillo monaco della foresta thailandese, l’importante è concentrarsi su se stessi. Ma alla fine anche lui si lascia andare a qualche valutazione teologica. «Il cristianesimo è avido e l’induismo stupido». Peggio di tutte è l’Islam. «È una religione cattiva: uccidi e vai in paradiso». Con minor virulenza è lo stesso giudizio di Ashin Wirathu. «I musulmani sono fondamentalmente cattivi. Maometto gli permette di uccidere qualsiasi creatura» ha dichiarato.
Ashin Kelasa predica invece la tolleranza. «Giudicate le persone, non la loro religione» predica di fronte a circa duecento seguaci birmani nel ritiro di meditazione al termine del Thingyan, il capodanno lunare. Un invito al dialogo tanto più importante perché avviene poco tempo dopo gli scontri tra buddhisti e musulmani avvenuti proprio in quella regione. In privato, però, anche questo ex professore di matematica, autore di un saggio su Buddhismo e Democrazia, manifesta insofferenza nei confronti dei musulmani. «Il problema è che con loro non è possibile il dialogo. Giudicano gli altri ma non accettano di mettersi in discussione». Per quanto riguarda l’estremismo dei monaci che incitano alla violenza si limita a negarlo con un sofisma. «Non ci sono monaci violenti. Se sono violenti non sono monaci».
Seguire i monaci della foresta, alla fine, non è servito a comprendere le ragioni delle derive integraliste del buddhismo. Anzi, il sonno della meditazione ha generato nuovi dubbi, incubi. «Osservali e falli passare» mi tranquillizza Ashin Kelasa. «Il senso del buddhismo nessuno può dartelo, devi conquistarlo».
Aveva capito tutto John Burdett, ex avvocato inglese che scrive romanzi gialli ambientati in Thailandia. «Questo è uno dei grandi vantaggi del buddhismo, amico mio: non è focalizzato sui risultati. Non c’è alcun modo in cui tu possa influire sul destino degli altri, ma solo sul tuo» mi aveva detto.
Forse è proprio in questo senso del dubbio e della ricerca individuale, sottinteso a tutta la cultura buddhista – almeno nel Theravada – che si possono cogliere i motivi inconsci di contrasto con l’Islam. «È la paura che genera violenza» dice Ajarn Sulak Sivaraksa, filosofo buddhista thai, uno dei padri fondatori del Network of Engaged Buddhists, organizzazione nota per l’impegno sociale e l’apertura al dialogo inter-religioso. La paura, a sua volta, è generata dal confronto con una religione così di piena di certezze, gerarchica come quella musulmana.
Più si osservano i propri dubbi, più si comprende che il problema dell’integralismo buddhista è ben più complesso di quanto appaia nell’ottica occidentale e monoteista, con i suoi criteri di giudizio tanto netti e “corretti”.
In Birmania, inoltre, il movimento sta diffondendosi proprio per le aperture democratiche del governo. La diffusione di Internet, la “libertà” di stampa, stanno dando voce a vecchie tensioni inter-etniche alimentate all’epoca della colonizzazione britannica in nome del divide et impera. Il regime militare che ha dominato il paese sino a tre anni fa riusciva a sedarle con un controllo feroce. Tanto che nel 2003 lo stesso Ashin Wirathu era stato incarcerato per istigazione alla violenza anti-musulmana, ed è stato liberato solo nel 2012 con altre centinaia di prigionieri politici. La nuova aria di libertà che si avverte non appena si mette piede in Birmania, inoltre, ha innescato un fenomeno psicosociale: la rabbia repressa in decenni di dittatura cerca sfogo in qualsiasi direzione.
Le analisi di alcuni commentatori occidentali secondo cui gli scontri inter-religiosi rappresentano il vero volto di un governo pseudo-democratico sono basate su una vera e propria forma di miopia geopolitica. Al contrario, come ha scritto Joshua Kurlantzick, analista del Council of Foreign Relations di Washington, “mettono a serio rischio il processo di riforme avviato dal presidente Thein Sein”.
È quest’ottica che va giudicato l’atteggiamento di Aung San Suu Kyi, accusata dalle anime belle dell’Occidente di aver “tradito” la causa per la quale ha trascorso vent’anni agli arresti e rischiato la vita. La Signora, non avrebbe condannato con sufficiente durezza le violenze contro la minoranza musulmana. In particolare Aung San Suu Kyi è giudicata colpevole di “silenzio” riguardo l’ennesima persecuzione contro i Rohingya, minoranza musulmana stanziata nel Rakhine, la regione birmana affacciata sul Golfo del Bengala.
Anche in questo caso, osservando da lontano, si sono create parecchie confusioni. A partire da quelle geografiche: in alcuni casi i Rohingya sono stati “assimilati” ai musulmani delle regioni centrali e viceversa. In altre parole per molti, in Occidente, tutti i musulmani birmani sono Rohingya.
La loro situazione, invece, è ben più drammatica. I Rohingya sono gli indesiderati del sud-est asiatico. Sono circa 800.000 persone, etnicamente e culturalmente assimilabili ai bengalesi. Per questa differenza sono discriminati e perseguitati più di chiunque altro, considerati “immigrati illegali”. Sono talmente disperati da cercare rifugio in Bangladesh, uno dei paesi più poveri al mondo. Dove sono confinati in campi privi di ogni assistenza. «Qui siamo già in troppi per troppo poco lavoro. Sarebbe una guerra tra poveri» dice un funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Più o meno, è quanto dichiarato da Aung San Suu Kyi, intervistata dalla Bbc riguardo i Rohingya. «Sto chiedendo tolleranza, ma non credo che si dovrebbe usare la propria leadership morale, se volete chiamarla così, in nome di una qualsiasi causa senza però andare realmente all’origine del problema».
L’origine del problema, è la stessa di tutti i conflitti etnici e religiosi che negli ultimi anni sono esplosi in Asia, dalle Filippine al sud della Thailandia, lo Sri Lanka, il Bangladesh, l’Indonesia: una miscela esplosiva di democrazia immatura, nazionalismo, sperequazioni economiche abissali.
Nella maggior parte dei casi, poi il terrore non è stato buddhista. Mentre è un buddhista, un monaco vietnamita a proporre una soluzione. Si tratta del maestro Zen Thich Nhat Hanh. «Se incontri il Buddha uccidilo. Devi liberarti da ogni dogma. Se non sei capace di uccidere il Buddha non puoi uccidere i tuoi preconcetti».”

L’amore sopra ogni cosa

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Nella rubrica Ădāmà su Jesus di maggio 2014, Gabriella Caramore scrive:
“Perché le religioni, mi chiedevo il mese scorso in Ădāmà, se il mondo sembra procedere, per lo più, senza bisogno di riferirsi a un Dio, o a una sapienza codificata, o a grandi figure spirituali, e sembra non avere sete d’altro che di sé stesso, e del proprio inoltrarsi convulso e inconsapevole verso la catastrofe? Una prima risposta la rinvenivo nel fatto che ciò che ha dato vita alle grandi tradizioni religiose è la stessa sete di conoscenza che ha dato origine al sapere filosofico, scientifico, morale, politico di tutta la storia dell’umanità.
Ma vi è un’altra “spinta” che ha contribuito al sorgere delle religioni, alle loro scritture, alle loro storie, alle loro aggregazioni: quella di alleviare le sofferenze di uomini e donne, di dare un senso al dolore, quando non lo si possa estinguere del tutto, quella di contenere le forze distruttive che abitano il cuore dell’uomo. In una parola, il tentativo di fare comunità, di creare società, di costruire convivenza.
Quando a Gesù viene chiesto – come si racconta nei Vangeli sinottici – quale sia il comandamento più grande, in una sintesi geniale accosta due versetti della Bibbia ebraica, e risponde che, alla fine, vi è un solo comandamento: quello di amare l’unico Dio e di amare chiunque ci si presenti come prossimo. Se ci si china sul prossimo con amore, si ama anche Dio. E se si ama Dio, questo amore si manifesta nella cura del prossimo. Ma se noi allarghiamo lo sguardo al di fuori dell’orizzonte giudaico e cristiano, troviamo affermazioni analoghe in tutte – ma davvero tutte – le altre sapienze: nei grandi poemi indiani e nei discorsi del Buddha, nei pensieri di Confucio e nelle massime del Dao, nel jainismo e nello zoroastrismo, nella sapienza latina e nei discorsi del profeta Muhammad. Questo, in definitiva, il “programma” di ogni religione, che sfocia fino al grande mare della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Ciò che tu non vuoi che ti venga fatto, non farlo a nessun altro”.”

Il paradosso dell’intelligenza

narcisoPeriodo di narcisi… Nel libro “Il principio passione”, Vito Mancuso, riportando il pensiero sul peccato di Origene, si sofferma su quello che per l’alessandrino è il più pericoloso dei peccati, la superbia. E scrive: “Eccoci quindi al paradosso: la libertà della mente nasce dalla capacità di capire la realtà, e quanto più si capisce la realtà tanto più cresce la libertà verso di essa nella capacità di indipendenza e di autodeterminazione; ma da questa libertà frutto dell’intelligenza nasce facilmente la schiavitù dell’intelligenza verso se stessa e la propria immagine, così che la libertà si ritrova prigioniera di se stessa in un circolo autoreferenziale tradizionalmente detto narcisismo”. Viene in mente Siddharta Gautama che, al culmine del percorso induista, alle soglie della morte, dopo anni di sforzi e fatiche, avverte una sottile forma di orgoglio e compiacimento per se stesso e capisce che quella non è la via…

Statuine al bando

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Dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, l’Iran ci ha abituati a demonizzare le varie mode e tendenze provenienti dall’Occidente malato: la musica rock, la Barbie, i jeans, i Simpsons, Mc Donald’s… Ecco che ora si affaccia una novità che prendo da Andkronos: “Sono le statuette che rappresentano Buddha l’ultimo bersaglio della censura iraniana, che le ha messe al bando in quanto strumento di “invasione culturale” dall’estero. Il divieto di esporre rappresentazioni scultoree della figura sacra del buddhismo e il conseguente ordine di sequestro per quelle in vendita nei negozi del paese è arrivato dall’autorità per la salvaguardia del patrimonio culturale iraniano, come ha riportato il quotidiano locale ‘Arman’”. Aggiungo il fatto che la maggior parte delle volte le statuine non hanno valenza religiosa ma estetica, facendo da ornamento su mobili e nei giardini.