
In un unico post due articoli a commento della visita del papa a Lund. Il primo è di taglio più teologico ed è a firma di Stefania Falasca per Avvenire:
“La memoria guarita, il passaggio dal conflitto alla comunione, il riconoscimento della dipendenza dalla grazia di Cristo nella vita cristiana, la gratitudine a Dio, guardare insieme al futuro e dire no alla strumentalizzazione della religione per fini politici.
È quello che descrive oggi l’incontro tra cattolici e luterani nell’antica cattedrale di Lund e la dichiarazione comune che unitamente hanno sottoscritto al termine della preghiera condivisa. La Chiesa cattolica e la Chiesa luterana hanno compiuto il significativo gesto di firmare davanti al mondo la dichiarazione della commemorazione comune della Riforma. Dopo cinquecento anni, cattolici e luterani si ritrovano oggi concordi su una visione congiunta del passato e su imperativi comuni per il prossimo futuro. Si esprime la gioia per ciò che unisce, il pentimento per il danno creato dalla discordia e la ferma intenzione di testimoniare insieme al mondo la misericordia di Dio, operando per la riconciliazione, la pace e la giustizia per l’intero creato. Si compie così la storia con un nuovo passo importante per il cammino verso una più grande unità visibile della Chiesa.
Articolata in cinque brevi paragrafi la “carta comune” della guarigione e della riconciliazione riassume il viaggio che ha portato a questo passo.
«Cinquanta anni di dialogo ecumenico intenso e proficuo tra cattolici e luterani hanno aiutato a superare molte differenze, hanno approfondito la nostra comprensione e la fiducia reciproca – è scritto nel primo paragrafo della dichiarazione – allo stesso tempo, ci siamo avvicinati gli uni agli altri attraverso il servizio comune al nostro prossimo, spesso in circostanze di sofferenza e persecuzione. Attraverso il dialogo e la comune testimonianza noi non siamo più estranei. Piuttosto, abbiamo imparato che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide».
Nel secondo paragrafo dal titolo: Passando dal conflitto alla comunione, cattolici e luterani unitamente confessano e chiedono perdono per aver «ferito l’unità visibile della Chiesa».
Riconoscono che «differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti», soprattutto si riconosce ciò che è importante anche per non commettere gli errori del passato nelle contingenze attuali, e cioè che nella storia che ha portato alla divisione «la religione è stata strumentalizzata per fini politici». Così mentre il passato non può essere cambiato, viene però ricordato che la sua memoria può essere trasformata. Pertanto si afferma che si deve «con forza respingere l’odio e la violenza, passati e presenti, in particolare quella espressa nel nome della religione». «Oggi – è scritto – sentiamo il comando di Dio di mettere da parte tutti i conflitti. La nostra fede comune in Gesù Cristo e il nostro comune battesimo richiedono sempre una conversione quotidiana, con cui intrecciare le divergenze storiche e i conflitti che possono impedire la riconciliazione. Ci rendiamo conto che essendo liberati dalla grazia, questo spinge a muoversi verso la comunione a cui Dio ci chiama continuamente».
La dichiarazione prospetta poi con chiarezza l’impegno per una testimonianza comune: «Ci impegniamo a testimoniare insieme la grazia misericordiosa di Dio, reso visibile in Cristo crocifisso e risorto. Consapevoli che il modo di relazionarsi tra noi forma la nostra testimonianza evangelica, noi ci impegniamo a un’ulteriore crescita nella comunione radicata nel battesimo, mentre cerchiamo di rimuovere i rimanenti ostacoli che ci impediscono di raggiungere la piena unità conforme al volere di Cristo che desidera che siamo una cosa sola, perché il mondo creda (cfr Gv 17,21)».
Da qui la preghiera a Dio affinché si possa compiere insieme il servizio, in particolare ai poveri, difendere la dignità umana, lavorare per la giustizia rifiutando di ogni forma di violenza. «Dio ci chiama ad essere vicino a tutti coloro che desiderano la giustizia, la pace e la riconciliazione. Oggi, in particolare, per la fine della violenza e l’estremismo che colpiscono così tanti paesi e comunità e innumerevoli fratelli e sorelle in Cristo esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere lo straniero, per venire in aiuto di chi è costretto a fuggire a causa di guerre e persecuzioni, per difendere i diritti dei rifugiati e di coloro che cercano asilo».
Se atteggiamenti passati di antiecumenismo e di autocompiacimento riemergeranno nelle comunità di fede, la commemorazione comune del 31 ottobre, ricorderà tuttavia con forza che non c’è altro cammino per andare avanti di quello della guarigione della memoria, di un ecumenismo dell’amicizia e di un servizio comune verso un mondo che chiede ad alta voce speranza, pace giusta e riconciliazione.”
Il secondo articolo è di taglio più geopolitico: è di Piero Schiavazzi, pubblicato su L’Huffington Post:
“A mezzo millennio da Martin Lutero e a mezzo secolo da Ingmar Bergman, la cattedrale di Lund è ancora una volta il “posto delle fragole”. Dove l’asprezza dei ricordi evolve, si converte in dolcezza dei gesti. E dove un dialogo acerbo matura e sperimenta il sapore del Verbo: “Con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa…Chiediamo al Signore che la sua Parola ci mantenga uniti.”
Come nel film del regista svedese, le mura millenarie, con il loro magnetismo, catturano la scena di una metamorfosi. Una catarsi che solo il tempo sa operare nei protagonisti, aggiustando l’inquadratura e illuminando la zona d’ombra. Sicché la primavera giunge d’autunno, anche a una latitudine già invernale. Occasione da non perdere per Bergoglio, papa cinefilo, amante dei maestri degli anni ’50: “Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma raccontare questa storia in modo diverso”, ha spiegato all’arrivo, dopo l’appello rivolto in volo ai giornalisti: “Aiutateci a far capire”.
Così, con un anno di anticipo sul quinto centenario, Francesco ha trasformato la “protesta” di Lutero in festa cattolica, nonché canonica. O poco ci è mancato. E ha inaugurato le danze, schiodando le tesi del monaco ribelle dai battenti di Wittenberg, dove furono affisse nel 1517, per iscriverle d’ufficio sulla porta del Giubileo e registrarle nel libro dei romani pontefici: “…profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma”, recita la dichiarazione comune, sottoscritta con il palestinese Munib Yunan, presidente della Federazione Luterana Mondiale.
Gli storici lo chiameranno ecumenismo del tango: un transfert dalle atmosfere creole a quelle scandinave, un allungo dal Baltico al Rio de la Plata. Rinunciando ai giri di valzer dei teologi, che la prendono alla larga, e avanzando barre a dritta in uno spazio stretto, come nelle milonghe di Buenos Aires. Buttandosi avanti e sapendo di non poter tornare indietro, in ossequio alle regole del ballo: “…abbiamo una nuova opportunità… Non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi”.
Con il suo paso doble, Bergoglio si spinge verso traguardi che a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sarebbero preclusi, scontando il peccato originale di un pregiudizio etnico – geografico: degli ortodossi russi all’indirizzo del papa polacco e dei protestanti tedeschi nei confronti del pontefice bavarese. Due derby, uno tra slavi e l’altro fra teutonici, nei quali le difese hanno avuto buon gioco in interdizione, stoppando le geometrie di Ratzinger, l’austero, e le acrobazie di Wojtyla, il condottiero. Ma non le fantasie palla a terra di Francesco, il manovriero. Realista e concreto quanto basta per puntare al risultato e portarlo a casa, prima del novantesimo, che stavolta coincide con la duplice chiusura, il 20 novembre, di Anno Santo e anno liturgico, nella domenica di Cristo Re: giorno in cui stilerà bilanci e tirerà somme.
Disposto a scoprirsi, a cedere terreno e a prendere gol persino, ma determinato, infine, a metterne a segno uno in più: come in febbraio a Cuba, quando pur d’incontrare Kirill, il patriarca russo, ha siglato con lui una sorta di “Yalta religiosa”. Un accordo di desistenza che impegna le due chiese a non arruolare proseliti e a non evangelizzare, de facto, nelle altrui zone di influenza, dove Giovanni Paolo II aveva posizionato, a presidio, i propri vescovi, con la consegna di marcare a uomo. E come oggi a Lund, quando non si è limitato a riabilitare Lutero, ma lo ha celebrato e addirittura è sembrato che stesse per annoverarlo tra i beati, con tempismo perfetto e significativo, nella vigilia della solennità di Ognissanti. Un passo che Benedetto XVI non avrebbe mai compiuto, vedendo nella riforma protestante, notoriamente, il primo ciak e l’incipit della deriva relativista del pensiero moderno.
Valutazioni che Bergoglio condivide sul piano scientifico, come dimostrano i suoi scritti argentini, ma che sbiadiscono e svaniscono in un quadro geopolitico, da quando è asceso al soglio petrino. Paradosso in virtù del quale il primo Papa della Compagnia di Gesù, nata segnatamente allo scopo di contrastare il protestantesimo, trova nel nemico di sempre un alleato, impensato più che insperato.
Come nei film dei supereroi, quando i protagonisti depongono antiche, anacronistiche rivalità per fronteggiare un gigante tecnologico, partorito dalla scienza e intenzionato a scalzare la loro primazia, elevando il relativismo a dogma di fede. Oppure, ipotesi ancora più terrificante, un Jurassic World delle religioni, dove i vecchi dinosauri del cattolicesimo, del luteranesimo e dell’ortodossia smettono di combattersi a vicenda per scongiurare una temibile mutazione genetica: una nuova specie aggressiva, uscita dal crogiuolo della storia e in grado di travolgerle, anzi di stravolgerle, deformandone mission e vision.
Oggi, esattamente come cinquecento anni fa, l’Europa è infatti teatro dello scontro tra due cristianesimi. Con una differenza di fondo, però, che attiene al DNA, poiché la disputa, questa volta, non verte sul conflitto tra coscienza e autorità, quanto piuttosto tra uguaglianza e identità.
Da un lato un cristianesimo identitario: che dopo essere stato liberato dai muri ne costruisce di nuovi, alzando il vessillo e vestendo la corazza di una fede anabolizzata e gonfia di proclami, fuori, ma sterilizzata e vuota di linfa evangelica, dentro. Dall’altro il cristianesimo egalitario, che riconosce in Bergoglio la sua bandiera e lo segue tra l’esultanza dei fedeli e la riluttanza dei governi, preoccupati di dover pagare un prezzo politico.
Una tenzone che non risparmia, in prospettiva, neppure le rive della Svezia felix, dove il partito xenofobo lambisce il 15 per cento. Fenomeno che ha indotto socialisti e moderati a correre ai ripari, congelando il patto di unità nazionale fino al 2022: una scadenza inconcepibile al sole del Mediterraneo, dove le maggioranze si sciolgono in un baleno.
“Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere chi è straniero e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo”. Profughi e i migranti, agli occhi del Pontefice, compongono dunque il banco di prova e la frontiera, mobile, del movimento ecumenico, dove si attesta il cammino comune e si testano i cromosomi, la fisionomia delle chiese cristiane.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. La misericordia divina, tormento di Lutero, che in sede speculativa divise in due la cristianità del secondo millennio, diviene, alle soglie del terzo, strumento di rinnovata unità operativa: “Senza questo servizio al mondo e nel mondo, la fede cristiana è incompleta”.
Sul set bergmaniano del posto delle fragole, Bergoglio raccoglie i frutti del lavoro avviato cinquant’anni orsono e chiude, al tempo stesso, un ciclo produttivo, trasferendo la pianta dell’ecumenismo dalla serra protetta della teologia, dove tutto appare chiaro e incontaminato, alla selva oscura del mondo globalizzato. In un groviglio a crescita continua che rende arduo discernere il grano dalla zizzania.
Nelle latitudini del grande Nord, il Papa del profondo Sud, in definitiva, è venuto a cercare d’autunno la primavera. E a invertire le stagioni della storia. Consapevole, in un’ottica gesuitica e cinematografica, “che il passato non si può cambiare, ma che la memoria, e il modo di fare memoria, possono essere trasformati”.”