Custodita senza eccezioni

Come ogni anno, nelle classi terze, affrontiamo l’argomento della pena di morte. In una vi siamo dentro già da un po’, nelle altre stiamo per iniziare. Poco fa è stato rilanciato dai social un brevissimo video di papa Francesco sul tema. Così ne scrive Paolo Petrini su La Stampa:

“«Ogni vita è un bene e la sua dignità deve essere custodita senza eccezioni. La pena di morte è quindi una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona». Lo afferma Papa Francesco nel videomessaggio inviato al VII Congresso mondiale contro la pena di morte, in corso al Parlamento europeo a Bruxelles fino al 1° marzo, promosso dalla Ong “Ecpm” (Together Against the Death Penalty – Insieme contro la pena di morte), in collaborazione con la Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte.
«Vi accompagno con la mia preghiera e incoraggio il vostro lavoro e quello dei governanti e di tutti coloro che hanno responsabilità nei loro Paesi a compiere i passi necessari verso l’abolizione totale della pena di morte», dice Francesco nel filmato. «È vero che le società e le comunità umane devono affrontare spesso problemi molto gravi che minacciano il bene comune e la sicurezza delle persone, ma oggi ci sono altri mezzi per espiare il danno causato, la detenzione è sempre più efficace nel proteggere la società».
«Non si può mai abbandonare la convinzione di offrire a chi si è macchiato di crimini la possibilità di pentirsi», insiste ancora il Pontefice, «nessuno può essere ucciso e privato dell’opportunità di abbracciare nuovamente la comunità che ha ferito e fatto soffrire». La pena di morte, infatti, è «una grave violazione del diritto alla vita di ogni persona». «L’obiettivo dell’abolizione della pena di morte in tutto il mondo rappresenta una coraggiosa difesa della dignità della persona e la convinzione che l’uomo può affrontare il crimine, così come respingere il male, offrendo al condannato il possibilità e il tempo per riparare il danno commesso, pensare alla sue azione e quindi essere in grado di cambiare la vita, almeno interiormente».
Nel video messaggio Francesco cita anche la recente modifica al testo del Catechismo della Chiesa cattolica relativo alla pena capitale. «La Chiesa insegna alla luce del Vangelo che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo».
Per il Papa, è un fattore positivo «il fatto che sempre più Paesi scommettano sulla vita e non sulla pena di morte o addirittura l’abbiano completamente eliminata dalla loro legislazione penale». Per continuare a procedere in questa direzione, Papa Francesco esorta a «riconoscere la dignità di ogni persona» e a «lavorare in modo che non vengano eliminate altre vite, ma guadagnate per il bene della società nel suo complesso».

Un altro Iraq già esiste

Un interessante articolo scritto da Sara Manisera su Avvenire una settimana fa. Ci descrive una prospettiva di speranza che arriva dai giovani iracheni.

Fonte

“Li dovreste vedere questi giovani iracheni. Già di buon mattino, sono in fibrillazione. Corrono avanti e indietro senza fermarsi. Si parlano con i walkie-talkie per coordinarsi. Appendono striscioni, spostano tavoli, consegnano le cartellette agli ospiti. Distribuiscono borracce riutilizzabili per non consumare plastica. Sorridono, scattano selfie e usano i social media come ogni ragazzo della loro età. Hanno tra i diciassette e i trent’anni e fanno parte di numerose organizzazioni della società civile irachena, impegnate nella tutela delle libertà sindacali e d’espressione, dell’ambiente, dei diritti delle donne, dei lavoratori e degli studenti. Tra di loro ci sono sindacaliste, ambientalisti, artisti, musicisti e cantanti, operatori di pace che lavorano sulla trasformazione nonviolenta dei conflitti tra le comunità. E soprattutto volontari. Tantissimi volontari. Tutti indaffarati per la prima conferenza organizzata a Baghdad dall’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (Icssi).
«È una grande responsabilità essere qui, perché significa far parte del cambiamento», spiega, visibilmente emozionato, Mustafà Mauyad Alhindi, «Non è facile dimenticare», afferma, sospirando, questo ragazzo ventiquattrenne, «Le persone sono state lacerate da questi anni di conflitto ma vogliamo migliorare il nostro paese e la nostra società dopo tutte le ferite del passato». Accanto a Mustafà c’è un’altra attivista poco più che ventenne. Irachena di Baghdad, madre sciita e padre sunnita, laureata in ingegneria informatica, Tabarak Wamedh Rasheed lavora per l’ong italiana ‘Un Ponte Per’. «In questi anni, siamo stati in grado di collegare la società civile irachena con quella internazionale ma abbiamo ancora molti problemi da risolvere, come l’inquinamento, la violenza tra le comunità e le continue violazioni dei diritti delle donne irachene », racconta Tabarak, senza mai accennare una smorfia di frustrazione, «Crediamo che le proteste pacifiche siano un fattore essenziale per conquistare i nostri diritti, soprattutto la libertà di espressione ».
Dal 2016, Tabarak fa parte anche della segreteria dell’Iraqi Civil Society Solidarity Initiative (Icssi), l’iniziativa internazionale di solidarietà, nata dai movimenti che avevano organizzato nel 2003 le grandi manifestazioni contro la guerra in Iraq, e che hanno poi voluto accompagnare la nascente società civile nelle sue lotte per un altro Iraq. È la prima volta che la società civile irachena organizza una conferenza di queste dimensioni a Baghdad. Più di 140 rappresentanti iracheni dei sindacati e delle associazioni locali, tra cui il Forum Sociale iracheno, il Forum Sociale del Kurdistan, i Forum sociali locali di undici città dell’Iraq e quattro consigli per la coesione sociale hanno partecipato a questa incredibile iniziativa dal basso. E sono più di cinquanta i delegati internazionali giunti a Baghdad da quindici paesi per discutere insieme agli attivisti locali le sfide future della società civile irachena. «In questi anni, abbiamo assistito alla nascita di un movimento di giovani attivisti, provenienti da zone colpite dalla guerra. Ti aspetteresti che siano disillusi, invece hanno molta speranza, vengono ascoltati dalle istituzioni e soprattutto si divertono mentre lavorano per cambiare il Paese», spiega Martina Pignatti Morano, responsabile dei progetti di Peacebuilding di Un Ponte Per. «Queste ragazze e ragazzi ci hanno insegnato che sanno organizzarsi in diverse città in un processo unitario come il Forum Sociale Iracheno. Si sono ispirati al Forum Sociale Mondiale, nato in Brasile nel 2001, e l’hanno trasformato in qualcosa che ha senso per l’Iraq e che stimola il volontariato e l’attivismo dei più giovani. A volte rischiano di essere arrestati, altre vengono ricevuti dai Ministri per esporre le loro proposte. In ogni caso non mollano», aggiunge Martina.
A Baghdad la primavera sembra essere arrivata in anticipo. Il cielo è limpido e il sole tiepido di fine gennaio riscalda i volti dei partecipanti seduti nel giardino dell’Associazione degli ingegneri iracheni, nel distretto di Karrada, un quartiere commerciale e etnicamente misto di Baghdad, lungo la sponda orientale del fiume Tigri. Per quattro giorni, gli attivisti da tutto l’Iraq, di diversi gruppi etnici e confessionali, hanno discusso dei problemi del loro paese, proponendo strategie e progetti per il futuro, in un clima di entusiasmo e di convivialità. All’esterno la città appare convulsa e vivace. Auto di grossa cilindrata e vecchi taxi gialli occupano tutte le corsie in modo disordinato. Antiche case di primo Novecento sono nascoste da palme inaridite. I T-wall – grandi mura di cemento armato, lasciti dell’occupazione americana – cominciano lentamente a essere smantellati. Si respira un’aria di fermento civile e culturale nella capitale. Non solo a Baghdad. Le recenti proteste di quest’estate nel sud dell’Iraq da Bassora a Nassiriya, passando per Amarah, Kut, Karbala e Najaf, per rivendicare diritti e servizi sociali, come l’accesso all’acqua, all’elettricità e al lavoro, dimostrano ancora una volta la resilienza del popolo iracheno. E dei suoi giovani. Laureati ma costretti a lasciare il paese per l’assenza di opportunità lavorative e per la corruzione endemica tra i politici. Quasi la metà della popolazione irachena ha meno di 19 anni e la disoccupazione tra i 15-24 anni si attesta al 24%, secondo gli ultimi dati del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (Undp). Una condizione che obbliga molti di loro a emigrare o affidarsi alle milizie che offrono un impiego retribuito alternativo.
Abdallah Khalel, ventitré anni, ha fatto parte per due anni delle Unità di mobilitazione popolare, le milizie armate più conosciute come Al-Hashd Al-Sha’abi, nate nel 2014 in risposta al rapido avanzamento territoriale di Daesh, l’autoproclamato Stato islamico. Oggi, Abdallah è diventato membro di Sport Against Violence, un’associazione che da anni utilizza lo sport come strumento per prevenire la violenza e l’estremismo e che lo scorso novembre ha organizzato la quarta Mezza Maratona per la Pace di Baghdad. «Il risultato di cui sono più fiero è la partecipazione delle donne. Più di 1.300 persone sono venute alla maratona e 400 erano donne», racconta quasi incredulo, «ma dobbiamo fare meglio e di più», dice ammiccando.
Sono stupendi e contagiosi questi ragazzi. E quanti sentimenti si portano dentro. Certo non è facile essere attivisti in Iraq. Le proteste popolari a Bassora e nelle altre città sono state violentemente represse dalla polizia e numerosi manifestanti, giornalisti, avvocati e difensori dei diritti umani sono stati sottoposti a detenzione arbitraria, torture e uccisioni sommarie da parte delle forze di sicurezza irachene e delle milizie, come documenta il rapporto del Ceasefire Centre for Civilian Rights e del Minority Rights Group International, pubblicato lo scorso dicembre. Sebbene la costituzione irachena del 2005, riconosca il ruolo della società civile e garantisca la libertà d’espressione, non vi è una legge specifica che protegga i difensori dei diritti umani. Un altro Iraq, però è possibile. Anzi, già esiste.”

Un’ombra scura

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“Se anche è vero che non c’è, al momento, alcuna speranza di cura, ripugna alla coscienza che al piccolo Charlie Gard, dieci mesi, affetto da una rara e gravissima malattia genetica e dipendente da una macchina per respirare, debba venire data la morte. Ripugna perché in questo caso il paziente non può esprimere la sua volontà e, anzi, se ne esprime una, con la caparbia tenacia del suo cuore che batte, è quella di vivere. Ripugna perché coloro che hanno il diritto di esprimersi nel suo nome, suo padre e sua madre, sono disperatamente contrari a questa morte data e hanno lottato con ogni mezzo, con la testardaggine di chi non può perdere ciò che gli è più caro. Raggela anche l’unanime consenso con cui Corti britanniche e europee hanno emesso la loro sentenza. Il bambino, dicono, soffre, è attaccato a un respiratore artificiale e non ha speranza di guarire. Meglio per lui la morte. Ma quanti sono in Europa e nel mondo i malati gravi che non hanno speranza di guarire, che hanno bisogno di costose terapie quotidiane, che soffrono? Ciò che impressiona però è anche che in questo dramma si prescinda totalmente da quanto finora è stata detta essere la colonna delle norme sulla eutanasia, cioè la volontà del malato o di chi lo rappresenta. Qui non c’è alcuna domanda di morire. Qui c’è lo Stato che interviene su una determinazione di medici e sentenzia: soffri troppo, e non ti si può guarire, conviene per il tuo stesso bene che tu muoia. Sinistro, questo Stato, e poi la stessa Europa, che si ergono a giudici della liceità di una vita. Non si potrebbe almeno lasciare che la malattia del bambino segua il suo naturale decorso? No, evidentemente costa troppo. E sembra quasi una profezia, la vicenda di Londra, sulle nostre vite fra trent’anni, quando saremo vecchi, malati – e costosi. Nel caso di Eluana Englaro era il padre a domandare con insistenza la morte per la figlia, e i giudici infine gli diedero ragione. Qui, al contrario, i genitori combattono strenuamente perché il figlio sia lasciato vivere: e ugualmente invece il verdetto è che lo si abbandoni. Difficile non vedere un favor mortis dentro la logica che sorregge l’approccio di Stati e ‘tecnici’ e i pronunciamenti di certi tribunali circa la vita malata, terminale, fragile. Un favore per la morte anziché per la vita, che comunque si manifesta. O forse quel bambino ricoverato in un ospedale della vecchia Europa con la sua malattia a oggi non guaribile ci ricorda la nostra umana impotenza: testimonia come, in verità, noi tanto sapienti e orgogliosi non siamo padroni di niente. Per questo forse si preferisce ,’per il suo bene’, farlo scomparire. Una sentenza di morte per un bambino di dieci mesi. ‘Soffre, non ha speranza’. Ma di quanti di noi, pensi, un giorno, con l’avanzare degli anni e delle invalidità si potrà dire la stessa cosa. Ed è come se un’ombra oscura ti passasse davanti”.
(Marina Corradi, Avvenire)

Gemme n° 478

Fin dalla prima volta che l’ho ascoltata, il testo di questa canzone mi ha colpito: «fabbricare quello che verrà con materiali fragili e preziosi senza sapere come si fa». A volte penso al futuro e non riesco a immaginarlo, ma penso che siamo noi a costruirlo, abbiamo in mano il materiale per farlo, possiamo deciderlo noi, è una nostra scelta. Poi penso anche che le due ragazze che si amano sia un messaggio di uguaglianza: «il loro non era un amore poi tanto diverso».” Così E. (classe terza) ha presentato la propria gemma.
E’ una canzone che mi piace molto, questa delle Luci. Penso sia venata di una malinconia aperta comunque alla speranza, al futuro e al domani. «Forse si trattava di accettare la vita come una festa, come ha visto in certi posti dell’Africa. Forse si tratta di affrontare quello che verrà come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà. Forse si trattava di dimenticare tutto come in un dopo guerra e di mettersi a ballare fuori dai bar come ha visto in certi posti della Ex-Jugoslavia».

Gemme n° 455

Questo video mi ha colpito molto: cerca di trasmettere un messaggio di rinforzo e incoraggiamento per le persone che soffrono e che sono in cattiva condizione. E’ un inno alla libertà.” Così S. (classe seconda) ha presentato la sua gemma.
E’ un semplice inno alla libertà questo brano di Pharrell Williams. Cito qui il ritornello di una canzone di qualche anno fa di Fabrizio Moro: “Voglio sentirmi libero da questa onda, Libero dalla convinzione che la terra è tonda, Libero libero davvero non per fare il duro, Libero libero dalla paura del futuro, Libero perché ognuno è libero di andare, Libero da una storia che è finita male. E da uomo libero ricominciare perché la libertà è sacra come il pane.”

Gemme n° 441

La mia gemma è il Libro «The help», uno dei miei preferiti, ambientato nel Mississippi del 1962. Si intrecciano le storie di tre donne, una domestica di colore che da 40 anni si occupa dei bambini dei bianchi, una domestica che sa cucinare benissimo ma ha un caratteraccio (licenziata 19 volte), una the help.jpgdonna bianca che aspira a diventare scrittrice: costei raccoglie le storie delle domestiche di colore nelle case dei bianchi. Le tre diventano amiche e alla fine altre domestiche si aggiungono per parlare delle loro vicende. Desidero citare una frase: God says we need to love our enemies. It hard to do. But it can start by telling the truth”. Così S. (classe seconda) ha presentato la propria gemma.
Nessuno mi aveva mai chiesto cosa provavo ad essere me stessa. Quando ho detto la verità mi sono sentita libera.” è un’altra citazione tratta da The help. Non penso sia facile dire la verità quando riguarda se stessi, ma devo ammettere che aiuta a camminare con la schiena dritta, senza avvertire sulle spalle il peso della menzogna o dell’incoerenza.

Cina, anno della scimmia

china censorAnno 2016, Cina: “Sul piano dell’economia e della finanza, sono stati sostituiti numerosi responsabili e è stata sospesa la pubblicazione di dati «sfavorevoli agli interessi del Paese», rendendo per gli analisti anche più difficile determinare l’andamento reale dell’economia cinese. Al riguardo Anne Stevenson-Yang, cofondatrice di ‘J Capital Research’, ha osservato che in Cina «le statistiche scompaiono quando diventano negative». Le ha fatto eco Leland R. Miller, presidente di China Beige Book International, per il quale è certo che «continueremo ad assistere alla repressione di chi racconta storie diverse da quelle che il governo vuole ascoltare». La stretta in questi ultimi mesi è stata evidente anche in altri settori. Dai librai scomparsi ad Hong Kong ed accusati di aver fatto illegalmente circolare in Cina testi ufficialmente proibiti, agli avvocati arrestati e per cui l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha manifestato «viva preoccupazione». Il giro di vite si è poi esteso anche ai media. Da anni l’attenzione del governo sull’informazione è massima. A differenza del resto della popolazione mondiale, i cinesi non possono usufruire di Google, Facebook e Twitter, ed ora a partire da marzo i media stranieri non potranno più pubblicare materiale online che non sia stato previamente autorizzato dal governo di Pechino. Le misure, che mirano a «promuovere valori centrali del socialismo», colpiranno le attività di giganti dell’informazione, fra cui le americane Amazon, Microsoft e Apple. Infine, c’è chi ricorda che tutta questa attività di ferreo controllo si traduce spesso in purghe e punizioni di responsabili e funzionari tanto da «far assomigliare la Pechino dell’inverno 2016 alla Mosca dell’inverno 1936». A quanto emerge da dati raccolti da ChinaFile, una base dati della ong americana Asia Society, le persone colpite da severe misure sono raddoppiate nell’ultimo anno raggiungendo il numero di 1.496. Di queste, comunque, solo 151 sono considerate ‘tigers’, un termine coniato dal presidente Xi che caratterizza gli alti funzionari macchiatisi di imperdonabili errori.”
(Parte finale dell’articolo “Una politica di grande potenza” di Maurizio Salvi, pubblicato su Rocca del 15 marzo).

Gemme n° 416

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La mia gemma è questo libro, l’autobiografia di Malala Yousafzai in cui racconta della vita della sua famiglia in Pakistan e di come essa sia cambiata con l’arrivo dei talebani. Presenta la sua attività per l’istruzione e per i diritti delle donne, fino al tentato omicidio che ha subito. Oltre a far capire le differenze della sua cultura, fa apprezzare cose che sembrano banali come la scuola e il diritto all’istruzione”. Questa è stata la gemma di G. (classe seconda).
L’unica cosa che mi sento di fare è di dar voce a Malala: “Potrò sembrarvi una sola ragazza, una sola persona, per di più alta neanche un metro e sessanta coi tacchi. Ma non sono una voce solitaria: io sono tante voci. Sono Shazia. Sono Kainat Riaz. Sono Kainat Somro. Sono Mezon. Sono Amina. Sono quei 66 milioni di ragazze che non possono andare a scuola… Racconto la mia storia non perché sia unica, ma perché non lo è. È la storia di molte ragazze. Oggi racconto anche le loro storie.”

Gemme n° 369

presepe

La mia gemma è una lettera scritta da me; so che verrà usata per pretesti, litigi, ma il mio intento è assolutamente pacifico.” Questa è stata la premessa di L. (classe quinta) alla sua gemma che ora segue: “La mia gemma è un oggetto piccolo, direi piccolissimo per dimensione ma grande per significato. Si tratta di un presepe di pochi centimetri che il 9 dicembre ho portato in classe per condividere un evento per me importante, la Natività. Per non offendere chi, a differenza di me, legittimamente non crede o crede in un altro Dio, l’avevo scelto appositamente piccolo. Voleva essere un segno, nulla di più, ma anche nulla di meno in nome della libertà di espressione, di culto e intellettuale che ha sempre contraddistinto i discorsi in classe in tutte le materie, da filosofia a storia, da italiano a ovviamente religione. Alle proteste di una compagna, il resto della classe presente si è dichiarato favorevole in nome dello stesso Credo o del rispetto reciproco, senza sentirsi infastidito ma anzi gradendo la condivisione di una festività.
In questa classe ci siamo indignati all’unisono dinanzi alle stragi di Parigi. Ci siamo commossi all’unisono per quei coetanei uccisi dall’intolleranza e dall’incapacità di rispettare la libertà degli altri, fosse di stampa o di religione o “semplicemente” di ascoltare musica.
Ebbene, pochi giorni dopo quelle lacrime espresse a parole e quel grido di libertà che ha unito il mondo, nel microcosmo della nostra classe è andata in scena l’intolleranza. Il Bambinello è stato nascosto sotto un pezzo di carta fermata dal nastro adesivo, come se il solo vederlo mettesse a rischio la serenità di 27 persone. Non ho detto nulla, triste più per la viltà del gesto che per l’offesa arrecata alla mia fede. Mi sono limitata a “spacchettare” il piccolo Gesù.
Ma quel presepe bonsai, a dispetto delle sue dimensioni, rappresenta un grande affronto per una o più persone, quelle stesse che ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese di questi ultimi due anni hanno elargito all’intera classe, ad ogni occasione anche la più pretestuosa, lezioni di politica non richieste e non gradite eppure civilmente e pazientemente ascoltate da tutti, sebbene recentemente mal sopportate.
Ebbene ieri, giorno in cui ero assente per una indisposizione, quel piccolo simbolo di libertà, tolleranza e condivisione, a scanso di equivoci è finito dritto dritto in un angolo nascosto dell’armadio di classe.
Sono sinceramente amareggiata. Per due volte ho visto lesa la mia e altrui libertà di credere in un Dio. Chi ha agito nell’ombra ha soprattutto dimostrato quanto sia enorme la distanza tra le parole e i fatti in tema di rispetto, uguaglianza, solidarietà e dialogo interculturale.
Non vorrei essere fraintesa. Il gesto non merita commenti e neppure diventare un casus bellico, ma – secondo me- deve essere lo spunto per una riflessione comune.
Credo nella tolleranza, nel rispetto reciproco, nella cultura italiana e multietnica, nel saper ascoltare il cuore e non solo la mente.
Credo che questo episodio, indubbiamente piccolo se rapportato ad altri drammi, debba comunque ricordarci che la libertà non ha prezzo. Nella vita tutti noi, prima o poi, incroceremo lungo le nostre strade persone che, con prepotenza, ignoranza e ipocrisia, cercheranno di imporsi e di annullare le nostre libertà. Oggi come domani non dovremo farci intimidire.
Noi siamo il futuro. Il mondo sarà presto nelle nostre mani. Non ci saranno scusanti. Le scelte che verranno fatte saranno le nostre e non potremo nasconderci nell’anonimato o accusando altri.”
Una vita che nasce, una coppia che diventa generatrice di vita, un aiuto dato e ricevuto, delle persone povere e umili chiamate a condividere qualcosa che ha cambiato la storia (i pastori), l’uguale dignità del primo e dell’ultimo, la pace e la convivenza, l’incontro con altre culture e altri popoli (i magi), la natura non solo cornice ma protagonista della scena, gli animali coinvolti nella scena, l’attenzione centrata sul soggetto debole ma protagonista del futuro, dei fuggitivi che trovano un riparo. Ho pensato di buttare giù al volo dei significati che una persona non cristiana può trovare in un presepe. Vuole vederci altro? E’, appunto, una questione di volontà. E la volontà ha mille sfaccettature. E’ la volontà che mi porta a pensare che incontro, apertura, dialogo, conoscenza, corrispondano a un di più e non a un di meno. Qualsiasi simbolo, qualsiasi cosa, può essere interpretata in modi diversi, talora opposti. Qual è la volontà che mi guida in tale lettura? La volontà di incontrarmi o quella di scontrarmi?
Pongo qui sotto una citazione. Ho tolto una parola per non renderla riconoscibile. Quando chiedo in classe chi possa aver scritto queste parole vengono nominati il papa, Gandhi, Manzoni (quella provvidenza con la P maiuscola…), Mandela, Obama… A pochi viene in mente il vero autore. “Quando guardo agli ultimi cinque anni che stanno dietro di noi non posso fare a meno di dire: questa non è stata opera solo dell’uomo. Se la Provvidenza non ci avesse guidati spesso, non sarei stato in grado di percorrere questo cammino vertiginoso. C’è qualcosa che i nostri avversari dovrebbero sapere sopra ogni cosa. Che noi, …, siamo fondamentalmente dei devoti. Non abbiamo scelta: nessuno può fare la storia di una nazione o la storia del mondo se le sue azioni e le sue capacità non sono benedette dalla Provvidenza.”
Cosa voglio vedere?
Quale volontà mi guida? La volontà di incontrarmi o quella di scontrarmi?

Storia di un’elicotterista (no, l’apostrofo non è un errore)

Nadyia

Una storia dalle tinte fosche e cupe all’interno delle tensioni russo-ucraine, a firma di Danilo Elia su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Il tenente Nadiya Savchenko è la donna pilota più famosa d’Ucraina. Una carriera di oltre dieci anni nelle forze armate di Kiev, prima come paracadutista e poi come elicotterista sui Mi-24. Il 30 luglio scorso Nadiya è comparsa davanti ad un giudice russo per rispondere di omicidio. L’udienza preliminare si è tenuta a porte chiuse nella cittadina di Donetsk, a un tiro di schioppo dai territori in guerra dell’Ucraina, da non confondersi con l’omonima città sotto il controllo dei separatisti, al di là del confine. Nadiya è stata portata lì dalla prigione di massima sicurezza di Novocherkasska, vicino Rostov sul Don, dove era stata trasferita pochi giorni prima dopo più di un anno trascorso a Mosca, tra il carcere n. 6, l’ospedale penitenziario Matroskaya Tishina e il famigerato istituto psichiatrico Serbsky.
All’udienza per la prima volta non è stata ammessa la stampa, e tutto quello che sappiamo lo dobbiamo alle parole del suo difensore, Mark Feygin, e ai suoi tweet. Come quello in cui ha scritto che “il tribunale di Donetsk oggi sembra Fort Knox”, mandando una foto dei corpi speciali Omon della polizia fuori dall’edificio. Per Feygin, e non solo, la mossa delle autorità russe di spostare il processo da Mosca a questa sperduta periferia è l’ennesimo bastone fra le ruote alla difesa di Nadiya. Per il suo difensore il processo contro di lei è montato senza la minima prova, un caso altamente politicizzato, perché “in Russia non esistono tribunali indipendenti. Il sistema giuridico della federazione dipende da un potere autoritario, è solo un’appendice repressiva del governo”. E ancora, “L’unica cosa che può aiutare Nadyia è una forte pressione internazionale. Nient’altro”.
Nadiya è accusata dell’omicidio di Igor Kornelyuk e Anton Voloshin, due giornalisti della tivù di stato russa Rossiya 1 uccisi da colpi di mortaio il 17 giugno 2014 a Metalist, vicino Lugansk in Ucraina. Stavano filmando un posto di blocco separatista preso di mira dall’artiglieria ucraina. Secondo il Comitato investigativo russo, una specie di superprocura alle dirette dipendenze del Cremlino, che ha condotto le indagini, sarebbe stata proprio lei dal suo elicottero a dare le coordinate a terra per sparare i colpi mortali.
La tesi accusatoria e la versione difensiva, però, raccontano due storie completamente diverse. Nadiya è caduta prigioniera dei miliziani filorussi a giugno dello scorso anno nelle vicinanze di Lugansk. Secondo i ribelli, è stata catturata durante uno scontro con le truppe ucraine del battaglione Aydar. La stessa Nadiya però ha raccontato una versione differente in un’intervista a un giornalista russo della Komsomolskaja Pravda, Nikolai Varsegov, quando era ancora prigioniera dei miliziani in Ucraina. Ha detto di essere stata catturata insieme ad altri commilitoni sul campo di battaglia di Shchastya, mentre cercava di soccorrere i feriti. Non era cioè in missione di combattimento col suo elicottero, ma stava partecipando come volontaria in supporto a medici e infermieri militari. I suoi carcerieri l’hanno filmata ammanettata a un tubo mentre si rifiutava di rispondere alle loro domande e hanno caricato il video sul web. Nadiya è rimasta in prigionia nelle loro mani con certezza dal 18 giugno 2014, data della sua cattura e della diffusione del video, al 24 giugno, giorno in cui Varsegov l’ha intervistata. Ma poi di lei non si è saputo più niente. Finché non è ricomparsa davanti a un giudice a Voronezh, in Russia, il 9 luglio 2014, con l’accusa di immigrazione clandestina. Secondo il procuratore, era stata arrestata casualmente durante un controllo di routine perché trovata senza documenti. In un secondo tempo la polizia si sarebbe accorta di avere tra le mani un ufficiale dell’esercito ucraino. Le indagini del Comitato investigativo avrebbero poi ricondotto Nadiya all’uccisione dei due giornalisti russi. Secondo l’accusa, Nadiya, dopo essere stata catturata a Lugansk, sarebbe sfuggita ai suoi carcerieri, avrebbe disertato dall’esercito ucraino e cercato rifugio illegalmente in Russia attraversando il confine senza documenti. Lei invece racconta di essere stata consegnata ai russi, che l’hanno incappucciata e portata al di là del confine, dove ha avuto inizio il suo incubo.
Finora Nadiya ha passato più di un anno in detenzione cautelare, senza cioè che la sua colpevolezza fosse dimostrata. In ogni udienza di proroga della carcerazione, le richieste della difesa sono state puntualmente rigettate. A dicembre dello scorso anno, quando era ormai chiaro che non sarebbe uscita di galera tanto presto, Nadiya ha iniziato uno sciopero della fame. Non ha mangiato per 83 giorni. Ha perso quasi 20 chili ed è arrivata a un passo dalla morte. Ha anche stracciato ogni record del penitenziario. “Nessuno ha mai resistito tanto”, ha detto il medico della prigione a Feygin. “Di solito, dopo un paio di settimane la loro volontà crolla”. Per tutta risposta il giudice ha disposto il suo internamento nell’istituto psichiatrico Serbsky, una struttura statale tristemente famosa dai tempi dell’Urss come centro di detenzione dei dissidenti, che spesso erano dichiarati mentalmente infermi e sottoposti a inumani “trattamenti psichiatrici”. Nel frattempo, anche grazie al suo sciopero della fame, il caso di Nadiya è diventato internazionale. Manifestazioni per la sua liberazione si sono tenute in tutto il mondo, l’hashtag #FreeSavchenko si è diffuso sul web e la rappresentante degli Usa all’Onu, Samantha Power, ha portato il caso all’attenzione delle Nazioni Unite.
In patria Nadiya è diventata un’icona. Alle ultime elezioni parlamentari è stata candidata a distanza da Yulia Tymoshenko nel suo partito Batkyvshchyna, è stata eletta alla Rada. L’immunità parlamentare che le spetta è risultata ovviamente inutile in Russia, così come l’essere rappresentate dell’Ucraina presso la Pace, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nadiya resta in carcere. L’avvocato Feygin dice di aver raccolto prove a sufficienza della sua innocenza, aggiungendo però che “i fatti non contano niente in questo processo”. Il portavoce del Comitato investigativo, Vladimir Markin, ha detto invece che “le prove raccolte dagli investigatori sono abbondanti e dimostrano la colpevolezza dell’accusata nell’uccisione di due o più persone sulla base di odio sociale e di un piano premeditato”.
Nadiya sarà giudicata in base dell’articolo 105 del codice penale russo, che prevede la condanna all’ergastolo per l’omicidio volontario. “Ma lo stesso codice penale proibisce la condanna a vita per le donne”, ha aggiunto Markin. “Nadiya Savchenko può essere condannata a un massimo di 25 anni”. Quello che non ha detto Markin è che la riduzione della pena massima consente di svolgere il processo senza l’ausilio di una giuria popolare. A giudicarla saranno tre giudici a porte chiuse, e la sentenza potrebbe arrivare in tempi rapidissimi.

Gemme n° 215

So che sembro ripetitiva quando parlo di questo argomento, ma lo faccio perché per me è molto importante, veramente molto importante”. Con queste parole M. (classe quarta) ha presentato la sua gemma, questo video:

La vocazione del custodire non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero Creato, la bellezza del Creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo… Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!… Quando parliamo di ambiente, del Creato, il mio pensiero va alle prime pagine della Bibbia, al Libro della Genesi, dove si afferma che Dio pose l’uomo e la donna sulla terra perché la coltivassero e la custodissero (cfr 2,15). E mi sorgono le domande: che cosa vuol dire coltivare e custodire la terra? Noi stiamo veramente coltivando e custodendo il Creato? Oppure lo stiamo sfruttando e trascurando? Il verbo “coltivare” mi richiama alla mente la cura che l’agricoltore ha per la sua terra perché dia frutto ed esso sia condiviso: quanta attenzione, passione e dedizione! Coltivare e custodire il Creato è un’indicazione di Dio data non solo all’inizio della storia, ma a ciascuno di noi; è parte del suo progetto; vuol dire far crescere il mondo con responsabilità, trasformarlo perché sia un giardino, un luogo abitabile per tutti…”. Sono tutte frasi dell’attuale pontefice.

Gemme n° 149

E’ una canzone che mi piace molto. A metà si sente la voce di una donna (tra l’altro non molto femminile) che parla della condizione delle donne in generale. Penso che l’uguaglianza dei sessi non esista ancora, magari più in Europa che altrove. Evviva le feminist!”. Così E. (classe terza) ha presentato la sua gemma.
Canta Beyoncé: “Insegniamo alle ragazze a tirarsi indietro, a farsi sempre più piccole. Diciamo loro «Puoi avere delle ambizioni ma non così tanto. Potresti desiderare di essere una donna di successo ma non così tanto successo. D’altronde sei sottomessa all’uomo»”. Qualche giorno fa, leggevo sul sito del Corriere un articolo dal titolo curioso: “Quei 3 mesi di matematica che mancano alle bambine”. Ci si interrogava: “Come mai le ragazze italiane in matematica a quindici anni sono mediamente tre mesi indietro rispetto ai loro coetanei?”. La conclusione era: “I genitori ancora pensano a carriere diverse per i figli e le figlie. Basta sfogliare i dati: un papà su due crede che il proprio figlio (maschio) possa poi trovare un lavoro in ambito scientifico-tecnologico, dall’ingegneria alla chimica, mentre lo stesso genitore, di fronte alla domanda su che cosa possa fare sua figlia, soltanto in un caso su sei pensa che possa finire con l’appassionarsi a materie scientifiche e dunque poi ad un lavoro che abbia a che fare con la scienza o la tecnologia. Le mamme condividono queste scelte, e a dimostrare che i pregiudizi sono difficili da scardinare, il tipo di lavoro della mamma non influenza le scelte delle figli. In più l’Italia «è l’unico Paese dove tali differenze sono particolarmente accentuate nelle classi socio-economicamente più svantaggiate», scrivono gli esperti dell’Ocse. Si capisce perché un ragazzo su cinque pensa di lavorare nell’ambito scientifico e soltanto una ragazza su venti, a quindici anni, «osa» immaginarsi in una carriera scientifica: spesso nessuno si occupa del suo «orientamento». L’occasione ora è cercare di invertire questo circolo vizioso. E nel rapporto c’è un suggerimento preciso: la soluzione è affidata ai professori e alla scuola. Se si riuscirà a formare e preparare docenti capaci di usare metodi didattici che includono e favoriscono l’autostima delle studentesse, c’è un ampio margine di miglioramento. È questa una delle sfide vere della scuola, perché «un ragazzo/a che è realizzato nel suo potenziale di studente — scrivono gli esperti dell’Ocse — sarà bravo nel suo lavoro e persino innovatore nella società». L’appuntamento è al prossimo rapporto, fra tre anni.”.
Sarei a questo punto curioso di sapere quale percentuale di madri e padri crede che il proprio figlio (maschio) possa poi trovare un lavoro come insegnante…

Autoconferme geopolitiche

guerra_libia_2011_820Un interessante articolo di Giovanni Fontana pubblicato ieri su Limes. Si accenna alla Libia, ma l’argomento è più che altro la geopolitica e l’attenzione che si deve porre quando si ragiona su tali temi.
Alla luce della presenza dei seguaci di al-Baghdadi, sbagliammo a intervenire contro Gheddafi? Attenzione a non interpretare i fatti come conferma delle nostre convinzioni.
La presenza dello Stato Islamico in Libia non dimostra che sia stato sbagliato intervenire quattro anni fa. A leggere la stampa italiana di febbraio, oggi dovremmo essere nel pieno di una guerra civile con le milizie dello Stato Islamico (Is) che risalgono l’Italia e minacciano di conquistare la capitale. In realtà, una volta che l’allarmismo di quei giorni si è rivelato inconsistente, la questione ha perso le prime pagine e delle sorti della Libia – tuttora nel pieno degli scontri fra fazioni, ieri l’Is ha rapito venti operatori medici a Sirte mentre il Consiglio Europeo cerca una soluzione diplomatica alla crisi – non ci si preoccupa molto. Probabilmente fino al prossimo proclama di minacce, quando la maggiore preoccupazione della politica italiana tornerà a essere l’ascesa di gruppi affiliati allo Stato Islamico sulla sponda opposta del Mediterraneo. La prospettiva che l’Is stia effettivamente conquistando la Libia è più che discutibile, ma ha già provocato reazioni che è difficile non definire infantili: innanzitutto il provincialismo manifestato dall’occuparsi dei problemi del mondo soltanto quando questi sembrano avvicinarsi a casa.
Inoltre, gli eventi degli ultimi giorni hanno aperto la strada a due grandi filoni di sciacallaggio: il primo è l’allarmismo con cui una parte della stampa parla dello Stato Islamico “alle porte di Roma”, ignorando la quantità di autoproclamazioni. Alcuni account twitter si autoproclamano rappresentanti dei movimenti jihadisti in Libia, i quali si autoproclamano a propria volta rappresentanti dello Stato Islamico nonché capaci di attaccare l’Italia; il secondo tipo di sciacallaggio è quello di chi, oggi, sostiene che questa sia la prova che l’intervento in Libia fosse sbagliato. Dire che ciò che sta accadendo in Libia dimostra che è stato sbagliato intervenire militarmente nel paese è come dire che ciò che accade in Siria dimostra che è stato sbagliato non intervenire militarmente nel paese. In entrambi i casi è una posizione ingenua e ignora il fatto che lo spettro di ciò che si intende per “intervento” è molto fluido e per questo si presta a quello che in psicologia cognitiva si chiama “bias di conferma“, cioè la tendenza a interpretare i fatti del mondo come conferme delle proprie convinzioni.
Da un punto di vista più pragmatico che legale, si può schematizzare un quadro ovviamente più complesso distinguendo vari indirizzi strategici:
si può decidere di intervenire militarmente per conto proprio;
si può decidere di sostenere militarmente l’intervento della parte che si crede migliore;
si può decidere di sostenere politicamente/economicamente la parte che si crede migliore;
si può decidere di non intervenire.
Nel primo caso si procede a una vera e propria invasione militare; nel secondo si appoggiano gli sforzi militari di una parte nel conflitto; nel terzo caso si sovvenziona una parte (o si sanziona l’altra) attraverso il trasferimento di denaro/beni/addestramento/armi; nel quarto caso non si fa nulla di tutto questo. Per semplificare, è possibile provare ad ascrivere ciascuna di queste categorie ad alcuni conflitti recenti: rispettivamente Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011, Ruanda 1994. Da molti punti di vista, come quello della stabilità, ciascuna di queste storie è un gigantesco insuccesso, un fatto che dovrebbe suggerire prudenza nell’affermare che una di queste soluzioni sia buona per tutti i contesti. In realtà, accade l’opposto: ciascuno di questi insuccessi, così diversi fra loro, viene usato per confermare la propria teoria, indipendentemente dal contesto. Ciò avviene spesso con i casi di mezzo, che sono anche i più scivolosi da definire: quand’è che dare aiuti a una parte – o imporre sanzioni alla parte avversa – diventa un coinvolgimento militare? Non è possibile tirare una linea netta, neanche nella natura degli aiuti. Nei fatti, dare o togliere denaro è molto simile a dare o togliere armi: non soltanto i soldi comprano le armi, ma qualunque tipo di aiuto non bellico permette di risparmiare voci di bilancio che possono essere reinvestite in materiale bellico. Per questo si tratta dei casi più discutibili e più soggetti al bias della conferma: se si è convinti dell’ingiustizia di un intervento, si può dire che si è intervenuti troppo; se si è convinti della giustizia di un intervento, si può dire che si è intervenuti troppo poco. Per questo oggi sulla Siria c’è chi dice che il problema sia stato intervenire troppo, dato che la Cia ha armato i ribelli (e parte di queste armi sono finite nelle mani dell’Is), mentre chi ha sviluppato quella strategia – ossia Hillary Clinton – afferma che il “fallimento” degli Stati Uniti sia stato quello di non essere intervenuti in Siria. D’altra parte, c’è chi all’obiezione “siamo intervenuti dalla parte sbagliata” risponde che proprio il rifiuto di intervenire militarmente in prima persona ha costretto a scegliere una parte da sostenere e armare. Ogni argomento ha, intrinsecamente, le radici del suo contrario.
In questo ginepraio di torti e ragioni, dove non sembra esserci una sola via buona per garantire la stabilità di un paese in piena guerra civile, non bisogna perdere di vista un altro piano fondamentale: quello umanitario, della “responsibility to protect“. Se da un punto di vista geopolitico bisogna analizzare attentamente il contesto per identificare quale sia il migliore grado di intervento o non intervento in uno scenario, da quello umanitario non si può prescindere dal dovere di proteggere i civili. Per questo non ci si può dimenticare quale fosse il principale argomento di discussione ai tempi dell’intervento in Libia e del mancato intervento in Siria: la salvaguardia delle vite umane.
La commissione d’inchiesta dell’Alto Commissariato per i diritti umani sui crimini della guerra civile libica parlò di: “violazioni dei diritti umani”, “attacchi ai civili”, “sparizioni forzate”, “torture e maltrattamenti”. L’allora procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, confermò la presenza di: «una precisa politica di stupro degli oppositori del governo». Saif al-Islam Gheddafi annunciò alla tv di Stato che «fiumi di sangue avrebbero inondato la Libia». Il 17 marzo, dopo settimane di violenze, Mu’ammar Gheddafi stava per scatenare il proprio attacco finale alla città di Benghazi, 670 mila abitanti. Nel suo discorso aveva promesso una “resa dei conti”, di “ripulire la città”, di “scovare i ribelli strada per strada”. La sera stessa, dopo settimane di inazione, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione che istituiva una no-fly zone e affermava la necessità di “prendere tutte le misure necessarie […] alla salvaguardia dei civili”. Si può pensare che, da un punto di vista geopolitico, la no-fly zone sia stata un disastro; a maggior ragione si può pensare che sia stato disastroso imbarcarsi in una guerra senza una vera strategia per uscirne; ancora a maggior ragione si può pensare che, oggi, un intervento di terra per sgominare i gruppi che si ispirano all’Is sarebbe ancora più disastroso. Questo, però, non toglie che l’intervento di quattro anni fa sia stato necessario a salvaguardare la vita di migliaia e migliaia di persone che sarebbero state altrimenti trucidate. L’impegno a impedire che questo accada non può che essere il primo cardine di qualunque considerazione geopolitica.

Su Parigi 2

Pubblico in pdf ancora alcuni articoli che ho trovato navigando in rete in questi giorni: sono molto vari, spesso in contraddizione tra loro (basta vederne la provenienza). Il tutto per continuare ad alimentare e approfondire la discussione affrontata in classe.

Le colpe dell’Islam e le nostre – La Stampa
La globalità del nuovo islamismo – La Stampa
Io non sono Charlie – La Stampa
Pensiero critico per andare contro gli estremismi – La Stampa
La vera satira non può limitarsi – La Stampa
Ma c’è un confine che va rispettato La Stampa
Come evitare lo scontro di civiltà dopo la strage di Parigi -Limes
Ma Islam vuol dire pace _ Vito Mancuso
La deriva violenta della umma coranica nel mondo – Il Foglio
Un calcio all’estremismo – Il Sole 24 ORE
Ecco come Al-Qaeda ha addestrato e globalizzato la jihad dallo Yemen – Il Sole 24 ORE
Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi – L’Espresso
Io sono Charlie (e stupida). Ho sbagliato_ è scontro di civiltà – Il Giornale
Da al Qaida allo Stato Islamico, ovvero_ il jihad dall’élite al popolo – Limes

Su Parigi

Pubblico in pdf alcuni articoli che ho trovato navigando in rete stamattina, tenendomi ben lontano dalle dichiarazioni degli esponenti politici e dagli scontri di social network e talkshow.

Attacco di Parigi, colpita la libertà di espressione – Avvenire
Condanna senza remore dagli islamici moderati – Avvenire
Il cuore dell’occidente – Repubblica
L’anima e la ragione – Il Sole 24 ORE
Noi Europei – L’Espresso
Noi musulmani dobbiamo reagire – Corriere
Non siamo come loro, è la nostra forza – La Stampa
Quelle voci lasciate sole anche da noi
Un attacco allo stile di vita fondato sulla tolleranza – Il Sole 24 ORE
Appello Organizzazioni Musulmane francesi – Internazionale
Una Guerra ai nostri Valori – La Stampa

Gemme n° 90

copertinaOggi M. (classe seconda) ci ha fatto conoscere Antonio Distefano e il suo libro “Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?”. “Questo autore è riuscito ad avere un contratto con una casa editrice, e ieri gli è stato affiancato un manager per curare la sua persona. Lui ha creduto nel suo sogno e si sta battendo per i diritti delle persone di colore. Nel video dice che non si sente italiano, ora invece di sì: si sente sia italiano che africano, pur non essendo mai stato in Africa”.

Riporto, a commento, una favola giapponese presa dalla rete:
Durante una spaventosa notte di temporale, una piccola capretta bianca ed un lupo nero cercano rifugio in una capanna abbandonata, sul pendio di una collina.
A causa dell’oscurità totale, dell’infuriare del temporale e dello scrosciare della pioggia, i due non si rendono conto di chi sia il proprio compagno di sventura: il lupo non si accorge che il suo compagno è una succulenta capra, mentre questa non capisce che, vicino a lei, c’è il suo atavico nemico, un lupo goloso di carne di capra!
Grazie a questo equivoco, il lupo e la capra iniziano una lunga conversazione, che li porta a scoprire di avere molte cose in comune: l’amore per le verdi colline e per il buon cibo, ma soprattutto la gran paura del temporale!
I due entrano in gran confidenza, raccontandosi della loro infanzia ed incoraggiandosi a vicenda in questa situazione difficile. L’amicizia tra loro è ormai dichiarata, tanto che, prima dell’alba, quando ormai i tuoni e la pioggia sono svaniti, il lupo e la capra si danno appuntamento per il giorno successivo, alla luce del sole…
Il finale è aperto: cosa succederà l’indomani, quando i due personaggi s’incontreranno faccia a faccia?”

Gemme n° 76

Questa gemma è già stata presentata in un’altra classe e quindi appare già qui sul blog, ma non ho impedito la ripetizione della gemma, in quanto la stessa cosa può essere diversamente significativa per ciascuno di noi.
Commentandola, S. (classe seconda) ha affermato: “Ritengo sia un video molto importante per sfatare lo stereotipo secondo cui l’uomo sarebbe migliore della donna. Penso che le donne siano troppo sottovalutate e non trovo sia giusto: siamo tutti uguali con uguali diritti”.
Riprendo un breve racconto emblematico: «Un professore di inglese una volta ha scritto alla lavagna questa frase: “woman without her man is nothing” e ha chiesto ai suoi alunni di inserire la punteggiatura; i ragazzi hanno scritto “woman, without her man, is nothing”; le ragazze hanno scritto “woman! without her, man is nothing!”». Purtroppo lungo è ancora il sentiero per arrivare al concetto di umanità che comprenda tutti sullo stesso livello.

Quale direzione Tunisia?

TUNISIA

Un interessante reportage di Eugenio Dacrema, pubblicato sul sito del Corriere della Sera. Lo allego in pdf per non spaventare eventuali lettori interessati a capire un po’ di più la situazione della Tunisia. Il dossier si conclude con queste parole: “ la piccola Tunisia, che ha stupito il mondo nel 2011 spodestando in pochi giorni una dittatura vecchia di sessant’anni, ha tutte le carte per diventare la prima autentica democrazia del mondo arabo. Ma per riuscirci ha bisogno di non essere dimenticata e lasciata a se stessa”.

Tunisia tra salafismo e democrazia

Gemme n° 11

Prof, so che ha dato circa 5 minuti per presentare la gemma. Io avrei portato il discorso di Emma Watson all’ONU, ma dura circa 11 minuti” mi ha detto S. (classe seconda) appena ho finito di montare pc e proiettore. “Beh, vediamo” le ho risposto.

In quegli 11 minuti non è volata una mosca, c’era un silenzio di attenzione e condivisione. Ha aggiunto S. “Ho scoperto questo video per caso, però mi ha molto colpito perché secondo me c’è molta confusione sul nome e sul concetto di femminismo. Quello che ha detto Emma Watson mi è piaciuto e l’ho voluto condividere con la classe”. Riprendo uno dei concetti e slogan citati due volte e usati anche per altre occasioni: “se non io, chi? se non ora, quando?”.
Se poi qualcuno desidera leggersi con calma il suo discorso, ecco qui: Emma Watson all’Onu

Tardivo addio a Nadine

Nadine+Gordimer

Il 14 luglio stavo tornando dalla Corsica e mi ero perso la notizia della morte di Nadine Gordimer, il volto bianco e femminile della lotta all’apartheid; l’ho scoperta solo oggi, leggendo una rivista. Pubblico l’articolo de La Stampa a firma Paolo Matrolilli.

Aveva un livido in faccia, Nadine Gordimer, quando a luglio dell’anno scorso l’avevo incontrata nella sua casa coloniale di Johannesburg: aveva sbattuto andando in macchina, perché nonostante avesse quasi novant’anni, andava sempre in giro e restava attivissima. Lucida, vivace, e costantemente impegnata per costruire un futuro migliore al suo Sudafrica. Un po’ delusa, perché riteneva che gli ideali di Mandela e suoi fossero stati traditi, ma per nulla rassegnata. Ci avevo riparlato al telefono a dicembre, il giorno dopo la morte di Nelson, e aveva detto: «Lo hanno tradito. Però il suo spirito resterà con noi, e ci aiuterà a superare le difficili sfide che ci aspettano».
Ora anche lei se n’è andata. Era malata da tempo, e si è spenta proprio in quella casa che aveva offerto a Mandela e DeKlerk per negoziare il post-apartheid, dopo che Madiba era stato liberato. La maniera migliore per onorarla è ricordare le cose che ci disse in quei due ultimi colloqui, come un testamento politico e spirituale: «Ormai in Sudafrica viviamo in una cultura della corruzione, che minaccia l’intero tessuto sociale e nazionale. I responsabili, purtroppo, sono proprio i leader che hanno preso il posto di Mandela. Basti pensare al presidente Zuma, e al palazzo imperiale che si è fatto costruire con i soldi dei contribuenti, per la residenza personale nel proprio stato. Questa avidità per certi versi è comprensibile, perché è ovvio che dopo tanti decenni di repressione e privazioni, la gente voglia togliersi qualche soddisfazione. Però una simile corsa ai posti di potere, e al loro sfruttamento attraverso la corruzione, mi ha sorpreso e ha certamente deluso Madiba».
Ecco alcuni passaggi di quelle due interviste
Il suo sogno non è stato realizzato?
«Quello della libertà sì. L’apartheid non esiste più e il paese è diventato per la prima volta democratico. Tutto il resto, però, manca. Abbiamo fallito soprattutto nell’obiettivo di garantire a tutti la possibilità di affermarsi, e avere una vita decente. Le differenze sociali, il gap crescente tra i ricchi e i poveri, resta l’emergenza principale a cui il paese deve necessariamente rispondere».
L’Anc non ha raggiunto i suoi obiettivi?
«No. Allora eravamo troppo indaffarati ad eliminare il regime dell’apartheid, e pensavamo che una volta liberi tutto sarebbe stato facile. Eravamo ingenui e non ci concentrammo sul futuro, sui problemi in arrivo, e su come ricostruire il Paese».
Gli insegnamenti di Mandela sono stati seguiti?
«Mi pare ovvio di no. La liberazione c’è stata, ma la giustizia manca ancora. Oggi vige una cultura incentrata sulla corruzione, di cui sono responsabili anche l’Anc e lo stesso presidente Jacob Zuma. Questo fenomeno però va capito, senza giustificarlo».
In che senso?
«E’ un’eredità del colonialismo. Per secoli i neri non hanno avuto nulla: da quando hanno ottenuto la libertà e il potere politico vogliono tutto, ed in parte è comprensibile. Ma Zuma non ha seguito gli insegnamenti di Mandela ed è un pessimo esempio per i suoi ministri e per il popolo sudafricano».
Teme che il Sudafrica precipiti nell’instabilità sociale?
«Certo. C’è già instabilità, basti pensare alle industrie minerarie e agli scioperi dei lavoratori, che chiedono una vita migliore e salari più appropriati. Poi la disoccupazione giovanile, in particolare tra la popolazione nera, è una vera bomba sociale. Tutto questo provoca risentimento, e il risentimento genera la violenza. Ma soprattutto c’è criminalità, che nasce dalla povertà e dalla diseguaglianza. Il pericolo di una disgregazione del paese esiste, e dobbiamo lottare con tutte le nostre forze per impedirla».
Vede anche il rischio di scontri razziali?
«Questa mi sembra una minaccia meno pressante. E’ vero che le tensioni razziali esistono ancora, ma non penso che rischiamo di tornare alle violenze dell’epoca dell’apartheid. La vera emergenza sta nella diseguaglianza economica e sociale, un problema che non ha colore. Gli abusi vengono commessi tanto dai bianchi, quanto dai neri, e in questo settore colpiscono tanto i bianchi, quanto i neri».
Cosa bisognerebbe fare per affrontare i problemi più gravi?
«Per cambiare queste dinamiche serve riformare il sistema dell’istruzione. Nelle scuole delle township e delle zone rurali non arrivano neanche i testi scolastici. In realtà l’educazione per la popolazione nera non è cambiata dai tempi dell’apartheid. Abbiamo persone intelligenti, ma quando si arriva a certi livelli servono conoscenze appropriate, che oggi ancora mancano. Io sono solo una semplice cittadina, e non ho programmi politici da offrire. Però mi sembra che il primo settore su cui dovremmo intervenire poi è quello del lavoro. Le grandi risorse minerarie del Sudafrica, ad esempio, vengono ancora sfruttate in maniera non equilibrata. Le proteste esplodono a ragione, perché i lavoratori sono vessati e pagati male. Cominciamo a trattarli meglio, alzare i loro salari, e costruire su questo primo passo un programma che offra davvero a tutti la possibilità di riscattare le loro esistenze».”

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