Le reazioni dei tradizionalisti

In questo articolo Snadro Magister si chiede: Come hanno reagito alle dimissioni di Benedetto XVI i più risoluti difensori della tradizione cattolica?

Vaticano-420x278.jpg“Lo storico della Chiesa Roberto de Mattei ha commentato la decisione di papa Joseph Ratzinger con una nota sul sito web da lui diretto “Corrispondenza Romana”: De Mattei non contesta la legittimità della rinuncia di Benedetto XVI al pontificato. Riconosce che “è contemplata dal diritto canonico e si è storicamente verificata nei secoli”. E dice che è anche fondata teologicamente, perché pone termine non alla potestà di ordine conferita dal sacramento, che è indelebile, ma alla sola potestà di giurisdizione. Dal punto di vista storico, però, de Mattei sostiene che la rinuncia di papa Joseph Ratzinger “appare in assoluta discontinuità con la tradizione e la prassi della Chiesa”: “Non si può fare un paragone né con Celestino V, che si dimise dopo essere stato strappato a forza dalla sua cella eremitica, né con Gregorio XII, che fu costretto a sua volta a rinunciare per risolvere la gravissima questione del Grande Scisma d’Occidente. Si trattava di casi di eccezione. Ma qual è l’eccezione nel gesto di Benedetto XVI? La ragione ufficiale, scolpita nelle sue parole dell’11 febbraio, esprime, più che l’eccezione, la normalità”. È la “normalità” che coinciderebbe semplicemente con “il vigore sia del corpo, sia dell’animo”. Ma allora “c’è da chiedersi”: “In duemila anni di storia, quanti sono i papi che hanno regnato in buona salute e non hanno avvertito il declino delle forze e non hanno sofferto per malattie e prove morali di ogni genere? Il benessere fisico non è mai stato un criterio di governo della Chiesa. Lo sarà a partire da Benedetto XVI?”.

Se sarà così – scrive de Mattei – il gesto di Benedetto XVI assume una portata “non semplicemente innovativa, ma rivoluzionaria”: “L’immagine dell’istituzione pontificia, agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo, sarebbe infatti spogliata della sua sacralità per essere consegnata ai criteri di giudizio della modernità”. E sarebbe così raggiunto l’obiettivo rivendicato più volte da Hans Küng e da altri teologi progressisti: quello di ridurre il papa “a presidente di un consiglio di amministrazione, ad un ruolo puramente arbitrale, con a fianco un sinodo permanente di vescovi, con poteri deliberativi”.

Molto più radicali sono le conclusioni a cui arriva il filosofo e teologo Enrico Maria Radaelli. Egli ha argomentato le sue critiche al gesto di Benedetto XVI in una nota di 13 pagine, pubblicata sul suo sito web: “Perché papa Ratzinger-Benedetto XVI dovrebbe ritirare le sue dimissioni. Non è ancora il tempo di un nuovo papa perché sarebbe quello di un antipapa”. Radaelli muove dalle parole di Gesù risorto all’apostolo Pietro, nel capitolo 21 del vangelo di Giovanni. Ne ricava che “la croce è lo status di ogni cristiano” e quindi “ribellarsi al proprio status, rigettare una grazia ricevuta, parrebbe per un cristiano colpa grave contro la virtù della speranza, contro la grazia e contro il valore soprannaturale dell’accettazione della propria condizione umana, tanto più grave se la condizione ricopre ruoli ‘in sacris’, come è la condizione, di tutte la più eminente, di papa”. Come il Pietro del “Quo vadis” che fuggendo da Roma si imbatte in Gesù che va a morire al suo posto, così “succede quando un papa (ma anche l’ultimo dei fedeli) fugge dal luogo dove l’ha spinto Cristo a penare, a soffrire, forse a morire: succede che Cristo va a penare, a soffrire, forse anche morire, sì, al posto suo”. È vero – riconosce Radaelli – che il canone 333 del codice di diritto canonico stabilisce che un papa ha il potere di dimettersi, “ma io dico che tale potere non l’ha neanche il papa, perché sarebbe l’esercizio di un potere assoluto che contrasta con l’essere di se stesso medesimo”. Ed “è impossibile persino a Dio” non essere quel che si è. Quindi le dimissioni di un papa – prosegue –, anche se permesse legalmente, “non sono permesse metafisicamente e misticamente, perché nella metafisica sono legate al nodo dell’essere, che non permette che una cosa contemporaneamente sia e non sia, e nella mistica sono legate al nodo del Corpo mistico che è la Chiesa, per il quale la vicarietà assunta [dal successore di Pietro] con il giuramento dell’elezione pone l’essere dell’eletto su un piano ontologico sostanzialmente diverso da quello lasciato: sul piano più metafisicamente e spiritualmente più alto di vicario di Cristo”. E ancora: “Non considerare questi fatti è a mio parere un colpo micidiale al dogma. Dimissionarsi è perdere il nome universale di Pietro e regredire nell’essere privato di Simone, ma ciò non può darsi, perché il nome di Pietro, di Cephas, di Roccia, è dato su un piano divino a un uomo che, ricevendolo, non fa più solo se stesso, ma ‘fa Chiesa’. Senza contare che non potendo in realtà dimettersi il papa autodimessosi, il papa subentrante, suo malgrado, in realtà non sarà che un antipapa. E regnante sarà lui, l’antipapa, non il vero papa”.

Conclude Radaelli: “La considerazione finale è dunque questa: papa Joseph Ratzinger-Benedetto XVI non dovrebbe dimettersi, ma dovrebbe recedere da tale sua suprema decisione riconoscendone il carattere metafisicamente e misticamente inattuabile, e così anche legalmente inconsistente. Non le dimissioni, ma il loro ritiro diventa un atto di soprannaturale coraggio, e Dio solo sa quanto la Chiesa abbia bisogno di un papa soprannaturalmente, e non umanamente, coraggioso. Un papa cui inneggino non i ‘liberal’ di tutta la terra, ma gli angeli di tutti i cieli. Un papa martire in più, giovane leoncello del Signore, porta più anime al cielo che cento papi dimissionati”.”

Un me di fronte al Tu

Col cuore decisamente più lieto del post precedente 🙂 pubblico questo articolo di Costantino Esposito scritto per Il sussidiario.

Benedetto-XVI-10-300x180.jpg“Di fronte alle tante reazioni e ai mille commenti sulla rinuncia di Benedetto XVI al ministero di Vescovo di Roma, letti e ascoltati in questi giorni, si ha come l’impressione che non sia affatto scontato riuscire a cogliere fino in fondo ciò che è veramente in gioco in questo gesto storico. E non mi riferisco soltanto a quelle evidenti letture di ordine politico-ideologico che, anche da posizioni diverse o opposte fra loro, hanno cercato letteralmente di “costruire” il senso di una notizia senza riuscire a comprenderla nei suoi fattori essenziali, quelli detti esplicitamente dal Papa nella sua stessa Dichiarazione. Come se si dovesse ad ogni costo trovare, come criterio di giudizio, una categoria sotto cui rubricare l’evento: dall’emergere della nascosta fragilità del potere papale alla fine della sua sacralità millenaria; dall’irrompere della modernità critica e della laicità dubbiosa nella dogmatica tradizione vaticana, al cambio di modello della funzione di Pietro nel governo della Chiesa. Fino all’enfasi posta su quello che da più parti si ritiene il punto più dolente e “segreto” della decisione, quello della grande solitudine di un uomo in mezzo alle divisioni e alle faide dei partiti curiali, un “sovrano” che non potrebbe contare neanche su alcuni dei suoi più stretti collaboratori, e che sceglie un gesto clamoroso per uscire dallo stallo.

E invece quel che è in gioco è qualcosa di diverso, cioè l’irrompere di un fatto che mette in discussione le nostre abituali categorie di giudizio – troppo ridotte in partenza per spiegare un evento di questa portata – e che al tempo stesso ci costringe a chiederci se vi sia un fattore che possa renderlo realmente intelligibile. Insomma, un capovolgimento di metodo: giudicare il fatto a partire da quello che esso mostra (a mio parere con evidenza), senza presumere o fingere di sapere già di cosa si tratti. Ritengo che questa sia una sfida non solo per gli osservatori “esterni” alla Chiesa, ma anche per i cristiani, e per un motivo semplice: che tale fattore determinante non è un presupposto che già si possegga o che si sia appreso una volta per tutte, ma ha la natura di “accadere”, di mostrare cioè la sua presenza e la sua verità nell’esperienza concreta di un uomo – del Papa come di ciascuno di noi. Questo fattore è il rapporto tra la nostra coscienza e la presenza misteriosa di Dio nella storia. Con un tono – ed un metodo – che sembrano presi direttamente dalle Confessioni di Agostino, Benedetto XVI afferma di «aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio» (conscientia mea iterum atque iterum coram Deo explorata), raggiungendo così la certezza (ad cognitionem certam perveni) di non avere più le forze per esercitare il ministero petrino e amministrare la Chiesa di fronte alle grandi sfide per la vita della fede. Il fattore decisivo è semplice ed evidente: la coscienza di me di fronte al Tu che mi chiama e insieme la presenza di questo Tu che riaccade nella domanda che diviene certezza. Proviamo allora a ribaltare la spiegazione abituale che vuole ricondurre a categorie politiche o ecclesiastiche (che in fondo rischiano di essere la stessa cosa) la scelta del Papa, e forse vedremo che tutti i fattori evidenziati dalle suddette analisi non solo non vengono annullati ma vengono illuminati. Allo stesso modo con cui lo sguardo di un uomo “preso” da un amore e una verità più grandi di sé è capace di accogliere, giudicare e attraversare positivamente tutte le condizioni di difficoltà che vive, addirittura vivendole come un’occasione di bene. È vero che in un certo senso l’immagine sacrale di un potere pontificio cristallizzato va in crisi, ma perché emerge in maniera affascinante la sua vera e irriducibile natura, l’esperienza di Cristo come ragione e affezione di sé e testimonianza al mondo intero (un’esperienza davvero “moderna”, verrebbe da dire). Come pure è vero che, secondo quanto lo stesso Benedetto XVI richiama di continuo, la Chiesa è attraversata da molte ferite, la maggior parte delle quali dovuta alle divisioni e all’orgoglio dei cristiani e addirittura dei loro capi, ma questa non è l’analisi impietosa del declino di un apparato, ma l’intelligente e appassionato riconoscimento del fattore di cui questa situazione grida il bisogno. Insomma, se questa “rinuncia” è davvero, come è stato detto, la notizia del secolo, si tratta di una notizia che riguarda niente di meno che la nostra coscienza che chiede il senso vero della vita e della nostra libertà nel riconoscerlo quando ci viene incontro. E soprattutto che la nostra incapacità non chiude necessariamente, ma può addirittura riaprire la partita. E sempre, per il Papa come per ciascuno di noi, un’esperienza del genere cambia il mondo.”

Il pensiero di Messori

Pubblico l’eterno articolo di Vittorio Messori sul Corriere con l’angoscia nel cuore, vaticano.jpgsensazione che sempre mi accompagna quando leggo le sue grigie parole: “Dicono che non sia stato in Sicilia, bensì a Torbole, sul lago di Garda, che a Goethe eruppero dall’anima i versi famosi: «Conosci tu la terra dove fioriscono i limoni (…) dove una mite brezza spira dal cielo luminoso?». Il mattino di lunedì 11 febbraio, pensavo un po’ ironico a Goethe – e a qualche talebano del «riscaldamento globale» -, guardando dalla finestra del mio studio, nella millenaria abbazia benedettina, la neve che scendeva sugli olivi, i cipressi, gli allori. Quello non era – per la Chiesa intera, tanto meno per me – un giorno come gli altri: la liturgia ricordava la prima apparizione della Vergine Immacolata, a Lourdes, a una piccola, miserabile analfabeta, figlia di un mugnaio fallito che aveva conosciuto anche la prigione. Il Dio del Vangelo frequenta volentieri i poveri, gli ignoranti, i disprezzati. Pregustavo la giornata tenuta sgombra da ogni impegno esterno, mi godevo la prospettiva della solitudine, fasciata per giunta dal silenzio del manto nevoso ormai alto. Contavo, infatti, di continuare – guarda caso – la stesura di un secondo libro su Lourdes, dopo quello su Bernadette pubblicato pochi mesi fa. Quale giornata più propizia di un 11 febbraio?

A un tratto, ecco il telefono portatile, il solo legame con il mondo che abbia ammesso nell’abbazia. Era mia moglie, sconcertata: «Sullo schermo tv è apparsa una scritta, dice che il Papa ha annunciato le dimissioni!». Lo confesso: sulle prime pensai alla goliardata di hacker che si fossero inseriti sulle frequenze televisive. Non ero solo nel dubitare: in quegli stessi momenti, nei cinque continenti, 117 cardinali, compresi i più vicini a Benedetto XVI, erano increduli davanti alla prospettiva di dover presto partecipare a un Conclave. Chiusi la chiamata, chiedendo ovviamente di informarmi in caso di improbabile conferma. Ma non ne ebbi bisogno: il cellulare cominciò a suonare e non cessò per un paio di giorni e di notti; quando (con fatica, la neve continuava a cadere) raggiunsi la casa, al trillo del portatile si aggiunse lo squillo incessante della linea fissa e il computer cominciò a scaricare senza sosta messaggi dal mondo intero che chiedevano interviste, interventi, articoli al cronista di cui era nota la lunga vicinanza a Joseph Ratzinger e la conoscenza, solidale, del suo pensiero.

Perché raccontare questo? Perché un cedimento alla testimonianza personale? Ma perché io stesso fui colpito dall’immediato, travolgente, planetario tsunami mediatico provocato da poche parole in latino lette a sorpresa, a voce bassa, quasi fossero di routine, da un vecchio, circondato da altri vecchi, in una ancor più vecchia e inaccessibile Sala vaticana. Un ciclone che raggiunse all’istante tutti; e me pure, isolato tra la neve in un angolo di provincia, sconvolgendomi ogni programma. Cliccando, nell’elenco dei «preferiti», sul sito delle maggiori testate del mondo, constatavo lo straordinario rilievo dato al Pope resigning from his charge , modulato in ogni lingua. È in casi come questi che si manifesta un paradosso singolare: alla diminuzione progressiva, in atto da decenni, del numero dei praticanti cattolici (almeno in Occidente) e della influenza sociale, morale, politica della Chiesa romana, sembra corrispondere un aumento dell’interesse per essa, per le sue vicende, per il suo Pontefice. Alla pari dei grandi media internazionali, anche le nuove testate nate sul web non rinunciano a un «vaticanista» o, almeno, a qualche esperto non tanto in questioni religiose ma, specificamente, cattoliche. Avrebbero avuto il successo che sappiamo i romanzetti di Dan Brown e dei suoi ormai infiniti imitatori se non avessero come sfondo la Chiesa, proprio quella che ha il suo centro in Vaticano? Una Chiesa, per giunta, non come residuato archeologico, come pittoresco set storico, sul tipo dell’abbazia di Umberto Eco, ma ben viva, presente, intrigante. Magari imbrogliona o, addirittura, assassina: ma, anche per questo, pericolosa perché ancora potente. L’immagine, anche se così spesso deformata, della Catholica et Apostolica affascina o inquieta l’immaginario dell’umanità. E il suo Capo in veste bianca è la sola autorità morale ascoltata ovunque e comunque: per accettare o per rifiutare, per amare o per detestare.”

Eppure, suona ormai beffardo l’aggettivo «cattolicissima», abbinato per secoli alla Spagna, all’Irlanda, all’Austria; e, tra un poco, forse non sarà più adatto neppure alla Polonia, che sembra volere recuperare a grandi passi il «ritardo» verso il laicismo liberal. Sono ormai multisale cinematografiche, outlet, studi di architetti, sale da gioco o, in qualche caso, sex-shop buona parte delle chiese dell’Olanda, un tempo per metà cattolica e famosa per il fervore devoto. Proprio nei Paesi Bassi vi è un gigantesco magazzino che è una sorta di segno concreto – ed è crudele, per un credente, visitarne il sito Internet – della débâcle cattolica, non solo nell’Europa nordica, ma nel continente intero: quei capannoni sono un ammasso (svenduto a prezzi stracciati, vista l’esiguità della domanda) del contenuto dei luoghi di culto abbandonati o trasformati. È un cumulo tragico di statue, di quadri edificanti, di Viae Crucis, di tabernacoli, di campane e campanelli, di vasche battesimali, di interi altari, di ostensori, di candelabri, di confessionali, di inginocchiatoi, di vetrate, di mobili da sagrestia, di abiti liturgici. A improbabili acquirenti si propongono persino le venerate reliquie di santi, racchiuse in artistiche cornici. Una discarica, insomma, per tutto ciò che fu «cattolico», dove i clienti pare siano scenografi cinematografici e teatrali o arredatori eccentrici in cerca del pezzo per qualche abbinamento blasfemo per bar, discoteche, garçonnière . Non a caso colui che ha avuto l’idea di quel deposito ha scelto un nome latino per il suo commercio: Fluminalis. Come un fiume, cioè, che porta via i detriti del Cattolicesimo. Anche se resta da chiedersi se si tratta davvero della fine del o di un Cattolicesimo; del congedo di una fede o solo dell’esaurimento di un modo di devozione legato a un tempo ormai finito.

Ma che Chiesa è, davvero, questa che per otto anni Benedetto XVI ha presieduto e al cui peso, unito a quello dell’età, ha infine ceduto? Cos’è, oggi, quella Chiesa cattolica, apostolica, romana che sarà «guidata» (il verbo sembra forse, nella situazione attuale, un po’ pretenzioso) da colui che uscirà dal Conclave di marzo? Lo spazio ci obbliga solo a qualche pennellata, a qualche sprazzo della situazione oggettiva: ben altro respiro occorrerebbe per un quadro completo. Un quadro che – sia ben chiaro – non ha soltanto i punti di crisi cui qui accenniamo ma che presenta anche non pochi aspetti positivi, luoghi di resistenza, solidi rinnovamenti, motivi fondati di speranza. La natura duplice, al contempo umana e divina della Chiesa (a immagine del suo Signore: Dio e uomo; crocifisso e risorto), fa sì che sempre, nei secoli, sia parsa sofferente se non agonizzante; e sempre fosse, al contempo, brulicante di vita, anche se talvolta visibile solo agli occhi della fede. Un’energia vitale capace di manifestarsi e di rianimarla anche al fondo delle crisi peggiori. Mai, pure nei secoli più bui, mai questa Chiesa ha smesso di essere madre di santi, mai le sono mancati – malgrado tutto – uomini e donne che del Vangelo hanno fatto carne e sangue della loro vita. Papa Borgia è contemporaneo del più penitente e austero dei santi, Francesco da Paola, che da quel Pontefice simbolo della maggior decadenza ecclesiale fu stimato e ne ebbe approvata la durissima Regola. Tempeste che sembrarono segnare la fine, come quelle che seguirono la Riforma o la Rivoluzione francese, l’Era napoleonica, l’occupazione italiana di Roma, furono superate più che dal valore di gerarchi e fedeli dall’apparizione imprevedibile di una schiera di santi. Lo studioso serio sa che occorre grande prudenza nel giudicare quella che è la più antica, la più vasta, la più variegata istituzione della Storia: c’era già quando l’Impero romano era al suo apogeo, la sua vicenda ha attraversato venti secoli, ha visto sorgere e morire tutti i regni e svanire tutti i potenti e, malgrado tutto, è giunta sino a noi, non ha alcuna intenzione di congedarsi dal mondo. Il suo popolo e i suoi pastori – cardinali e vescovi – appartengono a tutte le stirpi e a tutte le culture, come non avviene in nessuna parte, altrove. Ultimo Stato teocratico, ultima Monarchia assoluta, è al contempo il luogo più democratico: ogni seminarista, per povero e oscuro che sia, sa che avrà nella sua bisaccia di sacerdote un possibile pastorale da Papa o almeno da cardinale o vescovo. Il più oscuro dei battezzati ha – all’interno delle sue mura spirituali – i diritti e i doveri del più potente o ricco della Terra intera. Anzi, nell’ottica che qui solo vale, è la sua la posizione privilegiata. L’ultima tra gli ultimi, quella Bernadette ignorante, malata, miserabile di cui stavo scrivendo quel mattino, avrà la gloria degli altari, ritratti venerati nel mondo intero, una statua in marmo nella navata stessa di San Pietro, pellegrinaggi ininterrotti alla sua tomba di Nevers.

Sia chiaro, dunque: le «sfumature di grigio» che qui elenchiamo, con realismo doveroso, convivono con ampi spazi dai quali filtra la luce. Non dimentichiamo ciò che proprio Benedetto XVI ci ha ricordato, anche con il suo congedo: solo chi non comprenda che la Chiesa non è nostra ma del Cristo, può preoccuparsi per essa, per il suo futuro. Ai fedeli, Papa compreso, non è chiesto che fare, ciascuno al suo posto, il proprio dovere: il resto non è affare degli uomini. La barca, in ogni caso, giungerà al porto della fine della storia, anche fosse ridotta a una misera zattera carica solo di povera gente. Non potendo allargarci al mondo intero, concentriamoci, come abbiamo cominciato qui sopra, sull’Europa che, malgrado tutto, resta e resterà il centro, e non solo perché il Papa è il vescovo di Roma. Le comunità cattoliche di ogni altro Continente sono tutte sue figlie, sono state fondate da missionari spagnoli, portoghesi, francesi, olandesi, austriaci, bavaresi, italiani e ne portano ancora il segno indelebile. E, pure oggi, malgrado il baricentro numerico dei battezzati si sia spostato oltre l’Atlantico, è dall’Europa che giungono gli orientamenti, anche culturali, per la Chiesa intera. Solo qualche semplice può credere, ad esempio, che la più nota delle teologie «esotiche», quella detta «della liberazione», sia nata dalla sofferenza e dall’anelito degli sfruttati nell’America che parla spagnolo e portoghese. In realtà, è stata elaborata nei laboratori teologici di Francia e di Germania, con un robusto apporto olandese: dunque dagli stessi uomini e dagli stessi circoli che hanno ispirato e guidato, nei fatti, il Vaticano II. Concilio, più che dei vescovi, dei teologi. Tutti europei. La stessa superpotenza economica e militare degli Stati Uniti non ha dato finora alla cattolicità alcun santo davvero popolare né al pensiero ecclesiale uno spunto originale, se non quell’«americanismo», applicazione un po’ naïf del pragmatismo yankee al Vangelo, che Leone XIII si affrettò a condannare nel 1899.

Per quanto è dunque dell’Europa, umbilicus Ecclesiae , la situazione non sembra, umanamente, rassicurante: la diminuzione, spesso l’azzeramento delle vocazioni al sacerdozio secolare potrà dissolvere a breve buona parte della millenaria rete delle diocesi e delle parrocchie, per mancanza di personale ecclesiastico. Già ora, in Francia, nell’area germanica e altrove, gli accorpamenti sono la norma, ma bastano sempre meno. Quanto alle vocazioni alla vita religiosa, molte congregazioni (soprattutto femminili, ma non solo) sono destinate statisticamente all’estinzione: sul mercato delle vendite immobiliari di Roma stanno riversandosi le sedi, spesso imponenti, delle Case Generalizie ormai deserte. I collegi che furono per i novizi sono trasformati in ricoveri per i religiosi anziani e malati: molte congregazioni stipulano patti per unire i loro invalidi, non avendo più né personale né fondi sufficienti per fare da sole. La speranza di riempire i vuoti europei con i giovani e le giovani africani ed asiatici si è rivelata spesso illusoria o, almeno, eccessiva. Troppe le differenze culturali, troppa la distanza di mentalità, troppe le motivazioni sospette nell’ingresso in seminari ed istituti. Non sono certo solide tante «vocazioni» terzomondiali determinate (come un tempo nell’Europa delle campagne miserabili) da ragioni di sopravvivenza o da ricerca di elevazione sociale. Non tutti i casi, grazie a Dio, finiscono come quello di mons. Milingo, il presule nero che tante simpatie e speranze aveva suscitato; non mancano le buone riuscite, ma molto al disotto – almeno per quantità – di quanto vescovi diocesani e Superiori Generali delle Congregazioni avevano atteso. Quanto ai laici, l’abbandono in massa della pratica anche solo domenicale, per alcuni ha portato all’indifferenza e alla lontananza, per altri si è trasformato in ostilità, tanto da spingere i sociologi a coniare un triste neologismo: «cristianofobia». Nessuno è più rancoroso di un «ex» deluso. Malgrado l’alternarsi di destre e di sinistre nei vari governi europei, un trend storico che sembra per ora inarrestabile porta a costumi morali, prima o poi riconosciuti dalle leggi statuali, che contrastano frontalmente l’etica cattolica. E, questo, anche tra gli ancora praticanti, tanto che qualcuno ha parlato di uno «scisma silenzioso»: una pratica di vita, cioè, che non tiene alcun conto (pur senza proclamazioni e, a quel che pare, senza crisi di coscienza) dei precetti ecclesiali. Chi, oggi, pur tra coloro che si definiscono cattolici e che si accostano ai sacramenti, chi penserebbe a escludere dalla sua vita coniugale gli anticoncezionali; o a distogliere il parente divorziato dal risposarsi; o ad ammonire l’amico gay praticante; o a vietare alla figlia i rapporti sessuali con il compagno; o a dissuadere le coppie dalle convivenze, esortando alle nozze. Pare che forti desistenze si verifichino pure per aborto ed eutanasia. Il praticante cattolico medio europeo sembra coincidere, nella prassi morale, col laico medio della postmodernità, senza differenze rilevanti.

I sacerdoti: sia diocesani che religiosi. Non si creda (lo hanno denunciato più volte tanto Benedetto XVI quanto Giovanni Paolo II, ma le messe in guardia cominciarono con Paolo VI) che l’insegnamento di teologi e biblisti, nei seminari superstiti e negli atenei che pur si dicono «cattolici», sia sempre rispettoso delle indicazioni che vengono da Roma. Al clero che ne esce manca spesso, più ancora che le nozioni, quella che i tedeschi – ancora al tempo della gioventù di Joseph Ratzinger – chiamavano die Katholischeweltanschauung , la prospettiva, il punto di vista cattolico. Non di rado l’ottica di certo clero e di certa stampa confessionale sembra essere quella della ideologia egemone del momento: per più di vent’anni dopo il Vaticano II fu l’impasto – con dosi diverse a seconda dei luoghi e dei teologi – tra Cristianesimo e marxismo. Ora, si è largamente infiltrato il relativismo liberal, il liberalismo etico, soprattutto la political correctness , questa ideologia diabolica perché dalle apparenze quasi cristiane ma fondata su ciò che il Cristo più detesta: l’ipocrisia, l’eufemismo ruffiano, la manipolazione delle parole per nascondere la realtà nella sua verità. A proposito di clero, di disciplina, di quella che fu un tempo la virtù dell’obbedienza: prendiamo un aspetto che sembra minore – quello dell’abito ecclesiastico – ma che ha in realtà un significato esemplare. Il nuovo Codice di diritto canonico, riscritto secondo le indicazioni del Vaticano II, recita, al canone 284: «I chierici secolari portino un abito ecclesiastico decoroso, secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale del luogo». E, per i membri di ordini e congregazioni, prescrive al 669: «I religiosi portino l’abito dell’istituto, fatto a norma del diritto proprio, quale segno della loro consacrazione e testimonianza di povertà». Il Concilio stesso aveva ammonito di non abbandonare questo «segno» di consacrazione sul quale, tra l’altro, Giovanni XXIII era rigorosissimo, imponendo al suo clero, nel Sinodo Romano che precedette il Vaticano II, la sola talare nera dai molti bottoni e vietando persino il clergyman. Ebbene: prima Paolo VI, poi Giovanni Paolo II, infine Benedetto XVI hanno moltiplicato le esortazioni, gli inviti, gli ordini, i rimbrotti, ma il risultato è sempre l’armata Brancaleone dei sacerdoti (vescovi, non di rado, compresi) abbigliati ciascuno secondo l’estro proprio. Dal completo da manager, al giubbotto da metalmeccanico, sino agli stracci ben studiati da clochard-filosofo: comunque, sempre indistinguibili dai laici. La raccomandazione di un Concilio Ecumenico e le ripetute disposizioni disciplinari di quattro Papi non sono riuscite ad ottenere alcun ascolto, spesso neppure dalla gerarchia episcopale. La questione sembra secondaria, ma non lo è: dietro il rifiuto dell’abito religioso vi è una teologia, vi è la negazione protestante di un sacerdozio «sacrale», che distingua il prete dal credente comune; vi è il rigetto della prospettiva cattolica che, col sacramento dell’ordine, rende un battezzato «diverso», «a parte». Il sacerdote non come testimone del Sacro, non come «atleta di Dio» (l’immagine è di san Paolo) in lotta per la salvezza dell’anima propria e dei fratelli contro le Potenze del male, bensì uomo come gli altri, distinto semmai solo dal maggiore impegno sociopolitico.

Vi è qui la maggiore, forse, delle attuali deformazioni, insidiosa in quanto apparentemente meritoria: la Chiesa, cioè, come la maggiore delle ong, una organizzazione di volontari, di filantropi dediti a soccorrere coloro che sono bisognosi di assistenza materiale e, al contempo, a denunciare con toni profetici ingiustizie, disparità, violazione dei diritti umani. Preti e suore come militanti sociali e come sindacalisti, uniti nella lotta, senza differenze di religione, a ogni uomo di buona volontà. Nobile ideale, va riconosciuto. Ma che a un cristiano non può bastare. In questo pur generoso darsi da fare solo umano vi è un rovesciamento radicale della prospettiva di fede: il «Cristianesimo secondario» – quello dell’impegno sociale e politico – non può, non deve essere anteposto a quello «primario». Che è l’annuncio del Vangelo della salvezza eterna, è la «carità della verità» prima ancora di quella (pur benemerita, ma derivata) del pane, l’amministrazione dei sacramenti che sorreggano nella fede e conducano verso la meta al di là della morte, la preghiera individuale ma pure quella, pubblica, incessante, ogni giorno rinnovata, della liturgia. La fede senza esitazione nella verità del Vangelo e l’annuncio di esso ai fratelli (il kérygma) è il prius, la carità materiale non è che la conseguenza doverosa, istintiva ma subordinata, all’annuncio che «Gesù è il Cristo». Quel rinnovato Codice canonico che dicevamo, questa raccolta delle leggi che reggono l’istituzione ecclesiale, riporta alla fine il fondamento di sempre, la ragion stessa di essere della Comunità cristiana: Salus animarum suprema lex Ecclesiae esto , suprema legge della Chiesa (e di ogni uomo di Chiesa) sia la salvezza delle anime. La Chiesa esiste per questo: per annunciare la Vita oltre la vita e per accompagnare gli uomini verso questo traguardo finale. Non è spiritualismo disincarnato, al contrario: è consapevolezza della parola del Cristo, per il quale «non di solo pane vive l’uomo» e per il quale non vi è vita umana senza una prospettiva di eternità. Quel Gesù che predicava la Parola che salva e poi, ma soltanto poi, dopo aver nutrito le anime, le menti, i cuori, pensava ai pani e ai pesci per sfamare anche i corpi. Quel Gesù che guardò con affetto grato Marta che si affaccendava per la casa «tutta presa da molti servizi», come scrive Luca. Ma che le ricordò che era la sorella, Maria, accoccolata in silenzio ai suoi piedi, che «aveva scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta». La parte, cioè, di chi dà il primo posto all’ascolto della Parola di Dio, alla meditazione, alla preghiera, che è il lavoro più prezioso anche socialmente, benché i suoi effetti concreti spesso sfuggano alla nostra miopia. Non a caso la Chiesa ha sempre approvato, incoraggiato, benedetto le famiglie religiose di «vita attiva», dedite soprattutto alla carità corporale. Ma ha sempre considerato più alte – dunque, più rare – le vocazioni alla «vita contemplativa», nel silenzio e nel nascondimento del chiostro. Concetti che furono elementari, per un cattolico. Eppure, sembrano sfuggire a tanti, tra i fedeli stessi. Non a caso Benedetto XVI ci ha ridato un esempio: nel suo desiderio di continuare a servire la Chiesa, ha scelto il ministero della preghiera nella solitudine e nel silenzio, cioè l’impegno più concreto, che però solo la fede può comprendere.

Ma che dovrebbe fare il Papa che uscirà dal prossimo Conclave, alla luce di quei nodi di crisi che si è cercato di indicare, seppur solo con pochi, pochissimi esempi? Noi non siamo Hans Küng che da decenni si è nominato anti-Papa e che, in un’intervista di questi giorni, sfidava il grottesco: plaudiva infatti allo svecchiamento della Chiesa, voleva che gli anziani si togliessero di torno, diceva che il suo già collega Ratzinger aveva aspettato troppo ad andarsene. Non ricordava al lettore, però, che, con i suoi 85 anni, è coetaneo di Benedetto XVI (soltanto pochi mesi in meno), eppur nulla intende mollare degli incarichi raggiunti. In pensione vadano i Papi, che diamine, non gli anti-Papi! Ma noi non siamo Küng, soprattutto perché ci pare da delirio egocentrico, da rinnegamento di ogni prospettiva cristiana la risposta alla domanda «Che cosa si aspetta dal prossimo Conclave?». Risposta che così, purtroppo, suona: «Il Conclave potrà dare un impulso solo se i cardinali accetteranno l’analisi esposta nel mio libro Salviamo la Chiesa ». Poiché, come si sa, in una prospettiva di fede è lo Spirito Santo a ispirare gli elettori nella Sistina, il Paraclito dovrà sbrigarsi: occorre procurarsi quel libro e studiarselo bene per indirizzare i cardinali non come Dio, ma come il professor Küng comanda. Lo Spirito, in Conclave, non è che un tramite del Messaggio redentore, quello che sta nelle tavole bronzee, incise in caratteri gotici, di Salviamo la Chiesa vergate da colui cui fu vietato di dirsi «teologo cattolico».

Prendendoci, come doveroso, assai meno sul serio, noi crediamo che la Chiesa, Corpo stesso di Cristo, Sua proprietà esclusiva, sia già salvata, senza bisogno delle nostre analisi e dei nostri libri che, semmai, rischiano di irrigidire in un morto schema ideologico l’abbondanza di vita del Vangelo. «Il mio programma è di non averne», disse giustamente Benedetto XVI nel discorso di inizio del pontificato. Se è lecito, tuttavia, un auspicio, è che il Papa che uscirà dal prossimo Conclave si ponga come prioritario un impegno. Quello che mi riassunse, in una intervista che fece rumore, Hans Urs von Balthasar, tra i maggiori teologi del secolo scorso, cardinale mancato solo per la morte improvvisa. Mi disse: «Tout d’abord, il faut remettre le christianisme debout», innanzitutto bisogna rimettere il Cristianesimo in piedi. Occorre, cioè, rimetterlo dritto sulla base in roccia della fede: una fede salda, come fonte originaria e primaria, da cui tutto derivi. Continuando, in questo modo, il lavoro di colui che ora lascia il pontificato. In effetti, l’eredità più significativa che Benedetto XVI ci lascia è quell’Anno della fede, per il quale ci ha dato anche il testo di riferimento: quei tre libretti, apparentemente divulgativi, in realtà calibrati parola per parola, frutto di una vita intera di riflessione, che ci mostrano come Gesù sia il protagonista di una storia vera, non di un oscuro mito giudaico-ellenistico. Da docente prima e poi da vescovo, poi da Prefetto della Dottrina della Fede, infine da Papa, Joseph Ratzinger ha voluto sempre e solo darci testimonianza che prendere sul serio i Vangeli, scommettere sulla loro verità la nostra vita e la nostra morte è ancora possibile, non è ingenuità o carenza di informazione. Credere che Gesù è davvero il Cristo può farlo anche lo specialista più informato, più smaliziato (come Ratzinger è) quanto alle esegesi e alle teologie più recenti. Insomma, per dirla alla svelta: confermare il popolo di Dio che le chrétien n’est pas un crétin. Ha scritto nel testo di indizione per l’Anno della Fede: «Capita ormai che i cristiani si diano preoccupazione quasi esclusiva per le conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, pensando ad essa come a un presupposto ovvio. Ma simile presupposto di una fede salda è, purtroppo, sempre più spesso illusorio».

Ecco – pur convinti che la scelta della Sistina sarà comunque la migliore, se i venerandi elettori si riterranno solo gli strumenti di Qualcuno che li sovrasta – ecco, il nostro auspicio è per un Papa consapevole che la Chiesa non ha che un problema: confermarsi e confermarci nella fede, tornare a recitare il Credo con convinzione, rafforzare (anche con la riscoperta di un’apologetica adeguata) le ragioni per credere. Il resto seguirà da sé e tanti nodi si scioglieranno. La sola vera, preoccupante crisi ecclesiale è consistita, in questi decenni, nell’affievolirsi della certezza nella Speranza che il Vangelo ci annuncia. Papa Ratzinger ne era ben consapevole, alla pari di Papa Wojtyla. L’augurio è che il loro Successore, chiunque sia, ne sia altrettanto convinto.”

Estratti

Alcuni estratti di articoli presi da Vatican Insider:

f11841167e.jpgScrive la biblista Marinella Perroni: “… Sul futuro pontefice non può non colpire però che, se in passato questa discussione teneva conto di carriere ecclesiastiche e posizioni dottrinali, oggi è diventato determinante anche il connotato della provenienza etnica. La chiesa cattolico-romana è cambiata: non è più eurocentrica o, spingendo ancora più in avanti la prospettiva, è ormai post-coloniale e assolutamente global. Mentre i media hanno gioco a insistere su un toto-papa la gente si chiede “davvero il nuovo papa potrà essere africano?”. Non faccio pronostici. Ragioni su due realtà. La prima è che l’establishment cattolico comincia il giorno stesso dell’elezione di un papa a pensare al suo successore. Su questo regna un “extra omnes” che supera abbondantemente le regole dei conclavi dato che i fedeli ne sono del tutto esclusi, mentre teologi e storici cercano di decriptare parole e, soprattutto, silenzi che possano in qualche modo comporsi in una trama che abbia un senso di fronte all’imminenza di una nuova elezione. La seconda è che la distanza tra i sistemi di governo e la realtà della vita è oggi inequivocabile, forse inevitabile, a volte quanto mai perniciosa. Il discorso di Benedetto XVI ha messo in chiaro la questione cruciale che attanaglia oggi il papato e attiene al governo della chiesa. I due pontificati che abbiamo ormai alle spalle di Woytjla e Ratzinger, solo in parte tra loro diversi, ne sono entrambi testimonianza evidente.”

Scrive Roberto Repole: “… Il suo successore … sarà chiamato a guidare la Chiesa a ritrovare nella fede il motivo più profondo della sua esistenza. E dovrà soprattutto orientare i cristiani a mettere a disposizione tutte le energie spirituali e intellettuali di cui dispongono per testimoniare che il cristianesimo è realmente vivibile anche oggi; e che il Dio di Gesù non è solo alleato dell’uomo in genere, ma anche dell’uomo moderno, che ha riscoperto come valori irrinunciabili la sua ragione critica e, soprattutto, la sua libertà. Come annunciare Dio in questo nostro mondo dovrà essere pertanto preoccupazione centrale del papa e della Chiesa dei prossimi anni. Ma perché ciò avvenga il nuovo papa sarà chiamato a favorire il più possibile tutti i luoghi di dialogo, di confronto e di apporto delle competenze su cui la comunità cristiana può contare, a diversi livelli. Le questioni che la modernità consegna sono, infatti, sempre più complesse. E solo una Chiesa sinodale, che imbocchi con coraggio la via del “cammino insieme” potrà tenere il passo, in modo attivo e profetico, di questa complessità. Per non dire che solo una Chiesa così, dove tutti si sentono davvero fratelli, responsabili e al tempo stesso bisognosi degli altri, potrà annunciare – con la sua stessa esistenza – che Dio non è una minaccia delle nostre potenzialità, ma le fa davvero fiorire ed esprimere. Infine, al futuro papa spetterà il grande compito di spronare la Chiesa ad essere nei fatti sempre più cattolica e, dunque, sempre più capace di abitare con senso critico tutte le culture. Un illustre teologo dell’altro secolo, Rahner, disse che al Vaticano II la Chiesa per la prima volta si scoprì mondiale. Quella scoperta chiede oggi di diventare coscienza comune. Il che implica, tra l’altro, che i cristiani non abbiano timore di dialogare, in qualunque posto del mondo si trovino a vivere, con le culture in cui sono immersi e con gli uomini insieme ai quali camminano.”

Infine uno sguardo a un po’ di stampa straniera: “In Gran Bretagna THE OBSERVER, il settimanale del quotidiano The Guardian, titola «Con l’Africa che cresce, l’Europa perde presa sulla base cattolica», evidenziando come, ormai, «il cattolicesimo europeo sia sotto minaccia» e il fatto che «candidati africani o latinoamericani possano emergere, può rappresentare un momento storico per la Chiesa». E «un Papa nero», scrive ancora il foglio britannico, sulla scia di diverse culture africane secondo le quali «un uomo senza una donna, dopo una certa età, porta a sospetti e perdita di autorità», potrebbe spingere anche una «riforma non tradizionale» sul celibato sacerdotale. In Francia LES ECHOS torna sul gesto del Papa e titola «Benedetto XVI, un leader del XXI secolo?» osservando come, «in un’istituzione che si caratterizza necessariamente per il non adeguarsi al mondo secolare, l’annuncio di Benedetto XVI è forse una bella lezione di leadership». Di tono diverso l’analisi de LE MONDE, che in un articolo intitolato «Critiche e incomprensioni nella Chiesa cattolica» ricorda come, privatamente, «diversi religiosi, vescovi e cardinali restino sotto choc per la decisione, con la quale non concordano». In Germania diversi quotidiani sottolineano l’attesa di una Roma «gremita» per il «penultimo» Angelus del pontefice, mentre la BILD, titolando «Come procedere dopo Benedetto?», cita il parere di quattro vescovi tedeschi secondo i quali il successore dovrebbe essere «autentico» e «dal respiro internazionale». SPIEGEL ONLINE titola infine «Il Vaticano vuole eleggere il Papa» evidenziando la possibilità che il Conclave sia anticipato. In Spagna EL MUNDO si concentra sulle «sfide che attendono il nuovo Papa» citando, tra le principali, «l’ordinazione delle donne, la democrazia ecclesiale e il recupero della credibilità sociale» dopo lo scandalo pedofilia. EL PAIS torna invece sulla nomina di Ernst von Freyberg a capo dello Ior e in commento intitolato «L’ultima battaglia di Benedetto XVI», sottolinea come questa sia l’atto finale di «una guerra di potere portata fino al limite stesso delle dimissioni: la designazione di von Freyberg rivela come l’ultima decisione di Ratzinger sia stata togliere le chiavi della cassaforte vaticana al suo fraterno nemico Tarcisio Bertone». Oltreoceano, «Gli elettori studiano una rosa di candidati» è il titolo con cui il NEW YORK TIMES sottolinea come i membri del Conclave stiano «silenziosamente» vagliando «da anni» i papabili, costruendosi opinioni che «potrebbero influenzare il processo molto intuitivo, spesso imprevedibile» della nomina del pontefice. Il WASHINGTON POST, in un lungo articolo, torna infine su Vatileaks evidenziando come i documenti «abbiano mostrato un Vaticano diviso e pieno di rivalità». E il nuovo Papa «erediterà una gerontocrazia ossessionata dalla politica italiana, disinteressata alla gestione delle attività di base e ostile alle riforme», conclude il foglio statunitense.

Di tutto un po’

Molto si sta scrivendo sulle dimissioni del papa, sul pontificato di Benedetto XVI, sul Conclave e ringrazio la rete di esistere: sarei andato in bolletta se avessi dovuto comprare tutti i quotidiani e le riviste. Raggruppo qui alcuni link ad articoli vari:

Di un paese lontanissimo. Luis Antonio Tagle, un Wojtyla delle Filippine per rilanciare la chiesa (di Paolo Rodari su Il Foglio)

Le ultime mosse di Benedetto. L’enciclica sulla fede resta nel cassetto (come pure lo spinoso dossier) (di Paolo Rodari su Il Foglio)

Il futuro di un Papa. Gli ultimi quindici giorni di regno, l’attesa del successore. Le Ceneri in San Pietro, le incognite sul ruolo futuro, il monito di Ruini (di Paolo Rodari su Il Foglio)

La lotta agli scandali del Papa teologo nel solco di Wojtyla. Al centro dottrina e spinta alla moralizzazione (di Luigi Accattoli su Il Corriere della Sera)

Mossa da innovatore ma secondo i canoni. Stare vicino a Giovanni Paolo II lo ha aiutato (di Luigi Accattoli su Il Corriere della Sera)

Un momento di svolta (di Elisabetta Lo Iacono su Raivaticano)

La libertà di lasciarsi stupire (di Francesca Lozito su Vinonuovo)

Le dimissioni del Papa viste dagli “altri” (di Enrico Casale su Popoli)

Il Papa si dimette: alcuni gesuiti commentano (di Enrcio Casale su Popoli)

La guerra dei due Concili: il vero e il falso (di Sandro Magister su Chiesanews)

Chi raccoglierà le chiavi di Pietro (di Sandro Magister su Chiesanews)

Patriarca maronita: le dimissioni del Papa “shock positivo” per la Chiesa e il mondo (di Fady Noun su Asianews)

Lo speciale de Il Giornale

 

Una Resurrezione da vivere

Scrive Paolo Conti sul Corriere:

papa, benedetto xvi, dimissioni papa, chiesa, quaresima, concilio, resurrezione, martini“Esiste una possibile lettura delle dimissioni di Benedetto XVI legata al tempo liturgico e che può contenere un messaggio connesso alle parole del Papa sulla Chiesa con il «volto deturpato» dalle rivalità, dalle divisioni, dagli individualismi. L’addio del Pontefice al soglio pontificio sembra studiato con cura. L’annuncio pochi giorni prima della Quaresima, cioè il tempo non solo del digiuno, dell’espiazione, del lutto ma del profondo cambiamento: richiami perfetti per la crisi dell’universo ecclesiale denunciata da Benedetto XVI. Un Conclave quindi convocato in tale tempo, perciò maggiormente dedicato al silenzio e al mutamento, alla riflessione su quanto è accaduto nel cuore della Chiesa (ed è stato sottolineato da Ratzinger). Infine l’elezione di un nuovo Papa che, chiunque sarà, celebrerà una Pasqua di Resurrezione il 31 marzo che potrebbe davvero indicare al mondo una Chiesa «rinata» dopo i quaranta giorni di contrizione (un periodo che ricorre nella Bibbia: i quaranta giorni di Gesù nel deserto, di Mosè sul Sinai, del Diluvio universale, episodi di radicali metamorfosi). Dice per esempio il sacerdote missionario dehoniano Fernando Armellini, biblista che ha insegnato a lungo in Africa e ha quindi il polso della «Chiesa lontana» (almeno nella percezione dell’Europa): «È una lettura certamente vicina alle istanze di quella Chiesa cattolica più vicina e attenta alla Parola di Dio, più matura e consapevole, che magari segue i corsi biblici e la lectio divina». Cosa chiede questa base cattolica? «Sicuramente l’urgenza di un rinnovamento, di una rinascita della Chiesa. Proprio Benedetto XVI ha avuto parole dure sulla realtà ecclesiale e sugli scandali che la attraversano. Quindi la lettura delle dimissioni del Papa collegate alla Quaresima e alla successiva idea di Resurrezione credo sia in sintonia con la necessità dei fedeli di un autentico cambiamento, di una Chiesa più autenticamente evangelica». Questa «Resurrezione» della Chiesa con il nuovo Papa in quale linea si dovrebbe collocare? «Direi sulla linea del cardinal Carlo Maria Martini che avvertiva profondamente la necessità della rigenerazione della struttura ecclesiale che, agli occhi del mondo dei fedeli, appare ormai troppo pesante, troppo ancora medioevale nei paludamenti, in certe liturgie pompose che offuscano la semplicità di quanto avvenne nell’Ultima Cena. C’è un grande e diffuso desiderio di ritorno all’essenziale, a ciò che il Maestro consegnò ai suoi discepoli, al suo amore per il mondo e soprattutto per gli ultimi».

Aggiunge don Felice Accrocca, docente alla facoltà di Storia ecclesiastica della Pontificia Università Gregoriana: «Vivere un Conclave nel tempo della Quaresima significa certamente avere ben chiare tre dimensioni. Cioè la carità, la conversione e la preghiera. Richiami forti dopo il riferimento di Benedetto XVI alle divisioni nella Chiesa». Conclude Gianni Gennari, teologo e scrittore, sacerdote fino all’aprile 1984 quando si sposò col rito cattolico grazie alla dispensa di Giovanni Paolo II sollecitata proprio da Joseph Ratzinger («mi sento un prete romano emerito»): «Seguendo una simile ipotesi mi viene da dire che la Resurrezione col nuovo Papa dovrebbe avvenire nel segno che proprio Benedetto XVI ci ha indicato durante l’udienza di ieri al Clero Romano». A cosa si riferisce in particolare? «All’attualità estrema del Concilio Vaticano II, richiamata da Ratzinger. ” Tantum aurora est “, disse Giovanni XXIII, è appena l’aurora. Per applicare gli insegnamenti di un Concilio occorre tempo». Il legame tra l’addio di Benedetto XVI alla Quaresima affidando la Pasqua al nuovo Papa? «Altamente simbolico. Benedetto sa di essere riuscito a realizzare la collegialità “affettiva”. Quella “effettiva” è lontana, troppo spesso la Curia romana pensa di poter decidere tutto da sola senza nemmeno coinvolgere il Papa. Ecco perché la Chiesa ha il “volto deturpato”. Ora è tempo di risorgere, di costruire la Chiesa collegiale e fraterna, aperta al dialogo».”

Infografica sul conclave

Molto interessante:

http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/come-si-elegge-il-papa/

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Le attese del Centro e Sud America

Maurizio Stefanini è giornalista professionista e saggista. Free lance, collabora con Il Foglio, Libero, Liberal, L’Occidentale, Limes, Longitude, Theorema, Risk, Agi Energia. Su Limes ha scritto questo articolo sulle ipotetiche aspettative latino-americane sul conclave.

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“L’America Latina ha il 42% dei fedeli cattolici di tutto il mondo: mezzo miliardo su un totale di 1,2 miliardi. Questa maggioranza relativa diventa però minoranza in conclave, con appena 19 cardinali su 117, contro i 62 europei, anche se in Europa vive oggi solo il 25% di tutti i cattolici. Benedetto XVI è stato – dopo Giovanni Paolo II, che vi è passato ben 18 volte – il secondo papa nella storia a viaggiare in America Latina. In precedenza, a essere fiscali, c’era stato anche Pio IX, ma prima di diventare papa: quando ancor giovane sacerdote fu in Cile tra luglio 1823 e giugno 1825 come membro di quella rappresentanza apostolica del nunzio Monsignor Giovanni Muzi, che sarebbe stata la prima missione mandata dal Vaticano ad aggiustare i rapporti con le nuove repubbliche nate dall’insurrezione indipendentista contro la monarchia cattolica spagnola. I viaggi di Benedetto XVI non sono stati numerosi. Il primo è stato fatto in Brasile nel maggio del 2007, due anni dopo l’elezione. In quell’occasione Benedetto XVI visitò San Paolo, Aparecida e Guaratingueta; si vide con Lula; inaugurò il santuario di Nossa Senhora Aparecida e la V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e Caraibico (Celam); proclamò il primo santo brasiliano nella figura di Frei Galvão (Santa Paulina era stata canonizzata nel 2002, ma era nata in Trentino, pur essendo emigrata in Brasile a 10 anni); celebrò un incontro con i giovani; visitò un centro per il recupero di tossicodipendenti. Il secondo viaggio è stato in Messico e a Cuba, dal 23 al 28 marzo 2012: il primo di Benedetto XVI in due paesi di lingua spagnola. In Messico, dove restò tra il 23 e il 26, si vide con il presidente Felipe Calderón; sorvolò in elicottero il santuario di Cristo Rey; si riunì con i vescovi messicani: ebbe un incontro con i bambini. A Cuba, dove restò tra il 26 e il 28, si vide con Raúl e Fidel Castro; visitò il santuario della patrona dell’isola Virgen de la Caridad del Cobre, nei 400 anni dal suo ritrovamento; celebrò una messa in Plaza de la Revolución. Proprio questa rubrica registrò come, a parte le contestazioni in Messico per lo scandalo della pedofilia e le polemiche a Cuba per aver subito il diktat delle autorità non dando alcuno spazio ai dissidenti, ci fosse in America Latina una certa delusione verso il successore di Giovanni Paolo II. Una delusione legata proprio a questa apparente disattenzione nei confronti di un’area che non solo è per la Chiesa sempre più importante, ma sta vivendo in questi anni un periodo effervescente di crescita economica e politica (pur con vari problemi vecchi che restano e problemi nuovi che arrivano).

La prima reazione all’improvviso annuncio di Benedetto XVI è stata, come in tutto il mondo, di mera sorpresa. Misurabile dal fatto che in Brasile i relativi titoli di giornale abbiano surclassato quelli sul Carnevale. Poi, ci sono stati commenti in parte calati sulle realtà nazionale. Il cardinale boliviano Julio Terrazas, ad esempio, ha espresso “profondo rispetto”. Il presidente della Conferenza Episcopale del Venezuela Diego Padrón nel dire che Benedetto XVI nel mostrare che non attaccato “al potere per il potere” ha preso una decisione “che dovrebbe essere presa come un esempio dai venezuelani”. Un riferimento velato ma chiarissimo a Chávez, che rimane presidente anche se da due mesi non si hanno più sue immagini dal letto d’ospedale. Il portavoce dell’Arcidiocesi di città del Messico Hugo Valdemar Romero si è detto “scioccato”, ammettendo in un’intervista tv che era “evidente” come Benedetto XVI sia stato danneggiato dagli “intrighi di Roma”, e negando che il successore possa essere messicano. Il vicepresidente della Conferenza episcopale peruviana, monsignor Pedro Barreto, ha parlato di una decisione “che provoca dolore” ma è anche “una manifestazione di grandezza”.

Si è scatenata soprattutto l’attesa per la possibile elezione del primo papa latinoamericano. Tra i papabili provenienti dalla regione, quello con più possibilità sarebbe il brasiliano Odilio Pedro Scherer, arcivescovo dell’enorme diocesi di San Paolo. Non si sa però se la rapida crescita dei protestanti in Brasile lo danneggi – come prova di scarsa “efficienza” – o lo avvantaggi, creando la necessità strategica di dare una risposta “forte” come appunto l’arrivo di un brasiliano al Soglio di Pietro. Dopo di lui viene nei pronostici l’argentino di genitori italiani Leonardo Sandri: un candidato “transatlantico” e poliglotta che dopo essere stato nunzio apostolico in Venezuela e Messico è diventato prima sostituto per gli Affari generali (dal 16 settembre 2000) e poi prefetto della Congregazione per le chiese orientali. Sandri è anche uomo di rapporti con il Medio Oriente e l’Asia, anche se ha perso potere rispetto a quando – come sostituto per gli Affari generali – era il terzo uomo della gerarchia vaticana. Fu lui ad annunciare la morte di Giovanni Paolo II. C’è poi il brasiliano João Braz de Aviz, che dopo sette anni da arcivescovo di Brasilia è stato nominato nel 2011 prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica; è considerato un supporter della Teologia della Liberazione, ma molto moderato, e comunque un personaggio che tende a mantenere un profilo basso. L’arcivescovo di Tegucigalpa e presidente di Caritas Internationalis Oscar Andrés Rodríguez Madariaga, che era un favorito per la successione a Giovanni Paolo II, ebbe problemi perché considerato troppo progressista: in compenso, ora il suo appoggio alla destituzione del presidente Zelaya ha fatto spostare la sua immagine sensibilmente a destra. Un secondo argentino in gioco è Jorge Mario Bergoglio, anche lui di origine italiana: arcivescovo di Buenos Aires, primate d’Argentina, ordinario per i fedeli di rito orientale in Argentina, al conclave del 2005 fu il più votato dopo Ratzinger, sostenuto dai progressisti. Ma sarebbe stato lui a voler fare un passo a lato, preoccupato che la sua candidatura bloccasse il conclave troppo a lungo. Molto stimato dai colleghi latinoamericani, che al momento dell’elezione dei 252 membri del primo Sinodo dei vescovi dopo l’ascesa al Soglio di Benedetto XVI, fu lui il più votato. Ma amerebbe poco gli ambienti romani, ed è considerato di età troppo avanzata. Altri tre brasiliani sono il presidente della Conferenza episcopale brasiliana Raymundo Damasceno Assis, che ha però solo un anno meno del 75enne Bergoglio; il vescovo emerito di San Paolo Cláudio Hummes, a sua volta però 75enne e criticato per eccessivi sbandamenti tra sinistra e destra; e l’arcivescovo di Salvador Geraldo Majella Agnelo. In realtà, i bookmakers britannici non favoriscono nessuno di loro, mettendo invece ai primi tre posti delle quotazioni il nigeriano Francis Arinze, il ghanese Peter Turkson e il canadese Marc Ouellet, che peraltro conosce bene l’America Latina e parla perfettamente spagnolo. Insomma, i latino-americani lo vedono quasi come uno di loro. Ma è proverbiale: “chi entra in conclave papa, ne esce cardinale”.”

 

Il conclave

Domanda di stamattina: prof, ma chi partecipa al conclave? La risposta migliore non può che venire dal giornalista di Avvenire Gianni Cardinale 🙂

“Nel Conclave che si aprì il 18 aprile 2005 i i cardinali con diritto di voto erano 117, ma a partecipare all’elezione di Benedetto XVI furono in 115, visto che per motivi di salute non poterono giungere a Roma il messicano Adolfo Suarez Rivera e il filippino Jaime Sin. Anche per il prossimo Conclave, in calendario ormai per marzo, i cardinali elettori previsti – ad oggi –, sono 117, tenendo conto del fatto che il porporato ucraino Lubomyr Husar compirà ottanta anni il 26 febbraio, due giorni prima in cui il Soglio di Pietro rimarrà vacante come stabilito ieri da papa Ratzinger. Come deciso infatti da Paolo VI con il motu proprio Ingravescentem aetatem del 1970 e ribadito da Giovanni Paolo II, possono partecipare all’elezione del Papa solo i cardinali che non hanno compiuto ottanta anni. E al 1° marzo i porporati votanti saranno appunto, a Dio piacendo, 117. Di questi 60 sono gli europei (erano 58 otto anni fa), di cui 28 gli italiani (erano 20).6D472F667DEFAD6CB191BA774941A_h498_w598_m2.jpg

Dalla Penisola verranno 19 cardinali curiali o ex curiali, come Angelo Amato, Ennio Antonelli, Giuseppe Bertello, Tarcisio Bertone, Domenico Calcagno, Francesco Coccopalmerio, Angelo Comastri, Velasio De Paolis, Raffaele Farina, Fernando Filoni, Giovanni Lajolo, Francesco Monterisi, Attilio Nicora, Mauro Piacenza, Gianfranco Ravasi, Giovanni Battista Re, Paolo Sardi, Antonio M. Vegliò e Giuseppe Versaldi. Nonché nove pastori o emeriti di Chiese particolari come Angelo Bagnasco, Giuseppe Betori, Carlo Caffarra, Severino Poletto, Paolo Romeo, Angelo Scola, Crescenzio Sepe, Dionigi Tettamanzi, Agostino Vallini.

I latinoamericani saranno invece in 19 (erano 21 comprendendo anche Suarez Rivera), mentre i nordamericani assommeranno a 14 (come nel 2005). Gli africani saranno in 12 (erano 11) e gli asiatici in 11 (come otto anni fa, comprendendo anche Sin). Uno solo sarà il cardinale proveniente dall’Oceania (erano due).

Nel prossimo Conclave le nazioni più rappresentate, dopo l’Italia, saranno gli Stati Uniti con 11 cardinali (come nel 2005), e cioè i curiali o ex-curiali Raymond L. Burke, James M. Harvey, William J. Levada, e i pastori o emeriti di diocesi Daniel N. DiNardo, Timothy M. Dolan, Eugene F. George, Roger M. Mahony, Edwin F. O’Brien, Sean P. O’Malley, Justin F. Rigali, Donald W. Wuerl. La Germania con 6 porporati (come nel 2005), e cioè gli ex curiali Paul J. Cordes e Walter Kasper, e i pastori Karl Lehmann, Reinhard Marx, Joachim Meisner, Rainer M . Woelki. Il Brasile con 5 (erano 4), e cioè il curiale Joao Braz de Aviz e l’ex Claudio Hummes, e i pastori o emeriti Geraldo M. Agnelo, Raymundo Damasceno Assis e Odilio P. Scherer. La Spagna con 5 (erano 6), e cioè i curiali Santos Abril y Castello e Antonio Canizares Llovera, e i pastori o emeriti Carlos Amigo Vallejo, Lluis Martinez Sistach e Antonio M. Rouco Varela. L’India con 5 (erano 3), e cioè l’ex curiale Ivan Dias e i pastori George Alencherry, Oswald Gracias, Basileios C. Thottunkal e Telesphore P. Toppo. La Francia con 4 (erano 5), e cioè il curiale Jean Louis Tauran, e i pastori Philippe Barbarin, Jean-Pierre Ricard e André Vingt-Trois. La Polonia con 4 (erano 3), e cioè i curiali Zenon Grocholewski e Stanislaw Rylko e i pastori Stanislaw Dziwisz e Kazimierz Nycz.

Nel Conclave non saranno rappresentate nazioni presenti nel 2005, come il Giappone e l’Ucraina (che otto anni fa avevano due elettori ciascuno) e anche Camerun, Costa d’Avorio, Guatemala, Lettonia, Madagascar, Nicaragua, Nuova Zelanda, Siria, Thailandia e Uganda. Saranno invece rappresentate nazioni che non lo erano la volta scorsa, come la Slovenia (Franc Rodé), l’Ecuador (Raul E. Vela Chiriboga), l’Egitto (Antonios Naguib, colpito da emorragia celebrale a fine 2011), il Kenya (John Njue), la Guinea (Robert Sarah), il Senegal (Theodore-Adrien Sarr), lo Sri Lanka (Ranjith Patabendige) e Hong Kong (John Tong Hon). Il Regno Unito sarà rappresentato da un porporato scozzese, come otto anni fa, ma non da un inglese (presente invece nel 2005).

Il numero di appartenenti ad ordini religiosi è di 19 cui va aggiunto un porporato dell’Opus Dei (il peruviano Juan L. Cipriani Thorne). Tra loro 4 i salesiani (gli italiani Amato, Bertone e Farina con l’honduregno Oscar A. Rodriguez Maradiaga), tre i francescani (Amigo Vallejo, Hummes e il sudafricano Wilfried Fox Napier), due i gesuiti (l’argentino Jorge M. Bergoglio e l’indonesiano Julius R. Darmaatmadjia) e i domenicani (l’austriaco Christoph Schonborn e il boemo Dominik Duka). Nel 2005 erano in 20, anche se distribuiti diversamente tra le varie Congregazioni: i francescani erano infatti 4, i gesuiti e i salesiani 3, mentre c’erano due redentoristi e un domenicano.

Se poi andiamo a vedere il numero dei porporati che lavorano o hanno lavorato a fine carriera nella Curia romana e in altri uffici ecclesiastici dell’Urbe essi sono attualmente 40, di cui, come abbiamo già visto, 19 italiani. Nel 2005 i curiali e gli ex curiali erano 27, nove dei quali italiani.

Nel prossimo Conclave i cardinali più giovani saranno l’indiano Thottunkal (54 anni a giugno), il filippino Luis A. Tagle (56 anni a giugno), i tedeschi Woelki (57 anni ad agosto) e Marx (60 anno a settembre), l’olandese Willem Jacobus Eijk (60 anni a giugno), l’ungherese Peter Erdo (61 anni a giugno). Mentre i più anziani saranno il tedesco Kasper, l’italiano Poletto e il messicano Juan Sandoval Iniguez che compiranno 80 anni rispettivamente il 5, 18 e 20 marzo. Con le vecchie norme questi tre porporati avrebbero potuto non partecipare al Conclave. Fino alla Costituzione apostolica Universi Dominici Gregis promulgata da Giovanni Paolo II nel 1996 infatti non potevano votare i cardinali che avrebbero compiuto 80 anni nei 15-20 giorni tra la morte o le dimissioni del Papa dell’inizio del Conclave. Ora invece chi compie ottanta anni tra la data della “Sede vacante” e l’inizio delle votazioni conserva il diritto di voto.”

Una scelta luterana?

Alexander Görlach è fondatore e direttore della rivista di opinione e dibattiti The European. Ha lavorato per diverse testate tedesche, sia televisive che cartacee. Ha due dottorati, in linguistica e in teologia. Scrive su Linkiesta:

“Nei libri di storia Benedetto XVI sarà ricordato come il Papa tedesco ad interim. Con le sue dimissioni la stella che guida la Chiesa Cattolica, il papato, si è affievolita. Ma il passo fatto da Joseph Ratzinger l’11 di febbraio nell’anno del Signore 2013 darà un nuovo indirizzo ai futuri pontefici. Ora nuove domande svelano l’instabilità della più alta istituzione ecclesiastica: avrà il Papa accesso a una guardia del corpo, a un ufficio personale, a un autista? Quando morirà, sarà sepolto con tutti gli onori papali? La Chiesa suonerà campane in tutto il mondo in sua memoria? Aiuterà Benedetto XVI a eleggere il suo successore? Sovrintenderà alle elezioni e darà il suo voto? Come sarà nominato in futuro? “Sua santità in pensione”?

Le dimissioni di Benedetto aprono la porta a ulteriori riforme della Chiesa Cattolica e confutano le critiche che lo vedevano troppo rigido. Quando si parla di riformare la Chiesa Cattolica, le argomentazioni più frequenti sono di questo tenore: «Certo, possiamo cambiare questa cosa o quell’altra. Ma chi oserà mettere in discussione tradizioni che sono sopravvissute per millenni?». Motivazioni ora improvvisamente diventate meno persuasive. Il Papa ha posto fine con le sue sole forze a una delle tradizioni della Chiesa: la venerazione quasi divina per il papato. Una sola dichiarazione ha smontato il lavoro di tutti i papi dal tempo di Bonifacio VIII nel 1300: l’estensione dei poteri papali – non la leadership spirituale, ma quella reale, mondana, esecutiva. Per secoli i papi hanno cementificato il loro potere. Nel 1870 il dogma dell’infallibilità in materia teologica e di tradizioni ecclesiastiche hanno portato quel processo all’estremo. Oggi, il Pontefice ha potenzialmente l’ultima parola in tutti gli appuntamenti tra vescovi nel mondo. Quando c’è bisogno di discutere una questione teologica, tutti gli occhi si girano verso Roma. Benedetto XVI ha smontato tutto questo, e resta da vedere se è pienamente consapevole delle conseguenze delle sue dimissioni. Molti cattolici sono cresciuti nella convinzione che un Papa non si dimette. È un sovrano incontrastato che segue Cristo fino alla morte. Il color porpora delle tuniche episcopali rimandano al sangue versato dai martiri cristiani nel corso dei secoli: il loro sangue, che un tempo gocciolò sul suolo polveroso del Colosseo a Roma, fu la testimonianza della loro fede nel Messia e nella storia della crocifissione e resurrezione. Giovanni Paolo II fece della scelta di restare in carica fino alla morte il suo martirio personale. Joseph Ratzinger ha ora rifiutato quella logica come qualcosa non più alla moda. Ha cercato la guida non nelle tradizioni della Chiesa Cattolica ma dentro la sua coscienza. La sua dichiarazione è esplosa come una bomba. L’idea che la più alta autorità cristiana ragioni secondo la sua propria coscienza non appartiene più solo ai circoli luterani ma è stata abbracciata anche dalla Chiesa Cattolica. Non dimentichiamo che una delle controversie che hanno scatenato la Riformapapa-germania-erfurt-lutero.jpg si concentravano sulla relazione tra la coscienza personale e i doveri delle cariche clericali. «Mi fermo qui, non posso fare di più. Dio mi aiuterà. Amen». Così Martin Lutero concluse il suo discorso alla Dieta di Worms nel 1521. Il Papa ha messo sulla stessa bilancia coscienza e tradizioni, e ha scelto la coscienza. Una scelta enorme. Allo stesso tempo, Benedetto sapeva fin dal principio del suo pontificato che non sarebbe stato capace di seguire le orme del suo predecessore. Una delle dichiarazioni più intense del suo primo discorso da Pontefice, resta questa: «Sono un semplice, umile operaio nella vigna del Signore». Ma spesso si dimentica la frase precedente: «Dopo il grande Giovanni Paolo, i signori cardinali hanno eletto me». Quando Giovanni Paolo II era ancora vivo, periodicamente giravano voci secondo cui il Papa polacco si sarebbe dimesso. Solo una osservazione di Joseph Ratzinger, priva di tatto ma corretta, alimentò la discussione. L’allora cardinale ricordò ai colleghi che la legge ecclesiastica permetteva le dimissioni papali. Sapeva ciò di cui stava parlando. Ma ci furono anche voci secondo cui Ratzinger pianse a causa di quell’appunto un po’ ruvido quando incontrò subito dopo Giovanni Paolo II. I dibattiti pubblici distorsero le sue parole. Alla fine sembrò che il cardinale tedesco avesse suggerito le dimissioni papali. Chiaramente, Ratzinger era un uomo sensibile.

Cosa accadrà alla Chiesa ora che Benedetto XVI ha posto fine al dominio del papato? Se non è il Papa che guida la Chiesa cattolica, chi lo può fare? Nel 21esimo secolo, la Chiesa Cattolica sarà una chiesa a più velocità. Alcune parti del mondo potrebbero permettere ai preti di sposarsi, mentre altre regioni resteranno rigidamente opposte ai matrimoni tra preti, ma saranno tutti chiamati Cattolici. Il Concilio diventerà un’altra volta il primo comitato guida della Chiesa. Il papa lo presiederà e modererà le discussioni. Diventerà primus inter pares, il primo tra i suoi fratelli. Non da meno ma nemmeno da più. È tempo di opportunità straordinarie, e molti dentro le gerarchie ecclesiastiche le guarderanno con sospetto come fossero una minaccia. Dietro le porte chiuse, temono per le proprie cariche e poteri, e si chiedono se la Chiesa continuerà a percorrere il suo sentiero celebrato nei secoli. I cambiamenti generano paura. Anche molti fedeli si sentiranno smarriti, e non solo i veri devoti. Una dimissione papale è davvero una cosa nuova. Chi può raccogliere questo senso di incertezza e trasformarlo in fiducia? Se l’errante uomo di preghiera della Galilea davvero tiene alla sua Chiesa, questo sarebbe un buon momento per farlo sapere. «Non avere paura» fu del resto, secondo il Nuovo Testamento, uno dei detti preferiti di Gesù. Chi sarà il nuovo Papa? Come cambierà la vita di Benedetto XVI quando tornerà di nuovo Joseph Ratzinger il primo di marzo? Possiamo immaginare un conclave mentre il vecchio papa è ancora in vita? Nessuno avrebbe mai pensato che questo Papa ci avrebbe stupiti. Ma lo ha fatto, e ci ha lasciato senza parole.”

Qualcosa che non convince

Scrive Germano Dottori su Limes

papa, benedetto xvi, dimissioni papa, chiesaC’è qualcosa che non convince in alcune ricostruzioni dei moventi che avrebbero indotto Benedetto XVI alla dolorosa decisione di rinunciare al papato. Sulla questione si sono divise anche le due massime agenzie informative della Santa Sede: l’Osservatore romano e la Direzione della sala stampa. Senza entrare nei dettagli della controversia tra le differenti versioni, ci limitiamo ad osservare alcuni dati di fatto che non collimano con l’ipotesi di una deliberazione lungamente ponderata. Benedetto XVI ha continuato ad assumere impegni gravosi per il 2013, che aveva tra l’altro proclamato Anno della fede, con l’idea di celebrarlo anche con una sua attesissima enciclica, rimasta in fase di avanzata elaborazione, ma non al punto di poter essere pubblicata prima del 28 febbraio prossimo. Qualcosa di grave dev’essere quindi intervenuto a modificare la pianificazione delle attività pontificie. Un evento o altro all’origine di un profondo turbamento.

Nel suo splendido articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 13 febbraio, Massimo Franco ha fatto cenno ad un dossier: il rapporto riservato redatto per conto del papa dai cardinali incaricati dell’indagine interna sul caso Vatileaks. Non è azzardato ipotizzare che dalla sua lettura, o dalla visione del suo abstract, Joseph Ratzinger abbia potuto apprendere l’effettiva ampiezza dell’opposizione domestica – e forse non solo – che lo ha cinto d’assedio, traendone il convincimento che fosse impossibile venirne a capo ed andare avanti. Quanto è stato ascoltato nel corso della solenne liturgia delle Ceneri rafforza i sospetti in questa direzione, con gli accenni alle divisioni della Chiesa, alle ambizioni che alcuni covano al suo interno e con la preghiera conclusiva rivolta a San Pietro di proteggere l’istituzione. Non possiamo escludere che l’abdicazione – una forma di protesta radicale – proprio a questo possa servire: provocare un azzeramento e favorire un grande ricambio generazionale ai vertici della Chiesa. Benedetto XVI probabilmente assisterà in silenzio e da lontano al Conclave che sceglierà il suo successore. Ma potrebbe contribuire nei prossimi giorni ad indicare i requisiti della figura che a suo avviso dovrebbe emergere. Un ecclesiastico carismatico, ad esempio, capace di unire su basi nuove la gerarchia e la comunità dei fedeli, magari mettendo mano a riforme profondissime, che potrebbero coinvolgere non solo la Curia ma persino la dottrina.

Uno sguardo ortodosso

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Scrive Teodoro Andreadis Synghellakis su L’Huffington Post:

“E’ quasi superfluo sottolinearlo: anche il mondo ortodosso è rimasto fortemente colpito dalla decisione di Papa Ratzinger di dimettersi dal soglio pontificio e ritirarsi a vita monacale, come viene definita dai più. Alle tantissime considerazioni, analisi e critiche che abbiamo avuto modo di leggere sino ad ora, vorrei aggiungere un punto di vista, credo, differente, appunto perché non “romanocentrico”: il gesto del pontefice, porta, indirettamente, la chiesa di Roma più vicino al mondo ortodosso. Almeno questo è il mio parere, di un laico che rispetta il mondo della fede, senza farne parte, senza viverlo “dal di dentro”. E’ come se la Chiesa Cattolica – con la decisione di Joseph Ratzinger – abbia voluto mettere in discussione, almeno per un momento, la sua struttura verticistica immutabile per dare precedenza all’aspetto umano, terreno, fatto di debolezze e difficoltà, che caratterizza ogni suo rappresentante. Anche il più alto, il successore di Pietro.

Bisognerà vedere cosa accadrà d’ ora in avanti. Se dopo questa svolta “personale ed epocale” potrà trovare un ulteriore spazio anche questo processo di riavvicinamento col mondo ortodosso, grazie a un nuovo impulso di carattere sinodale, pur nei limiti e nelle regole che si è data la Chiesa d’Occidente. Era l’auspicio del cardinale Martini, quello di una Chiesa con una struttura sinodale più forte. Di un uomo di fede saldo nelle sue convinzioni, ma che sapeva ascoltare e comprendere, andando oltre inutili e insensate rigidità. Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno fatto passi importanti verso l’Ortodossia, con scambio di visite tra il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli e Roma. Al Fanar, nella sede del Patriarcato Ecumenico, la visita del Papa del 2006 ha provocato sincera commozione, e ne sono stato testimone diretto. “Mai più divisi”, si è sentito urlare dalla folla di fedeli, accorsi per vedere, insieme, Benedetto e Bartolomeo, sul piccolo balcone del Fanar. Occorre aspettare e cercare di verificare come potrà proseguire questo avvicinamento. Se sarà considerato lecito mettere in discussione anche un altro “tabù”, quello più forte di tutti: confrontarsi, cioè, sull’infallibilità del pontefice in materia di fede, vero ostacolo alla riunificazione con gli ortodossi, più di ogni altro.

Agli occhi, forse ingenui, di un laico, il gesto di questa umana rinuncia del papa tedesco, potrebbe far ben sperare. Potrebbe aprire la via a una Chiesa Cattolica Romana più aperta, meno rigida sulle questioni della morale, pronta, magari, a rimodulare anche la stessa figura del sommo pontefice. Si tratta, forse, di auspici che qualcuno potrebbe giudicare ai limiti dell’eresia. Ma in fondo, sarebbe solo un ritorno alle radici, alla Chiesa unita e indivisa del primo millennio.”

Dentro la Quaresima

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Scrive Giorgio Bernardelli su Vinonuovo:

“Andiamo avanti a parlarne. Sì, abbiamo assolutamente bisogno di continuare a parlare delle dimissioni di Benedetto XVI. Però – vi prego – almeno stavolta non buttiamola (come invece stiamo già facendo) sulle solite domande: ha fatto bene o ha fatto male? O addirittura: di chi è la colpa? Chi lo ha lasciato solo? E non fermiamoci neppure ai sentimentalismi: tu sei più o meno dispiaciuto di me? Se abbiamo capito qualcosa di questi quasi otto anni in cui Benedetto XVI ha servito la Chiesa come successore di Pietro, dovremmo almeno coltivare il desiderio di guardare come lui la storia con gli occhi della fede. Cioè con quello stesso sguardo che – come ci ricorda bene padre Lombardi – Joseph Ratzinger da Papa continuerà ad additarci fino al 28 febbraio. E allora la domanda per il cristiano oggi può essere una sola: in che modo il Signore ci parla attraverso questo gesto? La domanda è evidentemente molto grande e credo che la prima cosa sia custodirla nel cuore: questo è un passaggio che non possiamo avere la pretesa di incasellare subito con i nostri ragionamenti. Anche la vita della Chiesa ci parla di Dio e allora questo deve essere prima di tutto un tempo in cui porsi in ascolto. Ad esempio credo che potrebbe essere molto utile riprendere in mano in questi giorni quei brani del Vangelo che ci raccontano di come i discepoli molto spesso non capivano quanto stava facendo il Maestro. Questa è la situazione normale del cristiano; mi fanno sempre molta paura quanti anche di fronte ai gesti più grandi e più densi di novità non si sentono almeno un po’ tremare le gambe.

Fatta questa premessa – ma cercando di rimanere su questa stessa lunghezza d’onda – provo a balbettare un paio di idee. E la prima è legata alla giornata di oggi, il mercoledì delle Ceneri. Lo sottolineava bene già ieri Luca Bortoli, ma voglio esplicitarlo ancora di più: se provo a guardare con gli occhi della fede l’annuncio del Papa il primo aspetto che mi colpisce è il fatto che questo tempo di passaggio per la Chiesa avverrà tutto dentro il tempo forte della Quaresima. Credo che questo sia già di per sé un segno importante (e oso credere che Benedetto XVI ci abbia pensato). Un successore di Pietro si ritira per dedicare l’ultimo tratto della sua vita alla riflessione e alla preghiera proprio nel tempo durante il quale queste due dimensioni della vita cristiana ci vengono poste davanti come la strada maestra per l’incontro con il Signore Risorto. È come se oggi stessimo cominciando una Quaresima speciale. Perché stavolta – anche quando sarà finita – nel silenzio di un monastero in Vaticano sarà rimasto qualcuno ad accompagnarci e a ricordarci che quel passo in avanti, quel cambiamento che è chiesto alla nostra vita, non può subito spegnersi aspettando comodamente i buoni propositi della Pasqua successiva. È la Quaresima del primato della vita spirituale rispetto a tutto il resto, di Maria che rispetto a Marta sceglie la parte migliore che non le sarà tolta. Tra i miei ricordi professionali più belli c’è la sera dell’elezione di papa Ratzinger: la chiave di lettura che personalmente scelsi fu partire non dal Ratzinger teologo o dai suoi vent’anni in Vaticano, ma dal nome di Benedetto. Nome sorprendente – scrissi allora – ma soprattutto programmatico su quale fosse il tipo di risposta alla crisi della fede che il nuovo Papa aveva in mente. Ecco: credo che a quel nome dobbiamo tornare anche oggi. È un successore di Pietro che ha scelto di chiamarsi Benedetto quello che – non sentendosi più nelle condizioni per dare il massimo nel labora – sceglie di concentrarsi sull’ora. Nessuna fuga, nessun abbandono.

Questo riguardo a Joseph Ratzinger. Ma permettetemi di aggiungere un’ultima idea: anche il Conclave nel cuore della Quaresima a me pare un segno grande. Dopo la stagione ecclesiale che abbiamo vissuto, dopo gli scandali, i dossier sulla Curia e Vatileaks, che cosa meglio del cammino verso la Pasqua può aiutare i cardinali a ritrovare l’unico centro che può permettere di vivere in profondità questo momento? Perché – al di là dei racconti giornalistici – un conclave non è solo la scelta di un nome; è un momento in cui la Chiesa si guarda allo specchio, verifica il suo cammino. Ed è necessariamente anche un tempo di conversione, dal momento che da duemila anni sappiamo quanto grande sia – sempre – la distanza tra ciò che siamo e la fedeltà al Vangelo di Gesù. Certo, oggi non c’è più l’austerità delle cellette di appena qualche decennio fa, ma il Conclave resta comunque un tempo di grande sobrietà per chi vi partecipa. Non è che forse è proprio questo ciò di cui la Chiesa oggi aveva più bisogno?”

Uno spartiacque di secoli

Scrive Massimo Franco sul Corriere:

“«E adesso bisogna fermare il contagio…». Il monsignore, uno degli uomini più in vista della Curia, ripercorre le ultime ore vissute dal Vaticano come se avesse subito un lutto non ancora elaborato. E ripete, quasi fra sé: «Queste dimissioni di Benedetto XVI sono un vulnus : una ferita istituzionale, giuridica, di immagine. Sono un disastro». Così, dietro le dichiarazioni di solidarietà e di comprensione nei confronti di Josef Ratzinger, di circostanza o sincere, affiora la paura. È l’orrore del vuoto. Di più: della scomparsa dalla scena di un Pontefice che per anni è stato usato come scudo e schermo da molti di quelli che dovevano proteggerlo e ora temono i contraccolpi della fine di una idea sacrale del papato. Sono gli stessi che adesso avvertono l’incognita di un successore chiamato a «fare pulizia» in modo radicale; e a ridisegnare i confini e l’identità del Vaticano proprio cominciando a smantellare le incrostazioni più vistose. Le dimissioni vissute come «contagio», dunque. E commentate nelle stanze del potere ecclesiastico come un possibile «virus» che potrebbe mandare in tilt il sistema. «Se passa l’idea dell’efficienza fisica come metro di giudizio per restare o andare via, rischiamo effetti devastanti. C’è solo da sperare che arrivi un nuovo Pontefice in grado di riprendere in mano la situazione, fissare dei confini netti, romani , impedendo una deriva». Lo sconcerto che si legge sulla faccia e nelle parole centellinate dei cardinali più influenti raccontano un potere che vacilla; e un altro che, dopo avere atteso per otto anni la rivincita, comincia a pregustarla.

Eppure, negli schieramenti che si fronteggiano ancora in ordine sparso, non ci sono papa, benedetto xvi, dimissioni papa, chiesastrategie precise. Si avverte solo il sentore, anzi la convinzione che presto le cose cambieranno radicalmente, e che una intera nomenklatura ecclesiastica sarà messa da parte e rimpiazzata in nome di nuove logiche tutte da scrivere. Ma sono gli effetti di sistema che fanno più paura: e non solo ai tradizionalisti. Un Papa «dimissionabile» è più debole, esposto a pressioni che possono diventare schiaccianti. Il sospetto che la scelta di rottura compiuta da Ratzinger arrivi dopo un lungo rosario di pressioni larvate, continue, pesanti, delle quali i «corvi» vaticani, le convulsioni dello Ior, la «banca del Papa», e il processo al maggiordomo Paolo Gabriele sono stati soltanto una componente, non può essere rimosso. L’interrogativo è che cosa può accadere in futuro, avendo alle spalle il precedente di un Pontefice che si è dimesso. Da questo punto di vista, l’epilogo degli anni ratzingeriani dà un po’ i brividi, al di là del coro sulle sue doti di «uomo di fede». La voglia di proiettare immediatamente l’attenzione sul Conclave tradisce la fretta di archiviare una cesura condannata a pesare invece su ognuna delle scelte dei successori. Il massimo teorico dell’«inattualità virtuosa» della Chiesa che si fa da parte perché ritiene di non avere più forza a sufficienza evoca un peso intollerabile, e replicabile a comando da chi in futuro volesse destabilizzare un papato. Sembra quasi una bestemmia, ma la carica pontificale, con la sua aura di divinità, appare «relativizzata» di colpo, ricondotta ad una dimensione drammaticamente mondana. È come se la secolarizzazione nella versione carrierista avesse sconfitto il «Papa timido» e distaccato dalle cose del mondo; e le nomine controverse decise in questi anni da Josef Ratzinger si ritorcessero contro il capo della Chiesa cattolica. Rispetto a questa realtà, c’è da chiedersi che cosa potrà fare il «successore di Pietro» e di Benedetto XVI per ricostruire la figura papale. Il vecchio paradigma è franato; il prossimo andrà ricostruito non da zero, ma certamente da un trauma difficile da elaborare e da superare. E questo in una fase in cui la Chiesa cattolica si ripropone di «rievangelizzare» l’Europa, diventata ormai da anni terra di missione; di ricristianizzare l’Occidente contro la doppia influenza del «relativismo morale» e dell’«invasione islamica». Così, nel Papa che si ritrae con un gesto fuori dal comune, schiacciato dall’impossibilità di riformare le sue istituzioni, qualcuno intravede una metafora ulteriore: una tentazione a ritrarsi che travalica i confini vaticani e coinvolge simbolicamente l’Europa e l’Occidente.

Le dimissioni di Benedetto XVI, il «Papa tedesco», finiscono così per apparire quelle di un continente e di una civiltà entrati in crisi profonda; e incapaci di leggere i segni di una realtà che li anticipa, li spiazza, e ne mostra tutti i limiti di analisi e di visione: a livello religioso e civile. I detrattori vedono in tutto questo una fuga dalle responsabilità; gli ammiratori, un gesto eroico, oltre che un bagno di umiltà e di fiducia nel futuro. La sensazione è che per ricostruire, il successore dovrà in primo luogo destrutturare, se non distruggere. In quell’espressione, «fare pulizia», si avverte un’eco minacciosa per quanti nella Roma pontificia hanno sfruttato la debolezza di Ratzinger come «Papa di governo». La minaccia è già stata memorizzata, per preparare la resistenza. I distinguo appena accennati e le divergenze di interpretazione fra L’Osservatore romano e la sala stampa vaticana sul momento in cui Benedetto XVI avrebbe deciso di lasciare, sono piccoli scricchiolii che preannunciano movimenti ben più traumatici. Scrivere, come ha fatto il quotidiano della Santa Sede, che Benedetto XVI aveva deciso l’abbandono da mesi, significherebbe allontanare i sospetti di dimissioni provocate da qualcosa accaduto di recente, molto di recente, nella cerchia dei collaboratori più stretti. E l’approccio e il ruolo in vista del Conclave dell’attuale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e del predecessore Angelo Sodano, già viene osservato per decifrare le mosse di schieramenti ritenuti avversari. E sullo sfondo rimangono le inchieste giudiziarie che lambiscono istituzioni finanziarie vaticane come lo Ior. Di fronte a tanta incertezza, l’uscita di scena del Pontefice, annunciata per il 28 febbraio, è un elemento di complicazione, non di chiarimento. «Non possono esserci due Papi in Vaticano: anche se uno di loro è formalmente un ex», si avverte. La considerazione arriva a bassa voce, come un riflesso istintivo e incontenibile. Mostra indirettamente l’enormità di quanto è accaduto due giorni fa. E addita il problema che la Santa Sede si troverà ad affrontare nelle prossime settimane: la convivenza dentro le Sacre Mura fra il successore di Benedetto XVI e lui, il primo Pontefice dimissionario dopo molti secoli. Il simbolismo è troppo potente e ingombrante per pensare che Ratzinger possa diventare invisibile, rinchiudendosi nell’ex convento delle suore di clausura, incastonato in un angolo dei Giardini Vaticani. Eppure dovrà diventare invisibile: il suo futuro è l’oblìo. La presenza del vecchio e del nuovo Pontefice suscita un tale imbarazzo che qualcuno, come monsignor Rino Fisichella, non esclude novità; e cioè che l’abitazione definitiva di colui che fino al 28 febbraio sarà Benedetto XVI, alla fine sia individuata non dentro ma fuori dai cosiddetti Sacri Palazzi. Il Vaticano, però, è l’unico luogo dove forse si può evitare che venga fotografato un altro uomo «vestito di bianco», gli incontri non graditi, o controllare che anche una sola parola sfugga di bocca a un «ex» Pontefice: sebbene il Papa resterà tale anche dopo le dimissioni. «Ma il popolo cattolico», si spiega, «non può accettare di vederne due». Il paradosso di Josef Ratzinger sarà dunque quello di studiare e meditare, isolandosi in un eremo nel cuore di Roma proprio accanto a quel potere vaticano che ha cercato di scrollarsi di dosso nel modo più clamoroso.

D’ora in poi, seguire i suoi passi significherà cogliere gli ultimi gesti pubblici di una persona speciale che sa di entrare in una zona buia dalla quale non gli sarà permesso di riemergere. Al di là di tutto, la sensazione è che molti, ai vertici della Chiesa cattolica, abbiano una gran voglia di voltare pagina; e che lo sconcerto causato dal gesto di Ratzinger e l’affetto e la stima profonda nei suoi confronti siano bilanciati dal sollievo per essere arrivati all’epilogo di una situazione ritenuta ormai insostenibile. Probabilmente, qualcuno non valuta con sufficiente lucidità che Benedetto XVI non era il problema, ma la spia dei problemi del Vaticano; e che usarlo come capro espiatorio non cancellerà tutte le altre questioni rimaste aperte non soltanto per sue responsabilità. I sedici giorni di interregno che separano dal 28 febbraio, in realtà, segneranno uno spartiacque di secoli. E dimostreranno presto quanto abbia perso vigore non il Papa, ma alcune vecchie logiche. Almeno, Josef Ratzinger ha avuto il coraggio di vederle e rifiutarle.”

A vita? Non più

Scrive Ferdinando Camon

papa, benedetto xvi, dimissioni papa, chiesa, cattolicesimo“L’evento del millennio è accaduto ieri: il Papa si è dimesso. Tra i fedeli, quel miliardo e mezzo di credenti, su su fino ai più stretti collaboratori, nessuno se l’aspettava. Il Papa ha deciso da solo. È questo il suo dramma: avere la più alta autorità morale della Terra, e averla in quanto unico, insostituibile, vicario di colui che fu il primo vicario di Cristo. Il gesto pare, ma non è, inspiegabile dentro la biografia dell’uomo e dentro la storia del Cattolicesimo. Quando fu eletto papa, come tutti gli eletti prima di lui nel corso di secoli, avrà certamente dubitato di avere le forze per svolgere l’immensa missione (chi non ne dubita, non ne è degno), ma per lui, come per tutti coloro che sono stati attraversati dallo stesso dubbio, la risposta della Chiesa fu: Colui che ha voluto la tua elezione, ti darà le forze per sostenerla. Il che significa: tu non rappresenti qualcuno che ti elegge e ti abbandona, ma uno che ti elegge e ti accompagna fino alla morte e oltre. Se Ratzinger si dimette, di colpo, con un preavviso così tragicamente breve, vuol dire che non ce la fa più: l’impresa è al di sopra delle sue forze. Eppure è un papa “cattolicamente” perfetto, un papa che ha incarnato la sua dottrina in ogni campo e in ogni minuto. Un papa assolutista, come, chiedo scusa per coloro che dissentono o non capiscono, dev’essere ogni papa. Il documento che riassume perfettamente la sua dottrina si chiama “Dominus Jesus”, e di fronte a quel documento hanno storto il naso anche preti, vescovi, perfino cardinali, perché l’affermazione di quel documento è intransigente e drastica: “Tutta la verità sta nella Cattolicità”. È un documento che ogni papa dovrebbe approvare. Ma è un documento che afferma la vocazione del Cattolicesimo a fare storia seguendo le direttrici segnate dalla propria dottrina, non confondibili con altre direttrici dettate da politica o filosofia o scienza o antropologia. È un concetto che Ratzinger ha ripetuto spesso: ci può essere dialogo interculturale, ma non ci può essere dialogo interreligioso. Le culture sono prodotte dai popoli e dalla storia, e poiché i popoli sono tanti, sono tante anche le storie, e tra loro possono dialogare. Ma le religioni, specialmente le religioni che fanno la storia in questo secolo, Cristianesimo e Islamismo, sono “rivelate”, e le rivelazioni sono verità calate dal cielo sulla Terra, gli uomini non possono rielaborarle e modificarle e adattarsele a loro piacimento, possono soltanto accoglierle o rifiutarle: chi le accoglie è “dentro”, chi le rifiuta è “fuori”. Quale terribile, stupefacente, superumano orgoglio c’è nella dichiarazione che “tutta la verità sta nella Cattolicità”! Se tu vivi, lavori, preghi e predichi secondo questo principio, non puoi andare al dialogo con chi adotta un principio opposto, o puoi farlo basandoti su una sola idea-guida: l’altro deve convertirsi a te. Sei solo contro tutti. È una lotta che richiede una forza superumana. Forse nessun uomo può avere, da solo, la forza bastante. I papi vengono eletti già avanti con l’età, quando le forze declinano. E poi gli viene chiesto di svolgere un ruolo umanamente insostenibile. Con la sua fede altissima e rigidissima, che dà al suo papato un ruolo di scontro col mondo, Ratzinger sente che non ce la fa più: dottrinalmente “deve”, umanamente “non può”. Lui accusa l’“ingravescentem aetatem”, l’età difficile della vita, ma questa è anche un’età difficile della storia. Con questo gesto inatteso, che scuote la Terra fino ai suoi quattro punti cardinali, il grande, coerente, intransigente, non-perdonante (neanche a se stesso) papa tedesco, dice cose che ci vorrà tempo a capire. Tra le più immediate: il papato è un peso che schiaccia, occorre un eletto più giovane; il papato non può essere a vita, quando la vita declina il papa non ce la fa, deve poter tirarsi in disparte, “pro bono Ecclesiae”.”

Un credente filosofo di 85 anni

Scrive Jacopo Tondelli, direttore de Linkiesta:

“Una scelta che sta chiusa nel segreto di una coscienza. Di credente, di prete, di papa, bendetto xvi, dimissioni papa, chiesa, fedevescovo e di pontefice. Oltre il banalismo imperante e il vaticanismo dell’era di Twitter. Oltre la tentazione facile di trasfigurare la rinuncia di Benedetto XVI dentro categorie terrestri e mondane. Oltre il bisogno, anche il dovere se volete, di cercare il dettaglio decisivo nello scandalo insabbiato dello Ior. C’è un “oltre” che prende per mano l’uomo laico, e lo porta lungo l’abisso della fede, crinale incomprensibile e scandaloso e che interroga le coscienze di tutti, credenti e non. Perché provare a entrare nel cuore del credente Joseph Ratzinger è impresa titanica anche per chi sia dotato di grande fede, figuriamoci per tutti gli altri, per gli atei appesi a un “filo di fede” e per quanti questo filo lo hanno perduto o non l’hanno mai trovato. Eppure questa immedesimazione impossibile è l’unica via per provare a illuminare, magari fraintendolo, il percorso umano e la scelta di Joseph Ratzinger. Un credente filosofo di ottantacinque anni che da quando ne aveva venti si è dedicato a una missione intellettuale e di fede, alla comprensione e alla teoresi, allo studio di chi cerca di capire e sostenere con la ragione, fino a dove si può, i misteri della fede. Sapendo il limite dell’intelletto, dell’uomo, e la necessità e il bisogno di affidarsi e credere a quello scandalo della storia che è la morte e resurrezione di Gesù Cristo, e credendo – profondamente, coerentemente – alla Chiesa come incarnazione imperfetta eppure ineludibile del popolo di fedeli nella storia.

Capire, credere, essere Chiesa. Potremmo dunque definire così, in tre concetti rapidi e convenzionali, certo incapaci di restituire decenni di percorso che vivono per definizione l’eredità di millenni, il dna di quest’uomo che ieri ha scosso la storia come fosse un grande albero che pareva inamovibile. Con la forza del simbolo, alla faccia di chi credeva che la forza evocativa della Chiesa di oggi potesse darsi solo nelle adunate oceaniche del suo predecessore. È in questo percorso che dobbiamo provare a entrare se vogliamo guardare con le lenti giuste la rivoluzione di Ratzinger. Un uomo che è arrivato a guardare fin nelle viscere più profonde la fragilità della Chiesa cattolica, del suo esempio, della sua storia, del suo pensiero teologico e delle sue più profonde e radicali contraddizioni. Un uomo che per ventiquattro anni ha custodito, dai vertici della Congregazione per la Fede, l’ortodossia della dogmatica e poi, dal soglio Pontificio, ha guidato la Chiesa, la diocesi di Roma, il potere vaticano. Lo ha guidato, combattendone le incrostazioni, chiamando col loro nome le perversioni e i delitti (come la pedofilia e la corruzione) che sembravano un contagio virale dentro la sua Chiesa. Quella Chiesa senza la quale – il magistero di Ratzinger è rigorosissimo e fortemente tradizionale, in questo senso – non si dà la pienezza della fede in Cristo. E proprio qui – perdonerete queste congetture, fallibili certo, ma attente a non sfiorare l’empietà – stanno i nodi dell’abisso che ha portato Benedetto XVI decidere di essere il primo “ex Papa” della modernità. In questa indispensabilità della Chiesa, di quella Chiesa che Ratzinger sentiva il bisogno di rivoluzionare per riportarla alla pienezza della rivelazione, sta la vertigine di un cortocircuito che spaventa. Proprio nel suo frugare con il rigore dell’intellettuale e con il fervore di chi aveva dedicato un’esistenza intera a sostenere con l’intelletto il percorso della fede in Cristo e nella Chiesa, Benedetto XVI è arrivato sull’orlo di un baratro: e se i vertici della Chiesa, vera incarnazione di Cristo, fossero invece diventati una calcificazione troppo spessa, quasi un diaframma che tiene lontana la fede? Avrà pensato con tormento – su questo ha senso scommettere – alla sua sconfitta più grande: la bonifica dello Ior che aveva affidato a Ettore Gotti Tedeschi, espulso con infamie, come fosse un corpo estraneo, dal blocco vaticano che risponde alla segreteria di stato del cardinale Tarcisio Bertone. Avrà pensato all’umiliazione di uno scandalo senza confini, all’orrore della pedofilia, dentro alla Chiesa fondata da chi ammoniva: «Chi dà scandalo ai bambini, meglio per lui sarebbe che fosse gettato con una pietra al collo nel mare». Avrà pensato al limite, umanissimo, di chi per primo ha visto la realtà e l’ha nei limiti del possibile resa pubblica, invece di nasconderla dietro a un patto del silenzio che era solo ipocrisia, per poi ammettere che ciò che di cattivo e demoniaco c’era, nella sua Chiesa, era più forte della volontà di un Papa retto. Tanto che, commentando pochi mesi fa la guerra giusta di Joseph Ratzinger, un vecchio cardinale della Curia romana, uno che le ha viste tutte, sintetizzava così il quadro: «Qui dentro, il 30% sono corruttori, il 30% corrotti, il 30% impiegati in carriera, il 10% credenti. Ma solo il 2% sono santi».

E si è trovato così, Joseph Ratzinger, nudo e vecchio di fronte a un Crocifisso che taceva, ricordando ogni giorno alla sua Chiesa quell’atto fondativo, quella morte umiliante e tanto stridente con l’immagine di un ceto ecclesiale egemone che combatteva – tra l’altro – per non portare lo Ior a standard di trasparenza internazionali, arrivando in ritardo perfino sui più noti paradisi fiscali. Si è ritrovato, mentre il giorno ultimo si avvicinava a grandi passi, di fronte ai dilemmi di ogni vita, anche di quelle sostenute dalla fede più profonda, e fino all’abisso del dubbio, quello stesso dubbio di fede che assalì – perfino – Gesù Cristo inchiodato alla croce.

Lo immaginiamo, adesso, che conta i giorni che lo separano da quel silenzio, dai suoi libri, dalle messe celebrate in solitudine interrogando il buio delle chiese vaticane, ora illuminato dal sorriso pieno della fede, ora intorbidito dalla tentazione del dubbio e della memoria di nomi, volti, facce, empietà vestite di porpora. Lo vediamo immerso nella Parola, e ci piace sentirlo che ripete, tra sé e sé, quelle parole che San Paolo scrisse quando il martirio era già l’orizzonte, e che Benedetto XVI ha meditate diecimila volte nella sua lunga vita di cristiano: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione». In quell’ultimo giorno – il fedele Joseph lo sa – il Signore separerà i giusti dai traditori, i caldi dai tiepidi, i fedeli dagli empi. E la fede delle cose ultime, quelle che per il cattolico stanno dopo il transito terreno, sarà anche la sua pacificazione più profonda: dove ha fallito lui, grande uomo conscio di un’ancor più grande debolezza e irredimibile finitudine, non fallirà Lui. A quell’incontro di giustizia definitiva, di fede non riproducibile con le parole, si preparerà Joseph Ratzinger, ex Papa, e uomo giusto.

Lunga vita, Sua Santità.”

Tutto chiaro

Scrive Vittorio Messori sul Corriere:

“Ci sarà tutto il tempo per analisi, bilanci, previsioni. Oggi, ancora sconcertati, cercheremo solo di dare una possibile risposta a tre domande che ci sono subito sorte. Innanzitutto: perché, un simile annuncio, proprio in questo giorno di febbraio? Poi: perché in una riunione di cardinali annunciata come di routine? Infine: perché il luogo scelto per il ritiro da Papa emerito?

papa, bendetto xvi, dimissioni papa, chiesaRiflettendoci, dopo la sorpresa quasi brutale tanto è stata imprevista (e per tutti, nella Gerarchia stessa), mi pare si possano azzardare delle possibili spiegazioni. L’11 febbraio, ricorrenza della prima apparizione della Vergine a Lourdes, è stata dichiarata dall’«amato e venerato predecessore», come sempre lo ha chiamato, Giornata mondiale del malato. Ha detto Ratzinger, nel latino della breve e sconvolgente dichiarazione: «Sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». Terenzio, e poi Seneca, Cicerone e tanti altri avevano ricordato mestamente: senectus ipsa est morbus, la vecchiaia stessa è una malattia. Dunque, è infermo comunque chi, come lui, il prossimo 16 aprile compirà 86 anni. Ha aggiunto, infatti: «Il vigore del corpo e dell’animo negli ultimi mesi in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato». Quale giorno più adeguato, dunque, per prendere atto davanti al mondo della propria infirmitas di vegliardo di quello dedicato alla Madonna di Lourdes, protettrice dei malati? In fondo, anche in questo vi è un segno di solidarietà fraterna per tutti coloro che, per morbi o per anni, non possono più contare sulle proprie forze.

Ma perché (è la seconda domanda) dare l’annuncio, ex abrupto , proprio in un concistoro di cardinali per decidere la glorificazione dei martiri di Otranto, massacrati dalla furia dei turchi musulmani? Non crediamo che vi sia qui un qualche richiamo alla violenza di un certo islamismo, attuale ora come nel XV secolo della strage in Puglia. Crediamo, piuttosto, che in questi mesi Benedetto XVI abbia meditato sul primo e solo caso di abdicazione formale di un Pontefice nella storia della Chiesa, quello del 13 dicembre 1294, da parte di Celestino V. Vi erano stati, nei «secoli bui» dell’Alto Medioevo alcuni casi di rinuncia papale, ma in circostanze oscure e sotto la pressione di minacce e di violenze. Ma solo Pietro da Morrone, l’eremita strappato a forza alla sua cella ed elevato al soglio pontificio, abdicò liberamente ed ufficialmente, adducendo anch’egli soprattutto l’età più che ottuagenaria e la debolezza che ne conseguiva. Prima di compiere l’inedito passo, aveva consultato discretamente i maggiori canonisti che gli confermarono che la rinuncia era possibile, ma andava fatta «davanti ad alcuni cardinali». È proprio quanto ha deciso di fare Benedetto XVI, che non aveva che quel precedente cui rifarsi: precedente del resto, spiritualmente sicuro, in quanto il buon Pietro fu dichiarato santo dalla Chiesa e non meritava davvero l’accusa di viltade lanciatagli contro dal ghibellino Dante per sue ragioni politiche. Insomma, in mancanza di altre regole, papa Ratzinger, sempre rispettoso della tradizione, si è rifatto a quelle stabilite otto secoli fa dal confratello di cui voleva condividere il destino. Probabilmente, non è casuale anche il fatto che l’imprevisto annuncio sia stato letto solo in latino, quasi per richiamarsi anche in questo a quel precedente lontano.

Ma, per venire alla terza domanda, per quale ragione, dopo un breve soggiorno a Castel Gandolfo (deserto, e dunque disponibile, durante la sede vacante) il già Benedetto XVI si ritirerà in quello che è stato un monastero di clausura, all’interno delle Mura Vaticane? Questo, almeno, il programma annunciato dal portavoce, padre Lombardi. Non sappiamo se quella sistemazione sarà definitiva ma, in ogni caso, neppure questa è una scelta casuale. Dicono le ultime parole dell’annuncio di ieri: «Anche in futuro vorrò servire di tutto cuore, con una vita dedicata alla preghiera, la Santa Chiesa di Dio». Negli anni di pontificato ha ripetuto spesso: «Il cuore della Chiesa non è dove si progetta, si amministra, si governa, ma è dove si prega». Dunque, il suo servizio alla Catholica non solo continua ma, nella prospettiva di fede, diventa ancor più rilevante: se non ha scelto un eremo lontano – magari nella sua Baviera o in quella Montecassino cui aveva pensato papa Wojtyla come estremo rifugio – è forse per testimoniare, anche con la vicinanza fisica alla tomba di Pietro, quanto voglia restare accanto a quella Chiesa cui vuole donarsi sino all’ultimo. Né è casuale, ovviamente, l’aver privilegiato mura impregnate di preghiera come quelle di un monastero di clausura. Comunque, se la sistemazione in Vaticano sarà stabile, la discrezione proverbiale di Joseph Ratzinger assicura che non vi sarà alcuna interferenza col governo del successore. Siamo del tutto certi che rifiuterà pure il ruolo di un «consigliere» carico di anni ma anche di esperienza e di sapienza, pure se ci dovessero essere richieste esplicite del nuovo Papa regnante. Nella sua prospettiva di fede, il solo vero «consigliere» del Pontefice è quello Spirito Santo che, sotto le volte della Sistina, ha puntato su di lui il dito.

Ed è proprio in questa prospettiva religiosa che vi è, forse, risposta a un altro interrogativo: non era più «cristiano» seguire l’esempio del beato Wojtyla, cioè la resistenza eroica sino alla fine, piuttosto che quello del pur santo Celestino V? Grazie a Dio, molte sono le storie personali, molti i temperamenti, i destini, i carismi, i modi per interpretare e vivere il Vangelo. Grande, checché ne pensi chi non la conosce dall’interno, grande è la libertà cattolica. Molte volte, l’allora cardinale mi ripeté, nei colloqui che avemmo negli anni, che chi si preoccupa troppo della situazione difficile della Chiesa (e quando mai non lo è stata?) mostra di non avere capito che essa è di Cristo, è il corpo stesso di Cristo. A Lui, dunque, tocca dirigerla e, se necessario, salvarla. «Noi – mi diceva – siamo soltanto, parola di Vangelo, dei servi, per giunta inutili. Non prendiamoci troppo sul serio, siamo unicamente strumenti e, in più, spesso inefficaci. Non arrovelliamoci, dunque, per le sorti della Chiesa: facciamo fino in fondo il nostro dovere, al resto deve pensare Lui». C’è anche, forse soprattutto, questa umiltà, nella decisione di passare la mano: lo strumento sta per esaurirsi, il Padrone della messe (come ama chiamarlo, con termine evangelico) ha bisogno di nuovi operai, che vengano dunque, purché consapevoli essi pure di essere solo dei sottoposti. Quanto ai vecchi ormai estenuati, diano il lavoro più prezioso: l’offerta della sofferenza e l’impegno più efficace. Quello della preghiera inesausta, attendendo la chiamata alla Casa definitiva.”

Una trasparenza non sufficiente

Scrive Piero Schiavazzi su L’Huffington Post.

“Ci sono due notti romane, illuminate di fiaccole e dense di presagi, all’inizio e alla fine del Pontificato di Joseph Ratzinger. La prima lo precede come un antefatto, la seconda lo sigilla come un testamento.

La candidatura del cardinale tedesco affonda le radici nella predilezione del Papa polacco e germoglia in una primavera ancora fredda, sotto lo sguardo già immobile di Wojtyla, che gli affida come un’investitura la redazione dell’ultima Via Crucis, a pochi giorni dalla morte e all’acme del proprio Calvario. L’epilogo ha per teatro Piazza San Pietro, l’11 ottobre scorso, in una sera calda d’autunno e nel ricordo avvolgente di Papa Giovanni, a cinquant’anni dal Concilio e dal discorso della luna. “Quel giorno c’ero anch’io. Eravamo felici e pieni di entusiasmo”, ha esordito Ratzinger, guardando in basso dalla finestra e rivedendosi giovane tra la gente, nell’abbraccio del colonnato e di una stagione generosa di attese. “Oggi la nostra gioia è più sobria”, ha proseguito, scandendo un bilancio problematico, di retrogusto amaro e sapore montiniano. Il Papa professore, che il 19 aprile 2005 si era presentato al mondo con l’immagine solare della vigna, ha “imparato ed esperito” che in essa cresce “sempre anche la zizzania” e che i peccati personali possono organizzarsi, e stratificarsi, in vere e proprie “strutture”, utilizzando un concetto che Giovanni Paolo II, con il supporto del Cardinale Ratzinger, aveva elaborato mediante una chirurgia audace, astraendolo dall’analisi marxiana e depurandolo del nucleo materialista, in una sorta di battesimo culturale.

trasparenza.jpgContro le “strutture di peccato” Benedetto XVI ha combattuto senza riserve, avviando un’azione sistematica, irreversibile di trasparenza e portandone a tratti solitario il peso, fedele al dettato della Via Crucis al Colosseo, quando nelle meditazioni da lui redatte denunciò “la sporcizia” presente nella Chiesa. Alla glasnost di Joseph Ratzinger sono mancati però la forza, il tempo e forse il progetto per attuare una necessaria, consequenziale perestrojka. E, come già era accaduto a Gorbaciov, la glasnost senza perestrojka ci consegna un’istituzione più fragile, che per rigenerarsi ha bisogno di una leadership più forte. La “ristrutturazione”, o conversione, poiché la parola, come sottolineava Wojtyla, possiede un profilo spirituale, esige quello slancio, fisico e anagrafico, in definitiva quell’azione e concentrazione a tempo pieno, che il Pontefice sente di non potere offrire.

Ma il gesto che ha compiuto ieri, anche e soltanto in termini di forza, sprigiona una spinta di governo ed esprime un’autonomia di indirizzo con cui chi verrà dopo non potrà non raffrontarsi, già nel primo discorso della Sistina, davanti ai Cardinali che lo avranno eletto.”

Quella consapevolezza del limite

Scrive Salvatore Natoli su Avvenire.

“In un film recente e controverso – Habemus papam – il regista Nanni Moretti ci raccontava di un cardinale restio a diventare Papa perché non si sentiva idoneo a prendere su di sé il grande peso di governare la Chiesa, schivato peraltro anche dagli altri; oggi Papa Benedetto XVI che si dimette dal pontificato perché non si sente più nelle condizioni fisiche o spirituali – o spirituali e fisiche insieme – per potere stare ancora alla guida della Chiesa. Nella storia della Chiesa ci sono state dimissioni celebri – tutti ricordano quella di Celestino V – tanto che il diritto canonico le prevede, anche se non appartiene alla prassi ordinaria. Da laico non voglio entrare nel merito della teologia – e visto che si parla di papato neppure della teologia politica – ma mi limito a notare come in genere e per lo più si tenda a identificare la Chiesa con il Papa, anche se il papato è un servizio alla Chiesa nella Chiesa. Non voglio neppure affrontare la questione circa il rapporto tra persona e funzione in questo caso direi meglio mandato, ma mi pare che nelle dimissioni del papa motivo di riflessione siano le ragioni da lui avanzate.

Nel momento in cui per motivi diversi non ci si sente all’altezza del proprio compito è giusto riconsegnarlo a coloro da cui lo si è ricevuto; e in questo caso alla Chiesa. Una decisione degna di grande apprezzamento perché indica come non bisogna mai confondere il compito con il potere e perciò sulla necessità di intendere il potere come servizio. In una società in cui si tende ad identificare sé con il potere – tanto che nessuno si dimette se non sconfitto – le dimissioni del Papa mostrano un senso alto di responsabilità nei confronti del proprio compito e perciò anche di dedizione alla Chiesa. L’erogazione di un servizio presuppone la consapevolezza del limite e perciò il dovere di ritirarsi quando si ritiene di non essere più in grado di espletarlo al meglio.

Dimettersi in questo caso oltre ad essere indice di una grande qualità morale, è anche un atto razionale, consapevole di quello che si è in grado di fare o meno. D’altra parte Benedetto XVI, nel corso del suo pontificato si è sempre appellato alla ragione fino al punto da impegnarsi, da teologo, a mostrare la ragionevolezza della fede senza nulla togliere al suo mistero. Certo quel che seguirà a queste dimissioni non è facile da prevedere: quanto una presenza così importante come quella dell’ex Papa influirà sul conclave e, ancorché silente, condizionerà l’elezione del nuovo Papa? Come è noto certe conseguenze insorgono anche quando non si vogliono. Ma ciò nulla toglie al valore etico di chi declina un mandato e si mette a disposizione per altro servizio che può meglio sostenere. Certo il peso che il Papa lascia in eredità al suo successore non è lieve: la Chiesa si trova oggi per la prima volta ad operare in un ambiente totalmente secolarizzato; possiamo dire di ‘atei nativi’, come nei processi cognitivi si parla di ‘nativi digitali’. Non più contro Dio, ma senza Dio, almeno secondo il modo tradizionale di concepirlo.

Di questo il Papa stesso se ne era reso perfettamente conto quando ha lanciato l’idea di una nuova evangelizzazione, consapevole che il regime di cristianità sia definitivamente consumato e i cristiani sono divenuti minoranza. Per questo o tornano ad essere lievito o periscono. Per questo quel che Benedetto XVI non farà più da Papa continuerà a farlo nella forma in cui lo ha sempre fatto, educando all’ intelligentia fidei , da teologo. E su questo piano i non credenti restano ancora interlocutori possibili.”

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Nello spogliatoio della propria coscienza

Scrive Piero Schiavazzi su L’Huffington Post

“Sebbene il nome di Celestino V appaia in queste ore il più evocato nelle cronache e spogliatoio uomini 1.JPGcliccato sulla rete, il paragone storico delinea per contrapposizione non una fuga, bensì un atto di governo. Per la precisione una riforma: forse la più grande nella Chiesa del post-concilio. Il “gran rifiuto” di Benedetto, a differenza di Celestino, modifica la consuetudine, non la consolida. Non si presenta come l’eccezione da non riproporre, o l’incidente da evitare, ma in prospettiva potrebbe configurarsi come l’esempio da seguire, modificando nei fatti la costituzione materiale della Chiesa e introducendo un precedente con cui qualunque successore, da oggi in poi, dovrà confrontarsi, senza il rifugio della tradizione. Dopo questo 11 febbraio sarà difficile per ciascun Papa “anziano”, nell’era della leadership globale, prescindere da una valutazione di congruità fra il suo orizzonte anagrafico e l’esercizio di una responsabilità globalizzata ventiquattro ore su ventiquattro, di fronte all’avanzare degli anni. Una scelta di portata sicuramente riformatrice rivela dunque, in definitiva, un risvolto e un animo conservatore. Proprio perché assoluta, per rimanere tale, la monarchia spirituale di un Papa non può misurarsi con un tempo biologico altrettanto assoluto. Era questa l’unica, autentica e comunque sorprendente riforma del Pontificato che ci si potesse attendere da un Papa sinceramente conservatore. Per lui, del resto, la cornice storica di un Papato che si chiude a sette anni dall’elezione non è mai stata quella del decennio, ma semmai del millennio. Altrimenti non si spiegherebbe che un Papa ottuagenario, sapendo di non avere molto tempo davanti a sé, abbia dedicato la metà delle proprie giornate alla scrittura, dunque al futuro, invece che ai viaggi, alle visite, alla gente, al presente. Come Sant’Agostino, sulla soglia di un nuovo mondo dagli esiti e contorni indecifrabili, più che ai contemporanei ha rivolto lo sguardo ai posteri, convinto che il secolarismo non si affronta nell’arco di una generazione e la riconquista delle terre perdute non esige condottieri, ma nuove semine. La semina però, questa sì, oltre alla scrittura, impone freschezza e vitalità. Benedetto XVI, meditando la sua decisione, deve avere avuto negli occhi l’adunata planetaria di Rio. Non a caso, in questi mesi di ormai immediata vigilia, molti si erano meravigliati che non si parlasse del viaggio del Pontefice in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, nel continente dove vivono la metà dei cattolici del mondo e per la Chiesa è d’obbligo dimostrare, e ancor più mostrare, la propria vitalità. Il Papa che in estate scenderà in campo al Maracanà sa che dopo la scelta di Benedetto XVI niente è più come prima e che alla fine del tempo regolamentare anche per lui verrà il momento, nello spogliatoio della propria coscienza, di decidere se giocare o meno i supplementari.”