Leggo, in realtà con poco stupore, sul Corriere della Sera che Magdi Cristiano Allam ha deciso di abbandonare la Chiesa, ritenuta troppo morbida nei confronti dell’Islam. Su di lui avevo già scritto nel 2008 citando la Nostra Aetate. Con questo post desidero semplicemente avvisarlo di non avvicinarsi al “pericoloso” Buddhismo, in quanto il Dalai Lama afferma: “A coloro che affermano che il Dalai Lama sta perdendo il contatto con la realtà nel predicare questo ideale di amore incondizionato, rispondo di cominciare a sperimentarlo. Scopriranno che quando si varcano i confini di un ristretto interesse personale i nostri cuori si riempiono di forza. La pace e la gioia diventano i nostri compagni. Ogni barriera si rompe”. Resto tuttavia poco speranzoso, visto che Magdi Allam afferma: “Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente con il cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l’uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo”. Visti i presupposti mi chiedo chissà quale Tenzin Gyatso sarebbe in grado di conoscere!
La gioia di buddhisti e induisti
Prendo dal Corriere della Sera un interessante articolo di Fabrizio Caccia: offre molti spunti di riflessione e discussione. Argomento? Dal 1 febbraio entrano in vigore le intese dello stato italiano con l’Unione Buddhista e con l’Unione Induista.
“C’è fermento tra i cinesi buddisti di Roma: la Grande Pagoda di via dell’Omo –
seminascosta tra i magazzini di scarpe e vestiti, vicino al Raccordo Anulare – finalmente è pronta, il 31 marzo verrà inaugurata, ma grazie all’intesa tra lo Stato Italiano e l’Unione Buddista, che entrerà in vigore tra due giorni, il tempio sarà riconosciuto da subito «luogo di culto». E non sarà il solo. Venerdì primo febbraio, data storica. «Celebreremo la vittoria della laicità dello Stato, il trionfo della democrazia», annuncia soddisfatto l’avvocato Franco Di Maria, presidente dell’Unione Induista Italiana, che già pensa in grande: «Capito il significato? Potrà nascere una tv induista in Italia, potremo costruire templi, aprire scuole e università teologiche – dice l’avvocato Di Maria, un goriziano che si convertì all’induismo 30 anni fa – Quest’intesa rappresenta un vero aiuto all’integrazione». Per buddisti e induisti d’Italia – tra i primi Sabina Guzzanti e Roberto Baggio, tra i secondi il chitarrista Paolo Tofani – in effetti, rappresenta un gran giorno. Dopo un lungo iter più volte interrotto, l’11 dicembre scorso il Parlamento ha approvato in via definitiva le intese con Ubi e Uii. Mai, finora, il Parlamento italiano aveva approvato accordi con confessioni non cristiane, con l’eccezione, nel 1989, delle Comunità ebraiche e, nel luglio scorso, con i Mormoni. Una scelta compiuta, dunque, nel rispetto del principio sancito dall’articolo 8 della Costituzione, quello che garantisce la libertà di tutte le religioni, purché i loro statuti non entrino in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano.
L’intesa che entra in vigore il primo febbraio comporterà il riconoscimento per i ministri di culto, i luoghi e le festività religiose. E non solo: il diritto a scegliere procedure particolari per la sepoltura e ad avere aree riservate nei cimiteri. Ma soprattutto la possibilità di accedere all’8 per mille del gettito fiscale come le altre religioni riconosciute, la cattolica, la valdese, l’ebraica. «Il nostro obiettivo, però, non sarà affatto quello di riempirci le tasche con l’8 per mille e la suddivisione dei resti, che comunque ci verranno elargiti solo a partire dal 2016 – chiarisce Maria Angela Falà, vicepresidente dell’Unione Buddista Italiana – Quello che ci interessa realmente è che i nostri monaci, in quanto riconosciuti ministri di culto, potranno finalmente assistere spiritualmente i fedeli negli ospedali, nelle case di riposo o in carcere. E le salme dei nostri cari potranno ricevere, ove possibile, il trattamento previsto dalla nostra religione. Sono diritti importantissimi, che per la prima volta ci vediamo assegnati».
Novità in vista, dunque, per tanta gente. Perché le comunità buddista e induista sono una realtà in crescita nel nostro Paese e non solo per effetto dei flussi migratori. I praticanti buddisti italiani sono 80 mila, a questi se ne aggiungono altri 20 mila più saltuari, oltre ai circa 30 mila «nativi» provenienti dall’Asia. E gli induisti in Italia sono più di 135 mila: oltre 119 mila immigrati (dati Caritas) ai quali vanno aggiunti circa 15 mila italiani convertiti. «Cosa cambierà? La nostra festa Vesak, per esempio, l’ultimo weekend di maggio, riconosciuta festa religiosa dalle Nazioni Unite fin dal 2000, ora avrà lo stesso valore anche qui», dice la vicepresidente dell’Unione Buddhista, Maria Angela Falà. «E così pure la nostra Festa della Luce, che arriva con la Luna Nuova di autunno, tra ottobre e novembre, varrà finalmente come festività sul calendario. Perciò, gli operai e gli impiegati di religione induista non dovranno più chiedere il permesso ai loro capi per partecipare», ribadisce il presidente dell’Uii, Di Maria.
C’è grande eccitazione, adesso, nei vari centri buddisti sparsi per la penisola: le comunità sono in festa ad Arcidosso (dove sorge «Merigar», il piccolo Tibet ai piedi dell’Amiata, sede ogni anno di affollati raduni) come a Pomaia, nel pisano, il centro che fa capo al Dalai Lama, dove medita abitualmente il presidente dell’Ubi, Raffaello Longo. E insieme ci si prepara degnamente al Losar, l’inizio del nuovo anno, l’11 febbraio prossimo. Ma attesa e felicità sono sentimenti riscontrabili in queste ore anche ad Altare, nel savonese, dove sorge il primo tempio induista costruito in Italia, nonché uno dei più grandi d’Europa, dedicato alla «Divina Madre Sri Lalita Tripura Sundari» dal monaco Svami Yogananda Giri, al secolo Paolo Valle, uno dei firmatari del patto storico di Montecitorio. «E buona strada a tutti», come dicono loro.”
Cosa sperano di ottenere?
Ho seguito spesso, nei mesi passati, la vicenda delle proteste estreme di alcuni monaci e monache tibetane che sono arrivati a darsi fuoco per protestare contro l’oppressione cinese. Ne ho anche scritto. Ieri un amico, Federico, mi ha spedito via mail questo articolo molto molto interessante: tira in ballo alcune domande chiave su tale questione. E noi? Ma che senso ha? A cosa serve sacrificare addirittura una vita intera se poi non cambia niente? Su “La Stampa” del 16 dicembre 2012 Enzo Bianchi scrive:
“Ormai rischiamo l’assuefazione: una notizia d’agenzia ripresa ogni tanto nelle pagine interne, qualche colonna una volta all’anno nella «giornata mondiale per il Tibet», un rapido accenno in margine a una visita del Dalai Lama, un box accostato a un resoconto di incontri diplomatico-commerciali. È tutto quello che giunge a noi della tragedia del popolo tibetano e della testimonianza di quanti non cessano di urlare, con le loro vite e la loro morte, alle nostre orecchie divenute sorde. Certo, il sentimento di rassegnazione prevale quando si misura l’impotenza di fronte alla realpolitik, ma la coscienza ci impedisce di lasciar tacere la provocazione nonviolenta dei monaci tibetani, ormai un centinaio dall’inizio della protesta, che decidono di darsi fuoco per denunciare l’oppressione del loro popolo, della loro cultura, della loro religione. Credo che i monaci stessi sappiano che il loro gesto difficilmente varcherà le frontiere e tanto meno potrà mutare le decisioni del potere. Certo, qualcosa smuove nelle coscienze di chi ne viene a conoscenza, altrimenti non si spiegherebbe perché le autorità cinesi stiano cercando di reprimere il fenomeno, arrivando ad arrestare quanti sostengono e incoraggiano i candidati al martirio, ma non ci si può illudere che una maggiore consapevolezza da parte di pochi possa cambiare la situazione di oppressione del popolo tibetano. Allora, perché ci sono sempre nuovi giovani pronti a darsi alle fiamme? A chi vogliono parlare con quel gesto estremo? Cosa sperano di ottenere? E da parte nostra, se siamo convinti di non poter fare nulla perché le cose cambino, che senso ha continuare a seguire vicende che disturbano la nostra coscienza tranquilla?
In realtà, ci siamo talmente abituati a misurare le azioni solo in base al risultato, a breve o lungo termine, che fatichiamo a concepire che qualcuno decida di agire gratuitamente, solo perché così ritiene giusto fare, senza attendersi successi o ricompense. Forse, vale allora la pena di lasciarci interrogare da questi monaci disposti a consumare la propria vita tra le fiamme come incenso. Ora, le persone a cui vogliono parlare non sono i media occidentali, così lontani, distratti e preoccupati, come i loro governi, di mantenere buone relazioni; non è l’opinione pubblica mondiale, salvo quando qualche evento globale come le olimpiadi fa da potente cassa di risonanza. No, il destinatario di questo gesto estremo, divenuto ormai quasi quotidiano, è il loro stesso popolo: con la loro vita e la loro morte vogliono affermare la grandezza di una religione e di una cultura che non accetta di piegarsi al male, vogliono testimoniare a chi è scoraggiato dall’oppressione che si compiono azioni perché è giusto farle, che esistono ingiustizie che vanno denunciate a ogni costo, che ci sono valori per cui vale la pena dare la vita fino alla morte. Questo è il messaggio forte che possiamo recepire anche noi in Occidente, è l’interrogativo lancinante che ci porta a ripensare le nostre priorità, la nostra capacità di reazione al male, la nostra disponibilità a pagare un prezzo per ciò che per noi non ha prezzo. E non si creda che questa forma di protesta sia nata negli Anni Sessanta in Vietnam e sia divenuta così ampia in Cina in questi anni: non è legata al confronto-scontro con un potente nemico esterno, espressione di un ambito etico e culturale diverso. È pratica antichissima, attestata fin dalla prima metà del V secolo in Cina, con raccolte di biografie degli asceti buddisti immolatisi nel fuoco: queste testimonianze – una decisiva la si trova in un capitolo della Sutra del Loto – rivelano che non si è mai di fronte a un gesto impulsivo, ma che invece una lunga prassi di ascesi e purificazione fatta di digiuni e meditazioni ha preparato il sacrificio estremo di donarsi al Buddha per il bene degli altri. Il martire che si nutre e si ricopre di incensi e profumi per poi ardere compie un’offerta libera e totale per la salvezza di tutti: non mira unicamente alla propria rinascita, ma al rinnovamento del mondo. E questo lo fa attraverso un’azione nonviolenta nel senso forte del termine, un’azione cioè che accetta di assumere su di sé la violenza senza replicarvi, senza rispondere alla violenza con la violenza, spezzando così la catena infinita dell’ingiustizia riparata con un’ingiustizia più grande. È come se di fronte al male e a chi lo compie il monaco affermasse non solo che il malvagio non potrà avere il suo corpo ma anche, verità ancor più destabilizzante, che non riuscirà a fargli assumere lo stesso atteggiamento malvagio. Sarebbe improprio tracciare un parallelo con il servo sofferente di cui parla il libro di Isaia, con l’atteggiamento di Gesù di fronte ai suoi persecutori o con i martiri cristiani – che non si danno da sé la morte ma la «accolgono» dagli altri -, eppure questa capacità di assumere su di sé la violenza per estinguerla e al contempo per professare ciò che è bene e giusto per tutti interpella cristiani e non cristiani, noi post-moderni sempre tentati di rimuovere la domanda su cosa è giusto per interrogarci solo sull’opportunità del nostro agire: «vale la pena?» è diventato il nostro unico interrogativo, ormai sempre più accompagnato da un’immediata reazione negativa. Abbiamo dimenticato la fulminante risposta di Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola». La grande anima di questi giovani monaci tibetani ce lo ricorda, se solo vogliamo ascoltare il loro grido silenzioso, lasciandoci illuminare da quel fuoco nonviolento.”
Un clic sul buddhismo
Amo fotografare. Ho trovato su Style Magazine un articolo (non molto approfondito, per la verità) su Nicholas Vreeland: in una sola persona l’amore per il buddhismo e per la fotografia. Sul sito di Vogue ho recuperato queste notizie, un po’ scarne, ma sufficienti per dare un’idea del personaggio. “Ha ereditato dalla nonna Diana Vreeland la passione per l’immagine, ma anziché rimanere nella moda, ha preferito un percorso di vita diverso: Nicholas Vreeland, nipote della celebre direttrice di Vogue America, a quindici anni muove i primi passi nel mondo della fotografia per non lasciarlo mai più. Assistente di Irving Penn e Richard Avedon, assimila dai maestri i segreti della tecnica e sviluppa una sensibilità che lo porterà nell’arco di trent’anni a realizzare alcune delle immagini più significative del misticismo orientale. Già, perché in questo arco di tempo si avvicina al buddhismo diventando prima monaco e in seguito dottore in filosofia buddista, entrando nel Monastero di Rato. Le sue immagini in bianco e nero che raccontano un mondo fatto di dedizione, silenzio e pace sono una delle testimonianze più sofisticate della sua religione”.
Qui metto uno stralcio della bella intervista rilasciata a Marie Claire.
Come fotografa un monaco?
A volte cerco di cogliere un istante in una fotografia, mentre altre volte aspetto che le cose si calmino. La mente si evolve molto, molto lentamente, ma penso che il mio senso di armonia si sia evoluto nel tempo. In generale dobbiamo lavorare a diventare più pazienti, tolleranti e generosi, ma non dobbiamo aspettarci immediati cambiamenti fondamentali.
I tuoi luoghi preferiti a New York e in Tibet.
A New York mi piace stare seduto sotto l’albero di Krishna in Tompkins Square Park. Lì recito le preghiere e leggo. È l’albero intorno al quale nacque, negli anni Sessanta, il movimento Hare Krishna. Anche se non sono induista e non credo in Dio questo luogo mi rende felice. In Tibet, il Jokhang, il tempio principale nel centro di Lhasa che ospita Jowo Rinpoche, la statua di Buddha più preziosa in Tibet. Nel 2003 vi accompagnai il mio maestro quando fece ridorare la statua. Ci sedemmo di fronte al Buddha e recitammo le preghiere mentre i guardiani del tempio pregando svestivano la statua e un pittore applicava l’oro. Si dice che questo Buddha giovane fu realizzato da uno scultore celeste quando il Bhudda era ancora in vita.
Come ti sei avvicinato alla moda?
Il mio rapporto con la moda è iniziato quando ho iniziato a lavorare per Irvin Penn. Avevo 15 anni. Dovevo accendere il riflettore quando Penn aveva bisogno di mettere a fuoco. Dovevo anche contare quante fotografie esattamente aveva scattato in modo da potergli dire quando il rullino era da cambiare. Poi ho lavorato anche per Richard Avedon. Caricavo le pellicole sulle macchine fotografiche, le sviluppavo, facevo i provini e lo assistevo mentre fotografava. Non ho mai lavorato come fotografo di moda. Mi interessava la fotografia in senso lato.
La fotografia può essere considerata un mezzo per elevarsi?
Tutto può essere un mezzo per elevarsi. L’importante è coltivare la nostra motivazione per ciò che facciamo e mantenerla. Lo stesso vale per il lavoro: si può essere un cameriere o lavorare in banca e avere un desiderio vero di servire gli altri e quindi di sviluppare la propria qualità interiore di amore e di altruismo verso gli altri. Al contrario si può svolgere lo stesso lavoro con orgoglio e avidità.
Qual era il tuo abbigliamento abituale prima di vestire l’abito di monaco?
Mi è sempre piaciuta l’idea di una divisa, un codice di abbigliamento che non ti costringe a pensare. Le mie scarpe sono sempre lucide e ho molto cura dei miei vestiti e dei miei oggetti in generale. Non credo sia necessariamente un riflesso dell’attaccamento alla vita terrena, ma semplicemente rispetto verso gli strumenti che ci permettono di vivere le nostre vite. Se ci prendiamo cura delle nostre scarpe dureranno più a lungo, lo stesso vale per una macchina fotografica.
Tre consigli per diventare migliori.
Lavorare per sviluppare la nostra preoccupazione per gli altri piuttosto che per noi stessi, lavorare per sviluppare l’umiltà piuttosto che l’orgoglio o l’arroganza e lavorare per sviluppare la generosità piuttosto che l’egoismo sono tre consigli spirituali che mi sento di raccomandare. Io continuo a lavorare su me stesso. Non è facile, ma i nostri sforzi porteranno felicità a coloro che ci stanno intorno così come a noi stessi.
Lunga è la strada…
Notizie come questa, presa da Asianews, ci fanno capire quanta lunga è la strada ancora da fare verso la pace e la convivenza…
“Dhaka (AsiaNews/Agenzie) – Circa 25mila musulmani hanno dato alle fiamme e distrutto 22 templi buddisti e centinaia di case nel sudest del Bangladesh, in uno dei più rari e violenti attacchi contro la comunità buddista del Paese. A scatenare l’aggressione, consumatasi nella notte del 29 settembre, è stata una foto apparsa su Facebook, giudicata “offensiva” contro l’islam. Secondo alcuni rivoltosi, un buddista della zona avrebbe postato l’immagine sul social network. Per il momento, le autorità hanno fermato un giovane, Uttam Kumar Barua, ma non è chiaro se sia davvero responsabile della diffusione della foto. Nei disordini, sono stati demoliti anche due templi indù. La violenza ha colpito decine di villaggi degli upazila (sotto-distretti) di Ramu, Ukhia, Patia e Teknaf (Chittagong Division). Le perdite più gravi si registrano a Ramu, dove 15 templi buddisti sono stati rasi al suolo e oltre 100 case date alle fiamme. Tutto è iniziato intorno alle 10 di sera (ora locale), quando centinaia di persone hanno invaso l’area di Choumuhani, inscenando una protesta. La folla si è presto ingrossata, raggiungendo il migliaio di persone e rompendo il cordone di sicurezza della polizia. Intorno a mezzanotte, la gente ha iniziato a spargere polvere esplosiva e benzina, e a dare fuoco a templi e abitazioni. Tra i luoghi di culto distrutti, vi era anche il tempio Shima Bihar, antico di 250 anni. Al momento, per i disordini la polizia ha arrestato 26 persone. Secondo le autorità locali, a fomentare le proteste sarebbero stati musulmani Rohingya, minoranza islamica originaria dello Stato Rakhine del Myanmar. Da mesi questa comunità è vittima di persecuzione di matrice etnica: il Paese, infatti, non riconosce i Rohingya come etnia, ma li considera immigrati clandestini provenienti dal Bangladesh. Il Bangladesh è un Paese a maggioranza musulmana (90%). Con una popolazione di circa 161milioni di persone, è una delle nazioni più povere al mondo, ma il terzo Stato islamico più grande al mondo. Gli indù sono circa il 9% della popolazione, buddisti e cristiani una minoranza dalla percentuale irrisoria di appena l’1%. Tuttavia, la comunità buddista non ha mai sperimentato una violenza di tale portata.

