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Tag: dialogo

Posted on 19 novembre 202520 novembre 2025

Il Mali rischia di cadere in mano ad al-Qa’ida

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Dal settembre 2025 la coalizione jihadista JNIM assedia Bamako e controlla le vie d’accesso, bloccando carburante e beni alimentari e paralizzando gran parte del Mali. Il gruppo, affiliato ad al-Qa’ida, ha guadagnato terreno approfittando della crisi politica seguita al colpo di Stato del 2020, all’espulsione delle forze internazionali e alla debolezza dell’esercito maliano. Si prospettano tre scenari: una difficile riconquista militare da parte dello Stato, la possibile ma rischiosa presa di Bamako da parte dei jihadisti, oppure un negoziato tra governo e JNIM. Quest’ultima ipotesi appare la più probabile, benché implichi concessioni significative, tra cui un possibile ruolo politico per l’Islam radicale. Ma ecco l’approfondito articolo di Alessio Iocchi dell’Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale). A fondo pagina anche la puntata di Stories di ieri, 18 novembre, a cura di Cecilia Sala.

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“Da settembre 2025 la coalizione jihadista Jama’at Nusrat al-Islam wa’l Muslimin (JNIM) assedia Bamako, capitale del Mali dopo aver accerchiato altre importanti città: Mopti, Ségou, Nioro, San, Koutiala, Farabougou, Kayes, Timbuktu. I jihadisti pattugliano gli assi di circolazione per l’accesso alle città, bloccando tir e camion, sequestrando autisti, trasportatori e anche passeggeri dei bus di linea. Di conseguenza, come molte altre città maliane prima, Bamako è rimasta senza benzina e senza la quotidiana consegna di beni alimentari e animali dalle campagne. Il greggio, importato dai vicini Senegal, Costa d’Avorio e Guinea, è particolarmente vitale per il paese, essendo il Mali senza sbocco sul mare, senza riserve e dipendente dalla benzina per far funzionare i generatori e, dunque, tutto il sistema elettrico nazionale. Uffici e scuole sono rimaste chiuse per diversi giorni, ma a partire dal 8 e 9 novembre alcuni camion cisterna e tir sono potuti entrati nella capitale, a Ségou e San, consentendo la parziale ripresa di attività economiche e lavorative, il resto del Mali rimane virtualmente paralizzato. Con più di 4 milioni di abitanti, Bamako è non solo la città più grande ma anche il centro amministrativo, economico e culturale del paese, che finora era rimasto poco toccato da un’insorgenza limitata in prevalenza alle campagne.
Che l’assedio sia il prodromo di un’avanzata che porterà JNIM a conquistare la capitale e il cuore del potere? Bamako potrebbe essere una nuova Damasco, conquistata nel dicembre 2024 da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), anch’essa, come JNIM, organizzazione della galassia al-Qa’ida, ora al potere in Siria e transitata su posizioni decisamente più moderate? Oppure come Kabul, riconquistata dai Taliban nell’agosto 2021 a coronamento degli Accordi di Doha?

Gli incontri e gli scontri tra JNIM ed esercito
JNIM è una coalizione formata nel 2017 dai leader di Ansar al-Din, al-Murabitun, Katiba Macina ed elementi di al-Qa’ida nel Maghreb islamico (AQMI), gruppi jihadisti attivi nel corso della guerra civile maliana iniziata nel 2012. Guidata da Iyad ag Ghali e dal vice Amadou Koufa e affiliata ufficialmente ad al-Qa’ida, dal 2019 la coalizione è coinvolta in un conflitto con la provincia saheliana dello Stato Islamico (Islamic State-Sahel Province, ISSP) per il controllo di territorio e risorse, specie nel meridione del Mali. La competizione fra i due gruppi ha gettato la gran parte del paese nel caos e l’insicurezza sul territorio si è presto tradotta in instabilità istituzionale. Tra il 2020 e il 2021, sostenuto da proteste popolari organizzate dall’imam salafita Mahmoud Dicko, il colonnello Assimi Goïta rovesciava il contestato governo di Ibrahim Boubakar Keita (2013-2020). Il colpo di stato segnava anche l’inizio di una profonda rottura diplomatico-militare con la Francia, espulsa dal paese nel febbraio 2022 dopo un decennio di alti e bassi e presto seguita dal resto delle forze europee nel paese e dal contingente di peacekeeper ONU della MINUSMA. Liberatosi dalla complessa architettura securitaria francese e onusiana, Goïta accoglieva il gruppo paramilitare russo Wagner Group. Nel caos seguito all’espulsione di MINUSMA è possibile rinvenire le dinamiche che caratterizzano il conflitto anche oggi: se l’esercito, con enorme dispendio di uomini e risorse, riesce a riconquistare città e nodi strategici respingendo le milizie nelle campagne, queste ultime si pongono in controllo degli assi per l’approvvigionamento delle città fino alle frontiere – unici punti d’ingresso delle merci per un paese senza sbocchi sul mare. La pressione contro le forze governative ha visto un generale aumento nel corso degli ultimi dodici mesi. Nel 2024, dopo la brutale sconfitta inflitta a luglio all’esercito e agli ex Wagner (ora Africa Corps) nel villaggio di Tinzawaten dalle milizie secessioniste tuareg non-jihadiste, a settembre JNIM avvia la sua offensiva con il grande attacco alle caserme e all’aeroporto di Bamako – primo attacco nella capitale dal 2015 –, seguito dalle conquiste di diverse basi militari (Dioura, Boulkessi, Timbuktu, Mahou, Kayes, Farabougou, Nioro) e culminata con l’attuale accerchiamento delle città più importanti, inclusa Bamako.

E ora?
Gli scenari possibili sono tre, ma solo uno appare probabile – e auspicabile.
Il primo consiste nella liberazione degli assi di approvvigionamento diretti alle città da parte dell’esercito maliano. Per giungere a questo risultato, tuttavia, l’esercito dovrebbe dirigere una mobilitazione armata tale da concentrare il grosso delle forze nel quadrante sud-ovest del paese, tra Senegal e Costa d’Avorio. Questa strategia risulta difficilmente realizzabile per diverse ragioni: il generale indebolimento in cui versa l’esercito; le scarse possibilità di poter contare sugli alleati dell’Alleanza degli Stati del Sahel-AES (ovvero i due regimi golpisti di Burkina Faso e Niger); infine, la riluttanza del governo nel ricercare la cattura di punti chiave con la forza. Finora, esercito, secessionisti e jihadisti hanno preferito il ritiro graduale di fronte all’avanzamento delle forze opposte, come accaduto a Kidal. Infine, l’ipotesi di supporto da parte degli stati vicini dell’ECOWAS (l’organizzazione regionale dalla quale i tre regimi dell’AES sono ufficialmente usciti) – in primis da parte del Senegal – risulta al momento improbabile.
Il secondo scenario consiste nella conquista della capitale e nel rovesciamento del regime di Assimi Goïta da parte di JNIM. Si tratterebbe di uno scenario inedito. La conquista militare definitiva è un evento estremamente raro nei conflitti africani, e fino ad ora tutti i tribolati stati del Sahel sono riusciti ad evitarla. Al contrario, si sono spesso verificate lunghe e logoranti battaglie per il controllo, invero solo temporaneo, delle città più grandi, come Kidal o Timbuktu. La strategia di JNIM è chiara: soffocare il paese, renderlo ingovernabile e spingere l’esercito a negoziare. Tale strategia indica la volontà di raggiungere la massima posizione di vantaggio rispetto all’esercito, da usare come leva in un possibile negoziato. Tuttavia, la conquista di una capitale – palazzi delle istituzioni, banche, emittenti pubbliche, aeroporti – rappresenterebbe uno straordinario successo simbolico, e non solo, che potrebbe determinare il corso della guerra e dei negoziati. Se anche dovesse riuscirvi – e fosse poi in grado di mantenerne il controllo – JNIM dovrebbe comunque gestire, oltre a un’eventuale, vigorosa, controffensiva dell’esercito sulla capitale, il fronte rurale contro ISSP. E dovrebbe farlo disponendo di un minor vantaggio strategico rispetto, per esempio, ai Taliban nello scontro con la Islamic State Khorasan Province (IS-KP) nell’Afghanistan del 2021. I due gruppi, infatti, si scontrano nel paese dal 2015, ma è solo grazie al cruciale supporto militare americano richiesto nel corso degli Accordi di Doha a partire dal 2018, che i Taliban sono riusciti a mettere IS-KP alle corde. Inoltre emergono, sullo sfondo, importanti interrogativi politici. Al contrario di HTS in Siria, JNIM non ha mai tagliato i ponti con al-Qa’ida né perseguito in maniera programmatica l’obiettivo del cambio di regime politico, rimanendo fermo sulle posizione massimaliste e radicali tipiche del salafismo jihadista. In quanto coalizione, JNIM non dispone di un organo di governo centrale (come HTS o i Taliban), è frammentato su territori diversi e opera, rapido e mobile, soprattutto negli spazi rurali. Contrariamente ai Taliban, JNIM non dispone di partner internazionali che possano sponsorizzare un accordo come quello di Doha. Anche perché JNIM non veicola alcun messaggio di unità nazionale, come il deobandismo pashtun dei Taliban oppure “l’entità sunnita” evocata da HTS. Dentro JNIM convivono piuttosto diverse istanze: il comunitarismo fulbe e l’irredentismo tuareg, la lotta contro “istituzioni apostate” rappresentate dallo stato post-coloniale e un revanscismo etnico che maschera conflitti agrari.

L’opzione negoziale
Il terzo scenario, più realistico, è quello di un accordo negoziato fra le due parti. Il tema del “dialogo con i jihadisti”, per anni osteggiato dalla Francia, è divenuto finalmente concreto nel 2021 quando, in accordo con il governo militare, l’Alto Consiglio Islamico ha intrapreso il dialogo con ag Ghali e Koufa. Già nel 2012 ag Ghali aveva aperto al dialogo con le istituzioni e nel 2017 Koufa aveva esplicitato le richieste per trattare: l’espulsione delle forze militari “apostate” (Francia, MINUSMA) e la discussione sulla sharia. Se la prima condizione ha, col tempo, trovato la giunta militare dello stesso sentire dei jihadisti, la seconda rimane contestata. Il principio di laicità, di eredità coloniale, è intrinseco alla Repubblica del Mali e riformarlo equivarrebbe a cambiare in maniera indelebile le istituzioni. Il regime militare si trincera dietro la solita retorica: “i terroristi sono in missione per conto del neocolonialismo”. Eppure molte voci, anche vicine al governo, aprono non solo alla possibilità di dialogare, ma evocano direttamente il nome di Dicko, auto-esiliatosi in Algeria, per mediare. Il nome di Dicko e del suo movimento, divenuto inviso alla giunta militare a causa delle critiche al governo, è da tempo al centro del dibattito pubblico sulla possibilità di negoziare con JNIM a causa del suo reiterato impegno alla promozione del dialogo con “i terroristi”. Pragmaticamente, il governo – come i jihadisti – ha tutto l’interesse a negoziare, se vuole evitare la paralisi di Bamako e garantire l’arrivo e la partenza di camion cisterna per il carburante e di tir per le derrate alimentari. Una volta aperto il canale di comunicazione, forti della posizione di vantaggio, i jihadisti potrebbero ottenere la nomina di un governo meno ostile, forse anche apertamente islamico – qualcosa di impensabile fino a poco fa. Ag Ghali, abile stratega e negoziatore, già anni fa capitalizzò sulla sua partecipazione alle rivolte tuareg per ottenere importanti incarichi, prima in Mali e poi in Arabia Saudita. Oggi, alla guida di una coalizione più forte, tiene in scacco l’esercito e la capitale. Per il regime militare si tratterebbe di un salto nel vuoto che costerebbe credibilità e popolarità, ma le opzioni alternative sono terminate.
Gli incoraggianti esempi di dialogo fra istituzioni e jihadisti intrapresi, in contesti diversi, in Mauritania ed Algeria, vedevano gli esecutivi in vantaggio strategico sui jihadisti, al contrario del Mali. Isolato diplomaticamente, il Mali non può contare neanche sulle possibilità di sostegno dagli stati della AES: il Burkina versa in una situazione solo leggermente migliore, con il capitano Traoré trincerato nel Palazzo Kosyam a Ouagadougou, minacciato da golpe interni, e il grosso dell’esercito impegnato nel nord e nell’est del paese proprio a contenere l’espansione di JNIM verso la capitale; il Niger, invece, affronta da qualche mese una fortissima offensiva di ISSP nella regione di Tillaberi, a circa un centinaio di chilometri dalla capitale Niamey. Proprio Niamey, un centinaio di chilometri circa da Tillaberi, è la sede designata per la Forza Unificata dell’AES (FU-AES), unità militare congiunta dei tre paesi, definita operativa in settembre e tuttavia non ancora intervenuta sul campo. Gli scenari evocati, del tutto speculativi, non permettono previsioni ulteriori. Quel che è certo, purtroppo, è che la crisi decennale in Mali non vedrà una conclusione a breve.”

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Posted on 25 ottobre 202525 ottobre 2025

La non guerra è pace?

Scritta “Ubij Srbina”: uccidi il serbo (fonte)

In questi giorni si parla molto di congelamento del conflitto russo-ucraino. Ovviamente non significa pace. E il congelamento funziona finché la temperatura resta bassa. Al primo riscaldamento c’è il rischio molto concreto che il conflitto riprenda. Quindi congelare non significa risolvere. Il pensiero va alla situazione balcanica, anzi, alle situazioni balcaniche, di cui spesso si preferisce non parlare. Sia mai che le parole scaldino e scongelino… Su RivistaIlMulino ho trovato questo interessante articolo.

“Krajina: proprio così, senza la “u”. Con o senza, l’accezione è sempre quella: “zona di frontiera”. Qui però siamo nei Balcani, e la lingua è il serbo-croato. Che le terre di confine siano, per definizione, suscettibili di numerose guerre e poi di altrettante paci, avremmo tutti già dovuto saperlo, anche prima che il conflitto ucraino mandasse in frantumi l’illusione europea di sostanziale inviolabilità dei confini. Le vicende della Krajina croata sono però qualcosa non solo di poco noto in Occidente, ma anche di visceralmente doloroso, quasi angosciante. E questa è la storia di una pace ancora incompiuta.
Nata come frontiera militare nella seconda metà del Cinquecento per preservare le terre meridionali dei domini asburgici dalle incursioni e invasioni ottomane, la vecchia Krajina era assai più estesa della regione storico-geografica a cui oggi, generalmente, ci si riferisce; ma è proprio nel suo settore occidentale, vale a dire quello croato-slavone, che essa, da territorio adibito a mantenere la pace, è diventata un territorio in cui a essere mantenuta è proprio la guerra, in tutte le sue forme, anche quelle meno evidenti. Qui le comunità serbo-ortodosse giunsero soprattutto tra Sei e Settecento per sfuggire alle violenze delle truppe del Sultano. La loro integrazione si basava sui privilegi concessi dagli Asburgo; privilegi che erano tenute a ricambiare col servizio militare in caso di azioni belliche. La Krajina, per secoli, è stata quindi un territorio pronto, o per meglio dire, predisposto a una guerra di difesa.
Una “tempesta” che non giunse dalle profondità anatoliche né dal Bosforo, ma che si addensò, in tempi a noi molto più prossimi, direttamente nei cieli della stessa Krajina, portò un nuovo tipo di guerra. A originarla fu lo scontro di violente correnti provenienti sia da Zagabria che da Belgrado: la disgregazione della Jugoslavia socialista, sotto le spinte centrifughe del nazionalismo, interessò quasi subito questa regione; la vittoria del partito dell’Unione democratica di Croazia di Franjo Tuđman nel Novanta e la nuova Costituzione croata, che considerava i serbi non più come uno dei popoli costituenti della Repubblica, ma come una semplice minoranza; l’atteggiamento dei leader serbi locali, in particolare i due Milan (Babić e Martić), sostenuti dalla retorica di Milošević, che li appoggiava apertamente soffiando sul fuoco della paura; e poi la prima ribellione, la Balvan revolucija (“Rivolta dei tronchi”), con i suoi blocchi stradali che recisero i collegamenti tra la regione dalmata e il resto del Paese. Tutti nuvoloni, sempre più minacciosi, che preannunciavano la tempesta.
Ma fu nel ‘91, con l’indipendenza croata e con l’auto-proclamazione della Repubblica serba di Krajina, che il cielo si scurì irrimediabilmente. Quest’ultima pose la capitale a Knin, cittadina dalmata allora a maggioranza serba, provocando un massiccio esodo di croati, accompagnato dalle immancabili violenze. Il territorio secessionista occupava circa il 20% del neonato Stato croato e il congelamento del conflitto, l’anno successivo, fu solo un’illusione di stabilità.
Con la caduta nel vuoto degli ultimi negoziati a inizio ‘95, si gettarono le basi per il culmine di quella che tanti croati, specialmente i nazionalisti, chiamano ancora oggi domovinski rat, “guerra patriottica”. Oluja, l’“Operazione tempesta”, investì la Krajina a partire dalle 5 del mattino del 4 agosto 1995. Il notevole dispiegamento di forze, l’appoggio dell’intelligence statunitense e, non ultimo, il venir meno del supporto diretto di Belgrado alle milizie di Martić favorirono il rapido successo governativo. Non si volle dare nemmeno il tempo alla comunità internazionale di intervenire a tutela dei civili, e ciò comportò un prezzo altissimo per il territorio interessato e per la sua storica presenza serba. Per numero di sfollati, circa 200 mila, si materializzò una delle più vaste pulizie etniche dalla Seconda guerra mondiale. La percentuale dei serbo-croati crollò dal 15 al 4,5%. In appena 4 giorni la “tempesta” si era sfogata, ma la guerra in Croazia era davvero finita?
Non è più guerra guerreggiata, ma non è ancora vera pace. Come mai? Per rispondere, bisogna considerare il permanere di diversi fattori che non favoriscono il risanamento delle ferite, né sociali e umane, né materiali e territoriali. In primis, l’atteggiamento degli alti esponenti politici: auto-giustificazione e glorificazione nel caso croato; autocommiserazione e retorico vittimismo nel caso serbo. In entrambi si cerca di rinnovare nelle masse la convinzione che la propria parte fosse nel giusto e che tutte le responsabilità vadano fatte ricadere sull’altro. Ma, propaganda a parte, nei fatti come si mantiene una semi-pace? Una sintesi delle criticità può essere ricavata dalle parole di Milorad Pupovac, esponente di spicco del Partito democratico indipendente serbo, che rappresenta i serbi di Croazia oggi, e che nel 2019 diceva: “Non vi sono cambiamenti significativi, il problema maggiore è rimasto quello dell’assenza di procedimenti legali per i crimini di guerra e l’esodo forzato di quei giorni, la distruzione dei villaggi e il saccheggio delle proprietà, oltre che l’impedimento al ritorno. […] non vi sono visibili intenzioni di risolvere questi problemi”.
I riferimenti che si ricavano sono numerosi. Si parla di una giustizia che ha spesso fallito i suoi obiettivi, a partire dalla mancata condanna definitiva dei comandanti militari di Oluja, i generali Ante Gotovina e Mladen Markač: dopo aver ricevuto una pena rispettivamente di 24 e 18 anni di carcere dal Tribunale dell’Aja nel 2011, sono stati assolti in appello l’anno successivo con una sentenza a dir poco controversa. Tagliente la dichiarazione di Carla Del Ponte, ex-procuratrice capo del medesimo tribunale: “Il presidente della Croazia [all’epoca Ivo Josipović] ha detto che sono stati commessi errori durante la guerra: non si chiamano più crimini, ma errori? Questa sentenza dà un duro colpo alla credibilità della giustizia”.
Si può stilare una lunga lista di politici (a partire dallo stesso Tuđman) e di altri militari croati sui quali, nel tempo, sono emerse responsabilità sempre più pesanti circa una strategia di pulizia etnica a danno dei serbi – non solo durante e dopo Oluja, ma anche in precedenza – e per i quali sono state emesse poche e spesso tardive condanne. Una guerra che la giustizia ha, in buona parte, perso contro l’ingiustizia.
Esiste poi una “guerra dei numeri”, come la definisce la giornalista Nicole Corritore: ancora oggi si discute sia sul numero dei morti che su quello dei profughi. Il centro “Veritas” di Belgrado parla di 835 civili serbi periti solo durante l’operazione militare, 1.070 contando anche lo stillicidio di uccisioni che caratterizzò agosto e settembre. Altre fonti serbe dichiarano 1.205 morti, mentre la sezione croata del Comitato Helsinki ne registra 677. Inoltre, in Serbia si parla normalmente di 250 mila profughi, circa 50 mila in più del numero stimato dal centro “Documenta” di Zagabria. Non ci sono però dubbi su un fatto: la maggior parte dei morti civili erano anziani.
Gli effetti materiali di Oluja, già da soli, hanno creato i presupposti per un duraturo stato di difficile ritorno e reinsediamento dei serbi di Croazia, i quali sono in larga parte rimasti in Serbia o nella Republika Srpska. Un numero considerevole di abitazioni è stato saccheggiato e dato alle fiamme: oltre 20 mila gli edifici distrutti secondo il Comitato Helsinki. “Una sorta di museo dell’orrore a cielo aperto, un perenne monito della desolazione e dell’abbandono che solo le guerre producono e che nessuna bandiera nazionale può cancellare” scrive il giornalista Marco Siragusa descrivendo il tragitto tra Drniš e Knin, nell’entroterra dalmata. Ma gli scheletri degli edifici non sono le uniche cicatrici che il territorio martoriato della Krajina restituisce: il fotografo Igor Čoko, originario di Knin, dice che “la guerra cova sui muri”: “Oluja 95”, “Ubij Srbina” (uccidi il serbo) sono alcune delle scritte sinistre diventate elementi caratteristici del paesaggio antropico.
Dai muri alla terra. Croazia: le mine uccidono ancora è il titolo dell’articolo che annunciava la morte di un cacciatore presso Sinj, in Dalmazia (N. Corritore, Osservatorio balcani e caucaso transeuropa, 6.2.2023). Prima di lui, tra il 1991 e il 2021, altri 2.017 civili sono rimasti coinvolti nell’esplosione di mine, di cui 524 hanno perso la vita. Anche tra gli sminatori il bilancio è tragico: 152 feriti e 65 morti in operazioni di bonifica. È la guerra nel suolo, la più simile all’originale, perché continua a mietere vittime con le armi. Nonostante l’opera di sminamento sia molto più a buon punto rispetto alla confinante Bosnia, a fine 2020 erano quasi 280 i chilometri quadrati di territorio ancora contaminato; nel 1996 erano 13 mila secondo le stime dell’Onu.
Il primo conflitto ad aver seguito la fine della guerra “maggiore” fu però la “guerra tra poveri”, come la chiama Mauro Barisone, che negli anni del conflitto lavorò come volontario sul campo nell’ambito dell’Operazione Colomba. Lui e i colleghi erano “colombe” che, volando in mezzo alla “tempesta”, cercavano di portare, se non la pace, almeno la speranza. Con quella sua triste locuzione, si riferisce alla vera e propria lotta per la sopravvivenza che si originò, dopo Oluja, tra i pochi serbi rimasti e i profughi croato-bosniaci indotti a trasferirsi per consolidare il ribaltamento etnico della Krajina. Erano tutte vittime viventi delle guerre jugoslave, sopravvissuti che si contendevano il possesso di abitazioni devastate e prive dei minimi servizi per una vita dignitosa.
La forma di guerra che fa più fatica a scomparire è però quella alimentata dall’indifferenza e dall’ignoranza. Assomiglia piuttosto a una guerriglia, in quanto perdurante e riemergente in modo più o meno localizzato e imprevedibile. Mi riferisco a episodi di intolleranza che si sono verificati anche negli ultimi anni, come le ripetute aggressioni fisiche a danno di serbi. Ma parlo anche di un costante clima di ostilità nei confronti di coloro che osano sfidare la narrazione nazionalistica e mettere in luce le innumerevoli macchie di Oluja. Anche se siamo lontani dai tempi in cui possibili testimoni di processi saltavano in aria, giornalisti scomodi finivano nella lista nera dei nemici dello Stato e intellettuali pro-verità venivano emarginati e pesantemente attaccati congiuntamente da stampa e politici, non va sottovalutata una certa dialettica del terrore. Ne sa qualcosa lo scrittore italo-croato Giacomo Scotti, autore di un libro-diario che racconta e denuncia le atrocità legate all’”Operazione Tempesta” (Croazia, operazione Tempesta. La “Liberazione” della Krajina ed il genocidio del popolo serbo, Gamberetti, 1996). Dopo aver subito un’aggressione potenzialmente fatale nel 1997, è stato bersaglio di minacce e insulti da parte di frange dell’estrema destra croata all’indomani dell’assoluzione dei due summenzionati generali.
Con l’inizio del nuovo decennio una serie di incoraggianti segnali per la pace si è palesata. E se la politica è spesso restia a dare il buon esempio, un notevole ruolo viene svolto da enti non governativi, molti dei quali croati. A far riguadagnare terreno alla giustizia abbiamo, ad esempio, il centro “Documenta” di Zagabria, molto attivo nel prestare preziosa assistenza legale ai parenti delle vittime di crimini o di mancata restituzione di beni, tanto da aver conseguito alcuni significativi successi in tribunale. Tra questi, si può segnalare la sentenza del 2012 con la quale la Corte suprema croata, rispetto all’eccidio di Varivode (settembre 1995), ha riconosciuto che “è stato perpetrato un atto di terrorismo”. Ma anche sul fronte della “guerra dei numeri” ha ottenuto risultati: nel dicembre 2018 è stata presentata a Dubrovnik la “Mappa delle vittime delle guerre 1991-2001 sul territorio della ex Jugoslavia”, frutto di un intenso lavoro di collaborazione tra il “Documenta”, il “Centro per il diritto umanitario” (di Belgrado e di Pristina) e l’“Associazione per la giustizia, la responsabilità e la memoria di transizione” (di Sarajevo).
Purtroppo, la vittoria in alcune di queste guerre è strettamente legata alle disponibilità economiche e alle scelte politiche di favorire gli investimenti, come per la bonifica dalle mine o per il rientro dei profughi. Marco Siragusa ci offre un’inquietante lettura a riguardo: “Mantenere quelle case distrutte o i campi minati attorno serve a ricordare la brutalità del nemico, ad alimentare la paura per quei vicini diventati improvvisamente assassini”. Buona parte della campagna e del territorio rurale – di cui la Krajina è composta per la sua quasi totalità –, senza investimenti e senza l’apporto di giovani, è destinata a restare semi-abbandonata. Non va meglio all’ex capitale ribelle: a differenza di Vukovar, la “Stalingrado croata”, che è letteralmente rinata dalle ceneri, Knin “è stata lasciata a marcire, abbandonata in tutti i sensi” constata amaramente Igor Čoko.
Tuttavia, ciò che può veramente fare la differenza e favorire una solida pace nel lungo periodo, influenzando la stessa politica, è una presa di coscienza sempre più ampia nella società civile, in particolare tra le nuove generazioni, chiamate a gestire il complesso futuro di paesi come Croazia e Serbia. E sono proprio i giovani a dimostrarsi più permeabili al confronto costruttivo, piuttosto che alla propaganda.
Senza la divulgazione della verità, il rinnovamento del ricordo delle vittime, il perseguimento della giustizia, c’è il rischio che il cielo sopra la Krajina rimanga cupo. A differenza della guerra, che fissa due visioni, due narrazioni contrapposte, la pace ha bisogno di un terreno comune per consolidarsi, di un riconoscimento reciproco di responsabilità, di condivisione di valori che non possono essere quelli divisivi del nazionalismo.
Da qui l’importanza anche delle collaborazioni oltre i confini. Ne è un esempio la manifestazione congiunta di un gruppo di giovani serbi e croati nel 2019, quando hanno ricordato assieme sia le vittime di Oluja sia i morti croati dell’immane eccidio di Ovčara, in Slavonia, compiuto dall’esercito federale jugoslavo e da paramilitari serbi nel novembre del 1991. Così facendo, hanno gettato “una timida luce in un buio panorama di negazione, rimozione o addirittura revisione della storia” scrive Nicole Corritore. In occasione del XXVI anniversario di Oluja, invece, sono stati il “Documenta”, croato, e il “Centro per il diritto umanitario”, serbo, a gestire la campagna social Storm in The Hague, volta a sensibilizzare sulle contraddizioni emerse nei processi ai due generali.
Volendo riconoscere qualche merito anche alla politica, va detto che il periodo a cavallo tra lo scorso e l’attuale decennio sembra aver rappresentato uno spartiacque tra due bacini temporali. Nel primo, l’atteggiamento e la narrazione erano ancora nettamente connotati da un certo bellicismo, sia nel linguaggio sia negli intenti; nel secondo, invece, hanno cominciato a trovare sempre maggior spazio una distensione e una più equilibrata presa di coscienza. “Non è mai successo prima che un ministro partecipasse a una commemorazione delle vittime dell’operazione Tempesta”: queste le parole pronunciate da Vesna Teršelič riguardo alla visita, nel 2020, del ministro dei Veterani croato Tomo Medved al villaggio fantasma di Grubori, per ricordare un massacro di civili serbi. Una sorpresa che l’attivista ha definito “una prima crepa nella retorica della vittoria”.
Trent’anni dopo, la transizione dalla guerra alla pace deve poggiarsi su solide basi sociali, prima ancora che politiche, e la “tempesta” sulla Krajina potrà finalmente diradarsi. Compiendo l’unica pulizia auspicabile, quella dell’indifferenza e dell’ignoranza, si potrà uscire dallo stato limbico di “non più guerra ma non ancora pace” che in molte regioni dei Balcani, non solo in Krajina, persiste.”

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Posted on 24 ottobre 2025

Trovare una connessione

Durante un po’ di zapping su internet mi sono imbattuto in un articolo del Guardian a firma di Kat Eghdamian, “esperta di diritti umani, scrittrice e consulente in materia di religione, etica e giustizia sociale. Con esperienza di lavoro in diversi continenti, esplora come la fede e i quadri morali plasmano l’identità e la società”. Ho utilizzato il traduttore integrato a Chrome. L’argomento? Il ruolo che possono avere oggi le religioni.

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“Sono nata in Iran dopo la Rivoluzione islamica del 1979, quando la religione divenne l’architettura della vita pubblica. Ma fu proprio questa fusione di fede e potere a costringere la mia famiglia a fuggire. Fummo perseguitati non per aver infranto la legge, ma per appartenere a una comunità religiosa minoritaria, i Bahá’í – una persecuzione che continua ancora oggi . Questa esperienza mi ha insegnato come la religione possa essere usata per escludere, disumanizzare, dominare. Ma mi ha anche insegnato che ignorare la religione non è la risposta.
Oltre l’ 80% della popolazione mondiale si identifica con una religione. Eppure, in molte parti del mondo, soprattutto in Occidente, la religione è trattata come una questione privata, qualcosa che è meglio tenere fuori dalle conversazioni educate o, nel peggiore dei casi, una fonte di divisione e pericolo. Viviamo in un paradosso: un mondo profondamente religioso che sempre più spesso non sa come parlare di religione.
Questo silenzio non è neutrale. Crea una sorta di analfabetismo culturale, soprattutto in un momento in cui la religione continua a plasmare la geopolitica, i movimenti sociali e le vite personali, dall’ascesa del nazionalismo religioso alle risposte basate sulla fede alle crisi umanitarie. E in luoghi come gli Stati Uniti, sta diventando ancora più centrale nel dibattito pubblico, spesso con una posta in gioco politica elevata.
Come possiamo quindi parlare di religione in un mondo che ha bisogno di chiarezza morale ma teme il linguaggio morale?

La religione come eredità condivisa
Un’idea che mi ha aiutato a riformulare il modo in cui parliamo di religione proviene dalla mia fede: il concetto bahá’í di rivelazione progressiva. Insegna che le principali religioni del mondo sono espressioni della stessa realtà spirituale, rivelata in tempi diversi per soddisfare i bisogni in continua evoluzione dell’umanità. Non sono ideologie rivali, ma capitoli di un’unica storia. Non verità diverse, ma diversi riflessi di un’unica verità.
Immaginate se ci avvicinassimo alla religione non come a un insieme di fazioni da difendere o da contrastare, ma come a un’eredità condivisa. Cosa succederebbe se smettessimo di chiederci chi abbia ragione e iniziassimo a chiederci cosa stanno cercando di mostrarci: sulla giustizia, l’umiltà, il perdono, l’anima e la sacralità della vita?
Questo passaggio – dal dibattito sulle differenze alla ricerca di un significato condiviso – non è solo teorico. L’ho visto funzionare.
Nelle comunità di rifugiati in Medio Oriente, ho visto come gli sforzi interreligiosi di base abbiano aiutato le persone sfollate provenienti da contesti religiosi opposti a iniziare a guarire. In un campo in Giordania , donne cristiane e musulmane hanno iniziato a cucinare insieme durante il Ramadan e la Pasqua, organizzando infine banchetti comunitari per l’intera comunità. Non si trattava di programmi istituzionali, ma di silenziosi gesti di dignità e di riparazione, radicati nella fede e nella volontà di vedere l’umano dietro l’etichetta.

Trovare una connessione
Nella mia ricerca di dottorato sui rifugiati siriani appartenenti a minoranze religiose a Berlino, ho scoperto che le politiche di integrazione laiche spesso non tenevano conto del ruolo centrale che la religione svolgeva nel senso di identità, appartenenza e guarigione delle persone. L’integrazione prosperava non quando la religione veniva ignorata, ma quando veniva affrontata – attraverso il dialogo interreligioso, spazi spirituali condivisi o il riconoscimento delle festività religiose. Questi approcci non cancellavano le differenze. Aiutavano le persone a progredire insieme. La religione divenne meno una linea di demarcazione e più un filo conduttore.
Anche qui, nel mio quartiere periferico in Aotearoa, Nuova Zelanda, vedo scorci di questo ogni settimana. Per strada, le famiglie provengono da musulmani, cristiani, sikh, indù, bahai e da altre culture diverse. Ogni venerdì pomeriggio tengo una lezione semplice per i bambini del quartiere. Cantiamo, raccontiamo storie ed esploriamo temi come la gentilezza, la sincerità e la nobiltà dello spirito umano. È uno spazio in cui i bambini possono scoprire la propria identità spirituale e la capacità di contribuire al mondo che li circonda. Nel tempo, questo ha silenziosamente unito la nostra comunità. Anche i genitori hanno trovato un legame, non attraverso l’uniformità, ma attraverso il desiderio condiviso che i loro figli crescano come esseri umani giusti e compassionevoli.

Rimani curioso
Questa idea – che la verità spirituale si disveli nel tempo – ha cambiato il mio modo di vivere. Ha plasmato il modo in cui cresco i miei figli, il modo in cui mi relaziono con i vicini di fede diversa e il mio impegno nella vita pubblica. Mi aiuta a rimanere curiosa invece che sulla difensiva e ad avvicinarmi agli altri non attraverso categorie fisse, ma con un’apertura a ciò che potremmo imparare gli uni dagli altri.
Ed è proprio questo il nocciolo della questione: l’immaginazione morale, la capacità di vedere non solo ciò che è, ma anche ciò che potrebbe essere. Ci invita a porci nuovi tipi di domande:
Cosa significa vivere una vita significativa?
Come possiamo tenere nella stessa mano sia la venerazione che la ragione?
Quali verità custodiscono le nostre tradizioni e di cui il mondo ha ancora bisogno?
Cosa succede quando smettiamo di parlare di religione e iniziamo ad ascoltarla?
Non sono domande facili. Ma sono importanti. Sebbene i quadri teologici secolari offrano molti strumenti, spesso non riescono a dare voce ai desideri più profondi dello spirito umano. E sebbene la religione sia stata abusata, può anche essere recuperata, come fonte di chiarezza, compassione e scopo condiviso.
Riconoscere la saggezza della religione non significa negare il danno che ha causato. Significa raccontare la storia completa, separando la fede dal fanatismo e scegliendo non il silenzio ma un linguaggio migliore: un linguaggio radicato nell’umiltà, nella ricerca e nella speranza.
Non abbiamo bisogno di meno religione nella vita pubblica. Abbiamo bisogno di modi migliori di parlarne, modi che consentano sia ai credenti che ai non credenti di impegnarsi in modo significativo, con onestà e profondità.
Forse tutto inizia con un semplice cambiamento. E se le religioni del mondo non fossero rivendicazioni contrastanti, ma riflessi di un’unica verità in divenire? E se, al di là di tutte le nostre differenze, ci fosse un’unica storia raccontata in tante lingue?
Se credessimo a questo, potremmo smettere di chiederci chi ha ragione e iniziare a chiederci cosa è possibile. E forse allora, potremmo finalmente iniziare a costruire il mondo in cui tutti desideriamo vivere.”

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Posted on 23 settembre 2025

Comunicare in una società polarizzata, il pensiero di Francesco

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Ho tenuto per ultimo l’articolo più corposo e meno recente. Non è una lettura leggera, ma la ritengo interessante e adatta a concludere questo trittico sulle polarizzazioni. Si tratta di un testo di Diego Fares e Austen Ivereigh, pubblicato sul Quaderno 4047 de La Civiltà Cattolica il 2 febbraio 2019. E’ importante sapere la data perché vi sono alcune cose che vanno contestualizzate.
“Comunicare in una società polarizzata, essere promotori di unione, di incontro, di riconciliazione, di corrispondenza nella diversità: qual è l’atteggiamento, la forma mentis necessaria per essere buoni comunicatori in un contesto in cui la polarizzazione vuole  imporre la propria legge a ogni discorso pubblico o privato?
La polarizzazione è un fenomeno antico quanto l’uomo, ma che oggi tende a incrementarsi esponenzialmente di fronte a cambiamenti e incertezze su vasta scala. Negli Usa, Paese in cui attualmente quasi la metà degli elettori, sia democratici sia repubblicani, vedono i propri avversari politici come una minaccia al benessere della nazione, la crescente polarizzazione ha dato origine a studi e progetti finalizzati a superarla (Cfr i risultati dell’inchiesta del Pew Research Center, «Partisanship and Political Animosity in 2016», 22 giugno 2016).
In questo ambito spicca lo psicologo sociale Jonathan Haidt [noto ultimamente per il best seller “La generazione ansiosa” ndr], che in The Righteous Mind ha sottolineato l’importanza delle «intuizioni morali» e il fatto che le persone cerchino argomenti per difenderle (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Torino, Codice, 2013). Per oltrepassare il fossato che li separa, liberali e conservatori hanno bisogno di apprendere quali sono le intuizioni morali che rispettivamente li motivano.
L’organizzazione civica Better Angels cerca di «depolarizzare l’America», attuando progetti pratici nei quali riunisce sostenitori dei democratici e dei repubblicani. Il fondatore, David Blankenhorn, che descrive se stesso come una persona ferita dalle culture wars americane, ha individuato sette «atteggiamenti» per «depolarizzare» il conflitto, deducendoli dalle sette virtù classiche del cristianesimo. Le tre virtù più elevate, secondo Blankenhorn, sono:
1) «criticare da dentro», vale a dire criticare l’altro a partire da un valore che si ha in comune (riconoscendo che le intuizioni morali di solito sono universali);
2) «guardare ai beni in gioco», cioè riconoscere che, mentre alcuni conflitti riguardano il bene in contrasto con il male, la maggior parte di essi avvengono tra beni, e l’incombenza pertanto non consiste tanto nel separare il bene dal male, quanto nel riconoscere e soppesare beni in competizione tra loro;
3) «contare più di due», cioè superare la tendenza a dividere per binomi antagonistici, che conducono a pseudo-contrasti.
(Gli altri quattro atteggiamenti riguardano l’importanza di dubitare, di precisare, di sfumare e di mantenere la conversazione. Cfr «The Seven Habits of Highly Depolarizing People», in ; D. Blankenhorn, «Why polarization matters»).
Anche nella Chiesa cattolica americana possiamo riscontrare tentativi di superare le acute divisioni intraecclesiali tra praticanti «progressisti» e «conservatori». Nel giugno del 2018, per esempio, la Georgetown University ha patrocinato un incontro di 80 autorevoli esponenti cattolici con lo scopo di superare la polarizzazione sulla base della dottrina sociale della Chiesa e dell’insegnamento di papa Francesco. Uno dei relatori, il cardinale e arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, ha fatto notare la distinzione tra «parteggiare» e «polarizzarsi». Il primo atteggiamento comporta divisione o disaccordo, e tuttavia consente di lavorare assieme per raggiungere finalità condivise; invece, nel secondo caso, l’isolamento e la sfiducia degli uni verso gli altri rende impossibile la cooperazione. Cupich ha fatto riferimento a san Giovanni Paolo II e alla sua equiparazione della polarizzazione a un peccato, perché suscita ostacoli che paiono insuperabili rispetto all’attuazione del piano di Dio per l’umanità.

La posizione di papa Francesco nei confronti della polarizzazione
Papa Francesco ha osservato che «ci capita di attraversare un tempo in cui risorgono epidemicamente, nelle nostre società, la polarizzazione e l’esclusione come unico modo possibile per risolvere i conflitti» (Omelia nel Concistoro, 19 novembre 2016).
Nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ha affermato: «Nei social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)» («Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Dalle «community» alle comunità. Messaggio per la 53a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019). Il Papa ha riflettuto sull’essere membra gli uni degli altri come la motivazione più profonda del dovere di custodire la verità, la quale infatti si rivela nella comunione. E ha descritto la Chiesa come «una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Uno dei discorsi più importanti pronunciati da papa Francesco al riguardo è stato quello al Congresso degli Stati Uniti: «Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi». Il Papa proseguiva esponendo un possibile paradosso: «Nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate» (Discorso all’ Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, 24 settembre 2015. In un’altra occasione il Papa ha anche detto: «Il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ricchezza e l’universalità della Chiesa» (Francesco, Omelia nel Concistoro, cit.). Sotto il profilo cristiano, questo rifiuto, questa resistenza è un «criterio di sanità e ortodossia cristiana [che] non sta tanto nel modo di agire quanto nel modo di resistere». Una resistenza personale, che riconosce che la polarizzazione nasce anzitutto nel cuore umano, per essere successivamente alimentata dai media e dalla politica.
Nel Messaggio per la 50a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il Papa ha precisato che il cattivo uso dei mezzi di comunicazione può «condurre a un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo. Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016). Allo stesso modo, una politica è malsana se prospera in funzione dei conflitti, accentuandoli per accrescere il potere o l’influenza del politico «intermediario», diversamente da una politica sana, che si sforza di conciliare le persone per il bene comune e nella quale il politico «mediatore» sacrifica se stesso a favore del popolo (J. M. Bergoglio, trascrizione della lezione inaugurale del Corso di formazione e riflessione politica, Cefas, 1 giugno 2004).
Già nel 1974, quando era stato da poco nominato provinciale dei gesuiti, Bergoglio metteva in risalto che negli Esercizi Spirituali il peccato è «fondamento disgregatore della nostra appartenenza al Signore e alla nostra santa madre, la Chiesa» (Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 139). Il peccato disintegra anche la nostra appartenenza all’umanità. Inoltre affermava che «l’unico nemico reale è il nemico del piano di Dio», perché, come dice Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E concludeva: «È questa l’ermeneutica per discernere ciò che è principale da ciò che è accessorio, ciò che è autentico da ciò che è falso», le «contraddizioni del momento» dal tempo di Dio, che è «più grande delle nostre contraddizioni».

Una «forma mentis» depolarizzatrice
Analizzeremo ora quattro atteggiamenti di papa Francesco che possono aiutarci a configurare la forma mentis necessaria per discernere come comunicare bene in una società polarizzata. Si tratta di due «no» e di due «sì». Innanzitutto, non discutere con chi cerca di polarizzare, e non lasciarsi confondere da false contraddizioni. Poi, dire di sì, più con le opere che a parole, alla misericordia come paradigma ultimo, e dirlo in quel dialetto materno che raggiunge il cuore di ogni persona nella sua specifica cultura.
Consideriamo innanzitutto alcune situazioni in cui il Papa, con poche parole (a volte gli sono bastati un gesto, una pausa o un silenzio significativo), ha comunicato bene in un contesto di polarizzazione.
Nell’incontro che si è tenuto all’Augustinianum sul dialogo intergenerazionale, in occasione della presentazione del libro La saggezza del tempo (Francesco, La saggezza del tempo. In dialogo con papa Francesco sulle grandi questioni della vita, Milano, Rizzoli, 2018), papa Francesco ha dialogato con una coppia di nonni che gli esprimevano la necessità di essere aiutati per riuscire a parlare bene con i loro figli. Gli dicevano: «Nonostante i nostri sforzi, come genitori, di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro?».
Il Papa ha fatto una brevissima pausa, e poi ha risposto con fermezza: «C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa» (Dialogo intergenerazionale, Incontro con i giovani e anziani all’Augustinianum, Roma, 23 ottobre 2018). Poi ha aggiunto: «Mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono».
La forza di quel breve dialogo tra il Papa e la coppia di genitori-nonni contiene un nucleo comunicativo che disarma chi, intenzionalmente o involontariamente, polarizza. Si tratta di adottare questi due atteggiamenti: dare testimonianza in dialetto e non discutere. Non discutere presuppone che si faccia un discernimento: dire «no» a una falsa polarizzazione e dire «sì» a un paradigma che la supera, quello della misericordia.
Questi atteggiamenti affiorano in altri due episodi del pontificato di Francesco. Il primo durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Irlanda. Una giornalista gli fece una domanda a proposito delle accuse di copertura lanciate quella mattina dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò (Conferenza stampa durante il volo di ritorno dall’Irlanda, 26 agosto 2018). La domanda sollecitava il Papa a dichiarare se quelle accuse (sulla vicenda di abusi sessuali in cui era coinvolto l’ex cardinale McCarrick) fossero effettivamente vere. Anziché rispondere secondo i termini tratteggiati da Viganò, Francesco replicò che per il momento non avrebbe detto nemmeno una parola: invitava piuttosto i giornalisti a indagare in prima persona sulla verità delle accuse. Il suo silenzio è stata interpretato in vario modo, più o meno favorevolmente; ma l’importante è stato il fatto che il Papa abbia scelto di mantenere il silenzio. Su questo torneremo più avanti.
L’altro episodio ha avuto luogo nel volo di ritorno dal viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh (Saluto ai giornalisti durante il volo di ritorno dal Bangladesh, 2 dicembre 2017). Durante la visita si era creata una polarizzazione rispetto all’eventualità di pronunciare il termine rohingya, un’etnia che le autorità militari del Myanmar non riconoscono. Il Papa aveva evitato di usare quel termine in Myanmar ma, una volta giunto in Bangladesh, ha avuto un commovente incontro con 16 rifugiati di quella etnia, nel quale ha detto che «la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya» (A. Tornielli, «Il Papa: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”», in Vatican Insider, 1 dicembre 2017).
Nella conferenza stampa a bordo dell’aereo, il Papa ha spiegato che usare quel termine nei suoi discorsi ufficiali sarebbe equivalso a sbattere la porta in faccia all’interlocutore, e «simili atti di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva». Piuttosto, nei suoi discorsi in Myanmar aveva parlato dell’importanza di includere tutti, dei diritti e della cittadinanza, e questo successivamente, nei suoi incontri privati, gli aveva consentito di «andare oltre». Poi, nell’incontro interreligioso di Dacca, quel termine gli era sfuggito spontaneamente quando aveva salutato i rifugiati. Riferisce il Papa: «Io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. […] Io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano pure». Francesco ha completato così la sua riflessione: «E, visto tutto il trascorso, tutto il cammino, io ho sentito che il messaggio era arrivato». Egli aveva un messaggio da comunicare, un messaggio incentrato sulla misericordia e sull’inclusione e, per comunicarlo, era stato capace di superare le polarizzazioni.

Non discutere con chi accusa
La testimonianza e il consiglio di Francesco sono di non discutere in un contesto polarizzato, sia che si tratti di un contesto familiare, con la raccomandazione rivolta ai genitori quando i figli cercano di trascinarli in una discussione, sia che si tratti di discussioni pubbliche, in cui si lanciano accuse cariche di aggressività mediatica, come quelle del caso Viganò.
Il contesto familiare nel quale il Papa ha messo in luce il criterio di «non discutere» ci mostra come il «virus della polarizzazione» si annidi perfino tra coloro che si amano. Questo stesso fatto aiuta a comprendere il tranello in cui solitamente cadiamo quando ci lasciamo trasportare dallo spirito di discussione. Con coloro che ci amano, il non discutere si congiunge con il parlare loro «in dialetto», sapendo che essi comprenderanno questo linguaggio d’amore. Con coloro che non ci amano e ci attaccano, il non discutere si accompagna, invece, al fare silenzio e, come si comportava il Signore quando non rispondeva alle provocazioni degli scribi e dei farisei, a lasciarli «cuocere nel loro brodo». Afferma il Papa: «Con le persone che non hanno buona volontà, con le persone che cercano soltanto lo scandalo, che cercano soltanto la divisione, che cercano soltanto la distruzione, anche nelle famiglie: silenzio. E preghiera» (Francesco, Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018).
Il silenzio evita che si rimanga impigliati nella spirale di accuse e condanne, dietro le quali c’è sempre lo spirito cattivo del «grande Accusatore» (fra il 3 e il 20 settembre 2018, dopo il silenzio mediatico che si era imposto riguardo alle accuse di Viganò, il Papa ha pronunciato otto omelie contro «il grande Accusatore», del quale ha descritto ampiamente l’atteggiamento nel contesto adeguato, quello della predicazione della parola di Dio). Di fronte all’accanimento aggressivo è possibile soltanto un atteggiamento: quello di Gesù. «Il pastore, nei momenti difficili, nei momenti in cui si scatena il diavolo, dove il pastore è accusato, ma accusato dal grande Accusatore tramite tanta gente, tanti potenti, soffre, offre la vita e prega» (Omelia in Santa Marta, 18 settembre 2018). È un silenzio che svela l’unica contraddizione reale: quella che si instaura tra il padre della menzogna e Cristo crocifisso (Satana «vide Gesù così disfatto, stracciato e, come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo, lui è andato lì e ingoiò Gesù […], ma in quel momento ingoiò pure la divinità, perché era l’esca attaccata all’amo col pesce» (ivi, 14 settembre 2018). «In momenti di oscurità e grande tribolazione, quando i “grovigli” e i “nodi” non si possono sciogliere, e neppure le cose chiarirsi, allora bisogna tacere: la mansuetudine del silenzio ci mostrerà ancora più deboli, e allora sarà lo stesso demonio che, facendosi baldanzoso, si manifesterà in piena luce, mostrerà le sue reali intenzioni, non più camuffato da angelo della luce, ma in modo palese» (Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85-108). Contro il grande Accusatore il criterio è quello del Signore, che non parla di sé, ma lo vince con la parola di Dio (Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018).
Questo atteggiamento di «non discutere» non ha nulla a che vedere con la pace quietista e con il falso irenismo che, secondo la logica della polarizzazione, implicherebbero parzialità («chi tace acconsente») o fuga dal conflitto. Niente è più lontano dal pensiero del Papa e dal suo atteggiamento. Non soltanto egli accoglie il conflitto e la tensione come opportunità creative, ma discerne l’azione dello spirito cattivo nel suo tentativo di camuffare la vera contraddizione e di proporre la pace come se fosse un affare e non un lungo cammino.
In una meditazione proposta agli studenti del Colegio Máximo, in occasione della fine dell’anno 1980 (J. M. Bergoglio, Natale, Milano, Corriere della Sera, 2014, 107 ss), Bergoglio faceva notare che le tentazioni contro l’unità possono essere molte, ma la principale «si fonda nel rifiuto del modello bellico della vita spirituale; e si può respingerlo o perché si vagheggia un irenismo, o perché ci si affretta dietro al prurito di un raccolto prematuro, accentuando le contraddizioni». E affermava: «L’irenismo delinea una specie d’illusoria “pace a qualsiasi costo”, in ossequio alla quale si negozia ciò che non è negoziabile e si perde la capacità di condannare. […] L’altra tentazione è una caricatura del senso bellico della vita».
Allo stesso modo egli in seguito dirà nell’Evangelii gaudium (EG): «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227).
Di fronte a un mondo polarizzato, quella di astrarsi o di disinteressarsi non è un’opzione, ma piuttosto una tentazione. Essa è comprensibile, forse, in un contesto mimetico in cui il rischio di restare contaminati è molto grande, e tuttavia il suggerimento di Francesco è di entrare, ma con discernimento. Egli invita ad assumere un atteggiamento chiaramente missionario: l’accusa di se stessi, che ci porta a dialogare con la Misericordia di Dio, invece di entrare nella dinamica del sentirci vittime e di accusare gli altri («Accusare se stesso è il sentimento della mia miseria, di sentirsi miserabili, misero, davanti al Signore. Il sentimento della vergogna. E infatti accusare se stesso non si può fare a parole, bisogna sentirlo nel cuore», Omelia in Santa Marta, 6 settembre 2018), va di pari passo con l’uscita missionaria ad annunciare il Vangelo. Anziché restarsene chiusa nella discussione e operare «contromosse», la Chiesa fa un passo «verso coloro che hanno più bisogno di lei», verso quelli che ancora non hanno ascoltato il Vangelo. La Chiesa, quando venne perseguitata, diventò missionaria.

Non vedere contraddizioni dove ci sono solo contrasti
Invece di discutere, bisogna discernere. Infatti, quando è in atto una polarizzazione, non si tratta soltanto di uno scontro di idee, ma anche di spiriti (Cfr J. M. Bergoglio, «La dottrina della tribolazione», in Civ. Catt. 2018 II 214). Lo spirito cattivo, soprattutto in un contesto di tribolazione, cerca di trasformare i dissensi in conflitti. Come dice Gustave Thibon,  «uno dei segni fondamentali della mediocrità di spirito è vedere contraddizioni dove ci sono soltanto contrasti».
I quattro princìpi di papa Francesco, in particolare due di essi, sono i criteri per tale discernimento. La lucidità che è richiesta per discernere che «l’unità prevale sul conflitto»[39] è una lucidità paziente, che «accetta di sopportare il conflitto» per riuscire a risolverlo, senza rimanerne imprigionati. È richiesta lucidità anche per discernere che «la realtà è più importante dell’idea». È più importante, perché la realtà non è mai contraddittoria.
Per Guardini, la contraddizione è qualcosa che si dà soltanto nel pensiero e nel linguaggio, non nella realtà. La realtà – quella che egli chiama il «concreto vivente» – è sempre complessa; tutti i poli vi trovano posto; ogni essere vivente è una trama di relazioni che sono tra loro in contrasto, ma non in contraddizione. Guardini descrive le tensioni tra sopra-dentro, interno-esterno, forma-pienezza, struttura-forza vitale. Una realtà non contraddice quella precedente, ma la assume, la trasforma o se la lascia dietro. Per questo, come scriveva il Papa al popolo cileno, «discernere presuppone imparare ad ascoltare ciò che lo Spirito vuole dirci. E potremo farlo soltanto se siamo capaci di ascoltare la realtà di ciò che accade» (Francesco, Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile).
Nel suo scritto «Alcune riflessioni sull’unione degli animi», pubblicato nel 1990, Bergoglio chiarisce la differenza tra contraddizione e contrapposizione o contrasto: la contraddizione è sempre escludente, non concede spazio alle alternative, è disgiuntiva. La contrapposizione, invece, indicherebbe piuttosto le cose che, apparentemente e/o realmente contrarie, possono accordarsi (J. M. Bergoglio, Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 152). Le diversità di idee, di affetti, di immaginazioni e di mozioni che affiorano quando si prega e si discerne possono raggiungere «una nuova unità interiore, continua ma distinta da quella che c’era prima che avesse inizio il processo di discernimento» (il processo avviene nel dialogo interiore, contraddistinto dalla pace. Bergoglio afferma che, «se esaminiamo con attenzione la nostra esperienza interiore, possiamo notare che le tensioni si risolvono su un piano superiore, mantenendo – nella nuova armonia raggiunta – la potenzialità delle diverse particolarità»).
La nuova armonia si può sempre «disarmonizzare», e ciò richiede che noi siamo costantemente aperti a nuove sintesi. «Tutto questo processo configura ciò che potremmo definire etimologicamente un “conflitto” («Sant’Ignazio non teme il conflitto. Anzi, si insospettisce quando, negli Esercizi spirituali, luogo privilegiato di discernimento e di lotta di spiriti, non lo riscontra») […]. Questo conflitto interiore, che preferisco chiamare “contrapposizione” piuttosto che “contraddizione”, è il riferimento interiore che abbiamo di unità nella diversità per capire cos’è, nel corpo della Compagnia, l’unità nella diversità» e, per analogia, ciò che è unità nella diversità nella Chiesa e nella società.
Per questo il Papa ha potuto riporre fiducia nel processo sinodale, a volte turbolento e conflittuale, che ha dato luogo alla nuova prassi pastorale dell’Amoris laetitia. Attraverso la riflessione, lo scambio di punti di vista, la preghiera e il discernimento «lo spirito buono ha prevalso», nonostante le tentazioni lungo il percorso.

Il «sì» al paradigma della Misericordia
Il discernimento che ci rafforza nel dire «no» alla discussione che polarizza ha il suo principio e fondamento in un «sì» più profondo e radicale: il «sì» della Misericordia divina a tutto il creato. La Misericordia incondizionata di Dio, che per noi è divenuta concreta in Gesù, è l’unica realtà capace di risanare e armonizzare ogni falsa contraddizione con la forza dell’amore di Dio che, «per sua natura, è comunicazione» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). La Misericordia «è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (GE 105), come afferma efficacemente il Pontefice. È il paradigma ultimo, il più alto, e la nostra missione è annunciarlo con le opere e con le parole.
Ne troviamo il modello nella parabola del Buon Samaritano insegnataci da Gesù. Questa non contiene soltanto una rivelazione soprannaturale, ma anche una rivelazione di ciò che è più teneramente umano. Alla pratica delle opere di misericordia cosiddette «corporali», in quanto riguardano la carne del prossimo, è complementare quella delle opere di misericordia «spirituali», che consistono nella buona comunicazione: insegnare a chi non sa, dare un buon consiglio a chi ne ha bisogno, correggere colui che sbaglia, perdonare le offese, consolare chi è afflitto, sopportare pazientemente i difetti degli altri e pregare per tutti. Praticare queste opere di misericordia significa lanciare un messaggio chiaro, che tocca il cuore di chi ne viene a conoscenza.
Il Papa fa notare: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti. […] La mite misericordia [di Cristo] è la misura della nostra maniera di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia. È nostro precipuo compito affermare la verità con amore (cfr Ef 4,15). Solo parole pronunciate con amore e accompagnate da mitezza e misericordia toccano i cuori di noi peccatori» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). Francesco vuole che «lo stile della nostra comunicazione sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti» e che al tempo stesso generi «prossimità […] in un mondo diviso, frammentato, polarizzato».
Il criterio di discernimento della buona comunicazione è lo stesso di quello della vita di ogni cristiano, e della vita della Chiesa in generale: è quello di verificare se la misericordia cresce. «Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia» (GE 105).

Dare testimonianza «in dialetto»
Si tratta, dunque, di dire e di fare le cose «nello stile di Gesù», con un spirito buono, come diceva san Pietro Favre. L’espressione che usa Francesco è «dare testimonianza in dialetto». Il contenuto di tale testimonianza è ciò che il Papa chiama «dottrina»: verità sentite, non meramente conosciute. La dottrina forgia l’unità vera, perché «le cose di Dio sommano sempre. Non sottraggono. Radunano» (J. M. Bergoglio, Natale). Ma per la stessa ragione essa genera opposizione e resistenza: «È soltanto quando la Chiesa afferma la dottrina che affiora il vero scisma».
Il pensiero e la testimonianza di Francesco offrono, pertanto, un percorso di depolarizzazione che si potrebbe applicare a molti contesti in cui ci sono «partiti» contrapposti: per esempio, tra liberali e conservatori nella Chiesa o, in Inghilterra, tra i sostenitori di Remain e Leave, divisi sulla Brexit. È un cammino che accoglie la tensione e il disaccordo come opportunità per creare qualcosa di superiore in base a una diversità conciliata e al paradigma della misericordia, evitando le trappole mortifere della sterile polarizzazione. È una maniera di dialogare non a partire dai disaccordi, ma ascoltando gli uni i sogni degli altri.
Trovare il modo di dare testimonianza dell’amore e della misericordia nel «dialetto materno» è il nucleo di un comportamento che vale sia nell’ambito ristretto del dialogo familiare sia in quello ampio delle discussioni pubbliche. In sostanza, per comunicare bene, il punto decisivo è trovare il filo di quel linguaggio che è alla base della vita, là dove dietro le parole si nasconde la fonte della tenerezza che ha reso possibile la vita in comune di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolo. Questa è la sfida: trovare e non perdere il filo di tale linguaggio materno che unisce ogni realtà, per fronteggiare il linguaggio astratto delle ideologie che separano. «Fratelli, le idee si discutono, le situazioni si discernono. Siamo riuniti per discernere, non per discutere» (Francesco, Lettera ai vescovi cileni, 15 maggio 2018).”

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Posted on 23 settembre 2025

Tra saturazioni e polarizzazioni

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E’ da tanto che purtroppo non fotografo con la reflex, ancora di più da quando non post-produco uno scatto. Ricordo però che una delle cose a cui prestavo più attenzione e che ancora oggi mi fa apprezzare o meno una foto è la saturazione dei colori. Spingerla al minino (arrivando al bianco, nero, grigio) o al massimo significa allontanarsi dalla realtà: non è un male, basta saperlo. Il 14 settembre esprimevo il mio disagio nei confronti di un modo polarizzato e polarizzante di vedere tutto, un approccio che tende a strumentalizzare qualsiasi cosa pur di affermare la propria idea facendo scomparire i colori intermedi, i “dipende”, i “distinguo”, i “capiamo meglio”.
Ho allora deciso di pubblicare in rapida successione tre articoli che trattano argomenti diversi ma che possono essere ricondotti a questo tema. Parto da quello più vicino nel tempo: è del 20 settembre, a firma di Fabrizio Mastrofini, e pubblicato su Settimana News, sito in continuità con il Centro editoriale dehoniano. L’articolo, prendendo spunto dall’omicidio di Charlie Kirk, affronta il tema della polarizzazione all’interno della chiesa statunitense e il ruolo di Papa Leone XIV.

“Si approfondisce nel Nord America la polarizzazione politica, con effetti sul ruolo della religione e della Chiesa cattolica, dopo l’uccisione violenta di Charlie Kirk.
Prima di passare in rassegna episodi e fatti che ne danno conto, è opportuno ricordare cosa disse Papa Leone XIV agli operatori dei media, all’indomani della sua elezione.
«Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana».
Era il 12 maggio, poco più di 4 mesi fa, appena. E la situazione è peggiorata.

L’omicidio di Charlie Kirk ha modificato il panorama. Dice a La Repubblica del 20 settembre lo studioso belga naturalizzato canadese Derrick De Kerckhove, allievo e prosecutore del lavoro di Marshall McLuhan:
«Gli americani vengono licenziati a destra, sinistra e centro, solo per le opinioni che esprimono, una mail, un messaggio sui social. È una farsa: l’unica libertà di espressione rimasta è quella di elogiare Trump». «Quanto accade è frutto di una lunga storia nel trascurare la frase “We the people”, con cui comincia la Costituzione. Soprattutto il Partito democratico ha dimenticato il popolo, creando le condizioni per la rabbia che ha favorito l’elezione di Trump nel primo mandato. Lui è stato molto abile a sfruttarla, soprattutto con la comunicazione, attraverso i social. I democratici poi hanno avuto l’occasione di fermarlo con Biden, ma hanno fallito l’obiettivo, accelerando rabbia e risentimento. Lui ha sfruttato molto bene la debolezza degli avversari, ottenendo quello che loro ritenevano impossibile, ossia la rielezione».
Sul The New York Times International Edition del 20 settembre, l’analista politica Lydia Polgren rileva «l’ossessione» politica e sociale di vedere una minaccia «transgender» dietro l’omicidio di Charlie Kirk (perché l’assassinio conviveva con una persona transgender). A ciò si aggiunge la politica presidenziale aggressiva verso i media, giornali e TV, percepiti come ostili, sostanziatasi nell’apertura di una causa per danni per 15 miliardi di dollari al The New York Times, bloccata da un giudice federale il 19 settembre perché inconsistente.
La religione ha molto a che fare con la politica negli USA, per il sostegno evangelico alla destra repubblicana, per il cattolicesimo esibito dal vicepresidente Vance, per l’avere oggi sul Soglio di Pietro un papa statunitense.
Il movimento Turning Point USA fondato da Charlie Kirk ha, tra gli altri, il sostegno di The Post Millennial, sito conservatore canadese, abbastanza ossessionato dalle presenze criminali «transgender» e di Human Events, altro sito conservatore di analisi politica che combatte accanitamente contro i movimenti di sinistra, soprattutto Antifa, dichiarato terrorista da Trump il 18 settembre. Sono siti, i primi due, ascrivibili all’area religiosa dei post-millennials, coloro i quali credono nel ritorno di Gesù alla fine del Millennio in corso, secondo un’interpretazione letterale del capitolo 20 dell’Apocalisse.

Papa Leone XIV entra in questa dinamica, che si svolge sui social media e attraverso i siti citati e gli altri del conservatorismo cattolico, in quanto da lui ci si attende la sconfessione del magistero di Papa Francesco. Avere ricevuto il 1° settembre il gesuita americano James Martin, in prima fila nella pastorale di accoglienza del mondo LGBTQ, è stato visto con sconcerto.
A parziale correzione è arrivata l’intervista pubblicata in Perù nel libro biografico su Robert Prevost, in quanto sembra chiudere su una serie di questioni spinose per i conservatori. Sulla questione LGBTQ, ha detto Papa Leone XIV, la Chiesa continua a essere aperta, e ha citato Papa Francesco. Però – ha aggiunto – «trovo altamente improbabile, certamente nel prossimo futuro, che la dottrina della Chiesa, in termini di ciò che insegna sulla sessualità, ciò che la Chiesa insegna sul matrimonio, cambierà».
«Ho già parlato di matrimonio, come ha fatto Papa Francesco quando era Papa, di una famiglia composta da un uomo e una donna in un impegno solenne, benedetti nel sacramento del matrimonio. Ma anche solo dirlo, capisco che alcuni lo prenderanno male».
Niente spiragli per il diaconato alle donne. «Al momento non ho intenzione di cambiare l’insegnamento della Chiesa sull’argomento», anche perché «ci sono parti del mondo che non hanno mai veramente promosso il diaconato permanente, e questo di per sé è diventato una domanda: perché dovremmo parlare di ordinare donne al diaconato se il diaconato stesso non è ancora adeguatamente compreso, sviluppato e promosso all’interno della Chiesa?».

Una linea che sembra ispirata alla cauta prudenza. Ma non basta per la destra USA, collegando su questi temi in modo trasversale evangelicals e conservatori cattolici. Dopo l’uccisione di Charlie Kirk il mondo evangelico ha ripreso grande visibilità nel chiedere un ritorno ai valori cristiani nella vita pubblica.
E i media conservatori cattolici hanno ripreso fiato, hanno intervistato il cardinale Mueller, che ha definito Charlie Kirk un martire di Cristo. Il prelato era già in prima fila tra gli oppositori di Papa Francesco, chiede di tornare alla messa in latino, all’ostracismo verso l’Islam e il mondo LGBTQ.
Né mancano le forti spinte affinché Leone XIV sconfessi apertamente il suo predecessore. Come scrive Carol Zimmermann, opinionista del National Catholic Reporter, settimanale progressista USA, «tra le attuali convinzioni fortemente radicate e contestate a sinistra e a destra, spesso sembra che non ci sia davvero spazio per una via di mezzo: si viene etichettati come Democratici o Repubblicani, Conservatori o Liberali senza molto margine di manovra. Anche se questa polarizzazione gioca un ruolo importante nei talk show e nelle proteste di piazza, dobbiamo ancora capire come andare d’accordo con chi ha opinioni diverse e sederci allo stesso tavolo».
The Pillar, testata on line notoriamente schierata su posizioni conservatrici, notava il silenzio dei vescovi USA sull’omicidio di Kirk e lo attribuiva al fatto che la Conferenza episcopale «è guidata da un diplomatico di carriera (l’arcivescovo Timothy Broglio – ndr) e da un dirigente (il segretario generale Michael Fuller – ndr) plasmato in modo unico dalla tempesta di polemiche. E le reazioni all’assassinio di Kirk sono state emotivamente intense da entrambe le parti, il che significa che qualsiasi cosa la conferenza episcopale avesse detto a riguardo avrebbe probabilmente portato a ulteriori controversie, esattamente ciò che i suoi attuali dirigenti sembrano intenzionati a evitare sulle questioni pubbliche».
In realtà, diversi vescovi cattolici si sono espressi nei giorni successivi al fatto.

Come scrive Stan Chu Ilu sul National Catholic Reporter, «in un’epoca in cui la vita politica sembra dominata dalla paura e dalla rabbia, la testimonianza cattolica di un discorso ragionato, della dignità umana, di un’etica di vita coerente e della nonviolenza evangelica potrebbe rappresentare una delle ultime speranze per l’esperimento americano. I cattolici americani possono applicare ciò che stanno imparando attraverso le pratiche della sinodalità per influenzare il discorso politico, contribuendo a creare uno spazio ampio e stimolante in cui la voce di tutti sia ascoltata con rispetto e in cui le persone possano crescere reciprocamente nella comprensione della verità».
Sui social accade di tutto, a dispetto di ogni moderazione. Lo si vede seguendo su X Mike Lewis, fondatore ed editor del sito Where Peter Is o anche il commentatore britannico Austin Ivereigh. Il mondo conservatore cattolico sta moltiplicando gli account che con la scusa di riprendere il pontificato di Leone XIV in realtà danno voce alle richieste di cancellare l’insegnamento di papa Francesco.
Altri (niente nomi, no pubblicità) postano messaggi in cui assicurano di «aver ricevuto conferma da fonti attendibili che Papa Leone XIV è disposto a ripensare e rivedere la politica di Francesco». Al centro del dibattito: la sessualità e la messa in latino. E soprattutto il National Catholic Register – testata conservatrice del gruppo EWTN – rilancia in tutti i modi l’appello di una Catholic Coalition affinché papa Leone XIV si impegni contro la «lobby» che vuole sdoganare le unioni tra persone dello stesso sesso.
Ma a leggere bene articolo e appello, si scopre che la «coalizione» ha 25 associazioni, senza nomi, ed è collegata al movimento «Tradizione Famiglia Proprietà» del brasiliano Plinio de Correa (qui il sito italiano del movimento). Movimento e fondatore ben noti negli anni Ottanta e Novanta dello scorso Millennio per sostenere l’impegno contro la teologia della liberazione e qualunque forma di impegno collegata alla Dottrina sociale della Chiesa.
Dopo 130 giorni di pontificato, dunque, la polarizzazione è in pieno sviluppo”.

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Posted on 16 settembre 2025

Dott. Chatbot

Immagine creata con ChatGPT®

A fine agosto aveva creato molta discussione la decisione dei genitori del 16enne californiano Adam Raine, che si è tolto la vita l’11 aprile scorso, di denunciare Open AI per il ruolo avuto da ChatGpt nel suicidio del ragazzo. Il discorso si era ampliato all’utilizzo che viene fatto dei chatbot come sostituti di confidenti o di esperti di supporto psicologico. La scorsa settimana, sulle pagine di Rocca, Rossella De Leonibus ha scritto questo interessante articolo.

“Nel mondo contemporaneo la tecnologia ha rivoluzionato il modo in cui comunichiamo, lavoriamo, e persino il modo in cui ci prendiamo cura della nostra salute mentale. L’intelligenza artificiale, supporto ormai irrinunciabile della nostra vita e del nostro lavoro, offre, come ogni nuovo strumento, sia enormi opportunità che imprevedibili aree di rischio, e apre nuove prospettive, offrendo non solo risposte a vecchi bisogni, ma anche creando una nuova gamma di possibilità e perfino, forse, bisogni inediti, in particolare nel campo della salute mentale e del benessere psicologico.
Qui l’intelligenza artificiale (Ai) e i chatbot terapeutici stanno aprendo un’area del tutto innovativa nelle formule già consolidate del supporto psicologico. È poco più di un secolo che la psicologia ha studiato in modo specifico i bisogni umani relativi all’area psichica, per molto tempo è stata vista come un qualcosa di strano e poco scientifico, e solo negli ultimi decenni ha acquisito lo statuto di disciplina scientifica al servizio della salute psichica. E solo dopo la pandemia è stata vista finalmente come una risorsa preziosa da rendere accessibile a tutti. Su questa linea di sviluppo, che potremmo definire iperbolica, si collocano i chatbot, con l’offerta di una opportunità di accesso enormemente più ampia, in gran parte gratuita, da fruire in anonimato e con una immediatezza di disponibilità che nessun servizio pubblico o privato potrebbe mai garantire.
È arrivato quindi il momento di riflettere sugli importanti interrogativi che questi strumenti, pur preziosi, stanno ponendo rispetto ai limiti del rapporto di noi umani con la tecnologia, alle aspettative che si sviluppano da parte degli utenti e ai rischi che derivano dall’illusione di una relazione autentica.
Comprendere come e perché sempre più persone si rivolgano ai chatbot non solo per un sostegno psicologico ma anche in cerca di amicizia o affetto è fondamentale per un uso consapevole e responsabile di queste tecnologie.

CHATBOT, SFIDA PSICOLOGICA DEL TERZO MILLENNIO
L’esperienza psicologica umana del terzo millennio incontra un mondo dove la vita quotidiana è ormai digitalizzata, i ritmi del lavoro e perfino del tempo libero sono più frenetici di quanto sia mai avvenuto nei millenni precedenti, e ogni istante ci si trova confrontati con livelli crescenti di complessità esistenziale e sociale. È inevitabile quindi che crescano in frequenza e in intensità i vissutiti di ansia, stress, depressione e solitudine. Molte più persone, rispetto anche a solo 30 anni fa, hanno bisogno di essere ascoltate, di trovare un supporto immediato e di superare lo stigma legato alla salute mentale.
Le forme tradizionali di psicoterapia (è una tradizione che tutto sommato ha ancora una storia breve, ma è già parecchio diffusa e consolidata) rimangono insostituibili per la loro profondità e personalizzazione, ma gli oggettivi limiti di accesso hanno aperto spazi impensati all’integrazione di strumenti digitali, fra cui i chatbot terapeutici.
Possiamo definirli tecnicamente “agenti conversazionali” basati sulla intelligenza artificiale. Sono strumenti in grado di simulare una conversazione, poiché elaborano i messaggi in tempo reale tramite algoritmi e forniscono risposte basate su protocolli psicologici ormai diffusi e consolidati; esempi comuni di questo tipo di chatbot sono Woebot, Replika e Wysa. Ma anche semplicemente ChatGpt, come altri strumenti simili di immediato accesso, sono in grado di fornire risposte, sempre su base algoritmica, a quesiti personali di natura psicologica. Parecchi studi indicano ormai che questi strumenti possono essere d’aiuto nel ridurre sintomi di ansia e depressione, specie in giovani adulti.
I chatbot offrono un accesso illimitato, immediato e anonimo, e sono quindi adatti per abbattere barriere geografiche, temporali ed economiche. L’anonimato consente di esprimersi liberamente senza timore di giudizio, e questo è un fattore molto importante soprattutto per gli adolescenti, per alcune minoranze o per chi resta lontano dalla terapia face to face per vergogna, paura, resistenze personali.
Uno dei limiti più significativi risiede nell’ineliminabile circostanza che i chatbot operano su base statistica, con una comprensione empatica costruita in base all’algoritmo, e con una lettura clinica realizzata su base statistica, confrontata con gli elementi e i dati forniti unilateralmente dal soggetto che li interpella. È significativa quindi la possibilità di essere esposti a autodiagnosi errate, amplificazioni o minimizzazioni dei sintomi. Il cosiddetto “Eliza Effect” (da “Eliza”, uno dei primi tentativi, molti decenni fa, di simulare una seduta terapeutica con un algoritmo) costruisce l’illusione di un’intelligenza emotiva che manca realmente, e di conseguenza i bisogni terapeutici reali possono diventare confusi.
Un terapeuta umano offre un confronto vivo, empatico e personalizzato, soprattutto una capacità di confrontazione e stimolo personalizzato che è (tutt’ora?) irraggiungibile da un algoritmo. Resta il fatto che i chatbot possono essere utili alleati preliminari o complementari, perché possono essere buoni alleati nel tempo che intercorre tra le sedute e possono favorire l’approccio al trattamento psicologico o psicoterapeutico.
Comporta dei rischi anche la stessa condivisione di dati sensibili con chatbot. Anche con protezioni GDPR e crittografia, la tutela non è assoluta. Di fatto è essenziale scegliere piattaforme affidabili e soprattutto adottare un uso prudente, evitando di rivelare dati troppo personali, anche perché di là dallo schermo non c’è un terapeuta vincolato al segreto professionale, che subirebbe severe sanzioni, ma, non dimentichiamolo mai, c’è “solo” un algoritmo.
L’accesso costante, a tutte le ore del giorno e soprattutto della notte, è un fattore che da solo può creare dipendenza emotiva, ostacolando l’autonomia e la crescita personale. L’illusione di una presenza sempre disponibile, come un cibo già pronto sempre apparecchiato, rischia di sostituire relazioni umane complesse ma vitali per lo sviluppo personale. E la certezza di una qualche forma di ascolto, se in situazione di emergenza può fare davvero la differenza, oltrepassa invece, in situazioni meno drammatiche, tutta la possibilità di imparare a contenere e regolare le emozioni, di integrare la valenza di crescita dell’attesa e del limite, e abbatte la possibilità di costruire una competenza all’autosostegno.

ALLORA, CHE USO FARNE?
Vediamo insieme alcune possibilità molto reali e concrete.
Prima di tutto, consideriamo che molte persone usano dei chatbot come Replika o Woebot come compagnia digitale, trovando uno spazio sicuro per confidarsi, soprattutto chi si sente isolato o teme giudizi umani: un conforto, tanto immediato quanto incompleto, in condizioni di solitudine.
Anche le persone che seguono una psicoterapia trovano utile integrare la “terapia umana” con un chatbot, per monitorare le oscillazioni dell’umore, e magari ricondurle a vicende vissute, per svolgere un programma di esercizi come “compiti a casa”, per mantenere un senso di accompagnamento continuo: un sostegno nelle pause tra le sedute terapeutiche.
Parecchi adolescenti, la generazione nata con le interazioni digitali, che ha già molta familiarità con ogni formula di contatto on line, oltre a un numero crescente di adulti, in passaggi critici della loro vita trovano nei chatbot uno sfogo protetto per esprimere vissuti e gestire emozioni: un supporto in momenti di crisi.
Persone che stanno vivendo rotture, lutti, stress lavorativi, trovano supporto nell’immediatezza e nel non giudizio delle risposte dei chatbot: un luogo dove depositare difficoltà personali.
Alcuni utenti sviluppano legami emotivi intensi con chatbot, percependoli come amici o persino partner affettivi. Sono stati riportati casi di persone che dichiarano sentimenti amorosi verso Ai, con dinamiche simili a relazioni umane (attenzioni, intimità, dialogo emotivo): il bisogno umano di contatto e legame affettivo trova un momentaneo sollievo, dove il conforto all’istante è percepito come “vero”, anche se c’è la consapevolezza che la risposta è artificiale e manca una reciprocità autentica.
I chatbot sono strumenti utili se usati come supporto, non come sostituti. È importante un approccio integrato, in cui l’intervento umano resta centrale. Per rilassarci un attimo dalle nostre paure di boomers, possiamo far mente locale sul fatto che, ormai da centinaia di anni, i libri hanno integrato e anche sostituito una interazione umana più completa… Anche allora, con l’avvento della scrittura prima, e della stampa poi, si è assistito a una mutazione antropologica che ha reso enormemente  diffuso e meno controllato il passaggio di saperi, e poi, dal momento in cui c’è stata una alfabetizzazione di massa, questo ha permesso di realizzare a livello sociale maggiore consapevolezza e cultura, non meno… Certo, la ricerca futura affinerà le competenze emotive dell’Ai e dovranno perciò essere definite specifiche linee guida etiche, tutelando la persona e la sua privacy.

TECNOLOGIE, UN USO CONSAPEVOLE
La mente umana è complessa, è fatta di emozioni e relazioni che nascono nell’incontro vivo tra persone. La tecnologia può arricchire il percorso psicologico solo con rispetto e responsabilità, mantenendo al centro la relazione autentica e il valore imprescindibile dell’esperienza umana. Il terzo millennio ci pone la sfida di integrare umanità e innovazione, per rispondere ai bisogni più profondi di ascolto, empatia e crescita.”

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Posted on 11 settembre 2025

Intervista a Laris Gaiser

Immagine tratta dal sito de La Vita Cattolica

L’8 settembre scrivevo di quanto fosse stato interessante un intervento durante un corso di aggiornamento per insegnanti di religione. A parlare era stato Laris Gaiser e in quell’occasione aveva dato un’intervista al settimanale diocesano La Vita Cattolica, sul quale ho trovato una sintesi. Eccola qui, a firma di Valentina Zanella.

Immagine tratta dal sito de La Vita Cattolica

“Per arrivare alla fine del conflitto in Ucraina e garantire all’Europa una pace duratura «per almeno i prossimi 70 anni, non è sufficiente occuparsi solo del conflitto in quello stato. Le grandi potenze devono sedersi intorno ad un tavolo, come si fece al Congresso di Vienna nel 1815, e trovare un bilanciamento di poteri ampio. Anche per la Bosnia, per il Kosovo. Se ci si ferma solo al conflitto in Ucraina e lo si “congela” non si fa altro che preparare un altro conflitto per il futuro». A sostenerlo è il prof. Laris Gaiser, esperto di geopolitica, intervenuto il 3 settembre a Udine al ciclo di formazione diocesano per gli insegnanti di religione delle scuole secondarie. Gaiser è professore associato di Macroeconomia e Studi sulla Sicurezza alla Facoltà di Legge e Economia dell’Istituto cattolico di Lubiana, membro dell’Itstime – l’Università Cattolica di Milano ed è stato diplomatico del Ministero Affari Esteri e consigliere politico della Nato. È esperto in particolare di Balcani e proprio in quest’area, sostiene, «hanno origine e fine quasi tutti i problemi geopolitici dell’Europa».
In un’intervista pubblicata sulla Vita Cattolica del 10 settembre 2025 spiega perché. «Innanzitutto perché lì si sono generati tanti “precedenti geopolitici” per quello che sta succedendo in Ucraina, in Crimea, nella parte orientale dell’Europa. E perché in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo ci sono dei conflitti “congelati”, non risolti e che dunque dovremo affrontare». « Tutto ciò che è successo nei Balcani – sostiene Gaiser – si è riverberato 25-30 anni dopo in Ucraina, per questo io considero questa regione – che è proprio ai nostri confini – di vitale importanza per la stabilità e la pace futura del mondo. Temo che purtroppo noi non saremo capaci di gestirla e che questo ci porterà effettivamente a nuovi conflitti».
Riguardo all’Ucraina, «purtroppo non ci sono buone prospettive, al momento». E «la responsabilità di questo – secondo Gaiser – è in larga parte dell’Europa». «Nel 2022 e nel 2023 – afferma – tutti, sia europei che americani, volevamo una cessazione del fuoco per la primavera del 2025 – lo dico per ragione veduta, in quanto ho avuto modo di collaborare a questi incontri – ed eravamo d’accordo per arrivarci. Poi ha vinto Trump e ha immediatamente dichiarato di voler far cessare la guerra in Ucraina, ma l’Europa a quel punto ha voluto fare il “bastian contrario”, sostenendo l’Ucraina a lottare fino in fondo. È allora che è venuto meno l’equilibrio tra l’America e l’Europa, cosa molto pericolosa per le relazioni internazionali e per noi stessi. Infatti in primavera non c’è stato l’accordo di pace».
E ora? «Le grandi potenze devono sedersi intorno ad un tavolo, come si fece al congresso di Vienna nel 1815 – continua l’esperto di geopolitica –, per trovare un bilanciamento di poteri. E lì mettersi d’accordo anche per la Bosnia, per il Kosovo. Non solo per l’Ucraina. Solo così si può garantire una pace per almeno i prossimi 70 anni. In questo contesto mi preme sottolineare che la Chiesa Universale Cattolica ha capito prima probabilmente di tutti gli altri giocatori la rilevanza dell’attuale discrasia tra l’Europa e l’America».
Un Papa americano per aiutare il dialogo? «Esatto. L’Europa e l’America sono un tutt’uno sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico e dell’alleanza militare. Quando l’Europa si stava allontanando dall’America, la scelta di un americano alla guida della Chiesa è stata un “colpo di genio dello Spirito Santo” per riavvicinare le due sponde e fare ciò che l’Europa di Bruxelles non riesce a fare: conoscere il cuore dell’Europa, che è cristiano, e dialogare con la sponda americana. «Spero solo che si dia spazio a Papa Leone per portare dei buoni frutti al tavolo del dialogo internazionale», auspica Gaiser.”

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Posted on 3 aprile 2025

Quegli incontri che accadono davvero

Immagine creata con Gemini®

Quei momenti in cui senti proprio una vibrazione nell’aria, senti dei battiti che pulsano all’unisono, avverti che si sta creando uno spazio per la comunanza dei cuori: quando succede in classe è bellissimo ed è impossibile non accorgersene. Si tratta di emozioni silenziose che fanno un rumore fortissimo. Il pensiero mi è andato a quei momenti leggendo il bellissimo articolo di Giovanni Scarafile, professore associato di Filosofia Morale presso l’Università di Pisa, pubblicato su Avvenire domenica 30 marzo e parla di incontri che accadono davvero.“Nelle pagine del suo Diario fenomenologico, Enzo Paci osserva – quasi con stupore, o forse con una certa amarezza – che la comunicazione quotidiana, anziché unire, spesso ci lascia divisi. Sembra suggerire che dietro la cortesia, dietro la familiarità delle parole consuete, si nasconda un’intesa che non è tale: un’intesa apparente, automatica, tenuta in piedi da attese mai dette. «L’autenticità di un incontro è un evento raro», scrive. «Quando avviene è come se fosse raggiunta la radice del mondo – un fondo solido, e pur fragile, che permette al mondo di avere un senso».
Letta oggi, quella frase scritta nel 1957 non suona datata. Anzi. Forse proprio adesso, immersi in relazioni dove il gesto è spesso previsto, il ruolo già definito, la conversazione regolata da codici impliciti, ci rendiamo conto con più urgenza di quanto sia raro – e prezioso – l’incontro che accade davvero. Non quello che seguiamo per abitudine, ma quello che ci sorprende. E ci espone. Nei rari momenti in cui qualcosa si incrina nella routine, qualcosa accade: un’improvvisa apertura, un varco in cui l’altro c’è davvero. Ed è lì che il mondo cambia consistenza.
Ma che cos’è, davvero, quella “radice del mondo” di cui parla Paci? Di certo non è un’idea astratta, né un fondamento metafisico. È, appunto, un accadere. Un accadere vivo, fragile, in cui la parola – finalmente – non serve a coprire ma a svelare. È quel momento in cui il dialogo smette di essere scambio o mera negoziazione e diventa qualcosa di più: un’intimità intellettuale e affettiva, in cui non si resta prigionieri di sé, e nemmeno si scompare. È qui che Paci osa un’affermazione radicale: «Gli interlocutori sono se stessi, e davvero se stessi, se nessuno dei due è soltanto se stesso». Una formula paradossale, eppure esatta.
Quella radice è solida perché ci sostiene; ma anche fragile, perché non la si può forzare. Non si crea a comando. Può accadere, può non accadere. Ed è proprio per questo che ha valore. Non è un sistema, è un’eventualità. Ciò che accade, in quei rari momenti, è una rottura dell’automatismo espressivo: il linguaggio torna carne, e la presenza dell’altro non è più funzione, ma evento. È lì che si apre la possibilità di un senso comune che non viene stabilito, ma accolto. In silenzio, e senza difese.
Da qui, una domanda: quale rapporto c’è tra questa esperienza e la felicità? Se smettiamo di pensare la felicità come meta individuale, e iniziamo a vederla come qualcosa che si dà nella relazione, allora l’incontro autentico diventa non solo rilevante, ma centrale. Perché ci dà coerenza, restituisce continuità alla nostra esperienza. Non è una felicità euforica, ma un senso vissuto, concreto. Un accordo sottile tra le cose.
È possibile forse cogliere questo stadio per via negativa, dato che ci troviamo in sua assenza molto più spesso di quanto non accada di sperimentarlo direttamente. L’incontro autentico, infatti, in cui la parola non è solo scambio ma esposizione reciproca, è raro e per questo stesso motivo riconoscibile soprattutto nel suo contrario: nella ripetizione vuota, nella prevedibilità dei ruoli, nell’assenza di un ascolto reale. Per dare un nome a questo stato, non bastano i termini già disponibili nel lessico psicologico o filosofico, poiché nessuno di essi ne coglie con esattezza la specificità: non è malinconia, non è frustrazione, non è solitudine in senso stretto. Si tratta piuttosto di una nostalgia dell’ascolto mancato, di una tensione verso qualcosa che non c’è stato e che tuttavia dovrebbe esserci: una forma di desiderio dolente per ciò che non si è potuto dire, per ciò che non è stato ascoltato, per ciò che avrebbe potuto accadere se l’altro fosse stato davvero presente.
È da questa mancanza che nasce il termine inaudalgia: dolore per il mancato ascolto. Il termine nasce dall’unione tra inaudito (ciò che non è stato ascoltato) e algia (dolore), e cerca di esprimere l’esperienza peculiare di un dolore che non ha oggetto evidente, ma che si radica nel fallimento dell’incontro, nella sistematica assenza di uno spazio autentico in cui la parola possa fiorire.

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L’inaudalgia non è un sentimento passeggero, ma un tono emotivo di fondo che definisce molte delle nostre giornate. Capita, ad esempio, durante una riunione, che ognuno esponga il proprio punto di vista con apparente chiarezza, ma senza che nessuno realmente ascolti. Le parole scorrono ordinate, pertinenti, eppure prive di adesione. Nessuno interrompe, nessuno polemizza, ma anche nessuno risuona. Si esce da quella stanza con l’impressione che nulla sia avvenuto, se non una serie di monologhi paralleli. È lì che si avverte l’inaudalgia: non per ciò che è stato detto, ma per tutto ciò che avrebbe potuto emergere se solo qualcuno avesse osato esporsi davvero, o fermarsi un istante nel silenzio dell’altro.
Come se ne esce? Non basta parlare. Non basta incontrarsi. È necessario qualcosa di più profondo: un passaggio, un processo che Husserl chiamava Vergemeinschaftung, comunalizzazione. È un lento avvicinarsi, un cominciare a sentire insieme. Un accordarsi che si costruisce nel tempo.
Si tratta di un’esperienza che può iniziare in modo apparentemente ordinario: ad esempio, due persone parlano di qualcosa di quotidiano — il lavoro, un ricordo d’infanzia, una difficoltà recente — e nei primi scambi ciascuno resta in parte chiuso nella propria prospettiva, come se si trattasse solo di raccontare qualcosa all’altro. Poi, quasi impercettibilmente, qualcosa cambia: un dettaglio colpisce, un tono di voce si carica di attenzione, un silenzio viene rispettato. In quel momento, il vissuto di ciascuno comincia a modificarsi in relazione a quello dell’altro. Ci si accorge che le parole dette non sono più semplici informazioni, ma veicolano un’apertura reciproca.
È lì che avviene il passaggio decisivo: non si è più soli nella propria intenzionalità, ma si entra in una trama in cui i significati si formano congiuntamente, senza che nessuno dei due li possa più rivendicare come propri. La comunalizzazione, in questo senso, rappresenta non solo un rimedio all’inaudalgia, ma anche la condizione per una forma di felicità che non è il semplice appagamento individuale, bensì la pienezza che nasce dal sentirsi parte viva di un “noi” costitutivo, capace di sostenere il mondo e renderlo abitabile.
In questo movimento – dalla nostalgia dell’inaudito alla grazia dell’incontro – si gioca forse la possibilità stessa di abitare un mondo che non sia solo scenario delle solitudini parellele, ma spazio vivente di significati comuni. Riscoprire la dimensione dialogica dell’esistenza significa allora riconoscere che la vera felicità non è conquista, ma evento; non è possesso, ma apertura; non è compimento solitario, ma grazia che si manifesta quando, nella fragilità dell’incontro autentico, il mondo ritrova finalmente la sua radice.”

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Posted on 30 ottobre 2024

Gemma n° 2572

“Ho scelto questa collana perchè mi ricorda molto il rapporto che ho con mia mamma. Un giorno, mentre stavamo uscendo, volevo a tutti i costi mettermi una collana ma non ne avevo una che mi piacesse particolarmente, quindi sono andata fra le sue cose e ho preso questa. L’ho tenuta anche i giorni seguenti e mia mamma mi ha detto di tenerla perché mi stava molto bene. Dopo che mamma si era fidanzata con papà, sua nonna le aveva regalato questa collana. Io amo il rapporto che ho con mamma perché è una delle persone più genuine e vere che ho. Con lei posso parlare di tutto, anche di cose negative senza essere giudicata e ho sempre la certezza che lei ci sarà sempre per me e non mi lascerà mai” (A. classe quinta).

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Posted on 2 ottobre 2024

Gemma n° 2541

“Per quanto mi riguarda, scegliere la gemma di quest’anno è stato più che semplice, e chiunque mi conosce sa già di chi parlerò: voglio parlare di due persone molto importanti per me.
La prima persona si chiama G. È sicuramente l’amico più stretto che ho, e anche se è di giù, gli parlo ogni giorno. Gli voglio un mondo di bene, ed è stata l’unica persona per cui ho pianto a dirotto la sera prima di tornare a Udine da Napoli. Lo considero realmente come un fratello, ho iniziato a stringere con lui negli ultimi due anni, perché era amico di mio fratello, e abbiamo iniziato a conoscerci sempre di più diventando come due fratelli. Mentre ero giù, ho passato tutti i giorni a casa sua, e siamo andati dappertutto insieme, creando dei ricordi praticamente indimenticabili. Io ci sono sempre per lui e lui per me e spero che questo rapporto realmente stretto e confidenziale non possa mai finire.

La seconda persona di cui vorrei parlare è una persona altrettanto speciale per me, la mia ragazza F. L’ho conosciuta solamente tre giorni prima della fine della scuola, perché mia sorella la seguiva su Instagram, e ho deciso di seguirla anche io. La notte tra il 7 e l’8 giugno, ho parlato con lei tutta la notte fino alle due e svegliandomi solamente alle 6:30, e andando a scuola. Io la vedevo ogni giorno nel bus, e conoscerla mi ha stranito inizialmente. Abbiamo iniziato a parlare tanto, ogni giorno per tutta la giornata ed anche la notte; mentre parlavamo in chat, io avevo capito che qualcosa si smuoveva. Poi ho deciso di chiederle di uscire, e organizzare un’uscita mi sembrava quasi impossibile, ma poi mi è saltato in mente che, abitando abbastanza vicini, potevamo incontrarci in un parco molto piccolo vicino casa. Il 15 giugno abbiamo deciso di incontrarci. Sono arrivato 5 minuti in ritardo, per paura che i miei genitori scoprissero che fossi uscito con una ragazza, e lo sapeva solo mia sorella. Quel giorno stesso ho deciso di baciarla, e finalmente di fidanzarci. Quella sera stessa è tornata mia sorella che mi ha urlato qualche insulto perché non bisogna baciare al primo appuntamento. Oggi sono tre mesi e mezzo che stiamo insieme e il quindici ottobre saranno quattro mesi. Sono veramente grato di averla conosciuta e certamente la amo, quindi sento una effettiva connessione che va oltre qualunque barriera, ma soprattutto le voglio bene, quindi spero tutto il meglio per lei. Spero che a scuola oppure nelle amicizie, in famiglia, possa andare tutto bene, che non ci siano problemi, anche perché sono molto empatico con le persone a cui voglio bene, e specialmente con lei, con una ragazza che tre mesi fa solo guardavo e ne parlavo come se fosse antipatica e come se mi vedesse come un matto, mentre invece anche lei parlava di me e probabilmente credeva che pensassi lo stesso”.
(D. classe seconda)

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Posted on 11 Maggio 2024

Gemma n° 2533

“Sin dal primo momento sono stata molto indecisa su che cosa portare come mia prima gemma, ma ero certa di parlare di qualcosa che legasse me e mia mamma. Io e lei abbiamo due caratteri completamente diversi che si completano allo stesso tempo. Purtroppo, ciò ci porta a litigare e a non rivolgerci la parola per molto tempo. Con il passare degli anni, gli ostacoli che abbiamo affrontato assieme ci hanno rese più forti.
Ho deciso di portare Bravi a cadere – I polmoni di Marracash per 2 motivi:  Il primo è che mi immedesimo nel cantante che narra delle sue sfide e di come affronta la vita. Come racconta lui, la sua canzone potrebbe rappresentare la cultura del rischio, dell’accettazione e dell’imperfezione diffuso tra i giovani italiani. L’autore richiama l’importanza di prendere una pausa per riflettere sulla propria vita e ciò mi riporta ai momenti in cui non parlavo con lei a lungo. Per quanto riguarda il secondo motivo che mi lega a lei, è che appena uscita nel 2019, la ascoltavamo praticamente ogni giorno apprezzandone entrambe il ritorno e il significato delle parole” (N. classe prima).

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Posted on 24 aprile 2024

Il controverso santuario di Yasukuni

In Giappone esiste un santuario piuttosto controverso dato che vi sono venerati alcuni criminali di guerra, aspetto che non è per nulla gradito a Cina e Corea del Sud. Ne ha scritto Il Post.

Fonte

“Domenica il ministero degli Esteri della Corea del Sud ha diffuso un messaggio di rammarico e critica nei confronti del governo del Giappone dovuto al fatto che il primo ministro giapponese Fumio Kishida ha fatto un’offerta al santuario shintoista di Yasukuni, a Tokyo. Non è una cosa nuova: ogni volta che esponenti del governo giapponese hanno un qualche tipo di rapporto con questo controverso luogo di culto religioso, infatti, il governo sudcoreano protesta.
A Yasukuni sono venerati quasi 2,5 milioni di militari e civili giapponesi morti in guerra: nello shintoismo gli spiriti dei morti possono essere venerati come entità da onorare e a cui chiedere protezione e il santuario è dedicato a loro. Dal 1978 però tra questi militari ci sono 14 criminali di guerra della Seconda guerra mondiale condannati a morte da un tribunale degli Alleati nel 1948, tra cui il primo ministro degli anni della guerra Hideki Tojo e il generale Iwane Matsui, comandante delle truppe durante il massacro di Nanchino, in Cina, durante il quale vennero uccisi circa 250mila civili cinesi e violentate circa 20mila donne. Per questo la Corea del Sud e la Cina, che nei primi decenni del Novecento furono occupate e colonizzate dal Giappone (parzialmente, nel caso cinese), considerano il santuario il simbolo del nazionalismo e imperialismo militarista giapponese. La dominazione giapponese in Asia e le conquiste per espanderne i territori furono particolarmente brutali e portarono alla morte di milioni di persone e alla riduzione in sostanziale schiavitù di centinaia di migliaia di cinesi e coreani. Per questo in passato, per spiegare agli europei come si sentissero relativamente al santuario di Yasukuni, alcuni parlamentari della Corea del Sud lo paragonarono a un “santuario nazista”.
Il governo sudcoreano ha invitato i leader giapponesi a «dimostrare un sincero pentimento» rispetto alle responsabilità storiche del Giappone. Negli ultimi due anni le relazioni diplomatiche tra i due paesi sono migliorate per l’iniziativa del presidente conservatore sudcoreano Yoon Suk-yeol, ma le divergenze sulla memoria storica continuano a essere un tema discusso.
Il santuario di Yasukuni si trova nel quartiere di Chiyoda di Tokyo, poco distante dal Palazzo Imperiale. Venne costruito dall’imperatore Mutsuhito (a cui ci si riferisce come Meiji in Giappone) nel 1869 e oltre che ai caduti della Seconda guerra mondiale è dedicato ai militari morti nella guerra Boshin, un conflitto civile avvenuto tra il 1868 e il 1869, nelle due guerre tra Cina e Giappone del 1894-1895 e 1937-1945, e la cosiddetta Prima guerra d’Indocina, tra il 1946 e il 1954.
Fino al 1945 era un’istituzione finanziata dallo stato giapponese, che all’epoca non era separato dallo shintoismo, la religione politeista giapponese (l’imperatore era peraltro considerato di natura divina anche prima della morte). Dalla fine della Seconda guerra mondiale invece è indipendente e non è nemmeno affiliato all’Associazione dei santuari shintoisti (Jinja Honcho), la principale organizzazione dello shintoismo.
L’imperatore Hirohito (1901-1989), quello sotto il quale il Giappone partecipò alla Seconda guerra mondiale, continuò a visitare il santuario fino al 1975, smettendo dopo che su iniziativa del clero del santuario cominciarono a esservi venerati i criminali di guerra. Suo figlio Akihito e l’attuale imperatore Naruhito invece non lo hanno mai visitato. Per quanto riguarda i primi ministri, molti negli anni sono andati nel santuario ma quasi mai in veste ufficiale: in quelle rare occasioni, ad esempio nel 2013 con Shinzo Abe, i governi cinese e sudcoreano espressero dure critiche.
Per quanto riguarda Kishida, da quando è diventato primo ministro nel 2021 ha più volte mandato delle offerte al santuario di Yasukuni in occasione delle festività primaverili (una è in corso) e autunnali, e nella ricorrenza del 15 agosto, anniversario della resa del Giappone nella Seconda guerra mondiale. Di persona non lo ha mai visitato come primo ministro, ma domenica è andato nel luogo di culto uno dei ministri del suo governo, Yoshitaka Shindo.

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Posted on 24 aprile 2024

La vita custodisce un vuoto

Il Corriere della Sera ha realizzato un’intervista a suor Beatrice e a suor Enrica, clarisse di clausura. 

“«Vorrei sfatare l’idea che noi siamo fuori dal mondo. Non siamo angeli, non siamo speciali, invisibili o meno umane, non siamo migliori o diverse, viviamo “qui dentro” felicità, tristezze, gioie, dolori fatiche, fragilità e tutto ciò che vivono gli uomini e le donne nel mondo. Siamo nell’assoluta normalità, anche perché essere altro significherebbe il contrario di ciò che ci hanno insegnato Chiara e Francesco. E, soprattutto, contrario alla logica della fede nostra cristiana».
Sorridono molto mentre parlano, anzi spesso ridono proprio di gusto: per le domande formulate con lunghi e cauti giri di parole (che loro interrompono per sintetizzare in modo diretto e crudo) sia per le battute che loro stesse si concedono raccontandosi. Nella sala arredata in modo essenziale, si coglie l’eco di un silenzio padrone di casa, ma la conversazione lievita come in un qualsiasi salotto. Sono suore, Clarisse di clausura. Chiara e Francesco sono i loro riferimenti costanti, la guida della loro scelta di vivere la fede cristiana in modo totalizzante, li nominano più volte come se li incontrassero spesso nel corso delle loro giornate silenziose e indaffarate. Però non siamo in un eremo lontano da tutto, ma nel mezzo di un popoloso quartiere della periferia Nord di Milano. Zona Gorla, nella piazza dedicata ai Piccoli Martiri del bombardamento alleato del 1944. Pochi mesi prima di quel tragico 20 ottobre il primo gruppo di «Sorelle povere», come si chiamano davvero le Clarisse, si insediò qui.
Hanno accettato di lasciarsi intervistare, ma volevano «esprimere l’idea di fraternità, di comunità, non di individualità» e così a parlare sono in due: suor Beatrice, 51 anni, originaria di Lecco e suor Enrica Serena, nata a Melegnano 52 anni fa. Al citofono rispondono dicendo «pace e bene», al portone salutano stringendo la mano e per parlare hanno disposto tre sedie attorno a un tavolo, non sono dietro alla grata che sta su un lato del salone: ma da una dozzina d’anni non la usano più (come era in passato, anche per incontrare i parenti), proprio per non segnare una loro distanza dal mondo. «Ma questa è la nostra scelta – sottolineano – ogni monastero, ogni comunità fa le sue». Rispondono alternativamente alle domande, si sovrappongono, una integra la risposta dell’altra, ma chiedono che le loro voci siano riportate come una sola.
Quante suore vivono qui?
«La nostra fraternità è composta, al momento, da 17 sorelle, di età che varia dai 29 ai 102 anni».
Centodue?
«Sì, suor Maria Consolata, che fece parte del primo gruppo di sorelle che arrivò qui nel 1944. Soffre gli acciacchi dell’età, ma è lucidissima. Non sa usare il computer ma detta le sue e-mail».
Quali sono le vostre regole?
«Siamo qui per vivere il Vangelo, come San Francesco. La nostra fraternità si ispira a Santa Chiara, la prima donna nella storia della Chiesa che abbia composto una Regola scritta per le donne, approvata dal Papa. Gli elementi costitutivi della nostra forma di vita sono la fraternità, la povertà e la centralità della relazione con Dio, nella preghiera, e la stabilità che, soprattutto nel passato, era espressa attraverso forme di separazione materiale. Come vede alle mie spalle c’è una grata, fino a circa dodici anni fa ricevevamo le nostre visite, anche quelle dei parenti, rimanendo là dietro, poi abbiamo deciso che non fosse necessaria. E queste sono regole che variano in ogni comunità, molto dipende anche dal contesto sociale, dalle domande che arrivano dall’esterno, ma noi decidiamo comunque tutto insieme».
Cioè, si va ai voti e prevale una maggioranza?
«Diciamo che ci confrontiamo, discutiamo anche, ciascuna esprime il suo parere, a volte sono processi molto lunghi».
Litigate?
«Ma guardi che siamo umane! Vivere insieme è molto bello, anche se è difficile condividere tutto 24 ore su 24. Ciascuna di noi ha risposto a una sua chiamata, non ci siamo scelte, magari fuori di qui non ci sceglieremmo. Quindi sì, ci sono anche i conflitti, ma abbiamo il Vangelo come riferimento e guida e allora pratichiamo l’ascolto, il dialogo, il perdono, la comprensione dell’altro, la ricerca di un’armonia al di là delle difficoltà. Per noi la fraternità è anche testimonianza di questo. E la presenza del nostro piccolo monastero in un quartiere di una città vuole essere anche questo: una testimonianza. Io, per esempio, sono stata inizialmente in un altro monastero in un posto bellissimo, ma un po’ separato: quando ho conosciuto questa comunità, immersa nel quartiere, circondata da case, segno evidente che la nostra presenza è accanto alla gente, in mezzo alla vita di tutti, ecco, ho intuito che qui io ero chiamata. Ed eccomi qui, da 29 anni, in un luogo nato per testimoniare la pace proprio dove ha colpito la guerra».
Com’è la giornata-tipo qui dentro?
«Sveglia alle 5.15 e preghiera personale e liturgica, alle 6.30 le Lodi tutte insieme e alle 7 la messa. Poi la colazione, in silenzio, tutti i pasti li consumiamo nel silenzio. Alle 8.30 l’Ufficio delle letture, cioè preghiera fino alle 9.15 circa. Poi inizia il tempo del lavoro, un caposaldo degli insegnamenti di Chiara: ciascuna ha il suo compito, gestione della casa, pulizie, cucina portineria, cura delle anziane – facciamo tutto noi, qui non ci sono collaboratori esterni – e poi lavori di confezionamento di prodotti artigianali, come la decorazione di ceri e candele, creazione di calendari, correzione di bozze di testi religiosi, creazioni in cuoio… Alle 12.15 c’è l’Ora sesta della liturgia e poi il pranzo, con una sorella che, a turno, legge per le altre articoli che lei stessa ha selezionato».
Ecco, appunto, come vi informate? Cosa arriva dal mondo esterno?
«Televisione, radio, Internet, giornali e riviste cattoliche. Siamo informate, non siamo tagliate fuori dal mondo, magari abbiamo imparato a selezionare, con un esercizio disciplinato dell’uso del nostro tempo: meno quantità ma più qualità, non ci lasciamo sommergere dalle notizie ma le seguiamo, facciamo in modo che non ci scivolino addosso, ne discutiamo anche fra noi. Per esempio, abbiamo approfondito il tema della transizione ecologica e delle conseguenze sull’economia, a partire dalla protesta dei trattori, oppure proprio oggi è stato davvero interessante ascoltare l’intervista a un dottore di Medici senza frontiere».
E durante il pranzo una legge e le altre stanno in silenzio?
«Sì, è un momento di riflessione, risponde al bisogno di fermarsi e lasciar sedimentare. Fuori di qui è più difficile gestire i tempi e le situazioni».
Torniamo all’agenda quotidiana: dopo il pranzo?
«Riordiniamo, e a quel punto chiacchieriamo tra noi, per poi tornare al silenzio alle 14, quando la campana annuncia il tempo personale per ciascuna di noi, dedicato al riposo, alla preghiera personale dell’Ora Nona, allo studio. Alle 16.30 riprendiamo i lavori in casa, a volte facciamo formazione o riceviamo visite dall’esterno, alle 18 recitiamo i Vespri e poi dopo un altro momento di preghiera personale, alle 19 ceniamo. E dopo per circa un’oretta viviamo la nostra “ricreazione”, parliamo, qui attorno al tavolo, ascoltiamo anche della musica, scelta a turno da una per le altre».
Di cosa parlate?
«Di tutto, magari ci raccontiamo la giornata, per esempio stasera probabilmente racconteremo alle altre di quest’intervista (ridono). Diciamo, non temi che richiedano discernimento. Poi, verso le 21.15 c’è l’ultima preghiera, la Compieta, e dopo ciascuna va nella sua cella».
Cella, non stanza?
«Ma sì, noi la chiamiamo così, comunque è una stanzetta con un letto, un tavolino, un armadio e un lavandino con acqua fredda».
Ricevete molte visite dall’esterno?
«Sì, arrivano qui gruppi, per esempio giornate di ritiro, e di solito lasciano un’offerta che ci aiuta per il mantenimento del monastero. Sono soprattutto occasioni di condivisione, noi offriamo ciò che abbiamo: la nostra testimonianza, questo spazio per fermarsi, l’accompagnamento a chi sente il bisogno di nutrire la propria relazione con Dio e anche – tanto – a chi chiede ascolto. Sa che riceviamo tante richieste di ascolto personale? Anche da parte di persone non credenti. In una città come questa c’è un bisogno enorme di ascolto, di fermarsi, di un’oasi di silenzio, anche perché dalle domande vere spesso si scappa. Ecco, noi questo possiamo offrirlo, non abbiamo le risposte ma possiamo affiancarci al cammino di vita delle persone».
A proposito di non credenti. Ma a chi, come voi, ha scelto di dedicare l’intera vita alla fede, non viene mai il pensiero…
«… che Dio non esista? Ma figuriamoci se no! (ridono). Come diceva il cardinale Carlo Maria Martini, in ogni cristiano convivono un credente e un non credente. E noi non abbiamo alcuna prova scientifica dell’esistenza di Dio. Ma ciascuna di noi ha sentito questa chiamata della fede e ha scelto di viverla pienamente. Però, a prescindere da questo, sfatiamo il luogo comune: noi non siamo fuori dal mondo, non siamo speciali o diverse, non siamo migliori perché siamo qui dentro: felicità, tristezze, gioie, dolori fatiche, fragilità e tutto ciò che succede agli esseri umani. E come tutti attraversiamo dubbi, fatiche, anche nel credere. Siamo nell’assoluta normalità, anche perché essere altro significherebbe il contrario di ciò che ci hanno insegnato Chiara e Francesco. La differenza, semmai, è la ricerca su come abitare le cose che vivono tutti, per esempio come evitare che un conflitto sfoci in violenza, su come vivere la tristezza e la fragilità».
Allora affrontiamo un’altra domanda ricorrente quando si parla delle suore di clausura: una volta compiuta la grande scelta di dedicare la propria vita alla fede, perché proprio in un monastero e non in qualche missione sociale là dove c’è bisogno di aiuto e conforto?
«Quando mi sono innamorata del Signore studiavo per gli ultimi esami di medicina e ho vissuto due anni di lotta interiore attorno a questa domanda: “Con tutto quello che c’è da fare, tu vuoi andare a rinchiuderti in preghiera in un monastero?”. Poi ho elaborato la convinzione che vedo con nitidezza ancora oggi: questa mia, nostra testimonianza risponde a un bisogno non meno importante degli esseri umani, quanto il pane e la salute. La mia missione è qui, con la pratica quotidiana di un gesto minimo, per dire a tutti che la vita non si esaurisce in “cose”, la vita custodisce un vuoto, uno spazio di ristoro, l’inutile, il gratuito. E questo è molto più vero in una città come Milano, dove è richiesto a tutti di essere performanti e facilmente si perdono pezzi di umanità».
Le vocazioni sono in calo costante da anni. Come immaginate il futuro di questo monastero?
«Eravamo quasi trenta, quando siamo arrivate e adesso siamo in 17, con una sola novizia. Sappiamo che la realtà è questa, ma siamo anche convinte che possa essere un’opportunità, perché, come dice un salmo, “l’uomo nella prosperità non comprende”, e in fondo – per noi che crediamo nella bellezza del sine proprio, cioè del vivere senza appropriarci di nulla, cioè di nessuna proprietà personale – non ci appartiene neanche questa forma di vita. Quindi seguirà l’evoluzione che sarà necessaria, i numeri non esprimono il valore, la qualità non ha un criterio unico, figuriamoci quella di una vita di fede. L’importante è che viva il Vangelo».”

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Posted on 26 febbraio 202426 febbraio 2024

Gemma n° 2474

“Questa è la mia prima gemma, quindi all’inizio ero molto indecisa su cosa portare. Alla fine ho deciso di dedicarla ad una persona che per me ha fatto molto e che per me è diventata molto più importante di quello che pensavo quando l’ho vista per la prima volta.
Quando ci siamo conosciute, riuscivo a trovare una cosa sola in comune tra me e lei, e benché mi sembrasse simpatica con lei non ho fatto molta amicizia quando invece speravo di poterla conoscere meglio.
Non molto tempo dopo averla conosciuta, sono andata a parlarle perché mi trovavo in una situazione dalla quale speravo di poter uscire con il suo aiuto.
Non mi ero sbagliata, difatti per me lei è stata di enorme aiuto. Ho verso questa persona un grande debito di gratitudine: quello che lei considera un piccolo aiuto, per me è stato decisivo per riuscire a superare una situazione emotiva dalla quale da sola non sarei mai riuscita a uscire.
Non so come lei mi considerasse quando questo è successo, ma io in quella situazione l’ho vista come una stella in una notte scura: come quando un viaggiatore sperduto alza lo sguardo al cielo buio della notte e vi scorge una stella, un piccolo diamante luminoso nell’oscurità che gli indica la via.
Sicuramente leggendo queste parole in classe mi sentirò il suo sguardo addosso, e spero che i miei occhi non cedano alla tentazione di guardarla appena finito di leggere per farle capire che è di lei che sto parlando. Spero invece che dalle mie parole questa persona abbia capito che sto parlando di lei e che la ringrazio di cuore per ciò che ha fatto per me, sebbene mi conoscesse a malapena. Spero un giorno di poter ricompensare la sua gentilezza, anche se ho paura che le occasioni non saranno molte.
Per ora mi basta sapere che lei sa che le sono molto grata, e le rinnovo i miei più sentiti ringraziamenti per ciò che ha fatto per me”.
(M. classe prima).

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Posted on 6 febbraio 2024

Gemma n° 2445

“Quest’anno ho deciso di portare come gemma mia madre e per rappresentarla mostro questi orecchini regalati da lei.
La considero una delle persone più importanti della mia vita e le sono assai grata se penso a tutto quello che ha fatto per me e per le mie sorelle. Da ormai un anno a questa parte il nostro rapporto è cambiato in meglio: sarà perché sono cresciuta e sono maturata, ma ora riusciamo a parlare e confidarci su tutto, senza sentirci giudicate.
Mia madre è una donna forte e dal carattere deciso, che in quest’ultimo periodo le è servito perché in famiglia abbiamo affrontato esperienze non piacevoli. Lei però non si è mai arresa, anzi è sempre stata presente per me e per le mie sorelle, a volte anche trascurando un po’ se stessa.
Con questo voglio concludere dicendo che auguro a tutti di avere una persona nella propria vita come mia madre, che vi sappia rendere felici e ascoltate”.
(M. classe quarta).

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Posted on 4 dicembre 2023

Gemma n° 2370

“Come gemma voglio portare mia sorella.
Crescendo mi sono resa conto di quanto le voglia bene e credo sia la persona a cui tengo di più.
Da piccole non eravamo mai d’accordo e trovavamo ogni scusa per litigare. Il nostro rapporto è cambiato durante la quarantena; infatti dovendo stare per forza chiuse in casa, passammo molto tempo insieme e ci avvicinammo sempre più.
Oggi quando torniamo a casa da scuola ci raccontiamo a vicenda come è andata la giornata e ci basta uno sguardo per capirci” (V. classe prima).

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Posted on 12 settembre 202312 settembre 2023

11 settembre, sentirsi altro

Immagine tratta da Redattore Sociale

Stamattina ho trovato un articolo di due anni fa di Sabika Shah Povia, giornalista freelance italo-pakistana. E’ un pezzo contenuto all’interno di un approfondimento de Il Mulino per i 20 anni dall’attacco dell’11 settembre 2001. Così il Sommario: “Vent’anni fa gli attentati di Al Qaida e la guerra al terrore modificarono anche la vita dei musulmani italiani. Che, come mai prima di allora, iniziarono a sentirsi come altro. Una percezione che esiste ancora e che non è destinata a sparire presto”. Considero l’articolo molto interessante e quindi lo riporto integralmente.

“Ero al secondo anno di liceo. La mia vita era abbastanza routinaria. Ogni giorno uscivo da scuola alle 14 e prendevo un autobus per tornare a casa. Arrivavo alle 14:30, prendevo qualcosa da mangiare e mentre mangiavo chiacchieravo dal telefono fisso in salotto, davanti alla televisione sempre accesa, con la mia amica Flaminia, quella con cui avevo appena trascorso sei ore a scuola, che però non ci erano bastate per raccontarci tutte le cose che si vogliono raccontare due adolescenti di 14 anni. Anche quel giorno fu così. Ci stavamo dedicando a una profonda analisi della giornata, chi si era preso una cotta per chi, quale prof era stato il più antipatico e di che colore si era tinta i capelli quella ragazza del quinto, ignare del fatto che quello che sarebbe successo da lì a poco, precisamente alle 14:46, avrebbe cambiato per sempre le nostre vite. In televisione cominciarono a mandare in onda le immagini in diretta dell’attentato alle Torri Gemelle. Ricordo lì per lì di aver chiesto a Flami dove fossero, perché credevo fossero a Parigi. Conoscevo poco il mondo, non avevo ancora iniziato a girarlo, anche perché quando sei figlia di immigrati, ogni tua vacanza da bambina, la passi a trovare i parenti nel tuo Paese di origine, nel mio caso il Pakistan, il fino a quel momento anonimo Pakistan.
Quando da piccola passeggiavo per le vie di Roma mano nella mano con mia madre in abito tradizionale, ci fermavano sempre per chiederci di dove fossimo. «Che belle che siete. Siete dell’India?» «No, del Pakistan». «E dov’è?» «Vicino all’India». «E allora vedete che avevo ragione io! Siete indiane». E così eravamo indiane. Eravamo «belle». Non eravamo pericolose, non eravamo vittime, non eravamo ancora musulmane. Da quel giorno in poi sarebbe però cambiato tutto. E non solo per me.
Maham non era ancora rientrata dalle sue vacanze in Pakistan. Aveva da poco compiuto i diciotto anni. Nonostante fosse nata a Roma, aveva ottenuto la cittadinanza italiana da soli tre mesi. Finalmente era una cittadina a tutti gli effetti. Finalmente faceva parte di questa comunità, o almeno così credeva. Stava guardando le notizie alla televisione, mentre cercava disperatamente di contattare gli zii che aveva a New York e che lavoravano dentro uno dei grattacieli. «È allora che cominciò questa retorica del noi e del voi», ricorda. «All’inizio non capivo se io ero noi o voi, essendo io italiana, ma anche musulmana. Questo senso di spaesamento, mi portò ad avvicinarmi al movimento Stop the War Coalition. Avevo scoperto di non essere l’unica esclusa da questa dicotomia». Maham iniziò il suo attivismo e le sue battaglie per i diritti di tutti allora. «Avevo la speranza che se ci fossimo uniti per ciò che era giusto, chi era al potere non avrebbe potuto fare a meno di ascoltarci. Vent’anni dopo mi rendo conto che il potere del popolo non riesce a ottenere molto, se non il fatto che la solidarietà mantiene viva la speranza per un futuro migliore».
SiMohamed non andava mai in Marocco a settembre, però aveva finito il liceo proprio quella estate e dopo la maturità era partito in vacanza con i suoi amici e la sua ragazza. Decise quindi di posticipare il consueto viaggio per trovare i parenti a settembre. Era a Casablanca con suo zio, seduto a chiacchierare davanti alla televisione. Al Jazeera cominciò a trasmettere la diretta dell’attacco. «Pensavo fosse un film, ma non lo era», ricorda. «La stessa paura che ha colto chi non era di fede musulmana, ha colto anche chi lo era, perché tutto quello che è accaduto ha avuto come vittime persone, al di là del loro credo religioso». Oggi SiMohamed insegna educazione civica, cultura e lingua araba in un liceo di Genova. «Vent’anni dopo è come se i pregiudizi nati nei confronti dei musulmani dopo l’11 settembre si siano cristallizzati nel tempo. Però noi come comunità abbiamo preso coscienza del problema e ci siamo attivati perché l’azione dei singoli non diventi la condanna della maggioranza».
Le immagini della diretta dalle Torri Gemelle interruppero la Melevisione. Fatima aveva 7 anni e si spaventò pensando ci fosse una guerra. Il padre le spiegò che cosa stava succedendo, ma non avrebbe potuto prevedere quello che ne sarebbe seguito. «Da lì in poi andare a scuola divenne un incubo», mi racconta Fatima. «Venivo associata a Bin Laden perché ero musulmana come lui. È da allora che cominciò questa esigenza di doversi dissociare continuamente». Fatima lentamente si ritrovò ad avere sempre più amici figli di immigrati. «Mi aggregavo ai miei simili, allontanandomi sempre di più dagli italianissimi». Oggi Fatima non vive più in Italia, ma ne parla, ne scrive, e si racconta attraverso le sue poesie. «Dopo vent’anni di questa narrazione negativa dei musulmani, sono cambiata nel mio modo di approcciare queste questioni. Non sento più l’esigenza di dover dare spiegazioni e mi fa arrabbiare chi se lo aspetta. Oltre che per quelle degli attentati, mi dispiace per le vittime dei mass media che non sanno guardare oltre ciò che viene proposto».
Yassine oggi è il presidente dell’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ma già all’epoca si occupava di associazionismo giovanile tra i musulmani. «Fummo travolti da un’ondata di odio e di islamofobia che riempiva i nostri giornali e telegiornali», mi dice. «Per strada la gente ci guardava con sospetto». Chiunque era visibilmente musulmano, quindi gli uomini con la barba o le ragazze con il velo, venivano presi di mira. «Qualche ragazza rimase anche vittima di aggressioni fisiche. Per non parlare dei controlli negli aeroporti che erano diventati molto più scrupolosi, per noi in particolare. E nelle scuole si continuava a discutere di terrorismo, e il terrorismo, agli occhi del mondo intero, era terrorismo islamico. Ormai esisteva solo quello. E noi musulmani eravamo tutti potenziali terroristi, sia per i media sia per i politici». Secondo Yassine, l’islamofobia ha preso sempre più piede nelle società europee, anche per via dei numerosi attentati terroristici che sono seguiti a quella data. Quello che però lui non accetta è la legittimazione dell’islamofobia da parte delle istituzioni. «Diversi Paesi europei hanno fatto azioni politiche o approvato leggi che vanno a limitare le libertà della comunità islamica. Una singola azione perpetrata da un gruppo di terroristi ha cambiato la vita di un miliardo e mezzo di persone nel mondo. E ne paghiamo ancora il prezzo».
Sumaya era nello studio dentistico di suo suocero, in attesa di suo marito. Vide anche lei le immagini dell’attacco sulla tv, in sala d’attesa. «Da quel momento, noi che viviamo qui abbiamo vissuto il grande peso di dover render conto di qualcosa che ovviamente non era colpa nostra», si sfoga. Sumaya è stata per anni consigliera al Comune di Milano. «È dura, specialmente per le donne che come me indossano il velo. L’opposizione strumentalizza ogni questione, ti accusa di presunti fanatismi e sostiene l’incompatibilità dei valori islamici con quelli occidentali. Ma noi sappiamo che non è così e non ci arrendiamo perché vogliamo essere parte costruttiva e propositiva della società». Oggi Sumaya ha tre figli e tanta speranza. «Ho molta fiducia nelle nuove generazioni. Percepisco un cambiamento di attitudine in loro. Sono più aperti alla pluralità e spero che questo aiuti a creare più ponti per dialogare, e per sentirci parte di una grande comunità e vivere al meglio le nostre vite».
Per Igiaba doveva essere un bel giorno. Era il primo nella redazione della rivista «Latinoamerica». Le cominciarono ad arrivare dei messaggi mentre andava a lavoro. Non capì la gravità della questione finché non vide le immagini. «Prima dell’11 settembre ero stata vittima solo di razzismo e afrofobia per via del colore della mia pelle. Poi si è aggiunta anche l’islamofobia. I controlli massicci nonostante il passaporto italiano, lo scoprire di essere colpevole di tutto». Igiaba oggi è una scrittrice di successo e riflette su cosa le è rimasto di quel giorno. «Più che quella data, rimangono le vittime di quel giorno, le conseguenze e la lettura tossica che ne hanno fatto i media e i politici. Invece di partire da lì per costruire un mondo migliore e combattere gli estremismi di tutti i tipi, si è colpevolizzata un’intera religione e i suoi fedeli. Ancora oggi c’è chi pensa che i musulmani siano la colonna del terrorismo. Io spero che dopo vent’anni saremo più capaci di dialogare, liberare i musulmani da questo stigma e riflettere per non avere mai più attentati e mai più colpevolizzare intere popolazioni».
Secondo una ricerca condotta dal Pew Research Center, oggi i musulmani in Italia sono circa 2,7 milioni, ovvero il 4,9% della popolazione residente. Eppure, i dati raccolti da Ipsos Mori nella ricerca sui pericoli della percezione, dimostrano che gli italiani sovrastimano la presenza musulmana al 19%. Perché? E perché il 69% degli italiani si dichiara contrario alla presenza dei musulmani nel Paese? Tutto questo è una conseguenza del racconto che è stato fatto di questo gruppo minoritario da parte di media e politici. Dopo l’11 settembre, i media hanno iniziato a occuparsi di più di questioni islamiche, anche se il più delle volte solo per riaffermare gli stereotipi islamofobi già esistenti nella società attraverso una narrazione sensazionalistica e che ha lasciato più spazio a voci e vicende estreme, che alla popolazione comune.
I politici hanno contribuito ad acuire questa situazione presentando l’Islam, i musulmani, ma anche gli stranieri più in generale, come minacce alle tradizioni e alla cultura italiana. Tale retorica ha legittimato in qualche modo l’esclusione e la discriminazione dei musulmani, e li ha resi bersaglio di intolleranza, di incitamento all’odio e persino di crimini.
Vent’anni di questa narrazione non si cancelleranno facilmente, ma prenderne consapevolezza oggi è una nostra responsabilità e un passo in più verso una società rispettosa dell’individuo, che sappia vedere nella diversità, anche religiosa, una ricchezza, e non un pericolo.

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Posted on 21 agosto 2023

Suggestioni per il nuovo anno

Sul numero di maggio-giugno de Lavialibera ho letto un articolo molto interessante del maestro Franco Lorenzoni. Riporto qualche estratto per fissare sulle pagine di questo blog spunti, idee, suggestioni, ispirazioni per l’anno scolastico alle porte.

“Tutti ricordiamo l’esperienza di una porzione di arte o scienza che abbiamo incontrato e amato perché qualcuno ce l’ha presentata con convinzione e trasporto. Qualcuno capace di condividere il desiderio di conoscenza che gli suscitavano le ombre nella pittura di Caravaggio, il modo in cui Čechov tratta i suoi personaggi, l’infinito racchiuso nella radice di due, il suono della chitarra di Jimi Hendrix o il faticoso affermarsi dell’idea di uguaglianza nella storia. Senza quel tramite, senza l’incontro con quella passione incarnata, forse non ci saremmo mai affacciati a quel linguaggio o a quell’ambito del sapere, a quel mestiere, a quella tensione sociale o all’inquietudine che ci ha spinto a viaggiare o a cambiare città, che ha segnato il nostro destino. […]
La peggiore offesa all’infanzia sta nel costringere bambine e bambini e adolescenti a trascorrere ore e ore a scuola insieme ad adulti pigri, demotivati e frustrati, a insegnanti che hanno smesso di ricercare e credere nella cultura come luogo di conoscenza di sé e leva di trasformazione individuale e collettiva. Il cuore dell’educazione attiva sta nel costruire strumenti per arricchire le qualità e potenzialità di ciascuno alimentando la fiducia in sé stessi e, al tempo stesso, nella capacità di seminare inquietudine, cercando ogni modo per moltiplicare le domande.
Seminare inquietudine dovrebbe essere un anelito costante in chi educa, con la consapevolezza che a scuola stiamo svolgendo una funzione politica nel senso più ampio e autentico del termine, cioè di allenamento all’arte del convivere e di cura del bene comune e della città presente e futura. […]
Educare è liberare potenzialità, allargare gli sguardi, forgiare e mettere a punto insieme conoscenze e strumenti in grado di moltiplicare le possibilità di scelta di ciascuno.  Questo è il secondo motivo per cui il mestiere dell’educare nella scuola è opera complessa, perché necessita da parte nostra una continua ricerca e messa a punto di materiali, stimoli, domande aperte. […]
È sempre più necessario, infatti, tessere collegamenti tra istruzione, educazione e capacità di cura dei singoli e delle relazioni reciproche. Relazioni a cui dobbiamo dare la possibilità di maturare e crescere trasformando in comunità di ricerca ogni singola classe, ma anche la scuola nel suo complesso e, con alleanze da costruire, porzioni del territorio che la circonda. […]
Il nodo allora sta nel dare davvero la parola ad alunne e alunni e fare del dialogo il perno attorno a cui innovare la didattica sperimentando che l’educare si fonda e si nutre sempre di reciprocità. Reciproco è una parola ci dovrebbe orientare sempre. È composta da recus e procus. Recus indica l’andare indietro, procus l’andare avanti. Prima c’è il passo indietro, la creazione di uno spazio vuoto e di un contesto capace di ascolto, solo dopo c’è il passo avanti, che permette di osservarci con attenzione, ascoltarci e accordarci insieme compiendo una sorta di danza in cui dobbiamo sperimentare la nostra capacità farci guidare, rinunciando all’idea di essere sempre noi adulti a condurre il gioco. […]
Se tu non trovi il modo di fare tuo, di fare vero un quadro, un libro, un argomento di storia o un teorema matematico, se non lo riscrivi dandogli vita a modo tuo, con parole e sentimenti e ragionamenti che non possono essere che tuoi, quell’oggetto culturale rimarrà distante, inerte, morto.
I più veloci impareranno a memoria quattro parole che lo definiscono e magari sapranno anche rispondere a una verifica e far felici noi insegnanti, ma presto lo dimenticheranno. Ciò che più conta nel processo educativo sta nella lunga manovra di avvicinamento che con pazienza, preparazione e convinzione noi docenti dobbiamo predisporre e proporre per permettere a tutte e tutti di cercare la loro parte di verità nelle conoscenze che proponiamo di incontrare. Tutto ciò può avvenire solo facendo spazio e scegliendo di dedicare il più tempo possibile al dialogo, che deve divenire l’architrave del processo educativo.”

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Posted on 13 marzo 202313 marzo 2023

La vista della verità

“Il paradosso, il vostro paradosso, è che vi dedicate alla ricerca della verità, ma non sopportate la vista di ciò che scoprite” (I. Yalom, Le lacrime di Nietzsche, pag. 360).

Fonte

Nei miei taccuini, su cui appunto le citazioni dei libri che leggo, questa è la numero 3086. Ha molteplici campi di applicazione, ma questo pomeriggio ne ha una particolare. Ho passato un po’ di tempo, troppo poco in realtà (ma la campanella è tiranna), a raccogliere le parole e gli sfoghi di alcune alunne. Oggetto dell’arrabbiatura: l’incapacità relazionale di molti adulti, in particolare degli insegnanti, nei confronti degli studenti. Non sbagliano. Credo sia un effettivo problema, un tempo più nascosto, più sottotraccia, soprattutto perché era un tempo diverso, abitato, in particolare, da studenti diversi. Vanno fatte delle considerazioni, vanno condotte delle riflessioni che possano tradursi in atti, modi, comportamenti; ma senza il coraggio, la voglia e l’onestà di vedere la verità dentro di sé, dentro i propri atti, modi e comportamenti, non si arriva a nulla. Diventa una ricerca di verità vana e sterile, volta a trovare quel che si fa finta di cercare. Penso sia la base se vogliamo essere degli adulti, e soprattutto degli insegnanti, significativi.

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Posted on 2 marzo 2023

Gemma n° 2265

“Ho portato il libretto del Live, ovvero un percorso annuale, durante il quale ci si ritrova tra animatori una volta al mese a Santa Maria la Longa per stare una giornata insieme, per ballare, giocare, cantare, pregare eccetera. Ci sono anche altri incontri come un sabato sera al mese, oppure 3 incontri durante l’anno che si tengono a Mestre o a Mogliano Veneto. Ho deciso di portare questo libretto perché simboleggia uno dei posti a cui tengo di più, soprattutto per le persone che vi sono dentro, sincere, buone e con le quali posso essere me stessa. È dall’anno scorso che partecipo a questi incontri ma solo quest’anno ho capito che è qualcosa senza il quale mi sento persa, per cui spero di continuare ancora per molto. Questo percorso termina in estate con i campi estivi” (S. classe seconda).

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