Qualche giorno fa ho pubblicato un articolo sul celibato dei sacerdoti. Una persona a me molto cara, mi ha suggerito un altro pezzo che descrive atteggiamenti che ha subito in prima persona e che le hanno fatto molto male. Il minimo che posso fare è pubblicarlo sul blog. Si tratta di un articolo di Guillermo Jesús Kowalski, pubblicato in “Religión Digital” e dedicato a Betina, sua “moglie e compagna nel cammino di santità dell’ordine sacro”. La traduzione è a cura di Lorenzo Tommaselli.
“Per Gesù la santità è la beatitudine delle vittime, in contrasto con coloro che, come il fariseo nel tempio o l’Epulone della parabola, hanno già la loro ricompensa. Egli è venuto per rendere felici coloro che il mondo e la religione considerano perdenti e falliti. E sceglie di essere uno di loro. Filtra con sarcasmo discipline religiose, concentrandosi invece sull’Amore e la Misericordia per i poveri e gli emarginati. In questo 1 novembre, giorno di Ognissanti, voglio ricordare un gruppo di scartati dalle strutture ecclesiastiche: i preti sposati, testimoni silenziosi di una santità incarnata che rimane ancora misconosciuta. In loro risplende la grazia santificante della duplice sacramentalità, dove l’amore coniugale ed il servizio pastorale si intrecciano come segni del Regno. Pur emarginati dal clericalismo che ha loro voltato le spalle, sono componenti indispensabili di una Chiesa più umana, riconciliata con la verità dell’amore e la sequela di Cristo nella realtà. Essi, come tanti altri, rivelano che solo le vittime della Chiesa possono pronunciare una parola nuova per credere di nuovo in essa come strumento del Regno di Dio. All’interno della Chiesa cattolica persiste una tensione tra una struttura ecclesiale intrappolata nel clericalismo celibe e la realtà viva dei preti sposati come un’altra forma di santità. Questo conflitto è disciplinare, teologico e antropologico: il celibato obbligatorio, promulgato per legge tardivamente, nel XII secolo, e regolamentato dal Concilio di Trento, non è un dogma, ma una costruzione istituzionale che ha confuso la fedeltà evangelica con l’obbedienza al potere. Nelle parole di Gesù: “Non era così in principio” (Mt 19,8). Nel cristianesimo primitivo le cose erano diverse: Pietro e la maggior parte degli apostoli erano uomini sposati; Paolo richiedeva che i vescovi fossero “mariti di una sola moglie” (1 Tm 3,2). Ma la progressiva identificazione tra perfezione e celibato ha consolidato una casta sacra superiore. Una deriva legata ad antiche mutilazioni religiose (mutilazione genitale femminile o maschile, come nel caso di Origene e altri) che confondevano la santità con la negazione del corpo. Questa distinzione ha alimentato il clericalismo: l’esaltazione del clero come un gruppo separato e superiore perché non si sposa, i cui membri godono di privilegi e di un potere indiscutibile. Come ha notato Hans Küng, “la Chiesa ha confuso la santità con il controllo”, mentre Umberto Eco ironizza: “preferisce la castità al senso comune”. In contrasto con questa spiritualità timorosa del desiderio, Bruno Forte propone una visione trinitaria: “l’amore coniugale e l’amore pastorale trovano la loro radice comune nella Trinità, dove la comunione è dono reciproco”. Il prete sposato non è un errore disciplinare da “nascondere”, ma un segno profetico del Regno: una testimonianza del fatto che l’amore umano ed il ministero pastorale sono espressioni inseparabili della stessa grazia divina.
La voce dei teologi: mettere in discussione il fondamento Numerosi teologi cattolici giungono oggi alla conclusione (insieme ai numerosi studi sulla pedofilia di diversi paesi) che il celibato obbligatorio, un’imposizione innaturale, è fonte di problemi pastorali, psicologici e spirituali, di doppie vite e abusi, come testimoniano i mezzi di comunicazione, che oggi senza pudore violano i muri dell’omertà clericale. Hans Küng ne evidenzia la sua disconnessione normativa dal Vangelo. Nella sua opera Perché sono cristiano? afferma: “Il celibato clericale non è un comandamento di Gesù, ma una legge della Chiesa. E le leggi della Chiesa possono essere modificate dalla Chiesa”. Questa legge non garantisce una maggiore disponibilità per Dio, genera un moralismo ossessivo sulla sessualità e allontana persone capaci dal ministero ordinato. Da parte sua, il teologo australiano Paul Collins, autore di Papal Power, collega direttamente il celibato al clericalismo e all’abuso di potere: “il celibato obbligatorio è il cemento che mantiene unita la struttura clericale. Crea una mentalità del «noi contro loro», separando i preti dal popolo che dovrebbero servire. Questa separazione è il terreno fertile perfetto per il clericalismo, per l’arroganza e, nei casi più tragici, per l’abuso”. La credibilità della Chiesa è erosa da questo divario strutturale. A partire da una prospettiva più pastorale ed ecumenica, il teologo tedesco David Berger, che ha lasciato il ministero per sposarsi, ha conosciuto la “doppia vita” di molti chierici. Berger denuncia “l’ipocrisia di un sistema che, mentre predica la castità, spinge molti ad una vita clandestina, generando una profonda sofferenza personale e una crisi di integrità”. Migliaia di preti hanno dovuto scegliere traumaticamente tra la vocazione all’amore coniugale e quella al ministero, come se si escludessero a vicenda. Migliaia di vittime scartate dall’istituzione.
La condanna e la discriminazione: il prezzo elevato della scelta Chi “ha il coraggio di uscire” e di vivere la propria unione coniugale, si scontra con un meccanismo di discriminazione giuridica e di accanimento sociale. Non può più amministrare pubblicamente i sacramenti, privando la comunità di qualcosa di essenziale. Ma la sanzione va oltre l’aspetto legale: è una lezione che non ha scadenza. Questi uomini, che spesso conservano una fede profonda e un amore per la Chiesa, vengono stigmatizzati, trasformati in fantasmi all’interno della comunità che un tempo hanno guidato. Vengono calunniati come falliti, malati, con “strane idee” e viene loro negata la possibilità di servire o di trovare uno spazio ministeriale significativo all’interno della struttura ecclesiale. I loro matrimoni sono disprezzati e visti come la causa del loro “degrado”. Molti fedeli, indottrinati da una visione sacralizzata del clero celibe, non sanno come relazionarsi con un prete sposato. Reagiscono con diffidenza, con pettegolezzi alle sue spalle e con un sospetto generale sulla sua ortodossia o sul suo “fallimento”. Sono visti, nella migliore delle ipotesi, con compassione e, nella peggiore, come “traditori che hanno infranto un giuramento sacro”. La teologa femminista spagnola Isabel Corpas, autrice di La rivoluzione silenziosa delle donne nella Chiesa, esprime questa ingiustizia: “Condannando un prete che si sposa, la Chiesa non solo punisce un uomo, ma sta svalutando simbolicamente il matrimonio e, soprattutto, la donna con la quale si sposa. Lei diventa la «tentazione», la «colpevole» della «perdita» di un prete. È una visione profondamente misogina che rafforza l’idea che la donna sia un pericolo per la santità dell’uomo consacrato”. Questa dinamica – sostiene Corpas – perpetua una visione clericale e patriarcale che deve essere smantellata. Solo pochi giorni fa abbiamo letto le esperienze del vescovo Reinhold Nann e di don Ignacio PuenteOlivera, nelle quali si riflette quella di migliaia di preti sposati. Il primo se n’è andato, stanco di tante “bugie nella vita presbiterale” che lo hanno portato a una profonda depressione e a concludere che “il celibato obbligatorio non dovrebbe continuare ad essere un peso imposto a tutti, ma una scelta libera e carismatica. Il matrimonio non diminuisce la santità o l’efficacia pastorale di un prete”. La sua rinuncia al potere e la sua scelta di vivere con la sua partner non sono state una caduta, ma una liberazione spirituale («Religión Digital», 20 ottobre 2025). Il secondo ha presentato una teologia piena di speranza parlando della “doppia sacramentalità”, la coesistenza armoniosa dell’Ordine e del Matrimonio: “Siamo pienamente preti, pienamente mariti e pienamente padri”. Ha denunciato l’«ignoranza istituzionale» escludente e ha sostenuto che la sua identità presbiterale non dovrebbe dipendere da un decreto, ma dalla fedeltà alla chiamata di Gesù. (RD, 09.10.2025) Entrambi sentono di non avere il loro posto nella Chiesa; non sono veri laici, poiché la loro formazione teologica e l’esperienza ministeriale li hanno preparati a servire in altro modo. Né sono chierici di pieno diritto, poiché il loro matrimonio li ha emarginati dal sistema. Tuttavia, mossi dalla sequela di Cristo e dal loro amore per la Chiesa, desiderano continuare a servire a partire dalla loro nuova posizione e avere il loro posto nel poliedro ecclesiale. Il loro reinserimento non sarà frutto della “tolleranza”, ma piuttosto della conversione della Chiesa. La voce del popolo di Dio si è espressa in modo schiacciante nei sinodi a favore dell’ammissione del prete sposato. Ma non si è voluto far ascoltare questa voce. Allora, di quale sinodalità stiamo parlando?
La sfida: verso una Chiesa sinodale e non clericale Il movimento a favore di un celibato facoltativo e del riconoscimento della santità dei preti sposati è anticlericale, non anti-Chiesa. Non cerca di distruggere il ministero, ma di reintegrarlo nella comunità dei battezzati, di «ordinarlo» verso la comunione, non verso la segregazione. Punta verso una Chiesa sinodale, per camminare insieme con pari dignità. La Chiesa cattolica è formata da 24 Chiese, una occidentale e 23 orientali. La Chiesa ortodossa cattolica ha preti sposati, così come i riti orientali fedeli a Roma, come il maronita, il greco-cattolico melchita, il greco-cattolico ucraino e l’armeno. Le loro parrocchie sono testimonianza vivente che il celibato non è un requisito “ontologico” per il ministero ordinato. La santità non risiede nello stato civile, ma nella fedeltà all’amore di Dio, sia nel dono celibe sia nell’amore coniugale. Il prete sposato è chiamato alla santità in questo stato. Pertanto, lungi dall’essere un problema, è un ponte tra due realtà – il clero e il laicato – che la visione clericale ha artificialmente separato. Negare questo non è solo mancanza di pragmatismo pastorale; è una resistenza strutturale all’opera dello Spirito, con conseguenze disastrose sotto gli occhi di tutti. La santità del prete sposato, negata dagli architetti del clericalismo, è una profezia fondamentale del Regno. La duplice sacramentalità dell’Ordine e del Matrimonio è segno che la santità non risiede nella mutilazione, ma nell’integrazione dell’amore. “Il futuro della Chiesa passerà per il recupero dell’elemento comunitario rispetto a quello clericale e su questa strada il riconoscimento del ministero sposato sarà un segno profetico che lo Spirito soffia dove vuole, e non solo nei seminari di oggi” (Leonardo Boff).”
Ieri sera, sul tardi, diciamo pure ieri notte, mi sono imbattuto in un articolo di Sergio Di Benedetto pubblicato su VinoNuovo. L’argomento, come scrive il professore, è uno di quelli di cui effettivamente da tempo non sentivo parlare: il celibato dei sacerdoti.
“Ci sono temi che hanno un loro ‘momento di gloria’, e poi scompaiono, o quasi, dal dibattito. È così in ogni settore, e quello ecclesiale non è da meno. Tra questi argomenti messi nell’ombra credo si possa annoverare il celibato sacerdotale, che sembra sparito dai radar del dialogo pubblico nell’orbe cattolico, salvo poi tornare in scena (saltuariamente) di fronte a qualche caso di cronaca, che però si consuma in fretta e in fretta cade nel buio (l’ultimo, quello del vescovo Reinhold Nann). Così, forse incalzato e scalzato dalla discussione sul diaconato femminile, o su altri nuclei di riflessione teologica, una pacata, profonda, seria discussione circa la possibilità di un superamento del celibato è tramontata. Complice, penso, un fatto che è stato una pietra tombale su tale argomento, e riguarda quando accaduto al Sinodo per l’Amazzonia (2019), il cui documento finale, al paragrafo 111, chiedeva un ripensamento della disciplina del celibato, ordinando uomini sposati (sostanzialmente i cosiddetti viri probati) «al fine di sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei Sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica». Esso, pur avendo avuto 128 voti favorevoli e 41 contrati (ovvero il 76%, ben più del 2/3 necessari), non era stato accolto nell’esortazione apostolica finale di Papa Francesco, Querida Amazonìa, per non spaccare o polarizzare (al solito, facendo prevalere i diritti della minoranza su quelli di un’ampia maggioranza). Così, però, si è non solo chiuso ogni tentativo di portare con più frequenza i sacramenti ai popoli dell’Amazzonia, ma anche ogni ulteriore riflessione: a che scopo discutere se, nonostante una consistente porzione di episcopato avesse espresso voto favorevole, poi nulla è cambiato? La questione non è solo quella dei viri probati, ma in generale del celibato nella chiesa latina, la quale continua la prassi di scegliere presbiteri solo “tra coloro che sono chiamati al celibato”: ma questa, in buona sostanza, è una formula (retorica), per giustificare il fatto che la chiesa continua a ordinare uomini non sposati, mettendo la testa sotto la sabbia quanto a doppie a triple vite, sacerdoti con la compagna o il compagno, e così via. Perché una buona dose di ipocrisia pare non mancare mai quando si tratta di guardare alla realtà dei fatti, che è poi questa: ci sono presbiteri che vivono il celibato con equilibrio, altri che lo vivono in modo non equilibrato, finanche patologico, altri ancora che non lo vivono. Pochi giorni fa ho ascoltato, per l’ennesima volta, un ex sacerdote, ora dispensato e sposato, che ebbe un consiglio dal suo vescovo: per ora mantieni la tua relazione con questa donna, basta che non lasci il ministero…. Rimane l’antica questione, la vecchia scusa: il presbitero sposato non avrebbe tempo, energia, dedizione totali per la sua comunità. Ma siamo onesti: quanti, davvero, interpretano il proprio ministero in modo così eroico? Quanti parroci, quanti vicari sono oberati di incarichi, a rischio burnout, frantumati in mille discutibili attività, da avere quella disponibilità totale che, in realtà, li spezza umanamente, li induce talvolta al ritiro sociale, alla fuga, a vite parallele? Il tema è sempre lo stesso: che valore dare all’umanità del prete, celibato compreso? Infine, che fare con quella risorsa preziosa che possono essere i presbiteri sposati, quando la loro ‘uscita’ è stata ben pensata, equilibrata, quando hanno costruito relazioni buone, generative, in cui ha trovato posto anche Dio? In questo tema, oggi, mi pare, i veri nemici non sono né la tradizione né la prassi: è l’ipocrisia, che si tira dietro la paura di guardare le cose come sono, le vite degli uomini e delle donne come sono. E questo è, in ultima analisi, davvero contro il vangelo di Gesù.”
A conclusione di questo post mi piace riportare le parole di un sacerdote che mi manca molto, don Pierluigi Di Piazza che in vari libri ha affrontato l’argomento. In un’intervista di Giovanna De Caro dice: “La dimensione affettiva è per ogni persona fondamentale, costitutiva; senza amore non c’è vita; l’amore buono, positivo, non quello inquinato o deturpato fino alla violenza sottile o esplicita. Essere prete non dovrebbe comportare il celibato obbligatorio; ho sempre pensato a una Chiesa libera, umana, ricca di relazione nella quale ci siano preti celibi, quando il celibato è scelto con libertà, consapevolezza, maturità; preti sposati; donne prete, non per una parità clericale sconveniente, bensì per l’apporto indispensabile della femminilità, della diversità di genere nella esperienza della fede, nella Chiesa. Sarebbero anche da reintrodurre nel ministero i preti costretti a lasciarlo perché si sono sposati. Attorno ai 33-35 anni ho vissuto una forte nostalgia della paternità. Non mi pare adeguato, né rispettoso per le tante esperienze umane se io parlo di coprire mancanze affettive. La compensazione dell’amore che non c’è per lo più si risolve in un artificio non veritiero.”
E’ da tanto che purtroppo non fotografo con la reflex, ancora di più da quando non post-produco uno scatto. Ricordo però che una delle cose a cui prestavo più attenzione e che ancora oggi mi fa apprezzare o meno una foto è la saturazione dei colori. Spingerla al minino (arrivando al bianco, nero, grigio) o al massimo significa allontanarsi dalla realtà: non è un male, basta saperlo. Il 14 settembre esprimevo il mio disagio nei confronti di un modo polarizzato e polarizzante di vedere tutto, un approccio che tende a strumentalizzare qualsiasi cosa pur di affermare la propria idea facendo scomparire i colori intermedi, i “dipende”, i “distinguo”, i “capiamo meglio”. Ho allora deciso di pubblicare in rapida successione tre articoli che trattano argomenti diversi ma che possono essere ricondotti a questo tema. Parto da quello più vicino nel tempo: è del 20 settembre, a firma di Fabrizio Mastrofini, e pubblicato su Settimana News, sito in continuità con il Centro editoriale dehoniano. L’articolo, prendendo spunto dall’omicidio di Charlie Kirk, affronta il tema della polarizzazione all’interno della chiesa statunitense e il ruolo di Papa Leone XIV.
“Si approfondisce nel Nord America la polarizzazione politica, con effetti sul ruolo della religione e della Chiesa cattolica, dopo l’uccisione violenta di Charlie Kirk. Prima di passare in rassegna episodi e fatti che ne danno conto, è opportuno ricordare cosa disse Papa Leone XIV agli operatori dei media, all’indomani della sua elezione. «Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana». Era il 12 maggio, poco più di 4 mesi fa, appena. E la situazione è peggiorata.
L’omicidio di Charlie Kirk ha modificato il panorama. Dice a La Repubblica del 20 settembre lo studioso belga naturalizzato canadese Derrick De Kerckhove, allievo e prosecutore del lavoro di Marshall McLuhan: «Gli americani vengono licenziati a destra, sinistra e centro, solo per le opinioni che esprimono, una mail, un messaggio sui social. È una farsa: l’unica libertà di espressione rimasta è quella di elogiare Trump». «Quanto accade è frutto di una lunga storia nel trascurare la frase “We the people”, con cui comincia la Costituzione. Soprattutto il Partito democratico ha dimenticato il popolo, creando le condizioni per la rabbia che ha favorito l’elezione di Trump nel primo mandato. Lui è stato molto abile a sfruttarla, soprattutto con la comunicazione, attraverso i social. I democratici poi hanno avuto l’occasione di fermarlo con Biden, ma hanno fallito l’obiettivo, accelerando rabbia e risentimento. Lui ha sfruttato molto bene la debolezza degli avversari, ottenendo quello che loro ritenevano impossibile, ossia la rielezione». Sul The New York Times International Edition del 20 settembre, l’analista politica Lydia Polgren rileva «l’ossessione» politica e sociale di vedere una minaccia «transgender» dietro l’omicidio di Charlie Kirk (perché l’assassinio conviveva con una persona transgender). A ciò si aggiunge la politica presidenziale aggressiva verso i media, giornali e TV, percepiti come ostili, sostanziatasi nell’apertura di una causa per danni per 15 miliardi di dollari al The New York Times, bloccata da un giudice federale il 19 settembre perché inconsistente. La religione ha molto a che fare con la politica negli USA, per il sostegno evangelico alla destra repubblicana, per il cattolicesimo esibito dal vicepresidente Vance, per l’avere oggi sul Soglio di Pietro un papa statunitense. Il movimento Turning Point USA fondato da Charlie Kirk ha, tra gli altri, il sostegno di The Post Millennial, sito conservatore canadese, abbastanza ossessionato dalle presenze criminali «transgender» e di Human Events, altro sito conservatore di analisi politica che combatte accanitamente contro i movimenti di sinistra, soprattutto Antifa, dichiarato terrorista da Trump il 18 settembre. Sono siti, i primi due, ascrivibili all’area religiosa dei post-millennials, coloro i quali credono nel ritorno di Gesù alla fine del Millennio in corso, secondo un’interpretazione letterale del capitolo 20 dell’Apocalisse.
Papa Leone XIV entra in questa dinamica, che si svolge sui social media e attraverso i siti citati e gli altri del conservatorismo cattolico, in quanto da lui ci si attende la sconfessione del magistero di Papa Francesco. Avere ricevuto il 1° settembre il gesuita americano James Martin, in prima fila nella pastorale di accoglienza del mondo LGBTQ, è stato visto con sconcerto. A parziale correzione è arrivata l’intervista pubblicata in Perù nel libro biografico su Robert Prevost, in quanto sembra chiudere su una serie di questioni spinose per i conservatori. Sulla questione LGBTQ, ha detto Papa Leone XIV, la Chiesa continua a essere aperta, e ha citato Papa Francesco. Però – ha aggiunto – «trovo altamente improbabile, certamente nel prossimo futuro, che la dottrina della Chiesa, in termini di ciò che insegna sulla sessualità, ciò che la Chiesa insegna sul matrimonio, cambierà». «Ho già parlato di matrimonio, come ha fatto Papa Francesco quando era Papa, di una famiglia composta da un uomo e una donna in un impegno solenne, benedetti nel sacramento del matrimonio. Ma anche solo dirlo, capisco che alcuni lo prenderanno male». Niente spiragli per il diaconato alle donne. «Al momento non ho intenzione di cambiare l’insegnamento della Chiesa sull’argomento», anche perché «ci sono parti del mondo che non hanno mai veramente promosso il diaconato permanente, e questo di per sé è diventato una domanda: perché dovremmo parlare di ordinare donne al diaconato se il diaconato stesso non è ancora adeguatamente compreso, sviluppato e promosso all’interno della Chiesa?».
Una linea che sembra ispirata alla cauta prudenza. Ma non basta per la destra USA, collegando su questi temi in modo trasversale evangelicals e conservatori cattolici. Dopo l’uccisione di Charlie Kirk il mondo evangelico ha ripreso grande visibilità nel chiedere un ritorno ai valori cristiani nella vita pubblica. E i media conservatori cattolici hanno ripreso fiato, hanno intervistato il cardinale Mueller, che ha definito Charlie Kirk un martire di Cristo. Il prelato era già in prima fila tra gli oppositori di Papa Francesco, chiede di tornare alla messa in latino, all’ostracismo verso l’Islam e il mondo LGBTQ. Né mancano le forti spinte affinché Leone XIV sconfessi apertamente il suo predecessore. Come scrive Carol Zimmermann, opinionista del National Catholic Reporter, settimanale progressista USA, «tra le attuali convinzioni fortemente radicate e contestate a sinistra e a destra, spesso sembra che non ci sia davvero spazio per una via di mezzo: si viene etichettati come Democratici o Repubblicani, Conservatori o Liberali senza molto margine di manovra. Anche se questa polarizzazione gioca un ruolo importante nei talk show e nelle proteste di piazza, dobbiamo ancora capire come andare d’accordo con chi ha opinioni diverse e sederci allo stesso tavolo». The Pillar, testata on line notoriamente schierata su posizioni conservatrici, notava il silenzio dei vescovi USA sull’omicidio di Kirk e lo attribuiva al fatto che la Conferenza episcopale «è guidata da un diplomatico di carriera (l’arcivescovo Timothy Broglio – ndr) e da un dirigente (il segretario generale Michael Fuller – ndr) plasmato in modo unico dalla tempesta di polemiche. E le reazioni all’assassinio di Kirk sono state emotivamente intense da entrambe le parti, il che significa che qualsiasi cosa la conferenza episcopale avesse detto a riguardo avrebbe probabilmente portato a ulteriori controversie, esattamente ciò che i suoi attuali dirigenti sembrano intenzionati a evitare sulle questioni pubbliche». In realtà, diversi vescovi cattolici si sono espressi nei giorni successivi al fatto.
Come scrive Stan Chu Ilu sul National Catholic Reporter, «in un’epoca in cui la vita politica sembra dominata dalla paura e dalla rabbia, la testimonianza cattolica di un discorso ragionato, della dignità umana, di un’etica di vita coerente e della nonviolenza evangelica potrebbe rappresentare una delle ultime speranze per l’esperimento americano. I cattolici americani possono applicare ciò che stanno imparando attraverso le pratiche della sinodalità per influenzare il discorso politico, contribuendo a creare uno spazio ampio e stimolante in cui la voce di tutti sia ascoltata con rispetto e in cui le persone possano crescere reciprocamente nella comprensione della verità». Sui social accade di tutto, a dispetto di ogni moderazione. Lo si vede seguendo su X Mike Lewis, fondatore ed editor del sito Where Peter Is o anche il commentatore britannico Austin Ivereigh. Il mondo conservatore cattolico sta moltiplicando gli account che con la scusa di riprendere il pontificato di Leone XIV in realtà danno voce alle richieste di cancellare l’insegnamento di papa Francesco. Altri (niente nomi, no pubblicità) postano messaggi in cui assicurano di «aver ricevuto conferma da fonti attendibili che Papa Leone XIV è disposto a ripensare e rivedere la politica di Francesco». Al centro del dibattito: la sessualità e la messa in latino. E soprattutto il National Catholic Register – testata conservatrice del gruppo EWTN – rilancia in tutti i modi l’appello di una Catholic Coalition affinché papa Leone XIV si impegni contro la «lobby» che vuole sdoganare le unioni tra persone dello stesso sesso. Ma a leggere bene articolo e appello, si scopre che la «coalizione» ha 25 associazioni, senza nomi, ed è collegata al movimento «Tradizione Famiglia Proprietà» del brasiliano Plinio de Correa (qui il sito italiano del movimento). Movimento e fondatore ben noti negli anni Ottanta e Novanta dello scorso Millennio per sostenere l’impegno contro la teologia della liberazione e qualunque forma di impegno collegata alla Dottrina sociale della Chiesa. Dopo 130 giorni di pontificato, dunque, la polarizzazione è in pieno sviluppo”.
In un unico post due articoli a commento della visita del papa a Lund. Il primo è di taglio più teologico ed è a firma di Stefania Falasca per Avvenire:
“La memoria guarita, il passaggio dal conflitto alla comunione, il riconoscimento della dipendenza dalla grazia di Cristo nella vita cristiana, la gratitudine a Dio, guardare insieme al futuro e dire no alla strumentalizzazione della religione per fini politici. È quello che descrive oggi l’incontro tra cattolici e luterani nell’antica cattedrale di Lund e la dichiarazione comune che unitamente hanno sottoscritto al termine della preghiera condivisa. La Chiesa cattolica e la Chiesa luterana hanno compiuto il significativo gesto di firmare davanti al mondo la dichiarazione della commemorazione comune della Riforma. Dopo cinquecento anni, cattolici e luterani si ritrovano oggi concordi su una visione congiunta del passato e su imperativi comuni per il prossimo futuro. Si esprime la gioia per ciò che unisce, il pentimento per il danno creato dalla discordia e la ferma intenzione di testimoniare insieme al mondo la misericordia di Dio, operando per la riconciliazione, la pace e la giustizia per l’intero creato. Si compie così la storia con un nuovo passo importante per il cammino verso una più grande unità visibile della Chiesa. Articolata in cinque brevi paragrafi la “carta comune” della guarigione e della riconciliazione riassume il viaggio che ha portato a questo passo. «Cinquanta anni di dialogo ecumenico intenso e proficuo tra cattolici e luterani hanno aiutato a superare molte differenze, hanno approfondito la nostra comprensione e la fiducia reciproca – è scritto nel primo paragrafo della dichiarazione – allo stesso tempo, ci siamo avvicinati gli uni agli altri attraverso il servizio comune al nostro prossimo, spesso in circostanze di sofferenza e persecuzione. Attraverso il dialogo e la comune testimonianza noi non siamo più estranei. Piuttosto, abbiamo imparato che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide». Nel secondo paragrafo dal titolo: Passando dal conflitto alla comunione, cattolici e luterani unitamente confessano e chiedono perdono per aver «ferito l’unità visibile della Chiesa». Riconoscono che «differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti», soprattutto si riconosce ciò che è importante anche per non commettere gli errori del passato nelle contingenze attuali, e cioè che nella storia che ha portato alla divisione «la religione è stata strumentalizzata per fini politici». Così mentre il passato non può essere cambiato, viene però ricordato che la sua memoria può essere trasformata. Pertanto si afferma che si deve «con forza respingere l’odio e la violenza, passati e presenti, in particolare quella espressa nel nome della religione». «Oggi – è scritto – sentiamo il comando di Dio di mettere da parte tutti i conflitti. La nostra fede comune in Gesù Cristo e il nostro comune battesimo richiedono sempre una conversione quotidiana, con cui intrecciare le divergenze storiche e i conflitti che possono impedire la riconciliazione. Ci rendiamo conto che essendo liberati dalla grazia, questo spinge a muoversi verso la comunione a cui Dio ci chiama continuamente». La dichiarazione prospetta poi con chiarezza l’impegno per una testimonianza comune: «Ci impegniamo a testimoniare insieme la grazia misericordiosa di Dio, reso visibile in Cristo crocifisso e risorto. Consapevoli che il modo di relazionarsi tra noi forma la nostra testimonianza evangelica, noi ci impegniamo a un’ulteriore crescita nella comunione radicata nel battesimo, mentre cerchiamo di rimuovere i rimanenti ostacoli che ci impediscono di raggiungere la piena unità conforme al volere di Cristo che desidera che siamo una cosa sola, perché il mondo creda (cfr Gv 17,21)». Da qui la preghiera a Dio affinché si possa compiere insieme il servizio, in particolare ai poveri, difendere la dignità umana, lavorare per la giustizia rifiutando di ogni forma di violenza. «Dio ci chiama ad essere vicino a tutti coloro che desiderano la giustizia, la pace e la riconciliazione. Oggi, in particolare, per la fine della violenza e l’estremismo che colpiscono così tanti paesi e comunità e innumerevoli fratelli e sorelle in Cristo esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere lo straniero, per venire in aiuto di chi è costretto a fuggire a causa di guerre e persecuzioni, per difendere i diritti dei rifugiati e di coloro che cercano asilo». Se atteggiamenti passati di antiecumenismo e di autocompiacimento riemergeranno nelle comunità di fede, la commemorazione comune del 31 ottobre, ricorderà tuttavia con forza che non c’è altro cammino per andare avanti di quello della guarigione della memoria, di un ecumenismo dell’amicizia e di un servizio comune verso un mondo che chiede ad alta voce speranza, pace giusta e riconciliazione.”
Il secondo articolo è di taglio più geopolitico: è di Piero Schiavazzi, pubblicato su L’Huffington Post:
“A mezzo millennio da Martin Lutero e a mezzo secolo da Ingmar Bergman, la cattedrale di Lund è ancora una volta il “posto delle fragole”. Dove l’asprezza dei ricordi evolve, si converte in dolcezza dei gesti. E dove un dialogo acerbo matura e sperimenta il sapore del Verbo: “Con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa…Chiediamo al Signore che la sua Parola ci mantenga uniti.” Come nel film del regista svedese, le mura millenarie, con il loro magnetismo, catturano la scena di una metamorfosi. Una catarsi che solo il tempo sa operare nei protagonisti, aggiustando l’inquadratura e illuminando la zona d’ombra. Sicché la primavera giunge d’autunno, anche a una latitudine già invernale. Occasione da non perdere per Bergoglio, papa cinefilo, amante dei maestri degli anni ’50: “Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma raccontare questa storia in modo diverso”, ha spiegato all’arrivo, dopo l’appello rivolto in volo ai giornalisti: “Aiutateci a far capire”. Così, con un anno di anticipo sul quinto centenario, Francesco ha trasformato la “protesta” di Lutero in festa cattolica, nonché canonica. O poco ci è mancato. E ha inaugurato le danze, schiodando le tesi del monaco ribelle dai battenti di Wittenberg, dove furono affisse nel 1517, per iscriverle d’ufficio sulla porta del Giubileo e registrarle nel libro dei romani pontefici: “…profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma”, recita la dichiarazione comune, sottoscritta con il palestinese Munib Yunan, presidente della Federazione Luterana Mondiale. Gli storici lo chiameranno ecumenismo del tango: un transfert dalle atmosfere creole a quelle scandinave, un allungo dal Baltico al Rio de la Plata. Rinunciando ai giri di valzer dei teologi, che la prendono alla larga, e avanzando barre a dritta in uno spazio stretto, come nelle milonghe di Buenos Aires. Buttandosi avanti e sapendo di non poter tornare indietro, in ossequio alle regole del ballo: “…abbiamo una nuova opportunità… Non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi”. Con il suo paso doble, Bergoglio si spinge verso traguardi che a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sarebbero preclusi, scontando il peccato originale di un pregiudizio etnico – geografico: degli ortodossi russi all’indirizzo del papa polacco e dei protestanti tedeschi nei confronti del pontefice bavarese. Due derby, uno tra slavi e l’altro fra teutonici, nei quali le difese hanno avuto buon gioco in interdizione, stoppando le geometrie di Ratzinger, l’austero, e le acrobazie di Wojtyla, il condottiero. Ma non le fantasie palla a terra di Francesco, il manovriero. Realista e concreto quanto basta per puntare al risultato e portarlo a casa, prima del novantesimo, che stavolta coincide con la duplice chiusura, il 20 novembre, di Anno Santo e anno liturgico, nella domenica di Cristo Re: giorno in cui stilerà bilanci e tirerà somme. Disposto a scoprirsi, a cedere terreno e a prendere gol persino, ma determinato, infine, a metterne a segno uno in più: come in febbraio a Cuba, quando pur d’incontrare Kirill, il patriarca russo, ha siglato con lui una sorta di “Yalta religiosa”. Un accordo di desistenza che impegna le due chiese a non arruolare proseliti e a non evangelizzare, de facto, nelle altrui zone di influenza, dove Giovanni Paolo II aveva posizionato, a presidio, i propri vescovi, con la consegna di marcare a uomo. E come oggi a Lund, quando non si è limitato a riabilitare Lutero, ma lo ha celebrato e addirittura è sembrato che stesse per annoverarlo tra i beati, con tempismo perfetto e significativo, nella vigilia della solennità di Ognissanti. Un passo che Benedetto XVI non avrebbe mai compiuto, vedendo nella riforma protestante, notoriamente, il primo ciak e l’incipit della deriva relativista del pensiero moderno. Valutazioni che Bergoglio condivide sul piano scientifico, come dimostrano i suoi scritti argentini, ma che sbiadiscono e svaniscono in un quadro geopolitico, da quando è asceso al soglio petrino. Paradosso in virtù del quale il primo Papa della Compagnia di Gesù, nata segnatamente allo scopo di contrastare il protestantesimo, trova nel nemico di sempre un alleato, impensato più che insperato. Come nei film dei supereroi, quando i protagonisti depongono antiche, anacronistiche rivalità per fronteggiare un gigante tecnologico, partorito dalla scienza e intenzionato a scalzare la loro primazia, elevando il relativismo a dogma di fede. Oppure, ipotesi ancora più terrificante, un Jurassic World delle religioni, dove i vecchi dinosauri del cattolicesimo, del luteranesimo e dell’ortodossia smettono di combattersi a vicenda per scongiurare una temibile mutazione genetica: una nuova specie aggressiva, uscita dal crogiuolo della storia e in grado di travolgerle, anzi di stravolgerle, deformandone mission e vision. Oggi, esattamente come cinquecento anni fa, l’Europa è infatti teatro dello scontro tra due cristianesimi. Con una differenza di fondo, però, che attiene al DNA, poiché la disputa, questa volta, non verte sul conflitto tra coscienza e autorità, quanto piuttosto tra uguaglianza e identità. Da un lato un cristianesimo identitario: che dopo essere stato liberato dai muri ne costruisce di nuovi, alzando il vessillo e vestendo la corazza di una fede anabolizzata e gonfia di proclami, fuori, ma sterilizzata e vuota di linfa evangelica, dentro. Dall’altro il cristianesimo egalitario, che riconosce in Bergoglio la sua bandiera e lo segue tra l’esultanza dei fedeli e la riluttanza dei governi, preoccupati di dover pagare un prezzo politico. Una tenzone che non risparmia, in prospettiva, neppure le rive della Svezia felix, dove il partito xenofobo lambisce il 15 per cento. Fenomeno che ha indotto socialisti e moderati a correre ai ripari, congelando il patto di unità nazionale fino al 2022: una scadenza inconcepibile al sole del Mediterraneo, dove le maggioranze si sciolgono in un baleno.
“Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere chi è straniero e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo”. Profughi e i migranti, agli occhi del Pontefice, compongono dunque il banco di prova e la frontiera, mobile, del movimento ecumenico, dove si attesta il cammino comune e si testano i cromosomi, la fisionomia delle chiese cristiane.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. La misericordia divina, tormento di Lutero, che in sede speculativa divise in due la cristianità del secondo millennio, diviene, alle soglie del terzo, strumento di rinnovata unità operativa: “Senza questo servizio al mondo e nel mondo, la fede cristiana è incompleta”. Sul set bergmaniano del posto delle fragole, Bergoglio raccoglie i frutti del lavoro avviato cinquant’anni orsono e chiude, al tempo stesso, un ciclo produttivo, trasferendo la pianta dell’ecumenismo dalla serra protetta della teologia, dove tutto appare chiaro e incontaminato, alla selva oscura del mondo globalizzato. In un groviglio a crescita continua che rende arduo discernere il grano dalla zizzania. Nelle latitudini del grande Nord, il Papa del profondo Sud, in definitiva, è venuto a cercare d’autunno la primavera. E a invertire le stagioni della storia. Consapevole, in un’ottica gesuitica e cinematografica, “che il passato non si può cambiare, ma che la memoria, e il modo di fare memoria, possono essere trasformati”.”
Intervista piuttosto lunga, ma utile per capire lo spirito con cui oggi il papa si reca in Svezia. E’ ad opera di Ulf Jonsson ed è pubblicata su La Civiltà Cattolica.
“Durante un incontro dei direttori delle riviste culturali europee della Compagnia di Gesù, a metà giugno, ho espresso a p. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, un desiderio che avevo nel cuore da tempo: intervistare papa Francesco alla vigilia del suo viaggio apostolico in Svezia, 31 ottobre 2016, per partecipare alla commemorazione ecumenica dei 500 anni della Riforma luterana. Pensavo che un’intervista fosse il modo migliore per preparare il Paese al messaggio che il Pontefice avrebbe indirizzato alla gente durante la sua visita. In quanto direttore della rivista culturale dei gesuiti svedesi Signum, ho pensato che questo obiettivo entrasse a pieno titolo nella nostra missione. L’ecumenismo — così come il dialogo tra le religioni e anche con i non credenti — sta molto a cuore al Papa. Lo ha fatto comprendere in molti modi. Ma soprattutto egli stesso è un uomo di riconciliazione. Francesco è profondamente convinto che gli uomini debbano superare barriere e steccati, di qualunque genere essi siano. Crede in quella che definisce la «cultura dell’incontro». E questo perché tutti possano cooperare al bene comune dell’umanità. Volevo che questa visione di Francesco potesse toccare la mente e il cuore di molti prima dell’arrivo del Papa in Svezia: l’intervista sarebbe stata il mezzo migliore per raggiungere tale obiettivo. Questo ho detto a p. Spadaro, col quale ho proseguito la riflessione fino ad agosto, quando insieme siamo arrivati alla conclusione che era davvero opportuno presentare al Pontefice questa richiesta in modo che potesse decidere se realizzarla o meno. Il Papa ha preso del tempo per riflettere sulla sua opportunità. Alla fine la risposta è stata positiva e ci ha dato un appuntamento a Santa Marta, sabato 24 settembre scorso, nel tardo pomeriggio. Era un giorno davvero gradevole per la temperatura e la luminosità del cielo. Attraversando il traffico di Roma in macchina con p. Spadaro, mi sentivo ansioso, ma contento. Siamo arrivati a Santa Marta 15 minuti prima del previsto. Pensavamo di attendere, e invece siamo stati subito invitati a salire al piano dove il Papa ha la sua stanza. Quando l’ascensore si è aperto, ho visto una guardia svizzera che ci ha salutati con cortesia. Sentivo la voce del Papa parlare cordialmente con altre persone in lingua spagnola, ma non lo vedevo. A un certo punto è apparso con due persone, dialogando amabilmente. Ha salutato me e p. Spadaro con un sorriso, indicandoci di entrare nella sua camera: lui sarebbe arrivato a momenti. Sono rimasto colpito da questa semplice e calda familiarità nell’accoglienza. Ci era stato detto in portineria che il Papa aveva avuto una giornata senza sosta e, dunque, pensavo che fosse stanco a fine giornata. E invece mi ha molto colpito vederlo così pieno di energia e rilassato. Il Papa è entrato nella sua camera e ci ha invitato a sederci dove preferivamo. Io mi sono seduto su una poltrona, e così anche p. Spadaro si è seduto di fronte a me. Il Papa si è seduto sul divano in mezzo alle due poltrone. Ho voluto presentarmi nel mio italiano non ricco, ma sufficiente per capire e per dialogare con semplicità. Dopo qualche battuta del Papa abbiamo acceso i registratori e iniziato la conversazione. P. Spadaro aveva tradotto dall’inglese alcune domande che volevo fare al Papa e che quindi avevo preparato, ma poi la conversazione tra noi tre è fluita naturalmente, in un’atmosfera amichevole e senza distanze artificiose. Soprattutto è stata schietta e diretta, senza giri di parole e senza quell’atmosfera tipica degli incontri con grandi leader o persone di riguardo. Non ho più alcun dubbio sul fatto che papa Francesco ami la conversazione, comunicare con gli altri. Qualche volta prende tempo per riflettere prima di rispondere, e le sue risposte trasmettono sempre un senso di coinvolgimento serio, ma non pesante o triste. Anzi, durante la nostra visita ha dato più volte segni del suo umorismo. Santo Padre, il 31 ottobre Lei visiterà Lund e Malmö per partecipare alla Commemorazione ecumenica dei 500 anni della Riforma, organizzata dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Quali sono le sue speranze e le sue attese per questo storico evento? A me viene da dire una sola parola: avvicinarmi. La mia speranza e la mia attesa sono quelle di avvicinarmi di più ai miei fratelli e alle mie sorelle. La vicinanza fa bene a tutti. La distanza invece ci fa ammalare. Quando ci allontaniamo, ci chiudiamo dentro noi stessi e diventiamo monadi, incapaci di incontrarci. Ci facciamo prendere dalle paure. Bisogna imparare a trascendersi per incontrare gli altri. Se non lo facciamo, anche noi cristiani ci ammaliamo di divisione. La mia attesa è quella di riuscire a fare un passo di vicinanza, a essere più vicino ai miei fratelli e alle mie sorelle che vivono in Svezia. In Argentina i luterani compongono una comunità piuttosto ristretta. Lei ha avuto modo di avere contatti diretti con loro nel passato?
Anders Ruuth
Sì, abbastanza. Ricordo la prima volta che sono andato in una chiesa luterana: è stato proprio nella loro sede principale in Argentina, nella calle Esmeralda, a Buenos Aires. Avevo 17 anni. Mi ricordo bene quel giorno. Si sposava un mio compagno di lavoro, Axel Bachmann. Lui era lo zio della teologa luterana Mercedes García Bachmann. E anche la mamma di Mercedes, Ingrid, lavorava nel laboratorio dove lavoravo io. Quella era la prima volta che assistevo a una celebrazione luterana. La seconda volta è stata un’esperienza più forte. Noi gesuiti abbiamo la Facoltà di Teologia a San Miguel, dove io insegnavo. Lì vicino, a meno di 10 km di distanza, c’era la Facoltà di Teologia luterana. Il rettore era un ungherese, Leskó Béla, davvero un brav’uomo. Con lui avevo rapporti molto cordiali. Io ero professore e avevo la cattedra di Teologia spirituale. Ho invitato il professore di Teologia spirituale di quella Facoltà, uno svedese, Anders Ruuth, a tenere insieme a me lezioni di spiritualità. Ricordo che quello era un momento davvero difficile per la mia anima. Io ho avuto molta fiducia in lui e gli ho aperto il mio cuore. Lui mi ha molto aiutato in quel momento. Poi è stato inviato in Brasile — conosceva bene anche il portoghese — e quindi è tornato in Svezia. Lì ha pubblicato la sua tesi di abilitazione sulla «Chiesa universale del Regno di Dio», che era sorta in Brasile alla fine degli anni Settanta. Era una tesi critica. L’aveva scritta in svedese, ma aveva un capitolo in inglese. Me la inviò e io lessi quel capitolo in inglese: era un gioiello. Poi è passato del tempo… Nel frattempo sono diventato vescovo ausiliare di Buenos Aires. Un giorno venne a farmi visita in episcopio l’allora arcivescovo primate di Uppsala. Il card. Quarracino non c’era. Lui mi ha invitato alla loro Messa nella calle Azopardo, nella Iglesia Nórdica di Buenos Aires, che prima era chiamata «Chiesa svedese». A lui ho parlato di Anders Ruuth, il quale poi è tornato ancora una volta in Argentina per celebrare un matrimonio. In quella occasione ci siamo rivisti, ma fu l’ultima: uno dei suoi due figli, il musicista — l’altro era medico —, un giorno mi chiamò per dirmi che era morto. Un altro capitolo dei miei rapporti con i luterani riguarda la Chiesa di Danimarca. Ho avuto un bel rapporto col pastore di allora, Albert Andersen, che adesso è negli Stati Uniti. Lui mi ha invitato due volte a fare una predica. La prima era in un contesto liturgico. In quella occasione fu molto delicato: per evitare di creare imbarazzo circa la partecipazione alla comunione, quel giorno non ha celebrato la Messa, ma un battesimo. Successivamente mi ha invitato a tenere una conferenza ai loro giovani. Ricordo che con lui ho avuto una discussione molto forte a distanza, quando lui era già negli Stati Uniti. Il pastore mi ha rimproverato tanto a causa di quel che avevo detto circa una legge che riguardava problemi religiosi in Argentina. Ma devo dire che mi ha rimproverato con onestà e sincerità, come un vero amico. Quando è tornato a Buenos Aires, sono andato a chiedergli scusa perché in effetti il modo in cui mi ero espresso in quel caso era stato un po’ offensivo. Poi ho avuto anche una grande vicinanza col pastore David Calvo, argentino, della Iglesia Evangélica Luterana Unida. Anche lui era una brava persona. Ricordo inoltre che per il «Giorno della Bibbia», che a Buenos Aires si celebrava a fine settembre, sono tornato nella prima chiesa in cui ero stato da giovane, in calle Esmeralda. E lì ho incontrato Mercedes García Bachmann. Abbiamo tenuto una conversazione. Quello è stato l’ultimo incontro istituzionale che ho avuto con i luterani quando ero arcivescovo di Buenos Aires. Poi invece ho continuato ad avere rapporti con singoli amici luterani a livello personale. Ma l’uomo che ha fatto tanto bene alla mia vita è stato Anders Ruuth: lo penso con tanto affetto e riconoscenza. Quando qui è venuta a trovarmi l’arcivescova primate della Chiesa di Svezia, abbiamo fatto un riferimento a quella amicizia tra noi due. Ricordo bene quando l’arcivescova Antje Jackelén è venuta qui in Vaticano nel maggio 2015 in visita ufficiale: ha fatto un gran bel discorso. L’ho incontrata successivamente anche in occasione della canonizzazione di Maria Elisabeth Hesselblad. Allora ho potuto salutare anche il marito: sono persone davvero amabili. Poi da papa sono andato a predicare nella Chiesa luterana di Roma. Mi hanno molto colpito le domande che mi sono state fatte allora: quella del bambino e quella di una signora sulla intercomunione. Domande belle e profonde. E il pastore di quella chiesa è proprio bravo! Nei dialoghi ecumenici le differenti comunità dovrebbero provare ad arricchirsi reciprocamente con il meglio delle loro tradizioni. Che cosa la Chiesa cattolica potrebbe imparare dalla tradizione luterana? Mi vengono in mente due parole: «riforma» e «Scrittura». Cerco di spiegarmi. La prima è la parola «riforma». All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa. Lutero voleva porre un rimedio a una situazione complessa. Poi questo gesto — anche a causa di situazioni politiche, pensiamo anche al cuius regio eius religio — è diventato uno «stato» di separazione, e non un «processo» di riforma di tutta la Chiesa, che invece è fondamentale, perché la Chiesa è semper reformanda. La seconda parola è «Scrittura», la Parola di Dio. Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo. Riforma e Scrittura sono le due cose fondamentali che possiamo approfondire guardando alla tradizione luterana. Mi vengono in mente adesso le Congregazioni Generali prima del Conclave e quanto la richiesta di una riforma sia stata viva e presente nelle nostre discussioni. Solo una volta prima di Lei un papa ha visitato la Svezia, Giovanni Paolo II nel 1989. Quello era un tempo di entusiasmo ecumenico e di profondo desiderio di unità tra cattolici e luterani. Da allora il movimento ecumenico sembra avere perso vigore e nuovi ostacoli sono sorti. Come dovrebbero essere gestiti questi ostacoli? Quali sono, a suo giudizio, i mezzi migliori per promuovere l’unità dei cristiani? Chiaramente spetta ai teologi continuare a dialogare e a studiare i problemi: su questo non vi è alcun dubbio. Il dialogo teologico deve proseguire, perché è una strada da percorrere. Penso ai risultati che su questa strada sono stati raggiunti con il grande documento ecumenico sulla giustificazione: è stato un grande passo avanti. Certo, dopo questo passo immagino che non sarà facile andare avanti a causa delle diverse capacità di comprendere alcune questioni teologiche. Ho domandato al patriarca Bartolomeo se era vero quel che si racconta del patriarca Atenagora, cioè che avrebbe detto a Paolo VI: «Andiamo avanti noi e mettiamo i teologi a discutere tra loro su un’isola». Mi ha detto che è una battuta vera. Ma sì, si deve continuare il dialogo teologico, anche se non sarà facile. Personalmente credo anche che si debba spostare l’entusiasmo verso la preghiera comune e le opere di misericordia, cioè il lavoro fatto insieme nell’aiuto agli ammalati, ai poveri, ai carcerati. Fare qualcosa insieme è una forma alta ed efficace di dialogo. Penso anche all’educazione. È importante lavorare insieme e non settariamente. Un criterio dovremmo averlo molto chiaro in ogni caso: fare proselitismo nel campo ecclesiale è peccato. Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione. Il proselitismo è un atteggiamento peccaminoso. Sarebbe come trasformare la Chiesa in una organizzazione. Parlare, pregare, lavorare insieme: questo è il cammino che dobbiamo fare. Vedi, nell’unità quello che non sbaglia mai è il nemico, il demonio. Quando i cristiani sono perseguitati e uccisi, lo sono perché sono cristiani e non perché sono luterani, calvinisti, anglicani, cattolici o ortodossi. Esiste un ecumenismo del sangue. Ricordo un episodio che ho vissuto con il parroco della parrocchia di Sankt Joseph a Wandsbek, Amburgo. Lui portava avanti la causa dei martiri ghigliottinati da Hitler perché insegnavano il catechismo. Sono stati ghigliottinati uno dietro l’altro. Dopo i primi due, che erano cattolici, fu ucciso un pastore luterano condannato per lo stesso motivo. Il sangue dei tre si è mischiato. Il parroco mi disse che per lui era impossibile continuare la causa di beatificazione dei due cattolici senza inserire il luterano: il loro sangue si era mischiato! Ma ricordo anche l’omelia di Paolo VI in Uganda nel 1964, che menzionava insieme, uniti, i martiri cattolici e anglicani. Ho avuto questo pensiero quando anch’io ho visitato la terra d’Uganda. Questo succede anche ai nostri giorni: gli ortodossi, i martiri copti uccisi Libia… È l’ecumenismo del sangue. Quindi: pregare insieme, lavorare insieme e comprendere l’ecumenismo del sangue. Una delle cause maggiori di inquietudine del nostro tempo è la diffusione del terrorismo rivestito di termini religiosi. L’incontro di Assisi ha posto l’accento anche sull’importanza del dialogo interreligioso. Come l’ha vissuto? C’erano tutte le religioni che hanno contatto con Sant’Egidio. Ho incontrato coloro che Sant’Egidio ha contattato: non ho scelto io chi incontrare. Ma erano in tanti, e l’incontro è stato molto rispettoso e senza sincretismo. Tutti insieme abbiamo parlato della pace e abbiamo chiesto la pace. Abbiamo detto insieme parole forti per la pace, che le religioni davvero vogliono. Non si può fare la guerra in nome della religione, di Dio: è una bestemmia, è satanico. Oggi ho ricevuto circa 400 persone che erano a Nizza e ho salutato le vittime, i feriti, gente che ha perso mogli o mariti o figli. Quel pazzo che ha commesso quella strage lo ha fatto credendo di farlo in nome di Dio. Pover’uomo, era uno squilibrato! Con carità possiamo dire che era uno squilibrato che ha cercato di usare una giustificazione nel nome di Dio. Per questo l’incontro di Assisi è molto importante. Ma Lei ha recentemente parlato anche di un’altra forma di terrorismo, quello delle chiacchiere. In che senso e come si fa a vincerlo? Sì, c’è un terrorismo interno e sotterraneo che è un vizio difficile da estirpare. Descrivo il vizio delle mormorazioni e delle chiacchiere come una forma di terrorismo: è una forma di violenza profonda che tutti abbiamo a disposizione nell’anima e che richiede una conversione profonda. Il problema di questo terrorismo è che tutti possiamo metterlo in atto. Ogni persona è capace di diventare terrorista anche semplicemente usando la lingua. Non parlo delle liti che si fanno apertamente, come le guerre. Parlo di un terrorismo subdolo, nascosto, che si fa buttando parole come «bombe», e che fa molto male. La radice di questo terrorismo è nel peccato originale, ed è una forma di criminalità. È un modo per guadagnare spazio per sé distruggendo l’altro. È necessaria, dunque, una profonda conversione del cuore per vincere questa tentazione, e bisogna molto esaminarsi su questo punto. La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua, dice l’apostolo Giacomo nel terzo capitolo della sua Lettera. La lingua è un membro piccolo, ma può sviluppare un fuoco di male e incendiare tutta la nostra vita. La lingua si può riempire di veleno mortale. Questo terrorismo è difficile da domare. La religione può essere una benedizione, ma anche una maledizione. I media spesso riportano notizie di conflitti tra gruppi religiosi nel mondo. Alcuni affermano che il mondo sarebbe più pacifico se la religione non ci fosse. Che cosa risponde a questa critica? Le idolatrie che sono alla base di una religione, non la religione! Ci sono idolatrie legate alla religione: l’idolatria dei soldi, delle inimicizie, dello spazio superiore al tempo, la cupidigia della territorialità dello spazio. C’è una idolatria della conquista dello spazio, del dominio, che attacca le religioni come un virus maligno. E l’idolatria è una finta di religione, è una religiosità sbagliata. Io la chiamo «una trascendenza immanente», cioè una contraddizione. Invece le religioni vere sono lo sviluppo della capacità che ha l’uomo di trascendersi verso l’assoluto. Il fenomeno religioso è trascendente e ha a che fare con la verità, la bellezza, la bontà e l’unità. Se non c’è questa apertura, non c’è trascendenza, non c’è vera religione, c’è idolatria. L’apertura alla trascendenza dunque non può assolutamente essere causa di terrorismo, perché questa apertura è sempre unita alla ricerca della verità, della bellezza, della bontà e dell’unità. Lei ha spesso parlato in termini molto chiari della terribile situazione dei cristiani in alcune aree del Medio Oriente. C’è ancora speranza per uno sviluppo più pacifico e umano per i cristiani in quell’area? Io credo che il Signore non lascerà il suo popolo a se stesso, non lo abbandonerà. Quando leggiamo delle dure prove del popolo di Israele nella Bibbia o facciamo memoria delle prove dei martiri, constatiamo come il Signore sia sempre venuto in aiuto del suo popolo. Ricordiamo nell’Antico Testamento l’uccisione dei sette figli con la loro madre nel libro dei Maccabei. O il martirio di Eleazaro. Certamente il martirio è una delle forme della vita cristiana. Ricordiamo san Policarpo e la lettera alla Chiesa di Smirne che ci dà il racconto delle circostanze del suo arresto e della sua morte. Sì, in questo momento il Medio Oriente è terra di martiri. Possiamo senza dubbio parlare di una Siria martire e martoriata. Voglio citare un ricordo personale che mi è rimasto nel cuore: a Lesbo ho incontrato un papà con due bambini. Lui mi ha detto che era tanto innamorato di sua moglie. Lui è musulmano e lei era cristiana. Quando sono venuti i terroristi, hanno voluto che lei si togliesse la croce, ma lei non ha voluto e loro l’hanno sgozzata davanti a suo marito e ai suoi figli. E lui mi continuava a dire: «Io l’amo tanto, l’amo tanto». Sì, lei è una martire. Ma il cristiano sa che c’è speranza. Il sangue dei martiri è il seme dei cristiani: lo sappiamo da sempre. Lei è il primo papa non europeo da più di 1.200 anni a questa parte, e spesso ha messo in rilievo la vita della Chiesa in regioni considerate «periferiche» del mondo. Dove, secondo Lei, la Chiesa cattolica avrà le sue comunità più vive nei prossimi 20 anni? E in che modo le Chiese d’Europa potranno contribuire al cattolicesimo del futuro? Questa è una domanda legata allo spazio, alla geografia. Io ho allergia a parlare di spazi, ma dico sempre che dalle periferie si vedono le cose meglio che dal centro. La vivacità delle comunità ecclesiali non dipende dallo spazio, dalla geografia, ma dallo spirito. È vero che le Chiese giovani hanno uno spirito più fresco e, d’altra parte, ci sono Chiese invecchiate, Chiese un po’ addormentate, che sembrano essere interessate solamente a conservare il loro spazio. In questi casi non dico che manchi lo spirito: c’è, sì, ma è chiuso in una struttura, in un modo rigido, timoroso di perdere spazio. Nelle Chiese di alcuni Paesi si vede proprio che manca freschezza. In questo senso la freschezza delle periferie dà più posto allo spirito. Bisogna evitare gli effetti di un cattivo invecchiamento delle Chiese. Fa bene rileggere il capitolo terzo del profeta Gioele, lì dove dice che gli anziani faranno sogni e che i giovani avranno visioni. Nei sogni degli anziani c’è la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, abbiano nuovamente un futuro. Invece le Chiese a volte sono chiuse nei programmi, nelle programmazioni. Lo ammetto: so che sono necessari, ma io faccio molta fatica a porre molta speranza negli organigrammi. Lo spirito è pronto a spingerci, ad andare avanti. E lo spirito si trova nella capacità di sognare e nella capacità di profetizzare. Questa per me è una sfida per tutta la Chiesa. E l’unione tra anziani e giovani è per me la sfida del momento per la Chiesa, la sfida alla sua capacità di freschezza. Per questo a Cracovia, durante la Giornata Mondiale della Gioventù, ho raccomandato ai giovani di parlare con i nonni. La Chiesa giovane ringiovanisce di più quando i giovani parlano con gli anziani e quando gli anziani sanno sognare cose grandi, perché questo fa sì che i giovani profetizzino. Se i giovani non profetizzano, alla Chiesa manca l’aria. La sua visita in Svezia toccherà uno dei Paesi più secolarizzati al mondo. Una buona parte della sua popolazione non crede in Dio, e la religione gioca un ruolo abbastanza modesto nella vita pubblica e nella società. Secondo Lei, che cosa si perde una persona che non crede in Dio? Non si tratta di perdere qualcosa. Si tratta di non sviluppare adeguatamente una capacità di trascendenza. La strada della trascendenza dà posto a Dio, e in questo sono importanti anche i piccoli passi, persino quello da essere ateo ad essere agnostico. Il problema per me è quando si è chiusi e si considera la propria vita perfetta in se stessa, e dunque chiusa in se stessa senza bisogno di una radicale trascendenza. Ma per aprire gli altri alla trascendenza non c’è bisogno di fare tante parole e discorsi. Chi vive la trascendenza è visibile: è una testimonianza vivente. Nel pranzo che ho avuto a Cracovia con alcuni giovani, uno di loro mi ha chiesto: «Che cosa devo dire a un mio amico che non crede in Dio? Come faccio a convertirlo?». Io gli ho risposto: «L’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Agisci! Vivi! Poi davanti alla tua vita, alla tua testimonianza, l’altro forse ti chiederà perché vivi così». Io sono convinto che chi non crede o non cerca Dio forse non ha sentito l’inquietudine di una testimonianza. E questo è molto legato al benessere. L’inquietudine si trova difficilmente nel benessere. Per questo credo che contro l’ateismo, cioè contro la chiusura alla trascendenza, valgano davvero solamente la preghiera e la testimonianza. I cattolici in Svezia sono una piccola minoranza, e per lo più composta da immigranti da varie nazioni del mondo. Lei incontrerà alcuni di loro celebrando la Messa a Malmö il 1° novembre. Come vede il ruolo dei cattolici in una cultura come quella svedese? Vedo una sana convivenza, dove ognuno può vivere la propria fede ed esprimere la propria testimonianza vivendo uno spirito aperto ed ecumenico. Non si può essere cattolici e settari. Bisogna tendere a stare insieme agli altri. «Cattolico» e «settario» sono due parole in contraddizione. Per questo all’inizio non prevedevo di celebrare una Messa per i cattolici in questo viaggio: volevo insistere su una testimonianza ecumenica. Poi ho riflettuto bene sul mio ruolo di pastore di un gregge cattolico che arriverà anche da altri Paesi vicini, come la Norvegia e la Danimarca. Allora, rispondendo alla fervida richiesta della comunità cattolica, ho deciso di celebrare una Messa, allungando il viaggio di un giorno. Infatti volevo che la Messa fosse celebrata non nello stesso giorno e non nello stesso luogo dell’incontro ecumenico per evitare di confondere i piani. L’incontro ecumenico va preservato nel suo significato profondo secondo uno spirito di unità, che è il mio. Questo ha creato problemi organizzativi, lo so, perché sarò in Svezia anche nel giorno dei Santi, che qui a Roma è importante. Ma pur di evitare fraintendimenti, ho voluto che fosse così. Lei è un gesuita. Sin dal 1879 i gesuiti hanno svolto le loro attività in Svezia con parrocchie, esercizi spirituali, la rivista «Signum» e, negli ultimi 15 anni, grazie all’Istituto universitario «Newman». Quali impegni e quali valori dovrebbero caratterizzare l’apostolato dei gesuiti oggi in questo Paese? Credo che il primo compito dei gesuiti in Svezia sia quello di favorire in ogni modo il dialogo con coloro che vivono nella società secolarizzata e con i non credenti: parlare, condividere, comprendere, stare accanto. Poi chiaramente occorre favorire il dialogo ecumenico. Il modello per i gesuiti svedesi deve essere san Pietro Favre, che era sempre in cammino e che era guidato da uno spirito buono, aperto. I gesuiti non abbiano una struttura quieta. Bisogna avere il cuore inquieto e avere strutture, sì, ma inquiete. Chi è Gesù per Jorge Mario Bergoglio? Gesù per me è Colui che mi ha guardato con misericordia e mi ha salvato. Il mio rapporto con Lui ha sempre questo principio e fondamento. Gesù ha dato senso alla mia vita di qui sulla terra, e speranza per la vita futura. Con la misericordia mi ha guardato, mi ha preso, mi ha messo in strada… E mi ha dato una grazia importante: la grazia della vergogna. La mia vita spirituale è tutta scritta nel capitolo 16 di Ezechiele. Specialmente nei versetti finali, quando il Signore rivela che avrebbe stabilito la sua alleanza con Israele dicendogli: «Tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto». La vergogna è positiva: ti fa agire, ma ti fa capire qual è il tuo posto, chi tu sei, impedendo ogni superbia e vanagloria. Una parola finale, Santo Padre, su questo viaggio in Svezia… Quello che mi viene spontaneo da aggiungere adesso è semplice: andare, camminare insieme! Non restare chiusi in prospettive rigide, perché in queste non c’è possibilità di riforma. * * * Il Papa, p. Spadaro ed io abbiamo trascorso insieme in conversazione circa un’ora e mezzo. Alla fine Francesco ci ha accompagnati all’ascensore. Ci ha raccomandato di pregare per lui. Le porte si sono chiuse mentre lui ci salutava con la mano e con un sorriso radioso che mai dimenticherò. Fuori era già buio. La cupola di San Pietro, illuminata, rivelava il suo splendore mentre salivamo in macchina per tornare in tempo per la cena nella comunità di Civiltà Cattolica”.