Come assenzio e veleno

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Non me la sento di usare parole mie, anche perché quelle che seguono hanno molta più autorevolezza di tutte le pagine di questo blog messe insieme.

La camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana…
Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa…
Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso,… dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.
don Peppino Diana

Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi.
Giovanni Falcone

La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa.
Giovanni Falcone

Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale.
Giovanni Falcone

La mafia è sì un’associazione criminale, è sì un problema di polizia e di ordine pubblico; ma non è soltanto questo. È un fenomeno assai più complesso, caratterizzato da una fittissima trama di relazioni con la società civile e con svariati segmenti delle istituzioni. Di qui un intreccio di interessi e un reticolo di alleanze, connivenze e collusioni che sempre hanno fatto della mafia un pericoloso fattore di possibile inquinamento della politica, dell’economia e della finanza (con tutti i rischi che ciò comporta per l’ordinato sviluppo di un sistema democratico). Considerare la mafia come un insieme di qualche centinaio di sbandati, pur violenti e feroci, è dunque riduttivo.
Giancarlo Caselli

A questo può servire parlare di mafia, parlarne spesso, in modo capillare, a scuola: è una battaglia contro la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell’uomo per soldi
don Pino Puglisi

La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Paolo Borsellino

Citykirche e parrocchie liquide

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Pubblico un interessante articolo (i link li ho inseriti io) di Giacomo Gambassi pubblicato su Avvenire. Argomento? Un nuovo modo di declinare le parrocchie in Germani e in nord Europa.
In Germania la parrocchia ha già cambiato volto. Conserva, sì, il nome del santo o del beato che da sempre la identifica. Ma non è più «per tutti» indistintamente. Chi ha interessi artistici può rivolgersi alla Kulturkirche, la “chiesa della cultura” di Amburgo. L’adolescente ha una bussola nella Jugendkirche di Berlino, la “chiesa dei giovani”. Il migrante in difficoltà o il disoccupato entra nella Diakoniekirche, la “chiesa del servizio” alle porte di Francoforte che offre consulenze e itinerari di sostegno. Si tratta di esperienze parrocchiali, o meglio de-parrocchiali, che sono espressione sia del mondo cattolico, sia di quello evangelico e che nascono nei quartieri delle grandi città dove dominano gli uffici oppure i condomini in cui chi li abita arriva a sera e riparte al mattino.
Le chiamano Citykirche e sono chiese che hanno come riferimento una zona dinamica (la City, appunto) in cui si mescolano impiegati, passanti o residenti dormi-e-fuggi. E vogliono essere la risposta nordeuropea alla crisi della parrocchia concepita secondo il modello tridentino (almeno guardando alla Chiesa cattolica).
Parrocchie «liquide», le definisce Arnaud Join-Lambert, docente francese di teologia pastorale e liturgia all’Università Cattolica di Lovanio in Belgio, che le indica come nuove forme di comunità capaci di adattarsi alla “liquidità” della società europea, ricorrendo alla celebre categoria del sociologo Zygmunt Bauman. Se i rapporti sociali sono liquidi, anche le parrocchie possono diventare liquide, prospetta il teologo in un saggio pubblicato dalla Rivista del clero italiano, il mensile di aggiornamento pastorale dell’Università Cattolica. «La loro caratteristica – spiega il docente – è di andare verso le periferie esistenziali». Perché le attuali parrocchie cominciano a «somigliare a club» che soddisfano «i bisogni spirituali di alcuni» ma «ignorano o trascurano la sete spirituale della maggioranza». Il campanile resta, ma si trasforma. Come mostrano i prototipi parrocchiali tedeschi che propongono una «specializzazione dell’offerta spirituale». «Non sono luoghi in cui una comunità di fedeli più o meno stabile vive il “tutto per tutti”, né luoghi per il raduno domenicale – nota il teologo –. Tuttavia sono contrassegnati dal bello (esposizioni, concerti, creazioni artistiche e culturali), dal bene (aiuto ai migranti, alle persone precarizzate) e dal vero (formazioni, conferenze, scambi)».
Una rivoluzione che, aggiunge lo studioso, richiede mezzi: aperture non stop, persone esperte nell’accompagnamento, volontari. Per «inventare le parrocchie di domani» Join-Lambert si affida anche a due vocaboli economici: incubatori e start-up. Se gli incubatori sono «concentrazioni di persone qualificate impegnate in progetti innovativi», la loro declinazione ecclesiale dà vita a percorsi che «favoriscono il dialogo churchintorno a tematiche comuni». È il caso in Francia di Saint Joseph a Grenoble che ha scommesso sulla pastorale dei giovani o di Marthe-et-Marie nel nuovo quartiere Humanicité a Lomme (Lille) che si dedica all’accoglienza. Le start-up, aziende con scarsi mezzi ma sorrette da organici motivati, si traducono in spazi cristiani che hanno al centro l’ospitalità presentata secondo l’icona del Vangelo della Visitazione. Ecco allora la Church on the corner, riallestimento “sacro” di un antico bistrot nel sobborgo londinese di Islington. L’intento di questi esperimenti è di «provocare e curare l’incontro» soprattutto di coloro «che sono lontani» dalla Chiesa, sottolinea il teologo.
Il docente prende a prestito le parole di papa Francesco che nell’Evangelii gaudium ricorda come «il rinnovamento delle parrocchie non abbia ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente». E sentenzia: «È l’ora della polivalenza». Ma tiene precisare: «La parrocchia non può sparire». Oggi, chiarisce Join-Lambert, la vita cristiana è «basata sull’attività spirituale e non su strutture, su un decentramento dell’ufficio domenicale, su una parte crescente composta da quanti iniziano o ricominciano in rapporto ai fedeli di sempre, e sul passaggio limitato nel tempo in seno a una chiesa precisa». Allora la parrocchia è chiamata a una conversione pastorale, magari ispirandosi all’immagine della «barca che preserva una parte di solidità in un mondo fluido ma non ha più punti di ancoraggio sociale o culturale».
Essenziali diventano il concetto di «rete fra parrocchie » che il teologo richiama più volte quando ipotizza chiese ad hoc e quello della «comunione tra le comunità nelle sue diverse dimensioni». Princìpi che fanno venire in mente le unità pastorali care ai vescovi italiani (mai citate nell’articolo). Per il docente, la parrocchia informale ha bisogno di «figure familiari di autorità»: il parroco, sì, ma affiancato dai religiosi che possono dedicarsi alla direzione spirituale o addirittura da un teologo. E soprattutto va «incoraggiato» il laicato. Serve «elasticità» – conclude Join-Lambert – per «poter continuare ad annunciare il Vangelo con modalità di socializzazione ed espressioni culturali del nostro tempo». Ma davvero la parrocchia liquida è la soluzione? E poi può essere esportata in Italia?”

L’attualità di Marsilio e Guglielmo

Pesco ancora una volta dal blog di Matteo Andriola. E’ una riflessione su laicità, politica, stato, chiesa, democrazia, potere, rappresentanza a partire da Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham.

guglielmo-dockham_d05ac472cc155cbdab2ad35f08d97832Seppur con le dovute cautele del caso, il dibattito relativo alla natura del potere spirituale è quanto mai vivo e attuale. In un’epoca come la nostra, preoccupantemente monca di teorie politiche, la questione stuzzica il mio interesse e, senza nascondere le mie perplessità per una figura, quella del pontefice, che ritengo anacronistica almeno nella forma, trovo incredibile che, pur modificandosi nel tempo, il dibattito relativo al rapporto fra potere temporale e potere spirituale abbia mantenuto inalterata la propria vitalità. Soltanto un ottuso potrebbe sostenere che la società sia effettivamente laica, e nella fattispecie, la figura del papa ha consolidato nel corso dei secoli la propria connotazione politica, e in questo senso, con i caratteri che il ruolo stava assumendo, fu molto più coerente Bonifacio VIII di quanto non lo sia stato il casto e puro Celestino V, costretto a gettare la spugna di fronte all’impossibilità di rendere puro un potere oramai vittima di se stesso e dell’imperante corruzione. Ancora oggi, come detto, la querelle relativa agli eventuali limiti del potere spirituale è percepita come straordinariamente attuale, soprattutto in una società che professa laicità senza crederci veramente. Sostengo la laicità dello Stato, ma più mi guardo attorno e meno la scorgo, e per quanto lo si voglia negare, forse oggi più di ieri, il pontefice è un alleato cui pochi si sentono di rinunciare.
Come spesso mi accade, per comprendere il Presente, certo di non sbagliare, attingo al Medioevo, culla naturale di una disputa che ieri toglieva il sonno a Dante Alighieri e che oggi, seppur in maniera diversa, mantiene inalterata la propria vigoria. Due pensatori hanno affrontato la questione con una veemenza che, quasi contraddittoriamente, trova un’incredibile modernità nella propria essenza profondamente Medioevale: Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham. Marsilio decide di incamminarsi su un sentiero piuttosto impervio, ponendosi l’obiettivo di far crollare la pretesa assolutistica di un papato che agli occhi di molti aveva perso notevolmente prestigio. Parallelamente, Ockham contempla addirittura, in maniera certo clamorosa, la possibilità di un papa eretico, giustificando un’eventuale resistenza nei suoi confronti da parte dei fedeli. Secondo Marsilio, la società è il frutto del desiderio insito in qualunque individuo di condurre un’esistenza che meriti essere effettivamente vissuta; dal canto suo, Ockham assume una posizione destinata a suscitare non meno scalpore, sostenendo la possibilità che il potere temporale prevarichi quello spirituale, riconoscendo a un sovrano temporale la possibilità di deporre un pontefice che non si mostri ossequioso verso le Scritture. Contrariamente ad alcune correnti di pensiero che auspicavano l’unione dei due poteri, Ockham, tanto cauto quanto lungimirante, si mostra invece accanito sostenitore della loro divisione, utile a suo giudizio per preservare una sorta di equilibrio bipolare.
I due filosofi, in un moderno quanto sorprendente slancio di inconsueto sapore democratico, sono concordi nel ritenere il popolo quale depositario del potere, ed entrambi accettano il rischio di sostenere una tesi che inevitabilmente avrebbe finito per scontrarsi contro un potere, quello del papa, mai troppo incline ad accettare di essere messo in discussione. A mio giudizio, anche in relazione al tempo in cui vive, Marsilio, individuando la società quale risultato dell’opportunismo dei singoli, è di una modernità sconvolgente nel ritenere che gli uomini si associno soltanto per andare oltre la mera sopravvivenza, tentando così di realizzare appieno le proprie potenzialità. Le contese, di esempi il Medioevo ne offre molti, dominano la società e la pace può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua il proprio vantaggio. Solamente le leggi e un “guardiano” in grado di imporle e vigilare sulla loro pedissequa applicazione, possono garantire la sopravvivenza di uno Stato e tali norme, a suo giudizio ritrovano la propria essenza nell’essere imposte con la forza da chi ne ha l’autorità. La loro validità dunque, secondo Marsilio, non dipende da una qualsivoglia subordinazione a un’entità superiore, quanto piuttosto dall’esclusivo fatto di essere emanate correttamente. Chi conosce il Medioevo sa bene che gli slanci democratici erano merce rarissima al tempo, e per questo, che due pensatori concordino nel conferire ai cittadini una responsabilità legislativa, è da considerarsi un defensorfenomeno straordinariamente all’avanguardia. Sia Marsilio che Ockham, infatti, sono in perfetta sintonia nel riconoscere ai cittadini il delicato compito di entrare nel meccanismo legislativo, e laddove il primo sostiene che i sudditi debbano stabilire le normative in grado di regolare la vita della comunità, il secondo, individuando negli uomini il tramite tra Dio e il potere dello Stato, attribuisce ai cittadini la facoltà di assegnare il potere. Anche se Ockham, ritornando parzialmente suoi propri passi, in casi eccezionali contempla la possibilità che il papa destituisca un sovrano temporale divenuto pericoloso, i due pensatori, troppo acuti per cadere in errore, non faticano a riconoscere nel papato una subdola macchina politica e tentano encomiabilmente di riportarlo entro i ranghi attraverso le proprie teorizzazioni. Marsilio infatti, consapevole del fatto che la Chiesa ricorra troppo spesso a Dio come strumento persuasivo, ridimensiona la forza terrena della legge divina, negando che essa possa risultare vincolante nell’esistenza temporale degli individui; essa infatti, per natura eterna e infallibile, non può né potrà mai possedere nel mondo terreno quella forza coercitiva necessaria per renderla effettivamente valida. Il potere spirituale, che né Marsilio né Ockham negano, può trovare la piena realizzazione soltanto esercitando un ruolo per così dire didattico, educando religiosamente i fedeli in maniera non coercitiva.
Testi come il Defensor pacis e il Dialogus, a conti fatti, non meritano di giacere impolverati dimenticati su uno scaffale, ma il loro contenuto, straordinariamente lungimirante, necessita più che mai di una riscoperta in grado di rinvigorirne freschezza e vitalità.”

Quei cristiani iracheni più orientali e meno occidentali

Per iniziare a cercare di informarci un po’ sull’argomento “Isis” riporto un articolo molto interessante di Allan Kaval per Orient XXI, ripreso in Italia da Osservatorio Iraq, la cui redazione ha curato la traduzione. Molto probabilmente lo leggeremo in classe.

isis 2La situazione dei cristiani iracheni dopo l’offensiva dello Stato Islamico ha suscitato un ampio slancio di solidarietà da parte dei paesi occidentali. Sorgono però alcuni interrogativi: perché una reazione così tardiva se le comunità extra-islamiche sono in pericolo dal momento dell’invasione statunitense?
Perché i paesi occidentali continuano a proporre come soluzione l’esilio e non tengono conto delle richieste dei rappresentanti cristiani che vogliono restare in Iraq?
Dopo la presa della città di Mosul da parte dei combattenti dello Stato Islamico (Isis) in giugno e più ancora dopo l’offensiva jihadista verso le posizioni curde – tradotta ad inizio agosto nella conquista delle località cristiane della piana di Ninive – il cristianesimo iracheno, già minacciato dal caos che regna nel paese dal 2003, sembra ormai in via d’estinzione.
I cristiani di Mosul sono stati costretti dai nuovi padroni della città a maggioranza araba e sunnita a lasciare le proprie case – pena la morte – se non si fossero convertiti all’Islam o se si fossero rifiutati di pagare un’imposta vessatoria. La loro sorte ha sconvolto l’opinione pubblica occidentale e ha contribuito a riportare temporaneamente i cristiani iracheni sul fronte della scena internazionale.
Tuttavia, sebbene lodevoli in un contesto d’urgenza, le dichiarazioni formulate da certi governi hanno dato adito a qualche perplessità. Parigi, ad esempio, si è subito dichiarata pronta ad accogliere tutte le domande di asilo formulate dai rifugiati cristiani iracheni. Misure, giustificate da una ipotetica solidarietà confessionale, che contribuiscono però a normalizzare l’idea secondo cui la presenza di minoranze religiose in Iraq sarebbe un’anomalia dalle conseguenze funeste e che il posto di queste popolazioni non sarebbe nel loro paese di origine bensì in Europa o in Occidente, vicino ai “loro simili”.
Simili propositi sono ancor più pericolosi se consideriamo che sposano perfettamente le tesi di alcuni ideologi dello Stato islamico. L’obiettivo dichiarato dall’Isis è proprio quello di mettere in atto, nelle zone passate sotto il suo controllo, un ordine totalitario che faccia tabula rasa delle molteplici eredità della regione, cancellando le tracce della sua storia complessa e trasformandola in una nuova entità spurgata di ogni eterogeneità confessionale.
Ancora una volta, dunque, i cristiani iracheni sembrano dover pagare il prezzo di un’associazione – in parte imposta – all’Occidente. Fin dall’espansione dell’influenza europea in quello che era l’Impero Ottomano, nel XIX secolo, queste comunità – strumentalizzate e ripetutamente tradite dalle potenze coloniali britanniche, francesi e russe – sono state costrette, agli occhi dei loro vicini musulmani e delle autorità della regione, in una posizione che non hanno mai veramente scelto: quella di testa di ponte dell’Occidente in terra d’Islam, di quinta colonna nell’orto del nemico. La loro storia invece, indissociabile dal resto del passato mediorientale, si è sviluppata ben al di fuori delle esperienze e dell’influenza del cristianesimo latino e di quello greco-ortodosso.

Una Chiesa particolare
Nei primi secoli dell’era cristiana, i cristiani d’Assiria (Alto Tigri) si erano ritrovati sotto il dominio della Persia achemenide e avevano cercato di distinguersi dalla Chiesa di Antiochia, situata nell’area bizantina, per essere accettati e tollerati dalla dinastia iranica. Da allora hanno seguito una traiettoria storica e teologica distinta e parallela a quella degli altri mondi cristiani, posti sotto il controllo di Roma e Costantinopoli. Per tutti coloro che si opponevano al dogma bizantino – come la Chiesa nestoriana – la Persia zoroastriana e i suoi annessi mesopotamici rappresentavano infatti un rifugio sicuro contro le persecuzioni del basileus, imperatore di Costantinopoli. Né latine né greche ma di lingua siriaca e di tradizione semita, le Chiese orientali cominciano a sviluppare una loro zona di influenza. Indipendenti dai grandi centri cristiani del vecchio mondo, conoscono una diffusione particolare – ben illustrata dall’esempio della Chiesa nestoriana – che si riversa lungo le vie di comunicazione dell’Impero persiano per raggiungere l’Asia centrale e poi i confini della Cina e dell’India, ben al di là dell’orbita di Roma e Costantinopoli.
La situazione delle comunità cristiane della Mezzaluna fertile non cambia di molto con la conquista musulmana della regione nel VII secolo. Gli imperi arabi del Vicino Oriente rivestono, di fronte a Bisanzio, una posizione analoga a quella dei persiani sconfitti. Le relazioni dei cristiani con le nuove autorità della regione sono floride, tanto che i primi secoli della dominazione islamica coincidono addirittura con un periodo di espansione del cristianesimo siriaco. Numerose chiese e monasteri vengono così costruiti nelle pianure settentrionali della Mesopotamia e l’élite cristiana si avvicina al potere musulmano nelle grandi città dove le minoranze costituiscono una parte importante della popolazione (in particolare a Baghdad sotto il Califfato abbaside – 750-1258 – che costituisce l’età d’oro dell’Islam medievale).

Il peso delle crociate
Sono invece le Crociate, a partire dall’XI secolo, che iniziano a scuotere le relazioni tra le comunità cristiane e gli Stati musulmani in Medioriente. Il collegamento implicito tra Occidente cristiano e cristiani d’Oriente innesca conseguenze funeste che portano a confondere l’esistenza di quest’ultimi con gli interessi delle potenze straniere, i cui strascichi continueranno a lungo a farsi sentire. Sebbene, contrariamente ad altre minoranze della regione, le chiese di tradizione siriaca non si siano schierate al fianco dei crociati e per questo siano state risparmiate dalla reazione delle autorità islamiche, i membri di queste comunità iniziarono ad essere guardati con diffidenza e scetticismo in un contesto generale di confronto geopolitico e religioso.
Le Crociate avviarono così il declino della realtà siriaca, che sarà quasi cancellata dalle invasioni mongole del XIII secolo e che riuscirà a conservarsi solo nelle montagne del Kurdistan e in qualche bastione dell’antica Assiria, come ad esempio l’attuale provincia di Mosul. E’ proprio in questa regione che la cristianità siriaca ha iniziato il suo processo di riavvicinamento alla cristianità europea. Nel 1553 viene fondata la Chiesa caldea, legata al papato romano, che in poco tempo diventerà maggioritaria nella Mesopotamia settentrionale. Più tardi, all’interno dell’Impero ottomano, dinamiche simili saranno alla base dei principali eventi storici che segnano la regione. Durante la metà del XIX secolo l’Impero retrocede dal territorio balcanico e cerca di ristrutturarsi attorno all’identità islamica. Intanto, all’interno delle frontiere, le potenze europee e la Russia coltivano le loro alleanze con le minoranze cristiane arrivando perfino a contestare la sovranità ottomana su una parte dei suoi sudditi. Al contatto con l’Occidente – e dunque con la “modernità” – queste comunità scoprono le idee dei Lumi e poi il nazionalismo. Se i cristiani orientali non si espongono in prima linea, gli armeni – che beneficiano di legami strutturati con l’Europa – ne saranno considerevolmente influenzati.

Un genocidio dimenticato
La loro rinascita nazionale contribuisce di rimbalzo alla formazione di un nazionalismo cristiano di cultura siriaca che pretende di trascendere le divergenze ecclesiastiche per far emergere una nuova nazione assiriana. Fondata esclusivamente su un criterio religioso, questa nuova nazione si inventa un substrato etnico basato sull’eredità mitica delle antiche civiltà mesopotamiche che l’Europa sembra riscoprire proprio in quel momento. Di conseguenza i cristiani d’oriente nel loro insieme sono sempre più associati dalle autorità ottomane agli interessi dei loro nuovi protettori francesi, britannici e russi. Lo scoppio della Prima guerra mondiale, che oppone la Sublime Porta a queste tre potenze, farà poi dei cristiani siriaci dei veri e propri nemici dell’interno. Nel 1915 sono vittime – come gli armeni – di un vero e proprio genocidio che conta circa 300 mila morti. Perpetrato essenzialmente nel territorio dell’attuale Turchia, questo massacro costringe i sopravvissuti a fuggire verso quello che diventerà l’Iraq, occupato dai britannici, dove raggiungono i propri correligionari. Qui sono di nuovo strumentalizzati dal Regno Unito che li utilizza, nel quadro del suo mandato sul territorio iracheno, per soffocare le rivolte curde e sciite.
Nel 1933, dopo l’indipendenza del paese, saranno oggetto di nuove carneficine poiché considerati collaboratori di una potenza occupante, la quale tuttavia – in seguito al ritiro – sembra abbandonare le comunità siriache alla loro triste sorte.
La fine della Seconda guerra mondiale inaugura invece un periodo più favorevole per i cristiani d’Iraq. Con il trionfo del nazionalismo arabo, la loro appartenenza religiosa non sembra porre grandi problemi anche se si ritrovano costretti a proclamare la loro arabicità e a rinunciare alla propria distinta identità culturale come pure all’utilizzo della lingua siriaca. Tale situazione non impedisce ad alcuni membri di integrare i circoli esclusivi del potere, come nel caso di Tarek Aziz, quadro importante del regime di Saddam Hussein.
Allo stesso tempo, per tutto il corso del XX secolo, i cristiani siriaci animano una fitta diaspora verso i paesi occidentali – che ne facilitano l’emigrazione e l’accoglienza – anche a causa delle crisi ripetute attraversate dal paese dopo gli anni ’70.

La fine dell’ordine pubblico dopo il 2003
Un colpo decisivo per queste comunità è stato l’intervento americano in Iraq del 2003, con l’arrivo nel paese di militanti islamisti che Mosulscelgono come bersagli privilegiati uomini e luoghi di culto per ragioni ideologiche. L’affossamento dell’ordine pubblico ha permesso a gruppi mafiosi di attaccarsi impunemente ai cristiani siriaci, sprovvisti di milizie di autodifesa e le cui connessioni con l’estero sono percepite come garanzie di riscatti redditizi. Così Bassora, Bagdad e Mosul si sono progressivamente svuotate dei loro abitanti cristiani. Chi non ha la possibilità di scappare dal paese si rifugia nel Kurdistan iracheno, dove le autorità locali garantiscono la sicurezza e favoriscono l’accoglienza permettendo il reinsediamento nelle antiche zone di popolamento siriaco.
Questa sorta di status quo è stato ribaltato dall’avanzata dello Stato Islamico nel 2014. L’offensiva jihadista, che le forze curde non sono riuscite a contenere, ha incrinato la fiducia di una parte degli ultimi cristiani d’Iraq verso il governo di Erbil. L’aiuto militare accordato al Kurdistan iracheno dagli Stati Uniti e da alcune potenze europee ha permesso sì la controffensiva, scartando l’ipotesi di una conquista di queste regioni da parte delle truppe dell’Isis, ma il territorio del Kurdistan ha comunque perso – simbolicamente – il suo status di santuario inattaccabile.
E’ quindi l’esilio definitivo e senza ritorno che appare ad alcuni come l’unica soluzione per i cristiani d’Iraq. Se quelli insediati da tempo nelle città curde sono meno interessati, le decine di migliaia di persone che sono scappate dalle località cristiane delle pianure di Mosul – rimaste in mano ai jihadisti – non pensano di rientrate nelle loro case, desiderosi piuttosto di dimenticare un Iraq che di loro non ne vuole più sapere. Di fronte a questo fenomeno, la risposta più chiara che hanno offerto gli Stati occidentali è stata quella di incoraggiare l’esilio. Le dichiarazioni rilasciate in questo senso dal governo francese, ad esempio, presentano notevoli problemi. In primis hanno fatto nascere in migliaia di persone speranze che non potranno mai essere soddisfatte, e inoltre contribuiscono a rafforzare l’idea che l’esilio sarebbe l’unica vera via d’uscita, scartando a priori l’ipotesi che i cristiani d’Oriente possano continuare a vivere dove hanno sempre vissuto. Se le pianure di Ninive fossero liberate, potrebbero invece diventare oggetto di una protezione internazionale in grado di garantire l’autonomia del territorio e di rafforzarne le istituzioni e le forze di sicurezza. I progetti di regioni cristiane autonome in Iraq esistono da diversi anni e la loro realizzazione appare oggi prioritaria per riuscire ad evitare la scomparsa di queste popolazioni dalla loro area di insediamento secolare. Tuttavia, sostenere questo obiettivo implica per le potenze occidentali l’abbandono di una visione esclusivamente vittimistica e un reale trasferimento di mezzi a beneficio delle comunità siriache irachene.”

Bilanci di viaggio

papa al muro

A qualche giorno di distanza dal viaggio del papa in Terra Santa posto un articolo di Massimo Faggioli, pubblicato oggi su La Rivista Il Mulino: non è un pezzo di cronaca di quanto è successo, ma una lettura di inquadramento storico del viaggio, per cui lo consiglio alle classi più grandine (anche se non è vietato alle altre…).
“Il pellegrinaggio papale in Terra Santa è entrato a far parte della storia del moderno papato come un test, un momento critico da cui tentare di comprendere alcune traiettorie della chiesa cattolica contemporanea ma anche le differenze tra i singoli pontificati. Il pellegrinaggio di papa Bergoglio in Terra Santa (Giordania, Palestina, Israele, 24-26 maggio 2014) seguiva quello di Paolo VI (gennaio 1964), Giovanni Paolo II (marzo 2000), e Benedetto XVI (maggio 2009).
Il viaggio del 1964 era il primo di un papa moderno all’estero, nel clima del Vaticano II, all’insegna di sensibilità ecumeniche completamente nuove a livello ufficiale, storicamente precedente alla “revanche de Dieu” che inizia con la guerra del 1967 e gli anni Settanta, e teologicamente ancora riluttante a prendere atto del sionismo e del suo frutto compiuto nello Stato di Israele (parola che papa Montini si astenne visibilmente dal pronunciare in quei giorni). Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II del 2000 era il viaggio del primo papa del dialogo interreligioso esercitato in prima persona sulla base del mandato conciliare e oltre esso, nel contesto del Giubileo del 2000, ma prima dell’inizio della cesura dell’anno 2000-2001 (la seconda Intifada dopo la passeggiata di Sharon alle moschee nel settembre 2000 e la scia di attentati e violenze nelle città israeliane e palestinesi; l’11 settembre 2001; la costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e territori a partire dal 2002). Il viaggio di Benedetto XVI nel 2009, infine, arrivava a poche settimane dalle polemiche scaturite dalla decisione di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, uno dei quali notoriamente antisemita, e contribuiva a condizionare la gestualità già inibita del papa teologo: le aspettative del discorso del papa a Yad Vashem circa le responsabilità della Chiesa (anche in quanto cattolico tedesco) andarono deluse.
In questo quadro, rispetto a quello dei precedessori il viaggio di papa Francesco rappresenta un passo ulteriore. Da un lato, Bergoglio ha assunto per la visita a quella terra e ai suoi simboli divisi e condivisi l’immagine della poliedricità (figura da lui analizzata nell’esortazione Evangelii Gaudium per descrivere la Chiesa) dello snodo religione-terra-pace in Medioriente. Il papa ha parlato a interlocutori diversi e ha bilanciato l’immagine di un cattolicesimo che – specialmente sotto Benedetto XVI – aveva ripreso la memoria della Shoah e il ruolo dello Stato di Israele sotto il segno di una “religione civile” che in Occidente ha una forte connotazione islamofobica. Il gesto di preghiera di Francesco di fronte alla “barriera di separazione” da parte palestinese e, il giorno dopo, alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl e al monumento per le vittime israeliane del terrorismo rappresentano messaggi inviati a entrambe le parti: ma rappresentano soprattutto la presa di coscienza da parte del papato che vi sono elementi altri (i “loci alieni” della teologia) e storicamente nuovi rispetto all’itinerario teologico-biblico classico del pellegrinaggio cristiano in Terra Santa. In questo senso, papa Francesco ha fatto propria una mappa già nota a molti – cristiani, ebrei e musulmani inclusi -, ma che finora aveva stentato a entrare nel registro dei viaggi papali. Francesco parla e agisce come cristiano in Terra Santa con maggiore libertà rispetto al predecessore italiano, polacco, tedesco che dovevano parlare per forza di cose anche come figli di quella Europa colpevole della Shoah. Le amicizie interreligiose del gesuita Bergoglio in Argentina sono parte di questa nuova condizione di libertà del papato globale dalle ipoteche della storia europea.
paoloviatenagoraDall’altro lato, papa Francesco ha ripreso una rotta invertita dal Vaticano di Benedetto XVI dal punto di vista teologico: l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo rappresenta la ripresa di un dialogo con gli ortodossi orientali che aveva promesso molto, invano, sotto Benedetto XVI. L’incontro di Gerusalemme tra Francesco e Bartolomeo ha un’origine storicamente vicina, durante l’inaugurazione del pontificato nel marzo 2013 e la straordinaria presenza di Bartolomeo a Roma (la prima volta nella storia in un’occasione del genere), ma anche un’origine lontana, quell’incontro tra Paolo VI e Atenagoras nel gennaio 1964 e alla revoca delle scomuniche reciproche nel 1965 alla conclusione del Concilio Vaticano II. L’incontro tra Francesco e Bartolomeo rappresenta la prova delle potenzialità di una ripresa senza timori del concilio.
Il lato sorprendente della visita del papa in Terra Santa riguarda l’azione politica della Santa Sede di Francesco. Sotto Benedetto XVI e il suo segretario di Stato cardinale Bertone, il Vaticano aveva dato segnali di volersi sottrarre alle responsabilità politiche della Chiesa figlia dell’Impero Romano in quell’area (e non solo là), consegnando così la questione geopolitica del cattolicesimo a rappresentanti locali (le chiese arabe compromesse coi regimi, i sicofanti del cattolicesimo teo-con di scuola statunitense). La mossa di papa Francesco dell’invito in Vaticano, “a casa del papa”, rivolto ad Abu Mazen e Shimon Peres nello stesso giorno delle elezioni europee è una delle tante ironie della storia, dopo anni in cui sia l’Europa sia gli Stati Uniti avevano dichiarato fallimento di fronte alla questione israelo-palestinese.
Emerge un volto politico di Francesco, che viene a completare un anno in cui gli interventi “politici” sono stati pochi e ben delimitati: la veglia del 7 settembre 2013 per la Siria (preventivo a un possibile intervento americano); l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013; la freddezza ostentata coi politici italiani in tutto questo periodo; l’udienza al presidente Obama. Il pellegrinaggio in Giordania, Palestina e Israele danno maggiori elementi per giudicare la politica del Vaticano di Francesco e del segretario di Stato cardinale Parolin: un’azione che richiama, in termini diversi, la Ostpolitik di Giovanni XXIII e Paolo VI (allora contro gli episcopati renitenti rispetto alla politica del dialogo, oggi contro i patriarchi e gli episcopati cattolici compromessi coi despoti del Medioriente). Anche da questo punto di vista, continua per forza di cose il protagonismo di papa Francesco, in assenza (tranne rare eccezioni) di una élite episcopale mondiale in grado di seguire la traccia segnata dal vescovo di Roma.”

Dio non è necessario

Una delle cose che mi bloccano nella lettura di un blog è la lunghezza dei post. Se superano uno o due colpi di scroll è molto difficile che vada avanti, a meno che l’argomento non sia estremamente avvincente. Ecco perché mi sforzo di farli piuttosto brevi. Ma quando ripubblico un articolo esterno non posso decidere la lunghezza. Certo, potrei mettere semplicemente il link al pezzo senza stare a ricopiarlo: sarebbe persino più veloce per me. Ma temo che prima o poi quel link possa diventare cieco, e che l’articolo venga spostato o tolto dall’autore.
Oggi pubblico un articolo estremamente ricco dal punto di vista dei contenuti. Potremmo farci sopra uno o più anni di lezione… E’ un’intervista di Franco Marcoaldi a Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale. Proprio a causa della lunghezza del testo mi sono permesso di fare una cosa che detesto quando vedo fatta sui libri: ho evidenziato in grassetto dei passaggi chiave. Buona lettura.

Paolo20Ricca20small2002«Per un agnostico, o un ateo, affidarsi al “giudizio di Dio” e dunque alla sua Legge, può suonare come la definitiva resa di ogni possibile giudizio critico individuale. Paolo Ricca, pastore valdese, curatore delle opere di Lutero per l’editrice Claudiana, teologo finissimo e di grande apertura mentale, la pensa esattamente all’opposto: proprio la Legge di Dio offre la massima libertà all’essere umano. “Il discernimento del bene e del male è possibile là dove si sa che cosa siano il bene e il male. Nella visione biblica questa capacità l’uomo non ce l’ha. E quindi anche il suo discernimento è offuscato. Perciò è necessaria la parola di Dio”.
Ma nella modernità occidentale, diciamo da Montaigne in avanti, l’uomo presume, a torto o a ragione, di disporre di quella capacità. Cosa la spinge, nel 2012, a cercarla ancora nella parola di Dio?
“Almeno due buone ragioni. La prima ha a che fare con Kant, il grande maestro critico della modernità, e con la sua idea di imperativo categorico. Ovvero con la rinuncia della singola persona a decidere che cosa può “imperare” nella sua propria coscienza. Seconda ragione: l’evidenza di ciò che accade intorno a noi, ogni giorno. Le pare che l’umanità nel suo insieme, e non parlo dell’arbitrio del singolo individuo, sia in grado di organizzare un sistema di leggi volte al bene comune?”.
Però esistono tradizioni di pensiero, penso ad esempio al confucianesimo, in cui il fondamento etico-sociale della legge ha una base tutta mondana.
“Sì, ma l’aspetto più sorprendente del discorso biblico è che la Legge viene dopo l’Esodo. Ovvero, Dio prima libera il suo popolo e soltanto dopo gli dà la legge, fondata dunque sulla libertà raggiunta, che impedirà di tornare a uno stato di schiavitù. Lei porta l’esempio del confucianesimo, per dimostrare che non è necessario Dio per avere una legge. Ma Dio, che peraltro non è mai “necessario”, ci indica la strada per dare alla legge il suo vero significato: non come sottrazione di libertà, ma come suo massimo dispiegamento. Io penso che dobbiamo liberarci da questa idea secondo cui Dio deve esserci. Bonhoeffer parla di “un Dio che c’è, non c’è”, proprio per riaffermare che Dio non è necessario. Che Dio è libertà, non necessità. La rivelazione della Bibbia è tale proprio per questo. Rivelare, togliere il velo, vuol dire aiutare l’uomo a capire ciò che non vede: Israele ha creduto in un Dio liberatore, prima che in un Dio giudice e legislatore. È un messaggio formidabile. Certo, sempre se uno ci crede!”.
Per chi è cresciuto tra le braccia della Chiesa cattolica la prima parola che viene in mente pensando alla religione, non è certo “liberazione”. Semmai il trittico dostoevskjiano “mistero, miracolo, autorità”.
“Lo capisco. Ma Dio non è la Chiesa. Sono due piani del discorso che vanno tenuti accuratamente separati”.
Veniamo al Dio legislatore e dunque ai dieci comandamenti. Lei li trova ancora utili per il nostro tempo?
“Assolutamente sì. Pensi al primo comandamento, che impone di distinguere tra gli idoli e Dio. Più attuale di così! Oppure, pensi al comandamento del riposo applicato a una società come la nostra, in cui il tempo libero è ancor più schiavizzato di quello del lavoro. Purtroppo, nella cultura religiosa italiana i dieci comandamenti sono poco predicati. Alcuni sono stati addirittura stravolti: per esempio, quello sul riposo è diventato “santifica le feste”, una definizione del tutto impropria. Obbedendo a una tendenza gnosticizzante del cattolicesimo romano, l’Antico Testamento è stato messo progressivamente da parte, a esclusivo vantaggio del Vangelo. Il che spiega varie cose anche sul fronte morale. Perché il discorso sulla centralità dell’amore va bene, ma quando si arriva al comandamento “non rubare”, le cose si fanno un po’ più complicate”.
Ha appena accennato al nuovo comandamento di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso. Gesù, però, oltre a obbedire, trasgredisce la legge.
“Certo, perché non c’è libertà senza trasgressione bisogna trasgredire alcune leggi degli uomini in nome della legge di Dio, nella quale si manifesta appieno la nostra libertà”.
Mi faccia un esempio.
“Gesù viene condannato a morte per due motivi: come trasgressore della legge sabato e come distruttore del tempio. E perché trasgredisce la legge del sabato? Perché i teologi avevano costruito attorno a quel comandamento una serie di norme assolutamente fuori luogo. Del tipo: nel giorno del riposo puoi fare al massimo dieci passi. Così, se l’uomo caduto a terra è lontano da te dodici passi, non puoi aiutarlo. Ma mille altri sono i casi in cui è giusto trasgredire le leggi umane, in nome di una superiore legge divina. Pensi all’obiezione di coscienza: non prendo in mano il fucile per ammazzare il prossimo, anche se lo Stato me lo impone”.
Capisco cosa intende dire. Però intravedo anche il rischio opposto: ogni legge dello Stato laico può essere messa in forse sulla base di una legge superiore. Pensi all’aborto.
“Ma non c’è nessuna legge divina che vieta l’aborto. Quella è una legge della Chiesa, che naturalmente ha il suo peso e il suo valore. Però nella Bibbia non si parla di aborto. Di nuovo, bisogna saper distinguere tra legge divina, legge ecclesiastica e legge civile”.
Qual è il luogo simbolico per eccellenza in cui si manifesta il giudizio di Dio?
“La croce di Gesù, e questo è il paradosso dei paradossi: ovvero, il giudizio di Dio viene “giudicato” nell’uomo, e nell’uomo messo in croce. “Dio mio, perché mi hai abbandonato”, dice Gesù. È il momento della lacerazione completa dell’idea stessa di Dio. Paolo definisce la croce “pazzia” per i greci, i laici, e “scandalo” per i giudei, per i religiosi come me. La verità è che se si va alla radice del discorso cristiano, il giudizio di Dio ci conduce a un’afasia totale. Perché si assiste al capovolgimento completo tra un Dio giudicante e un Dio giudicato”.
Il primo a portare Dio “in tribunale” è Giobbe, quando verifica sulla propria pelle che l’idea secondo cui se fai il bene ti ritorna il bene, non è così automatica.
“Il suo è il grido di disperazione dell’innocente che soffre ingiustamente. E protesta. La risposta di Dio, in verità non tanto chiara, lo metterà a tacere. Ancora non si dà quel rovesciamento in cui il Dio giudicante viene giudicato. Anche se già nell’Antico Testamento si affaccia l’idea secondo cui il giudizio di Dio si associa alla misericordia e non alla giustizia retributiva. E questo ci porta dritti al Nuovo Testamento, alla vita di Gesù, alla sua passione, quintessenza dell’ingiustizia: un processo farsa, la condanna, la flagellazione, la condanna a morte. Gesù subisce, ma non partecipa. Dice a un certo punto: potrei chiamare dodici legioni di angeli, ma non lo faccio. Non mi metto sullo stesso piano di Pilato, di Erode. Ed ecco il salto ulteriore, sul piano della fede. Non soltanto io non rispondo al tuo male con la stessa moneta, ma prendo su di me la tua colpa. E muoio non soltanto per la tua malvagità, ma perché ti perdono. Ora tutto questo è straordinario. Il paradosso è che le ragioni per cui uno crede o non crede, potrebbero essere le stesse. E rimandano sempre alla figura della croce. Ecco perché non posso prendermela con gli atei. Loro dicono: come posso credere a un Dio messo in croce? E io obietto: gli credo proprio perché è stato messo sulla croce“.
Le ripropongo la domanda iniziale, rovesciata. Non c’è il rischio che affidandosi al giudizio di Dio si verifichi una deresponsabilizzazione dell’individuo?
“Se intende un atteggiamento fatalista nei confronti di tutto ciò che accade, come se tutto fosse sempre e comunque frutto della volontà di Dio, allora sì, c’è questo rischio. Ma cito ancora Bonhoeffer quando dice: non tutto quello che accade è volontà di Dio, mentre in tutto ciò che accade c’è un sentiero che porta a Dio. Siamo partiti dalla parola discernimento. Ebbene, io credo che Dio, inteso come libertà d’amare, sia innanzitutto luce. E questa luce illumina il nostro cammino, aiutando o addirittura determinando il nostro discernimento. In fin dei conti, è la luce che ci consente di vedere. E discernimento vuol dire capacità di vedere, quindi capacità di giudicare, dopo aver visto. Non alla cieca”.»

Portateli altrove (!)

Torino_083 fbIn quel tempo, furono portati a Gesù dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano.
Gesù però disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli”. E dopo avere imposto loro le mani, se ne partì. (Mt 19, 13-15)
Lunga è la strada… (scatto fatto a Torino sulla porta della chiesa di San Filippo Neri)

L’essenziale nella bisaccia

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Il blog è nato per accrescere il dialogo con gli studenti, per mettere a disposizione materiale interessante che magari in classe non riusciamo ad affrontare, per approfondire argomenti solo abbozzati. Tuttavia so che è letto anche da altre persone e da alcuni colleghi. Questo post penso che possa interessare maggiormente questi ultimi, soprattutto coloro che si ricordano di aver studiato sui testi del “mitico” Enrico Chiavacci. Come insegnanti di Udine abbiamo anche avuto il piacere (per me ascoltare un toscano è sempre un piacere, per le orecchie e per il cuore, perché mi ricorda le sere dei campiscuola passate a sentire la cadenza di una cara persona che non c’è più) di seguire, qualche anno fa, un corso di aggiornamento tenuto da lui. Il pezzo qui sotto verte su laicità-laicismo, clericalismo-anticlericalismo e, a mio avviso, è in grado di provocare molte riflessioni e pensieri, magari utili per un confronto di idee. E’ del 2005 ed è preso dal sito Dimensionesperanza.

“”D’ora in poi predicherò solo Cristo, e Cristo crocifisso”, esclama Paolo (cfr. 1Cor 2,2). La fede in Cristo non è un ‘bagaglio di valori’, ma è l’assunzione di un unico valore che deve dominare la mia intera esistenza, esserne il senso ultimo su cui io scelgo di misurare me stesso in ogni mia scelta concreta (o, se si vuole, storica). Questo unico valore è fare della propria esistenza un dono offerto a tutti i fratelli in umanità, buoni o cattivi, bianchi o neri, amici o persecutori. “Questo corpo che è per voi, questo sangue versato per voi e per tutti”: Gesù nella cena dichiara il senso del suo andare deliberatamente incontro alla croce, e con questo gesto supremo di dono accompagnare la storia, la vicenda intera della famiglia umana.

Spesso però noi cristiani ci dimentichiamo che ogni essere umano è chiamato dal proprio interno a una ‘vita morale’ cioè all’assunzione di un significato unico e ultimo del proprio esistere e alla coerenza con esso in ogni situazione concreta. Tale assunzione può nascere da un’esperienza interiore indicibile, cioè non dimostrabile ad altri come l’unica vera; può anche avere una motivazione filosofica e nascere da una argomentazione, ma il mettersi ad argomentare o a interrogarsi sul senso della propria esistenza è già vita morale. Anche l’ateo, il laicista, il ‘laico’, l’anticlericale, l’aderente a qualunque fede religiosa non cristiana, ha in sé la chiamata a una vita morale: il che equivale al bisogno di dare un senso al proprio esistere. Ma noi cristiani crediamo che anche il non-cristiano, come ogni essere umano, trovi in se stesso una chiamata divina, e precisamente la chiamata di un dio, del Dio che ci è apparso in Nostro Signore. A Lui tutti dobbiamo rispondere, che lo conosciamo o no, e da Lui tutti abbiamo bisogno di perdono. Tutto ciò è espresso chiaramente in Paolo, Rm 2. Giovanni XXIII riprende il tema indirizzando a tutti gli uomini di buona volontà la grande enciclica Pacem in terris: se ne rilegga l’intestazione, il proemio, e tutta la V parte. E la Gaudium et spes esplicita il contenuto di questa esperienza morale che accomuna tutti gli uomini intorno al grande tema della pace. Si veda il n. 77, ma specialmente il n. 92. In esso la Chiesa si dichiara aperta al dialogo e alla cooperazione (che ne è lo scopo e la cercata conseguenza) con uomini di qualsiasi fede, con gli agnostici e gli atei, e paradossalmente anche con i propri persecutori: a tutti coloro che “praeclara animi humani bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt”. E conclude dicendo che Dio Padre, principio e fine di tutti, ci chiama tutti a essere fratelli nella ricerca della pace: siamo tutti chiamati ad una stessa vocazione (hac eadem vocatione vocati: si noti che eadem in latino indica con precisione una stessa identica vocazione, unica per ogni essere umano). …

In questo quadro le espressioni del tipo ‘laico’ o ‘laicista’ non hanno necessariamente il significato di contrapposizione al cristianesimo: esse possono indicare l’assunzione degli alti valori vissuti e insegnati da Gesù Cristo, anche senza conoscerne o riconoscerne l’Autore. Nello stesso modo può avere un senso l’espressione ‘cristianizzazione senza Dio’: ma l’espressione è paradossale in quanto indica l’assunzione di valori assoluti evitando di riconoscere un assoluto a cui agganciarli. Io credo che in molti casi sarebbe più appropriato il binomio ‘clericale-anticlericale’: in esso si cela non tanto il problema di Dio o di Gesù Cristo, quanto il problema di accettazione della chiesa nel suo modo – passato e presente – di presentare il Vangelo di Gesù Cristo attraverso le sue strutture, regole, pronunciamenti, devozioni, predicazione. Il rifiuto della chiesa per i motivi ora detti può portare, e di fatto ha portato, al rifiuto in blocco del suo annuncio su Dio e/o su Gesù Cristo (si rilegga il n. 19 di GS). Lo stesso Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per gli errori del passato.

A partire almeno dal II millennio, il potere decisionale nella chiesa – in tutti i campi – si è sempre più accentrato nelle mani del clero (si pensi che nell’area ortodossa anche il clero contava e conta poco: quelli che contano veramente sono i monaci e i monasteri). E almeno dal XVI sec. ogni potere decisionale si è sempre più accentrato, passando dal clero e anche dai vescovi alla Santa Sede. Un papato monarchico non solo temporale ma anche spirituale (dottrinale, giuridico, liturgico etc.) da un lato era forse necessario per combattere eresie o errori pericolosi, dall’altro ha generato una reazione sia dottrinale che spirituale. Clericalismo e anticlericalismo, azione e reazione: difficile dire chi ha sparato per primo. Non posso discuterne qui, e nessuno ha una risposta certa. Ma non dobbiamo mai dimenticare che senza una comunità dei credenti in Cristo organizzata, pur con tutti i suoi limiti storici e i suoi errori, il Vangelo non ci sarebbe giunto. Ricordiamo il celebre detto, attribuito al grande regista Buñuel: “Io sono ateo, grazie a Dio”; e ricordiamo anche che il film più fedele al Vangelo – e forse fino ad oggi l’unico fedele – è dovuto a P.P.Pasolini. Ma qui si deve aprire un altro discorso. Mi si domanda “che ne è del pellegrino che viaggia con solo l’essenziale nella sua bisaccia?”. Rispondo che non può esistere tale pellegrino: non esiste e non può esistere un essere umano senza condizionamenti culturali e storici da un lato, e senza una sua fatica di ricerca dall’altro lato. La stessa chiesa apostolica per trasmetterci il Vangelo ci ha trasmesso quattro vangeli, ciascuno scritto con preoccupazioni, filosofie, sensibilità diverse. La trasmissione del Vangelo è poi avvenuta tutta all’interno della cultura e della filosofia occidentale, con arricchimenti spirituali grandiosi (si pensi a Dante) e con una forza propulsiva enorme in tutti i campi della riflessione umana, dalla scienza o all’arte in tutte le loro forme. Ma dopo il XV sec. è iniziato il contatto massiccio e costante con altre culture, e con esso la presa di coscienza che anch’esse offrivano nuove possibilità di comprensione e di vita evangelica; ma solo nel XX sec. tali possibilità sono state accolte e recepite ufficialmente con l’autorità di un Concilio Ecumenico (si rilegga il n. 44 di GS). E pertanto l’accentramento dell’autorità presso un’unica istanza tipicamente, e ancora, occidentale e tale da lasciare poco spazio a culture, tradizioni, filosofie, sensibilità storiche locali risulta ormai – teoricamente e praticamente – insostenibile per la credibilità della chiesa e anche del Vangelo. Se il cosiddetto ‘senso comune’ indica ciò che è socialmente ammesso e approvato nell’area occidentale, il suo controllo sulla vita religiosa è mortale per l’annuncio del Vangelo. … La giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero, e cioè al più socialmente debole, all’emarginato, allo straniero e anche a chi viene socialmente giudicato un ‘peccatore’. Questa giustizia appare in tutta la vita e la parola del Signore: è la bontà misericordiosa del Padre che ci appare nel Figlio. E la GS dice, al n. 77, che la “vera et nobilissima pacis ratio” è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra. Così sia, almeno io spero per la mia chiesa.”

La gabbia d’oro

Nel 1971 esce un disco che mi è tornato in mente in questi giorni: i progressivi Jethro Tull pubblicano Aqualung. Chitarre e il flauto di Ian Anderson dominano l’album. Il lato B del vinile si apre con My God, una canzone di denuncia nei confronti della Chiesa Anglicana per aver ingabbiato Gesù e aver creato un Dio diverso dal suo. La metto qui, a mo’ di monito…

Gente che avete fattoaqualung.jpg

L’avete chiuso nella Sua gabbia d’oro

L’avete piegato alla vostra religione

Lui che è risorto dalla tomba

Lui è il dio di niente

Se questo è tutto quello che riuscite a vedere

Voi siete il dio di tutto

E’ dentro voi e me

Quindi affidatevi a lui gentilmente

E non invocatelo per farvi salvare

Dai vostri onori sociali

E dai peccati ai quali siete soliti rinunciare

L’insanguinata Chiesa d’Inghilterra

Incatenata dalla storia

Richiede la vostra presenza terrena

Al vicariato per il tè

E la figura intagliata di tu-sai-chi

Con il suo crocifisso di plastica

L’ha messo a posto

Mi confonde sul chi e il dove e il perché

E il come prende i suoi calci

Confessando al peccato infinito

L’infinito lamento

Pregherai fino a Giovedì prossimo

Tutti gli dei che riesci a contare

L’ottavo sacramento

Non so se papa Francesco scriverà dei libri come i suoi due predecessori o emanerà delle encicliche, certo è che se qualcuno desidera conoscere il suo pensiero può ascoltare o leggere le omelie che ogni giorno sta dicendo nella chiesa di Santa Marta alla messa del mattino. Ieri mattina ha esemplificato in maniera molto semplice il concetto di fede: “Ricordo una volta, uscendo nella città di Salta, la Festa patronale, c’era una signora umile che chiedeva a un prete la benedizione. Il sacerdote le diceva: ‘Bene, ma signora lei è stata alla Messa!’ e le ha spiegato tutta la teologia della benedizione nella Messa. Lo ha fatto bene … ‘Ah, grazie padre; sì padre’, diceva la signora. Quando il prete se ne è andato, la signora si rivolge ad un altro prete: ‘Mi dia la benedizione!’. E tutte queste parole non sono entrate, perché lei aveva un’altra necessità: la necessità di essere toccata dal Signore. Quella è la fede che troviamo sempre e questa fede la suscita lo Spirito Santo. Noi dobbiamo facilitarla, farla crescere, aiutarla a crescere”.

E a proposito del facilitare la fede ha fatto una serie di esempi che lasciano capire molto bene il cambio di atteggiamento che si sta verificando all’interno della Chiesa:

Roma0065fb.jpgIl Papa cita poi l’episodio del cieco di Gerico, rimproverato dai discepoli perché gridava verso il Signore: “Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me!”:

Il Vangelo dice che volevano che non gridasse, volevano che non gridasse e lui gridava di più, perché? Perché aveva fede in Gesù! Lo Spirito Santo aveva messo la fede nel suo cuore. E loro dicevano: ‘No, non si può! Al Signore non si grida. Il protocollo non lo permette. E’ la seconda Persona della Trinità! Guarda cosa fai…’ come se dicessero quello, no?”.

E pensa all’atteggiamento di tanti cristiani:

Pensiamo ai cristiani buoni, con buona volontà; pensiamo al segretario della parrocchia, una segretaria della parrocchia… ‘Buonasera, buongiorno, noi due – fidanzato e fidanzata – vogliamo sposarci’. E invece di dire: ‘Ma che bello!’. Dicono: ‘Ah, benissimo, accomodatevi. Se voi volete la Messa, costa tanto…’. Questi, invece di ricevere una accoglienza buona – ‘E’ cosa buona sposarsi!’ – ricevono questo: ‘Avete il certificato di Battesimo, tutto a posto…’. E trovano una porta chiusa. Quando questo cristiano e questa cristiana ha la possibilità di aprire una porta, ringraziando Dio per questo fatto di un nuovo matrimonio… Siamo tante volte controllori della fede, invece di diventare facilitatori della fede della gente”. E’ una tentazione che c’è da sempre – spiega il Papa – che è quella “di impadronirci, di appropriarci un po’ del Signore”. E racconta un altro episodio:

Pensate a una ragazza madre, che va in chiesa, in parrocchia e al segretario: ‘Voglio battezzare il bambino’. E poi questo cristiano, questa cristiana le dice: ‘No, tu non puoi perché non sei sposata!’. Ma guardi, che questa ragazza che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua gravidanza e non rinviare suo figlio al mittente, cosa trova? Una porta chiusa! Questo non è un buon zelo! Allontana dal Signore! Non apre le porte! E così quando noi siamo su questa strada, in questo atteggiamento, noi non facciamo bene alle persone, alla gente, al Popolo di Dio. Ma Gesù ha istituito sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento della dogana pastorale!”.

Gesù si indigna quando vede queste cose” – sottolinea il Papa – perché chi soffre è “il suo popolo fedele, la gente che Lui ama tanto”. “Pensiamo oggi a Gesù, che sempre vuole che tutti ci avviciniamo a Lui; pensiamo al Santo Popolo di Dio, un popolo semplice, che vuole avvicinarsi a Gesù; e pensiamo a tanti cristiani di buona volontà che sbagliano e che invece di aprire una porta la chiudono … E chiediamo al Signore che tutti quelli che si avvicinano alla Chiesa trovino le porte aperte, trovino le porte aperte, aperte per incontrare questo amore di Gesù. Chiediamo questa grazia”.

Molto ora si affrettano a dire: “E’ sempre stata così all’interno della Chiesa, si son sempre dette queste cose”. Proprio no.

Quel tocco ai piedi

Solomon. Lavanda dei piedi di Pietro.jpg

Oggi, per i cattolici, è il giorno dell’ultima cena, nel corso della quale Gesù fa uno di quei gesti che sbaragliano le carte sul tavolo. Mi piace chiamarlo il gesto del tocco: è il chinarsi a lavare i piedi degli apostoli, a prendere in mano le propaggini del corpo umano, quelle che stanno a contatto con la terra, quelle più lontane dal cielo. E allora suggerisco la riflessione di Francesca Lozito, una giornalista che sto cominciando a conoscere su fb e che ha scritto queste parole molto significative su Vinonuovo:

“Ci vedete da lì. Non potete toccarci, perché siamo separati da uno schermo. Ma a chilometri di distanza ci vedete da lì.

Siamo lo scarto, siamo quelli venuti male. I disgraziati della terra. Quelli che magari ci staranno meno di voi. Sulla terra.

Siamo disabili per i politicaly correct. Storpi, ciechi, malati di cancro. Distrofici, senza gambe o senza braccia.

Ci vedete da lì, e sarebbe un vedere e basta. Un dolore esibito dice qualcuno, per non toccarlo con mano.

Invece quest’uomo vestito di bianco ci tocca.

Non ci benedice in modo freddo e formale. No. Sentiamo la sua carezza tenera, da papà.

A volte ci sembra quasi che sia lui ad avere bisogno di noi.

E non è un bisogno di comodo, no. Non ci usa, non ci cerca per far vedere quanto e bravo. Non ne ha bisogno.

Il tocco dell’uomo vestito di bianco è una storia lontana.

È l’amore che sta lì, proprio dove tutto ti farebbe dire il contrario. L’amore che vince dove sei autorizzato a dire «perché a me, perché io».

È Giobbe.

È noi.

Ci portano in questa piazza da ogni parte del mondo. E «quella bianca tenerezza» non ci farà guarire nel corpo, ma renderà più lieve il nostro passaggio sulla terra degli uomini. E meno pesante il giogo dei nostri cari.

Ma nelle vostre vite non possiamo rimanere solo un passaggio sullo schermo.

L’uomo vestito di bianco, voi non lo capite ancora, ma vi sta facendo un invito. Vi sta dando una opportunità. Sta a voi coglierla.

Aprite il vostro cuore, allargate le porte di ingresso delle vostre parrocchie. Smettetela di perdere tempo in vuoti formalismi, in una fredda cultura del fare. Cambiate il linguaggio. Abbandonatevi a gesti di tenerezza.

Lasciate entrare anche noi. Toccateci. Senza timore.

Perché non vi spaventi il pianto che sgorga dai vostri occhi tutte le volte che vedete quest’uomo farci una carezza: è solo l’umano bisogno, che per troppo tempo avete nascosto anche a voi stessi, di abbandonare le tante parole, troppo spesso inutili, che abbiamo detto sul dolore. È il bisogno di sentire prima di dire.

Il bisogno di vivere.”

Vi collego una vecchissima canzone, con la speranza che nessuno debba sentire la voglia di andare via di là per non aver trovato la carezza e la presenza di cui aveva bisogno:

“Quando tornava mio padre sentivo le voci, dimenticavo i miei giochi e correvo lì

mi nascondevo nell’ombra del grande giardino e lo sfidavo a cercarmi: io sono qui

Poi mi mettevano a letto finita la cena lei mi spegneva la luce ed andava via

io rimanevo da solo ed avevo paura ma non chiedevo a nessuno: rimani un po’.

Non so più il sapore che ha quella speranza che sentivo nascere in me

Non so più se mi manca di più quella carezza della sera

o quella voglia di avventura voglia di andare via di là

Quelle giornate d’autunno sembravano eterne quando chiedevo a mia madre dov’eri tu

io non capivo cos’era quell’ombra negli occhi e cominciavo a pensare: mi manchi tu

Non so più il sapore che ha quella speranza che sentivo nascere in me

Non so più se mi manca di più quella carezza della sera”

o quella voglia di avventura voglia di andare via”

(Quella carezza della sera, New Trolls)

Ciao

14009985_14000134_magdiallamdentro.jpgLeggo, in realtà con poco stupore, sul Corriere della Sera che Magdi Cristiano Allam ha deciso di abbandonare la Chiesa, ritenuta troppo morbida nei confronti dell’Islam. Su di lui avevo già scritto nel 2008 citando la Nostra Aetate. Con questo post desidero semplicemente avvisarlo di non avvicinarsi al “pericoloso” Buddhismo, in quanto il Dalai Lama afferma: “A coloro che affermano che il Dalai Lama sta perdendo il contatto con la realtà nel predicare questo ideale di amore incondizionato, rispondo di cominciare a sperimentarlo. Scopriranno che quando si varcano i confini di un ristretto interesse personale i nostri cuori si riempiono di forza. La pace e la gioia diventano i nostri compagni. Ogni barriera si rompe”. Resto tuttavia poco speranzoso, visto che Magdi Allam afferma: “Continuerò a credere nel Gesù che ho sempre amato e a identificarmi orgogliosamente con il cristianesimo come la civiltà che più di altre avvicina l’uomo al Dio che ha scelto di diventare uomo”. Visti i presupposti mi chiedo chissà quale Tenzin Gyatso sarebbe in grado di conoscere!

Custodi con tenerezza e speranza

Dal giorno della rinuncia di Benedetto XVI (11 febbraio), in classe abbiamo parlato delleBFuDmOeCAAASidz.jpg large.jpg motivazioni di Ratzinger, del conclave, dei papabili… e la scorsa settimana, prima dell’elezione avevamo concordato che ora, dopo esserci informati consapevolmente, saremmo tornati al “programma normale”. Fatto sta che entro nelle classi e mi si chiede: “Prof, parliamo un attimo del papa?”. E per vagliare e saggiare l’interesse ogni tanto provo a buttare lì: “Beh, ne stanno parlando tutti, accendete la tv o leggete un quotidiano e c’è scritto tutto”. Niente da fare, gli studenti richiedono la mediazione del prof. Oppure quelli che erano in viaggio d’istruzione: “Prof, eravamo via, ci racconti bene quello che è successo”. Allora cerco di fare un’altra piccola “mediazione”… Immagino che non tutti i miei studienti abbiano la voglia o la pazienza di leggersi l’intero sermone della messa di oggi (per quanto non sia lungo). E allora gli do una sforbiciata (piccola in realtà, non so cosa eliminare!) ed evidenzio alcuni passi. Qui trovate l’intero: si parla di custodia, di attenzione e amore per le persone, i famigliari, gli amici, e gli sconosciuti che hanno bisogno, e per il creato; si parla di speranza (e l’eco del santo di Assisi è forte).

“Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa…

Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e con amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita… Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio…

In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato! La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo.

E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!

Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!

E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!

Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? … Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli…

Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza!…”

Guarda caso

puntualita_discos.jpgGuarda caso il 19 marzo, giorno della messa di inizio pontificato, il Corriere pubblica il libro “La Chiesa di Francesco”… Guarda caso il libro è di Vittorio Messori, puntualissimo…  Avevo scritto che mi mette tristezza quello che scrive quest’uomo; aggiungo ora che mi mette tristezza quello che fa quest’uomo; spero di non arrivare ad aggiungere altro.

Francesco

Bergoglio.jpgHo atteso le ore piccole della notte per stendere sulla pagina bianca del pc le parole che cercano di dar voce a quello che ho sentito e pensato stasera in modo profondamente personale. Non sempre lascio spazio sul blog alle intime riflessioni, soprattutto ai miei pensieri di fede. Come tanti stasera ero davanti alla tv. Al nome Bergoglio la testa è andata alla lezione fatta in classe sui papabili, quando ho raccontato del conclave del 2005 per presentare questo cardinale argentino e quando ho detto il mio parere sulla difficoltà della sua elezione vista l’età. Pertanto in me c’è stata la sorpresa innanzitutto. Poi è venuto il momento del nome scelto: Francesco. E questa è stata la volta della meraviglia. E mi sono goduto gli attimi, fatti di tante istantanee.

Ho visto un papa non giovane ma fresco e semplice, inizialmente imbarazzato, quasi ingessato che ha salutato con un semplice “Fratelli e sorelle buonasera” e che poi si è sciolto; e ho notato che non ha indossato la mantelletta rossa.

Ho visto il primo papa provenire dal continente sudamericano, “sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo”, e ho visto in questo un segno di apertura alla chiesa universale.

Ho visto un papa, ma soprattutto un vescovo: e vi ho visto un segno di collegialità e vi ho vista esaudita la sete di un pastore da parte della gente.

Ho visto un papa che vuole essere in cammino insieme al suo popolo per percorre le strade della fratellanza e dell’amore.

Ho sentito un papa parlare di evangelizzazione e ho pensato che se ciò significa far innamorare la gente di Gesù Cristo il cammino sarà bello.

Ho visto un papa che ha chiesto, prima di benedire i fedeli, che i fedeli pregassero Dio per lui: “Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica. La preghiera del popolo che chieda la benedizione per il suo vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me”. E l’ho visto chinarsi in silenzio.

Alla fine l’ho visto chiedere nuovamente il microfono perché non voleva andarsene senza salutare “Vi lascio, grazie tante dell’accoglienza, e a domani, a presto, ci vediamo presto, domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo”.

Ho ripensato al nome scelto, ho pensato ad Assisi e ho rivisto la chiesa di san Damiano, l’eremo delle carceri, la porziuncola…

Mi sono guardato dentro e vi ho letto la speranza, che per un credente significa resurrezione.

Badabum!

Badabum! Perché sono parole che fanno rumore queste di don Aldo Antonelli, parroco ad Antrosano e coordinatore di “Libera” per la Provincia dell’Aquila. Sono prese da L’Huffington Post.

175377_2925984_PULIZIABAS_12223333_medium.jpg“Amarezza e rabbia, indignazione e disappunto. Disgusto e una voglia matta di rivolta. Il vocabolario non è sufficiente a tradurre tutti i sentimenti che, in negativo, travagliano l’animo di un parroco di periferia. Le cronache di questi giorni hanno dell’incredibile che rasentano l’assurdo. Ormai è di dominio pubblico: l’aria mefitica della corruzione, dei giochi di potere, di pratiche persino criminali, di degrado morale, di malcostume appesta i palazzi vaticani e richiede urgente un’opera di disinfestazione e di pulizia generale, nella presa di coscienza e nella trasparenza generale. Aprire le finestre e cambiare aria! E invece cosa succede? Ci si chiude a riccio: si pone sotto secreto la relazione dei tre saggi, si schermano i telefoni, si oscurano perfino le finestre della Cappella Sistina, si perquisiscono i Cardinali, e si minaccia addirittura la scomunica a chi volesse twittare con l’esterno. La “città posta sul monte”, perché sia visibile a tutti e a tutti faccia luce, diventa un bunker sotterraneo più adatto ai topi che a persone libere e risorte. I “Pastori” che dovrebbero guidare il popolo in un cammino di crescita e di responsabilità vengono rinchiusi, chiavistellati (“cum-clave” da cui la parola “Conclave”), come scolaretti indisciplinati e incapaci, da tenere a bada.

Agli inizi del terzo millennio, in un mondo adulto ed emancipato, la chiesa continua imperterrita e mantenere una struttura d’altri tempi e che oggi non ha più alcun senso, anzi, si è invertita nel suo controsenso. Il conclave è nato e si è strutturato tale per tenere i cardinali indipendenti e liberi dai condizionamenti e dalle intrusioni del potere invadente e prepotente dei Re e degli Imperatori. Oggi questa stessa struttura invece che assicurare libertà al collegio cardinalizio, tiene i cardinali sotto tutela, come fossero degli incapaci; li tiene prigionieri.

Siamo agli antipodi di quella chiesa-comunità cui il Maestro aveva ordinato il linguaggio della schiettezza: «Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Matteo 5,37). E’ stato censurato anche il Vangelo dalla sue narrazioni scomode che nessuno più ricorda ed è stato messo sotto silenzio perfino il suo Maestro: «Non abbiate paura. Nulla v’è di coperto che non debba essere svelato e nulla di nascosto che non debba essere conosciuto. Ciò che dico a voi nelle tenebre, proclamatelo nella luce; ciò che udite nell’orecchio, annunciatelo sui tetti» (Matteo 10, 26-27). «C’è un tragico paradosso in cui si dibatte la coscienza cattolica: l’istituzione per merito della quale ancora oggi nel mondo continua a risuonare il messaggio di liberazione di Gesù è governata nel suo vertice da una logica che rispecchia proprio quel potere contro cui Gesù lottò fino ad essere ucciso. Questa è la condizione paradossale e a volte tragica dell’essere oggi, e non solo oggi, un cattolico». Così scriveva il teologo Vito Mancuso nel suo ultimo libro Obbedienza e Libertà. «Il paradosso, lo precedeva Ortensio da Spinedoli su Adista Documenti n. 47/2011, è che le moderne società civili si reggono da due secoli sui principi evangelici (libertà, uguaglianza e fraternità), riscoperte da “senza-Dio”, mentre la Chiesa, che proviene dal vangelo, continua a poggiarsi sui canoni dei regimi assolutistici che il vangelo condanna». Nella Chiesa la diplomazia double-face si è mangiata la trasparenza e la paura ha esiliato il coraggio. In questi ultimi anni si è fatto di tutto per riportare indietro le lancette dell’orologio: laici imbavagliati, teologi senza tutela, vescovi in libertà vigilata, iniziative locali bloccate, centralismo forsennato. Le conseguenze catastrofiche di questa “politica” neoconservatrice sono davanti gli occhi di tutti: l’atmosfera è pesante, carica di tensioni, colma di risentimento. Il grande slancio spirituale si è spento, frenato dagli interdetti, paralizzato dai giuramenti, polarizzato dal grandi scenografie e dalle lussuose liturgie.

La liturgia ha cancellato la profezia. Dai non più sacri palazzi si vorrebbe i cristiani come un popolo di “colli storti”, per dirla con la felice espressione del grande Bernanos. Ma così non è…; e non sarà! Molti sono coloro che quotidianamente amano e lottano in e per una Chiesa Altra, così come emergeva dal Vaticano II: una Chiesa più attenta a lavare i piedi dell’umanità che non preoccupata di curare le vesti che porta addosso.”

Ricapitolando

Un articolo di Luca Rolandi per ricapitolare quel che ci aspetta.

sede vacante.jpg“E’ iniziato il periodo di interregno. E’ naturalmente diverso dal solito, perché dopo oltre 650 anni, con un Papa ancora in vita, ma solo emerito, dopo la clamorosa rinuncia. In ogni caso ora «dovrà essere convocato, da coloro a cui compete» il Conclave per l’elezione del nuovo Papa. Dalle 20 di giovedì 28 febbraio, oltre al pontefice, hanno cessato l’esercizio dei loro uffici il segretario di Stato, i prefetti, i presidenti e i membri di tutti i dicasteri curiali. Mantengono l’incarico solo il penitenziere maggiore – oggi il cardinale Manuel Monteiro de Castro -, il cardinal vicario per la diocesi di Roma (Agostino Vallini) e il cardinale arciprete di San Pietro (Angelo Comastri). Non decade dall’ufficio neanche il Camerlengo, il cardinale Tarcisio Bertone, che ha sigillato l’appartamento pontificio, preso possesso del Palazzo Apostolico, e ora cura e amministra, col consenso dei cardinali nei casi più gravi, i beni e i diritti temporali della Santa Sede.

Lunedì 4 marzo alle 9.30 è convocata la prima Congregazione generale. I cardinali cominceranno a riunirsi nell’aula nuova del Sinodo per le Congregazioni generali – per le consultazioni pre-conclave. A questa assise partecipano tutti e 209 i porporati che compongono il collegio cardinalizio sotto la presidenza del cardinale decano, Angelo Sodano. Saranno loro a decidere il giorno di avvio del conclave, come stabilito dallo stesso Benedetto XVI nel recentissimo Motu proprio Norma nonnullas del 22 febbraio scorso. Il giorno dell’inizio del Conclave, presumibilmente lunedì 11 marzo, i cardinali saranno attesi al mattino nella basilica di San Pietro per la celebrazione della Missa Pro Eligendo Romano Pontifice presieduta dal decano. Di pomeriggio, solo gli elettori in abito corale si recheranno in processione cantando il Veni Creator dalla cappella paolina verso la Cappella Sistina allestita per l’occasione e “bonificata” da qualsiasi mezzo audiovisivo e tecnologico. Al Conclave possono entrare solo i cardinali con meno di ottant’anni: in tutto 117. Al momento dovrebbero essere 115 i confermati. Il cardinale Sodano, avendo superato questo limite d’età, non vi potrà partecipare come non potrà farlo il vice-decano Roger Etchegaray. In conclave svolgerà quindi il compito di “decano” il più anziano dei porporati dell’ordine dei vescovi, Giovanni Battista Re.

“Conclave” viene dal latino “cum clave” per indicare che i cardinali resteranno chiusi a chiave nella cappella Sistina finché non sarà eletto il successore di Benedetto XVI. Il voto sarà a scrutinio segreto, e i cardinali non possono avere con sé telefonini, tv, radio né portatili. Innanzi tutto il cardinale diacono sorteggia tre Scrutatori, tre Revisori e tre Infirmarii (ossia gli incaricati a raccogliere i voti di eventuali “infermi”). I Cerimonieri consegnano almeno due o tre schede bianche a ogni elettore, poi abbandonano la Sistina. Ogni cardinale compila la scheda, la piega a metà e, tenendola sollevata, si reca all’altare. È qui che giura di aver votato per «colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto» poi depone la scheda su un piatto e la fa scivolare nel calice-urna. Terminato il voto, gli scrutatori verificano che le schede corrispondano al numero degli elettori passandole da un calice a un altro. Quindi si procede allo scrutinio davanti all’altare. I Revisori controllano e solo in seguito le schede vengono bruciate. Una fumata nera dal comignolo della cappella Sistina indica che non è stata presa una decisione. Si vota a oltranza: per l’elezione del Papa servono i due terzi dei voti (limite reintrodotto da Benedetto XVI nel 2007).

Durante il periodo delle votazioni, che si tengono appunto nella cappella Sistina, gli elettori risiedono nella Domus Sanctae Marthae, un edificio moderno costruito proprio per questo scopo. Fra un luogo e l’altro i porporati possono spostarsi in pullman o a piedi, posto che non possono in alcun modo essere avvicinati da estranei. A partire dal 34esimo scrutinio si va al ballottaggio tra i due cardinali più votati, ma sempre con la maggioranza dei due terzi. Quando finalmente un candidato raggiunge tale risultato, dal comignolo della cappella Sistina esce una fumata bianca: insieme alle campane è il segnale che il Papa è stato eletto. La folla attende trepidante in piazza San Pietro mentre il nuovo pontefice viene vestito per essere presentato ai fedeli. Il cardinale protodiacono – incarico ricoperto dal francese Jean-Louis Tauran – darà a quel punto lo storico annuncio: «Habemus Papam!». Sarà allora che il nuovo pontefice si affaccerà dalla loggia su piazza San Pietro.”

Un adeguamento alle esigenze attuali

Mi è capitato spesso di citare sul blog Asianews. Ecco che il suo direttore, Bernardo Cervellera, si pronuncia sulla Chiesa, intervistato qui da Giacomo Galeazzi.

«E’ arrivato il momento per una riforma che snellisca la Curia romana e la metta di più al servizio della Chiesa di base, quella a contatto con la gente», afferma padre Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews, l’agenzia del Pontificio istituto missioni estere (Pime). «Troppi enti inutili, creati uno o due secoli fa, che ostacolano l’evangelizzazione. Serve un adeguamento alle esigenze attuali».

Chi ha bloccato la riforma?

«Alcuni organismi curiali tendono all’autoconservazione. Ci sono settori della burocrazia che frenano per mantenere ambiti di potere e di influenza. Quand’era cardinale, ho avuto modo di discutere con Ratzinger degli impedimenti alla missione della Chiesa. Tanti papi hanno cercato invano di riformare la Curia. C’è bisogno di un raccordo più forte tra centro e periferia, tra il Pontefice e i vescovi diocesani che operano sul territorio. I cardinali si incontrano varie volte all’anno e hanno una base comune di problemi condivisi”.

Quali sono le priorità?

«Maggior cura nella scelta delle persone. E’ fondamentale dar voce agli episcopati nazionali secondo una percezione mondiale delle questioni della Chiesa. Il cardinale Zen ripete spesso che la sua veste è rossa del sangue dei martiri cinesi. Conta la qualità di chi elegge il Papa, la sua santità e la voglia di testimoniare Cristo. Ma anche chi è in discussione per sue condotte, pur arrancando, può farsi strumento della volontà divina. I cardinali devono essere i primi testimoni. Alessandro VI umanamente era un delinquente ma da Papa ha fatto cose molto importanti: ha scongiurato una guerra tra Spagna e Portogallo, ha evangelizzato le Americhe invece di colonizzarle. Le cose della Chiesa non vanno guardate secondo categorie solo mondane. Dio parla anche attraverso le debolezze degli uomini».

È l’ora di un Papa extra-europeo?

«Il punto non è la nazionalità, ma la visione globale. È vero che l’economia e la politica si stanno spostando verso l’Oriente. Però va individuatala persona più santa possibile che sappia testimoniare la fede e guidare la Chiesa. Non conta che sia europeo, africano o asiatico. La Chiesa è l’organismo più internazionale che esista. Ogni Pontefice ha la sua personalità. Tutti dicevano che Benedetto non fosse comunicativo come Wojtyla. E invece nelle catechesi è stato seguito da folle. Ci sono modi di comunicare meno facili e spettacolari ».

Sarà un conclave «global»?

«La Chiesa è cattolica perché Cristo abbraccia nella sua missione di salvezza tutta l’umanità. Papa Ratzinger ha riaffermato l’universalità e la capacità della fede di entrare in tutte le culture del mondo, operando una netta separazione fra il “regno di Dio” e ogni regno terreno: non armi, violenza, potere, ma testimonianza della verità e dell’amore. Molti conclavisti rappresentano Chiese che subiscono persecuzione o si scontrano con poteri fondamentalisti, mafiosi, politici, militari. Per esempio, dalla Nigeria, coi massacri nelle chiese, al Libano scosso dalla guerra civile in Siria, dalle Filippine, dove da anni si cerca di imporre il controllo sulle nascite, all’India dove la minoranza cristiana è spesso oggetto di emarginazione e violenza da parte di gruppi nazionalisti indù».

Un papabile in saio e sandali

Prendo da Vatican Insider un articolo di Andrea Tornielli.

4277128451_ebd99b5ebc.jpg“C’è un «papabile» che ha già raggiunto Roma da qualche giorno. Indossa il saio dei cappuccini, il suo abito religioso, ha una figura imponente. È un uomo di preghiera, determinato, chiamato dieci anni fa a compiere un miracolo considerato impossibile: ridare credibilità alla Chiesa di Boston, sgretolata dallo scandalo pedofilia che aveva costretto alle dimissioni il cardinale Bernard Law. Ha un nome irlandese doc, Patrick O’Malley, è stato missionario nelle Isole Vergini, ha lavorato molto nell’assistenza alle comunità dei latinos statunitensi, è in prima fila nella difesa della vita. Il cardinale cappuccino non è un candidato che entrerà in conclave sostenuto da un consistente pacchetto di voti, come potrebbe invece accadere, con buona probabilità, per il canadese Marc Ouellet. È piuttosto un outsider, un candidato a sorpresa, su cui potrebbero puntare gli elettori dopo uno stallo nelle votazioni. L’arcivescovo di Boston unisce in qualche modo nella sua persona l’Europa e le due Americhe. Quando arrivò a Boston, un tempo roccaforte del cattolicesimo Usa, la diocesi era in ginocchio. I casi di molestie insabbiati, con i preti pedofili spostati da una parrocchia a un’altra, lasciati in condizione di ricominciare i loro abusi su nuove vittime. Una situazione disastrosa: calo di vocazioni, di frequenza alla messa, di credibilità. L’arcivescovo è arrivato senza clamore, con i sandali da frate. Ha cominciato ad ascoltare, ma anche a decidere. Ha avviato un cammino di purificazione e di risanamento, e ora la situazione di dieci anni fa è solo un brutto ricordo. I fedeli hanno ricominciato a tornare in chiesa, le vocazioni sono riprese.

Nato in Ohio, nel 1944, cresciuto in Pennsylvania, ha preso i voti a ventuno anni, entrando nell’ordine dei Frati Minori Cappuccini. Viene ordinato sacerdote nel 1970 e subito trasferito a Washington, nella capitale federale, dove insegna letteratura spagnola e portoghese all’università. Tre anni dopo dà vita a un’organizzazione di assistenza umanitaria per i latinos, i profughi e immigrati dell’America Latina, il «Centro Católico Hispano». Nel 1984 diventa vescovo nella diocesi di Saint Thomas, nelle Isole Vergini Americane. Nel 1992 è promosso a Fall River, in Massachusetts e nel 2002 passa alla guida della diocesi di Palm Beach, in Florida. Soltanto un anno dopo, Giovanni Paolo II lo invia a Boston. Si ritrova a dover fronteggiare una gran quantità di richieste di risarcimento da parte delle vittime degli abusi, e per pagarle mette in vendita l’episcopio, ritirandosi a vivere in una cella monastica. Combatte fino in fondo la pedofilia clericale e soprattutto ascolta le vittime. È lui ad accompagnarne alcune a Washington, nell’aprile 2008, all’incontro commovente con Benedetto XVI. È lui a consegnare nelle mani del Papa l’elenco contenente soltanto i nomi, senza i cognomi, di circa mille persone che hanno subito violenze sessuali da parte di esponenti del clero negli ultimi decenni, perché Ratzinger possa ricordarli nelle sue preghiere. È ancora lui a criticare l’entourage wojtyliano per la gestione del fenomeno negli ultimi anni del pontificato, quando Giovanni Paolo II era ormai ammalato.

Papa Ratzinger lo ha creato cardinale e lo ha annoverato tra i visitatori apostolici inviati in Irlanda per fare un rapporto su come le diocesi hanno trattato i casi di pedofilia. O’Malley, amico di molti porporati, dall’italiano Scola al latinoamericano Maradiaga, è sempre stato in prima fila anche nella difesa della vita e nella lotta all’aborto, e ha benedetto le manifestazioni dei cattolici contrari ai matrimoni gay. Cardinale dalla spiritualità profonda e dallo spiccato umorismo, ha dimostrato sul campo quella capacità di governo che molti elettori oggi ritengono indispensabile per il nuovo Papa chiamato a rimettere ordine nella Curia. Se i cardinali lo scegliessero, sarebbe il primo Papa con la barba dopo Innocenzo XII, morto 213 anni fa.”