Che avesse ragione Ali Shari’ati?

Scrive Giulio Albanese su Avvenire di oggi:

In alcuni Paesi del mondo islamico l’estremismo religioso sta assumendo una connotazione fortemente esclusiva, repressiva e violenta. I fatti di cronaca sono sotto gli occhi di tutti: dal rapimento di centinaia di ragazze, perpetrato dai famigerati ribelli Boko Haram in Nigeria alle aberranti malefatte del neonato Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis) che ha confiscato case e beni dei cristiani di Mosul, costringendoli all’esilio. Per non parlare del caso di Meriam Yehya Ibrahim, la cristiana condannata a morte per impiccagione in Sudan con l’accusa di apostasia, poi prosciolta ma che di fatto non ha ancora potuto lasciare il Paese.
Di fronte a questa ondata di fondamentalismo, non v’è dubbio che il consesso delle nazioni dovrebbe interrogarsi sul perché di una flagrante violazione della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. D’altronde, non è un caso se allora furono pochissimi i Paesi a maggioranza musulmana che parteciparono all’elaborazione e alla firma di tale dichiarazione. Molti entrarono nell’Onu successivamente e diedero un’adesione solo di principio alla Dichiarazione stessa, senza ratificare e firmare l’insieme degli accordi e dei protocolli.
Nell’ultimo trentennio, alcuni organismi islamici – Avvenire ne ha scritto a più riprese – hanno formulato specifiche dichiarazioni che si rifanno alla visione occidentale, pur mantenendo nella loro essenza un approccio teocratico. Il problema di fondo è che nel mondo musulmano la concezione dei diritti umani è fortemente condizionata dalla propria specifica identità culturale e religiosa. Basta leggere la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’islam adottata nel 1981 dal Consiglio islamico d’Europa, come anche la Dichiarazione del Cairo del 1990 elaborata dall’Oci (Organizzazione della Conferenza islamica) per rendersi conto del forte influsso della componente teologica e del costante richiamo al dettato della sharia. Solo nella Carta araba dei diritti dell’uomo del 1994 è possibile individuare un’impronta giuridica in qualche modo più laica, attribuibile alla necessità di allinearsi, sul piano formale, agli standard internazionali dei diritti umani. Prendendo in esame queste Carte islamiche sorge, però, qualche dubbio sul fatto che esse possano essere considerate, dal punto di vista giuridico, veri documenti di codificazione finalizzati al rispetto dei diritti umani. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di Carte con una forte connotazione declamatoria che non prevedono, ad esempio, l’istituzione di meccanismi di controllo effettivo sull’operato dei singoli Stati.
Ali-Shariati-2È possibile allora ricondurre alla ragionevolezza l’islam integralista? Circa una cinquantina di anni fa, il padre del riformismo islamico iraniano, Ali Shari’ati, affermava che l’islam contemporaneo è nel suo XIII-XIV secolo; e se facciamo un raffronto con la storia europea, cioè con il XIII-XIV secolo, scopriremo che il Vecchio Continente doveva ancora vedere la riforma protestante e la riforma cattolica. Secondo Shari’ati, per superare il Medio Evo islamico (sebbene il Medio Evo cristiano non sia stato un’epoca buia), i musulmani non possono pensare di saltare a pie’ pari cinque, sei secoli, arrivando di colpo alla cultura moderna. «Dobbiamo riformare l’islam – scriveva l’intellettuale iraniano – rendendolo il volano di liberazione delle nostre società ancora ferme a una dimensione sociale tribale, cioè al Medio Evo dell’Oriente, mentre oggi è lo strumento usato dai reazionari per evitare il progresso e lo sviluppo sociale».
Le parole e la vita di Shari’ati, morto ufficialmente per arresto cardiaco in Inghilterra nel giugno del 1977 (anche se sono in molti a ritenere che sia stato eliminato dalla polizia segreta dello Scià) indicano chiaramente il percorso che occorre seguire. In questi anni, i Paesi Occidentali hanno fatto poco o niente per aiutare la società civile musulmana a uscire dall’immobilismo e sostenere politicamente e finanziariamente l’intelligentia islamica moderata. Una sfida che, visti i tempi, non può essere disattesa.”

Sui beni

Muggia_032fb

Su IlSole24ore di domenica 18 maggio, è apparso questo articolo di Remo Bodei. Forse quest’anno è tardi per una lettura in classe, lo terrò buono per il prossimo… Grazie alla collega Carla che me l’ha inviato.
In che misura è realisticamente possibile condividere dei beni che – da un punto di vista etico – dovrebbero appartenere a tutti? Di fatto una sorta di lotteria naturale ha distribuito i doni della terra (fertilità, acqua potabile, ricchezze minerarie) in maniera casuale rispetto agli abitanti di determinate zone. Ci sono quelli più fortunati che li posseggono e se ne sono appropriati e quelli meno fortunati che ne sono provvisti in scarsa misura o ne sono addirittura privi: gli abitanti di zone inospitali o desertiche, coloro che non hanno risorse nel loro sottosuolo o ne sono stati espropriati. Popoli e individui hanno da sempre combattuto per la loro sopravvivenza e per il relativo controllo delle risorse e le frontiere sono state per lo più disegnate dalle guerre.
Anche oggi, in una fase storica in cui il consumo di energia derivante dal petrolio o dall’uranio è enorme, l’economia e la politica sono dominate dal bisogno di assicurarsi, spesso con la forza o con l’astuzia, non solo questi beni, ma anche altri, sempre più indispensabili all’alta tecnologia. Un esempio è il coltan, un minerale metallico termo-resistente, (una combinazione tra colombite e tantalite), che si presenta come una sabbia nera da cui si estrae il tantalio, utilizzato per microconduttori, superleghe, computer o cellulari. Tale elemento radioattivo, l’ottanta per cento del quale si trova in Congo, dove viene raccolto a mani nude da uno stuolo di improvvisati scavatori, ha scatenato sanguinose guerre civili e internazionali, che coinvolgono l’Uganda e, nascostamente, le grandi potenze non africane.
Ponendo la domanda più radicale ma inaggirabile: Con quale diritto un individuo o un popolo abita la terra e sfrutta i suoi doni in maniera esclusiva? L’essere stati più favoriti dalla natura autorizza la disponibilità indiscussa di alcune risorse indispensabili oppure i loro benefici possono anche essere, almeno in parte, pacificamente ridistribuiti? Ma chi decide e in base a quali criteri? Non si tratta di una questione astrusa o ingenua, da spostare in un remoto futuro. Prendiamo il caso dell’acqua: come si risolverà la disputa in atto tra l’Etiopia e l’Egitto? Se gli etiopi finiranno di costruire la loro diga per imbrigliare il corso del Nilo Azzurro (sulla base di un progetto del valore di cinque miliardi di dollari e una energia erogata equivalente a quella di cinque centrali nucleari), la riduzione del limo derivante dalle esondazioni del fiume, in grado da millenni di assicurare all’Egitto una fiorente agricoltura in zone altrimenti desertiche, metterà in pericolo l’esistenza di novanta milioni di Egiziani.
La pace è minacciata proprio dalle prevedibili lotte che si scateneranno e già sono in corso per il controllo di risorse materiali che non possono essere condivise su questa Terra, dove, come dice Dante, «è mestier di consorte divieto» (Purgatorio, XIV, v. 87). Grazie a negoziazioni e ad arbitrati internazionali si potranno trovare , in questo o in altri casi, degli accordi soddisfacenti?
Entro certi limiti – ancora ristretti – si possono già mettere dei confini, giuridici e politici, all’appropriazione privata o nazionale di certi beni condivisibili, quelli il cui consumo da parte di qualcuno non escluda necessariamente gli altri o quelli che dovrebbero essere gratuiti per tutti (come i pesci in acque internazionali). Non di tutto ci si può appropriare in esclusiva, non tutto deve essere sottoposto a pure leggi di mercato. Le Nazioni Unite e alcuni parlamenti nazionali hanno attribuito la qualifica di common goods all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari (risoluzione 64/292 del 28 luglio 2010), al fondo marino e all’Antartide e la stanno estendendo alla Luna e al genoma umano. Per questi l’applicazione concreta di tale qualifica si tratta, per ora, di una prospettiva di lunga durata o di una utopia.
Riprendendo in esame il problema più urgente, quello dell’acqua, è facile profezia ipotizzare che l'”oro azzurro” sarà alla base di grandi contese, non solo a causa del previsto aumento della popolazione mondiale, specie nei paesi più poveri, ma anche per effetto del riscaldamento globale e della conseguente desertificazione di molte aree. Già ora, quasi un miliardo di uomini non dispone a sufficienza di acque potabili per soddisfare la sete, preparare il cibo e allevare il bestiame e neppure di acque non potabili per i servizi igienici (la mancanza d’acqua è, in generale, la seconda causa di morte su scala planetaria).
Anche ciò che appare meno urgente e che resta sullo sfondo del dibattito pubblico non deve però essere perso di vista, come la salvaguardia del genoma, perché essa mira alla tutela non solo della collettività dei viventi, ma dell’insieme della specie umana, presente e futura. Lo stesso vale per la possibile o paventata spartizione tra gli Stati dell’Antartide e della Luna (sebbene in questo caso sembri proprio di parlare di fantascienza), da trasformare in luoghi di sfruttamento esclusivo di determinate risorse – petrolio, minerali, terre rare, prodotti della pesca, compreso il krill (i piccoli crostacei che formano lo zooplancton) – o per conquistare posizioni militarmente strategiche.
L’emergenza è ormai diventata la norma e la percezione dell’insicurezza è giunta a un punto tale che studiosi seri sostengono che, da quando l’umanità è divenuta capace di auto-sopprimersi o con le armi di distruzione di massa o alterando le condizioni necessarie alla sua sopravvivenza – clima, riproducibilità delle risorse, inquinamento dell’aria, delle acque e del suolo – bisogna lucidamente prepararsi ad affrontare i disastri già avvenuti grazie a una teoria definita “catastrofismo illuminato”.

Come ai tempi di Noé

boff

Nelle sale cinematografiche da qualche settimana è uscito Noah. Oggi sono finito attraverso non so più quali giri su questo articolo di Leonardo Boff. Per chi ha a cuore la tematica ambientale ci sono vari spunti di riflessione.

“Viviamo come ai tempi di Noè. Col presentimento che sarebbe venuto un diluvio, il vecchio cercava di convincere la gente perché cambiassero stile di vita. Ma nessuno gli dava retta. Al contrario, “Si mangiava e si beveva. C’era chi prendeva moglie e chi prendeva marito finché non arrivò il diluvio e li spazzò via tutti” (Lc 17,27;Gn 6-9)

I duemila scienziati del IPCC che studiano il clima della terra , sono i nostri attuali Noè. La terza e ultima relazione del 13/4/14 contiene un grave grido di allarme: abbiamo soltanto quindici anni per impedire che si oltrepassi di 2°C il clima della terra. Se sarà oltrepassato, conosceremo qualcosa del diluvio. Nessuno dei 196 capi di stato ha detto una sola parola. La grande maggioranza continua a sfruttare i beni naturali, facendo affari, speculando e consumando senza fermarsi, come ai giorni di Noè.

Intravedo tre gravi irresponsabilità: una generale e una specifica e una supina ignoranza del Congresso Nordamericano che ha vietato tutte le misure contro il riscaldamento globale; la manifesta cattiva volontà della maggioranza dei capi di Stato; e la mancanza di creatività per montare le travi di una possibile arca salvatrice. Come un pazzo in una società di “saggi” oso proporre alcune premesse. Se hanno qualche merito, è quello di additare un nuovo paradigma di civiltà che ci potrà dare un altro corso alla storia. Eccole:

  • Completare la ragione strumentale-analitica-scientifica dominante con intelligenza emozionale o cordiale. Senza questa noi non ci commuoviamo davanti alla devastazione della natura e non ci impegniamo per riscattarla e salvarla.

  • Passare dalla semplice comprensione di Terra come magazzino di risorse alla visione della Terra viva, chiamata Gaia, super organismo vivo autoregolante.

  • Arrivare a capire che, in quanto umani siamo quella porzione della Terra che sente pensa e ama, la cui missione è aver cura della natura.

  • Passare dal paradigma di conquista/dominazione ancora vigente, al paradigma di cura/responsabilità.

  • Capire che la sostenibilità sarà garantita soltanto se rispetteremo i diritti della natura e di Madre Terra.

  • Articolare il contratto naturale stipulato con la natura che suppone la reciprocità inesistente con il contratto sociale, insufficiente, che suppone la collaborazione e la inclusione di tutti.

  • Non esiste il medio-ambiente ma l’ambiente intero. Quello che esiste è la comunità di vita, con lo stesso codice genetico di base stabilendo relazioni parentali con tutti.

  • Abbandonare l’ossessione della crescita/sviluppo attraverso la redistribuzione della ricchezza già accumulata.

  • Dobbiamo produrre per andare incontro alle richieste umane, ma sempre entro le possibilità della Terra e di ogni ecosistema.

  • Porre sotto controllo la voracità produttivistica e la concorrenza senza limiti a favore della cooperazione e della solidarietà, perché tutti dipendiamo gli uni dagli altri.

  • Superare l’individualismo con la collaborazione tra tutti, perché questa è la logica suprema del processo di evoluzione.

  • Il bene comune umano e naturale viene prima del bene comune privato e corporativo.

  • Passare dall’etica utilitaristica e efficientistica all’etica della cura e della responsabilità.

  • Passare dal consumismo individualista a una sobrietà condivisa. Quello che avanza a noi, manca a tutti gli altri.

  • Passare dalla massimizzazione della crescita alla ottimizzazione della prosperità a partire dai più bisognosi.

  • Invece che continuare a modernizzare in permanenza, ecologizzare tutti i saperi e processi produttivi, cercando di tutelare beni e servizi naturali e far riposare la natura e la Terra.

  • Opporre all’era dell’antropocene che fa dell’essere umano una forza geofisica distruttiva l’era ecozoica che ecologizza e include tutti gli esseri nel grande sistema terrestre e cosmico.

  • Dare più valore al capitale umano spirituale inesauribile che al capitale materiale esauribile perché il primo fornisce i criteri per gli interventi responsabili sulla natura e alimenta permanentemente i valori umano-spirituali della solidarietà della cura dell’amore e della compassione, basi per una società con giustizia, equità e rispetto della natura.

  • Contro la delusione e la depressione provocate dalle promesse di benessere generali non compiute fatte dalla cultura del capitale, alimentare il principio-speranza, fonte di fantasia creatrice, di nuove idee e di utopie possibili.

  • Credere e testimoniare che, alla fine di tutto, il bene trionferà sul male, la verità sulla menzogna e l’amore sull’indifferenza. Poca luce potrà scacciare un mondo di tenebre.”

Traduzione di Romano e Lidia Baraglia

Tra arte e uomo

Un consiglio: leggete le brevi parole in corsivo che posto subito qui sotto. Se vi interessa sapere di cosa si tratta andate oltre, altrimenti possono bastare quelle. Sono le parole di una lettera ricevuta dal giornalista Marco Aime da parte di Asco Ousmane, un suo amico del Mali. L’articolo appare su Nigrizia di dicembre, a cui sono abbonato da anni; non l’ho trovato in rete per cui nel caso violassi leggi di copyright è sufficiente segnalarmelo e rimuoverò immediatamente il post.

Caro amico,
volevo dirti che il mio silenzio non è un oblio, ma è perché tutti i cavi delle comunicazioni sono stati danneggiati dai ribelli. Sono tre mesi che la rete telefonica non funziona. Nessuno qui è ormai sicuro, la popolazione vive nel panico totale. La psicosi è diventata la regina madre della città, ma sono riuscito a mandare mia moglie e i miei figli a Bamako. Io sono rimasto a Timbuctù per cercare di salvare il lavoro.
La città si è svuotata, due terzi della popolazione è fuggita e l’esercito ci ha abbandonato alla nostra triste sorte. Non c’è stata resistenza: i militari hanno abbandonato caserme, armi e divise per vestirsi come i civili e nascondersi nelle case della gente. Le tre regioni del nord in 72 ore sono cadute in mano a gruppi di islamisti, l’Mnla è diventato il padrone della città. Quelli dell’Mnla si sono installati all’aeroporto, Ansar Dine nella caserma. Questi vogliono instaurare la shari‘a. Il velo alle donne è diventato obbligatorio, anche per le bambine, i bar sono stati saccheggiati, le banche svuotate, tutti i servizi bloccati.
È la crisi totale, Marco. Con la presenza di questi islamisti non ci saranno più scuole, tranne quella coranica. Un uomo non può più acquistare nulla da una donna e viceversa, non si può più giocare a carte o suonare, né fumare per la strada. Una donna non può camminare con un uomo per strada, se non è suo marito. È la disperazione.

timbuctu_esercito_maliLa Patisserie Asco, piccolo ristorante all’aperto all’ingresso di Timbuctù, era un punto di riferimento per molti abitanti della città. Soprattutto per una certa intellighenzia. Seduti ai tavolini, all’ombra delle acacie, incontravi insegnanti, magistrati, amministratori, che spesso discutevano di politica e di molte altre cose, con Asco che partecipava attivamente a ogni discussione. Distrutto. Il locale è stato distrutto come tutti gli altri. Quando ricevetti questa mail, mi vennero le lacrime agli occhi nel pensare al dolore di tanta gente, di molti amici che a Timbuctù come a Kidal, a Gao e in molti altri villaggi stavano provando a causa della guerra.
I racconti che sono arrivati da altri conoscenti, parlavano di mani amputate pubblicamente sulla piazza del mercato, donne stuprate davanti ai figli e ai mariti, uomini fucilati pubblicamente. In una mail successiva, Asco mi raccontava di avere mandato nella capitale moglie e figli anche perché ha una bambina di dodici anni e i jihadisti pretendevano di scegliere come spose le ragazzine che ritenevano più carine.
Timbuctù il cui suolo, secondo il cronista tunisino del XVII secolo es Sadi, non era mai stato toccato dagli idoli pagani, aveva saputo mantenere per secoli una tradizione di tolleranza e di apertura. Islamica fin dalla sua fondazione, nel XII secolo, Timbuctù è stata popolata da una borghesia commerciale, aperta al mondo, curiosa, che ha saputo fondere i caratteri del mondo arabo con quelli della tradizione africana ed è contro i segni di questa tradizione di tolleranza, che si è scagliata la furia iconoclasta dei jihadisti, che hanno distrutto tre storici mausolei: quelli di Sidi Mahmoud, di Sidi Moctar e di Alpha Moya. Sanda Ould Boumama, portavoce del gruppo, dopo aver annunciato altre distruzioni, ha dichiarato che costruire tombe è contrario all’Islam e pertanto proibito. Questi episodi hanno immediatamente acceso l’attenzione dei media, che avevano fino a quel momento appena accennato alle violenze perpetuate sulla popolazione. Nel gennaio del 2013 le truppe francesi entrano a Timbuctù, mettendo in fuga i jihadisti che la occupavano dall’ottobre dell’anno precedente. Immediatamente ha fatto il giro del mondo la notizia che costoro avevano dato alle fiamme migliaia di antichi manoscritti conservati nel Centro Ahmed Baba. Testimonianze scritte della secolare tradizione culturale di Timbuctù. Per fortuna (se di fortuna si può parlare in questo frangente) i responsabili delle biblioteche hanno messo in salvo la maggior parte dei manoscritti, prevedendo l’accanimento degli islamisti.
Ciò che accomuna questi tragici fatti (era accaduto lo stesso per i Buddha di Bamayan) è la loro capacità di smuovere l’opinione pubblica, molto di più di quanto riescano a fare azioni simili perpetuate sugli individui. Le statue, i manoscritti, i monumenti. Questi manufatti, di indubbio pregio e valore storico, sembrano colpirci più della sorte delle persone. Perché ci commuoviamo in maniera più intensa davanti a un monumento danneggiato che di fronte alle tragedie umane? Che il delirio iconoclasta degli “studenti islamici” fosse un segno di barbarie è fuor di dubbio, ma non è certo stata l’espressione peggiore del loro fanatismo. Ci siamo però accorti della loro furia solo quando hanno violato il sacro tempio dell’arte, quasi che sentissimo più vicina a noi questa realtà piuttosto che quella umana. Percepiamo l’arte come un universale, come un qualcosa che ci appartiene. Perché? La cultura occidentale contemporanea, grazie anche alle politiche dell’Unesco, ci ha portati a pensare all’arte e alla natura come universali, come parte di un patrimonio appartenente a tutti: il patrimonio dell’umanità. Non riusciamo invece ad abbandonare l’idea che gli esseri umani siano in qualche modo marchiati da una nazionalità, da una cittadinanza, da un legame con un territorio che, se non è il nostro, li rende automaticamente stranieri. Nascita e nazione sembrano diventati un binomio indissolubile, sul quale costruire le nostre identità. Quando c’è un incidente o una guerra si sente parlare dei “nostri” morti, quelli degli altri contano meno. Natura e arte ci emozionano e ci uniscono, perché, percepite come universali, diventano anche extra territoriali. L’umanità ci rende diversi e talvolta nemici. Attraverso l’arte abbiamo materializzato la storia, rendendola visibile e pertanto utile a conservare la memoria. Accade poi che con il tempo questi oggetti di venerazione siano via via svuotati e ridotti a simulacri di un valore universale e assoluto. Abbiamo divinizzato l’arte al punto di ritenerla al di sopra delle parti, sovrumana.
Potremmo riflettere su questi temi, magari rileggendo ancora una volta questi versi del grande poeta israeliano Yehuda Amichai:
«Un giorno sedevo sui gradini dell’entrata della Torre di Davide.
Avevo appoggiato le mie due borse della spesa di fianco a me.
Un gruppo di turisti circondava la sua guida e io divenni il loro punto di riferimento.
“Vedete quell’uomo con le borse della spesa? Proprio a destra della sua testa c’è un arco di epoca romana. Appena a destra della sua testa”. “Ma si sposta! Si sposta!” . Io mi dicevo: la redenzione verrà solo quando la loro guida dirà loro: “Vedete quell’arco di epoca romana? Non è importante: ma lì vicino in basso, un po’ a sinistra, c’è un uomo seduto, che ha comprato frutta e verdura per la sua famiglia”».

Perdite

Provare per un po’ a camminare con le scarpe di un’altra persona. C’è da sperare che siano del numero giusto, ma potrebbero essere troppo strette e causare dolore o troppo larghe e rendere incerto il nostro passo. Potrebbero essere del numero corretto ma di una forma strana, magari col tacco, o un sandalo infradito, fastidioso per chi non è abituato a portarlo. Potrebbero essere perfettamente adatte al terreno come degli scarponi quando si è in montagna, oppure decisamente fuori luogo come delle scarpe da calcio a un matrimonio. Provare a indossare le scarpe di un altro e tentare di muovere dei passi mi aiuta a cercare di capire il suo punto di vista, la situazione che lui sta vivendo. Lo voglio fare anche oggi, e lascio qui questa scarpa scomoda… (la fonte è un articolo di Marialaura Conte preso da Oasis)

“«Della perdita del passato, ci si consola facilmente; è della perdita del futuro che non ci disorientatisi riprende». E ancora «il Paese di cui l’assenza mi rattrista e mi ossessiona non è quello che ho conosciuto nella mia giovinezza, è quello che ho sognato e che non ha mai potuto vedere il giorno».
Queste parole estrapolate dall’ultimo romanzo di Amin Maalouf, scrittore libanese che vive in Francia dal ’76, sono capaci di descrivere con una sintesi geniale quello che Oasis ha visto e sperimentato recentemente in Medio Oriente, visitando i campi profughi, ascoltando le testimonianze di chi, stando dentro la ferita della guerra, li aiuta e accompagna.
Anche il titolo di questo romanzo, I disorientati, aiuta a comprendere cosa c’è in gioco oggi. Da una parte, infatti, descrive in modo particolarmente aderente il profilo di chi si trova trapiantato in un altrove non scelto, imposto da circostanze storiche che investono le vite dei singoli in modo imprevedibile. Rimanda al volto di una delle tante donne incontrate in un campo nella Bekaa. Giovane di neanche trent’anni, il volto pallido incorniciato da un velo nero stretto, con i suoi bambini appesi alle braccia, una signora siriana esprimeva il dolore per la perdita del marito assassinato vicino a casa, ma ancor di più il vuoto per la sua vita sospesa, l’angoscia per un futuro incerto, per una vita sospesa nell’incertezza più totale: privata della possibilità di tornare indietro e di andare avanti. E dall’altra questa parola del titolo, “disorientati”, contiene in sé “oriente”. Come rilevato dallo stesso Maalouf, essa richiama chi ha perso il suo “Oriente”, o il suo personale sogno, e al tempo stesso l’idea di un Oriente che, perdendo i suoi “sognatori”, va smarrendo se stesso. Si svuota.
La suggestione che porge Maalouf ai suoi lettori sembra dire qualcosa anche all’Occidente e dell’Occidente. Ma per comprenderlo occorre tornare a Beirut. Qui, a inizio settembre, quando la situazione era molto tesa per la minaccia del bombardamento americano, il prof. Pascal Monin, dell’Université Saint Joseph spiegava che nulla fa più paura ai libanesi delle autobombe, perché colpiscono imprevedibili e vigliacche le vittime più innocenti in momenti ordinari, come i bambini sulla via verso la scuola. E, aggiungeva Monin, la vera bomba innescata oggi pronta a saltare non si sa bene dove è quella dei profughi: un milione sui quattro di popolazione (dati dello scorso settembre), diffusi in tutto il territorio, armati in alcuni casi, sicuramente arrabbiati, sono uno dei problemi rimossi dalle istituzioni, incastrati in logiche dei blocchi contrapposti delle varie forze politiche. In Libano si parla di un milione di persone, alle quali vanno aggiunte le centinaia di migliaia in Giordania, Turchia, Iraq, Egitto…
E in Europa? Qui si litiga su dove e come sistemare gli immigrati che arrivano dal Sud e dall’Est del mondo. Qualche giorno fa un giornale milanese pubblicava un titolo che diceva: A Milano non c’è più posto per i profughi siriani. Ma, avendo in mente i numeri mediorientali e l’immagine della distesa di Za’tari, il campo nel nord della Giordania, il secondo più popoloso del mondo con i suoi 150.000 ospiti, sorge immediata la domanda: quanti sono i profughi che giungono a Milano? Secondo alcuni dati registrati in Prefettura, i siriani che hanno chiesto asilo politico a Milano sono centoventi. Solo centoventi. Certo si tratta di numeri ufficiali, sappiamo che spesso non corrispondono alla realtà, ma il numero è esiguo se paragonato al movimento registrato tra Siria, Libano e Giordania. E Milano è Milano, una delle capitali europee.
Mons. Maroun Lahham, quand’era vescovo a Tunisi, nel 2011 aveva usato toni forti per dire all’Europa che era paradossale vedere la fatica che faceva ad accogliere poche migliaia di immigrati tunisini in cerca di cibo e lavoro, non delinquenti, quando la stessa Tunisia aveva fino ad allora accolto numerosi profughi libici potendo offrire molto di meno. «L’Europa si salva – aveva detto Mons. Lahham – finché è fedele alle sue origini cristiane. E uno dei valori cristiani più forti è la condivisione, la solidarietà. Apritevi allora al fratello che si trova in difficoltà, anche se diverso». Senza voler semplificare la questione molto complessa dei profughi né scivolare in facili buonismi, è indubitabile che questo tema ancora una volta sta smascherando il volto impagliato della vecchia Europa, per la quale può risultare vitale un paragone con l’esperienza che viene da Oriente.”

Dal PIL alla FNL

In quinta stiamo parlando di globalizzazione. Sono emerse varie ipotesi e possibilità riguardo allo sviluppo economico: crescita, decrescita, pausa… Pubblico un articolo di Vandana Shiva, preso da questo sito e originariamente comparso su The Guardian.

coca-cola-india.jpg“La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (PIL), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il PIL si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita”, misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.

Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate.

L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene 20050609_cokeprotesters.jpgfornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una carestia d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 km, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.

Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica, produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprare di più ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori é aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.

La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.

Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per casa. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, essa riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Essa era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.

Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.

L’aumento del flusso di denaro attraverso il PIL si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete conduce essi all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno riconosciuto che il PIL non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la felicità nazionale lorda al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il PIL, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.”

La morte come privilegio

aryana-sayeed-kareena-kapoor-32860123-640-960.jpgSul Corriere di oggi Lorenzo Cremonesi racconta la paura di Aryana Sayeed, cantante afghana, che teme, all’uscita dell’esercito statunitense dal suo paese, il ritorno dei talebani e delle loro regole rigide e asfissianti: “Ma ve ne rendete conto? Rischiamo di tornare ai tempi della musica vietata, delle donne che non vanno a scuola, della gente arrestata se canta per la strada! Una tragedia per tutto l’Afghanistan. E un mio problema personale. I talebani al potere mi daranno la caccia. Non potrò lavorare. Dovrò tornare in esilio … E’ un errore dare credito ai talebani. Appena la coalizione internazionale se ne sarà andata si rimangeranno qualsiasi promessa e torneranno a imporre la loro folle teocrazia islamica”. Già oggi il clima attorno a lei si sta facendo pesante: “Da circa un anno mi mandano messaggi minatori. Mi hanno accusato di corrompere i giovani e le donne. Così non ho una dimora fissa. Viaggio di continuo tra Londra e Kabul. Ogni volta sto in una lodge diversa. E non so proprio come andrà a finire. Nel 2014 le truppe Nato-Isaf dovrebbero andarsene. Ma non credo che i nostri soldati siano in grado di rimpiazzarle”. Sta componendo una nuova canzone: “Ho un tal numero di sofferenze che la morte mi sembra un privilegio. Sono un peso per mio figlio, una schiava come moglie e un fardello come sorella”.

Ancora streghe…

Un interessante articolo di Adriano Favole su moderne stregonerie. L’ho preso da Il club de La Lettura.

“Ci sono aree di mondo che, come insetti catturati nella tela del ragno, non riescono a l43-streghe-130409083349_medium.jpgliberarsi dagli stereotipi che li avvolgono. La Nuova Guinea è una di queste. Nel corso dell’Ottocento, gli esploratori occidentali chiamarono questa parte di mondo Melanesia («Isole nere»): il «nero» non evocava solo abitanti dalla pelle scura, ma preannunciava un vero e proprio noir antropologico. Da allora e fino a oggi infatti, quando in Occidente si parla della Nuova Guinea, lo si fa, per lo più, a proposito di cannibalismo e stregoneria, con qualche concessione a tsunami e altre calamità naturali. A meno che non siate appassionati cultori o frequentatori dell’Oceania, difficilmente avrete avuto modo di sapere che la Nuova Guinea è un luogo straordinario, in cui si parlano tuttora 850 lingue; in cui è racchiusa una biodiversità eccezionale, per nulla scalfita — almeno fino all’irrompere della modernità — dalla presenza delle società native, che hanno dato vita per millenni a economie sostenibili (ne parla Jared Diamond in Collasso, Einaudi); si tratta di un’isola i cui abitanti hanno inventato, oltre all’orticoltura, sistemi di scambio basati sulla condivisione, sul dono e sulla reciprocità e, in alcune aree, specie lungo il fiume Sepik, hanno dato vita a creazioni artistiche che lasciarono esterrefatti viaggiatori ed etnologi (il Museo Quai Branly di Parigi vi dedicherà una mostra nel 2014). Alla luce dello stereotipo, non stupisce più di tanto l’enfasi con cui in Australia (un Paese che ha colossali interessi in Nuova Guinea) alcuni giornali hanno diffuso la notizia relativa a casi di stregoneria avvenuti sia nella parte occidentale dell’isola — che fa parte dell’Indonesia, con le due province di Papua e West Papua — sia nelle Highlands della parte orientale, in cui si trova lo Stato indipendente di Papua Nuova Guinea. Secondo la testimonianza di una suora cattolica riportata da «Internazionale», nell’area di Simbu (considerata un epicentro stregonesco), in febbraio, una donna accusata di essere una strega sarebbe stata torturata nei genitali con ferri roventi, rischiando la morte. Pochi giorni fa, il quotidiano «Post Courier» riportava notizie di un presunto sacrificio pasquale nell’area delle Southern Highlands, in cui sei donne sarebbero state torturate e arse vive, e ancora il caso di due donne decapitate nell’isola di Bougainville. Ripetuti report di Amnesty International e della Ong Oxfam confermano la crescente violenza nei confronti delle donne e il ricorso dei nativi al linguaggio e alle pratiche della stregoneria.

Ma, allora, la stregoneria è una realtà o la proiezione mediatizzata di uno stereotipo? I papua praticano ancora la stregoneria? Il problema di fondo è che domande come queste sono mal poste. Il dato da cui partire è infatti la violenza nei confronti delle donne (ma non solo) che, stando alle fonti più attendibili, è in crescita in Papua Nuova Guinea così come in tanti altri Paesi del mondo. Perché questa escalation di violenza in un Paese che, certo, anche in passato era caratterizzato da forti tensioni e conflitti interetnici? E perché, in Melanesia come in molti Paesi africani i nativi evocano e incolpano streghe e stregoni? Numerosi studiosi hanno lavorato di recente a questo tema, fornendo risposte piuttosto interessanti.

C’è in primo luogo un enorme problema di traduzione. Per un occidentale, infatti, il termine «stregoneria» evoca condanne e roghi voluti dalla Chiesa nei confronti di donne ed eretici. I termini di altre lingue tradotti con «stregoneria» (come sanguma o kumo in Nuova Guinea) implicano scenari e immaginari molto differenti, che occorre conoscere se si vuole davvero combattere il fenomeno.

In secondo luogo, la cosiddetta stregoneria viene di solito presentata come una credenza atavica e irrazionale, frutto di una mentalità primitiva che dovrebbe essere modernizzata. Gli studi dell’antropologo olandese Peter Geschiere mostrano, al contrario, che la stregoneria contemporanea è un prodotto «moderno» e «postcoloniale». La diffusione dell’Aids, le crisi economiche, l’emarginazione sociale hanno comportato in molte parti dell’Africa una ripresa e una ricarica semantica del linguaggio della stregoneria, attraverso la ricerca dei «colpevoli» della povertà e del disagio. Allo stesso modo, secondo un recente studio di Ryan Schram, alcune popolazioni della Nuova Guinea ritengono che le streghe sottraggano ai nativi i beni materiali di cui i bianchi sono, al contrario, ricchissimi.

Un terzo punto rilevante concerne l’idea secondo cui l’irrazionalità della stregoneria andrebbe combattuta insegnando ai nativi a riconoscere le vere cause delle malattie e della sventura. È il punto più delicato. Già nel 1937, nel classico Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (Cortina), Edward Evans-Pritchard aveva mostrato che la stregoneria non nasce dall’ignoranza delle cause ultime di un evento nefasto, ma dal fatto che pone domande che vanno al di là di esse. Gli indigeni africani Azande sanno che quell’uomo è morto perché, andando a caccia, si è ferito una gamba, ma il problema è: «Perché proprio lui e proprio adesso?». La stregoneria (mangu per gli Azande) è un pensiero sull’«oltre», su quegli ambiti della vita che stanno al di là della possibilità di controllo degli esseri umani. Ora, nella situazione postcoloniale globalizzata, la stregoneria, supposto che abbia ancora senso usare una categoria così ampia e trasversale, si presenta non come un sistema di credenze chiuso all’interno di società tradizionali, bensì come un tentativo di spiegare relazioni interculturali che hanno relegato strati sociali e intere comunità native in situazioni di estrema indigenza e marginalità. Il ritorno delle streghe, in Papua Nuova Guinea come in Africa, è un fenomeno preoccupante e la violenza (e a volte la morte) sofferta dalle donne, che divengono capri espiatori di una diffusa insicurezza, non va certo sottovalutata o, peggio ancora, negata. Ma la stregoneria non è una malattia indigena, frutto di sistemi di credenze ancestrali, bensì il sintomo di un disagio molto «moderno», le cui cause vanno ricercate nell’imporsi di modelli sociali ed economici fondati sull’esclusione, e non sulla condivisione, e di configurazioni della persona che hanno accentuato le differenze di genere, alimentando sospetti e violenze soprattutto nei confronti delle donne.”

Fessure di dialogo

Stamattina si è tenuta, in piazza San Pietro l’udienza generale del papa. Subito dopo Bergoglio ha incontrato l’ambasciatore saudita in Italia Salh Mohammad Al Ghamdi, che ha consegnato al papa un messaggio del re Abdullah. Il giornalista Giacomo Galeazzi su Vatican Insider fa il punto della situazione sull’Arabia Saudita per quanto riguarda le libertà religiose e i diritti delle donne.

“Il Regno wahhabita continua ad essere indicato da tutti gli osservatori internazionali abdullah.jpgcome un «Paese di particolare preoccupazione» per la persistenza di violazioni gravi della libertà religiosa, nei fatti e nelle disposizioni legislative. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le dichiarazioni in cui responsabili sauditi hanno affermato la possibilità per i lavoratori non musulmani di celebrare il proprio culto in privato. Tuttavia, la nozione di “privato” rimane vaga. Il governo ha affermato che, finché le riunioni dei non musulmani avessero riguardato piccoli gruppi riuniti in case private, nessun organo della sicurezza sarebbe intervenuto. Questa posizione, sebbene ufficiale, viene comunque violata, dato che continuano a verificarsi casi in cui la polizia religiosa fa irruzione in abitazioni private in cui si svolgono simili riunioni di preghiera. Altro motivo di preoccupazione per i cristiani (come per tutti i non musulmani residenti nel Regno) è l’eccessivo lasso di tempo (settimane) necessario per l’espatrio delle salme di lavoratori stranieri deceduti. L’Arabia Saudita non autorizza la sepoltura nei propri territori di non musulmani e su tale questione ha richiamato l’attenzione una delegazione americana in visita nel Paese. Il rapporto Acs documenta diversi casi di arresto di fedeli cristiani; in alcuni casi, la notizia non sarebbe stata diffusa, per garantire il buon esito delle trattative per il loro rilascio che venivano stabilite tra governo saudita e il Paese di provenienza degli arrestati. Nel gennaio 2012, re Abdullah ha sollevato dall’incarico il capo della polizia religiosa Abdul-Aziz Humayen, sostituendolo con Abdul-Latif bin Abdul-Aziz Al Sheikh, appartenente alla famiglia degli Al Sheikh che guida l’establishment wahhabita. Non sono state fornite indicazioni sulle ragioni del cambio, anche se è utile segnalare che, nel 2009, il predecessore di Al Sheikh era stato scelto per riformare la polizia religiosa. Aveva assunto consulenti, incontrato gruppi per i diritti umani ed esperti d’immagine per migliorare la reputazione della polizia dopo episodi che avevano indignato l’opinione pubblica saudita. Gli agenti della polizia religiosa vegliano sull’applicazione delle leggi che regolano la sfera civile, religiosa e sessuale nel Paese. Tra i loro compiti c’è quello di verificare che i negozi siano chiusi durante la preghiera, fermare le coppie non sposate e le donne non coperte dalla testa ai piedi assicurandosi anche che esse non guidino automobili. Vita dura anche per gli sciiti e gli ismaeliti, così come per i blogger portatori di idee pseudo-rivoluzionarie.

Passo positivo l’istituzione per iniziativa del sovrano, in collaborazione con Austria e Spagna, di un Centro internazionale per il dialogo inter-religioso e inter-culturale. In Arabia Saudita per i cristiani non è possibile alcun culto pubblico. La situazione è particolarmente pesante soprattutto per l’altra metà del cielo. Muri divisori nei negozi per separare donne e uomini: è l’ultima forma di segregazione imposta nel regno saudita per “proteggere” commesse e clienti dagli sguardi maschili. La misura verrà applicata nei negozi in cui sono impiegati commessi di sesso diverso. Le barriere dovranno essere alte almeno 1,60 metri. Le donne possono lavorare solo in luoghi di sole donne oppure nella vendita di biancheria intima e cosmetici. Questi ultimi due settori di lavoro sono stati approvati nel giugno 2011, quando il governo impose che i commessi (in gran parte uomini di origine asiatica) fossero sostituiti con donne saudite. Un provvedimento che aprì 44mila nuove posizioni di lavoro per donne saudite (il tasso di inoccupazione femminile è del 36%, solo il 7% della popolazione occupata nel privato è composta da donne). Fu una decisione sollecitata dalle stesse saudite che si dicevano a disagio nell’acquistare biancheria intima e cosmetici dagli uomini. Ma l’arrivo di tante donne nei luoghi di lavoro misti – ad esempio i centri commerciali – aveva sollevato problemi diversi, non ultimi molti casi di molestie. La misura adottata per eliminare il problema è, come spesso è capitato nel Paese, drastica e orientata alla segregazione: i muri. Il cammino di emancipazione delle donne saudite è ancora allo stato embrionale. All’inizio dell’anno alle donne è stato permesso di partecipare al Consiglio consultiva della Shura, e 30 donne ne sono entrate a far parte – anche se per partecipare devono usare ingressi separati. Note ormai le campagne per il diritto di guida (soprattutto grazie alla popolare campagna di disobbedienza civile di Manal al Sharif divenuta popolare sui social network come #womentodrive), mentre il Regno del Golfo è uno dei pochi paesi al mondo che nega il suffragio universale. Le donne devono avere il permesso degli uomini per lavorare, viaggiare o aprire un conto corrente bancario.”

Islam: oltre il femminismo

Chi segue il blog in modo regolare sa che pubblico articoli lunghi solo se ritengo che ne valga la pena (in ogni caso parere personalissimo). Oggi, mentre navigavo su Sconfinare, il sito del giornale creato dagli studenti del SID (Scienze Internazionali e Diplomatiche) di Gorizia, mi sono imbattuto in questo bell’articolo di Elena Tuan sul ruolo moderno della donna nell’Islam.

stor_9937908_04410.jpg“C’è il femminismo, c’è l’Islam e c’è anche il femminismo islamico. Un movimento germogliato e influenzato sì dal pensiero di molti intellettuali e teorici, ma concretizzatosi spesso più semplicemente come manifestazione spontanea di protesta in seno alle disuguaglianze che ancora caratterizzano molte, sebbene diverse, realtà del mondo islamico. Tra le istanze che le femministe islamiche richiedono vi è l’uguaglianza di genere, la possibilità di partecipare alla riflessione teorica sui Libri Sacri della religione per dar vita a una vera e propria riforma di fondo del fiqh, la giurisprudenza islamica, metterne quindi in luce le interpretazioni maschiliste che hanno costretto per secoli la donna ad essere sottomessa all’uomo, all’interno della famiglia e della società. Dunque una discriminazione di genere che secondo molte attiviste, tra cui Fatima Mernissi, può essere ricondotta all’Islam, ma non al Corano.

Nella formulazione di tali rivendicazioni confluiscono componenti sia esterne che interne: esterne, come l’ispirazione che hanno fornito i movimenti europei ed occidentali in genere, che si sono battuti per ottenere maggiore giustizia, libertà, democrazia; interne, come la maggiore consapevolezza acquisita dalle donne e l’esigenza, proveniente per lo più dal ceto medio e più istruito, di rivendicare i propri diritti, tra cui anche quello di occupare un ruolo attivo all’interno della società. Spesso infatti la società islamica si propone come patriarcale e maschilista, conseguenza di una netta divisione sessuale del lavoro, secondo cui alla donna apparterrebbe il ruolo di moglie e madre, quindi il dovere di occuparsi della casa e della crescita dei propri figli; mentre all’uomo, responsabile invece del sostentamento economico della famiglia, spetterebbe la sfera della società, dell’azione e della parola. Interessante è il fatto che nella maggior parte dei casi sono le stesse femministe islamiche a rifiutare la definizione di “femministe”, sia perché forte è la volontà di mantenere e affermare con orgoglio la propria identità culturale e religiosa (si intende rispetto a quella occidentale), sia perché identificarsi come “femministe” può essere causa di fraintendimenti in ambienti in cui queste tematiche talvolta vengono ancora percepite come tentativi di soverchiare l’ordine e i valori della tradizione. Anche per questo motivo, diversi intellettuali e docenti, tra cui anche donne come Haideh Moghissi o Shahrzad Mojab, considerano l’espressione “femminismo islamico” un ossimoro e guardano con freddo disincanto a tale movimento, ai loro occhi una contraddizione che tenta di indossare una maschera che non gli appartiene né per cultura né per tradizione. Un modo, quello di definirsi islamico, per evitare la censura o, nei casi in cui l’Islam politico non ammetta pluralismo culturale, la soppressione.

Nonostante ciò, la determinazione e il coraggio con cui tali donne lottano per ottenere maggiore uguaglianza non perde vigore. La forza del femminismo islamico sembra essere scaturita in particolar modo nella seconda metà dello scorso secolo, quando il progetto islamista di tornare alla piena implementazione della shari’a, la legge sacra islamica, ha spinto molte donne all’attivismo. L’avvento dell’Islam politico, a partire dalla rivoluzione del 1979 in Iran, è stato il “casus belli” per le aspirazioni femministe, perché da un lato ha reso evidente la discrepanza tra i valori coranici e le politiche patriarcali effettuate in nome della religione islamica, dall’altro ha donato alle stesse donne il linguaggio e la legittimità di cui avevano bisogno per formulare domanda per maggiore uguaglianza attraverso un uso appropriato delle fonti.

E’ così che le donne hanno iniziato a sostenere la sostanziale differenza tra shari’a, legge divina e non soggetta ad alcun cambiamento, e fiqh, legge determinata storicamente dall’uomo, che non deve essere santificabile, ma passabile di correzioni e modifiche. Ad aggiungersi a ciò un’interpretazione/traduzione maschilista e patriarcale dei Testi Sacri, che spesso ha portato l’uomo a formulare ex novo certi hadith (detti e usanze che la tradizione riconduce al Profeta Muhammad), che avrebbero favorito il mantenimento dell’egemonia maschile e la subordinazione del genere femminile. Per l’anima teologica del femminismo islamico è quindi necessaria una reinterpretazione dei Testi Sacri per ottenere la definitiva separazione degli stessi dal patriarcato che per secoli ne ha mantenuto il monopolio.

Il femminismo islamico ha anche una seconda anima, quella movimentista, che spesso si concreta nell’adesione a ONG, associazioni, siti Internet che operano a diversi livelli per l’affermazione dei diritti femminili. Per citarne alcune:

  • Sisters in Islam, un’ organizzazione malese che opera a livello internazionale e che ha esordito ufficialmente nel 1990 con una campagna contro la poligamia, seguita da una contro la flagellazione, l’ottenimento di maggiore protezione e diritti per combattere la violenza esercitata sulle donne;

  • Musawah, Movimento globale per l’uguaglianza e la giustizia nella famiglia musulmana, punto di riferimento per le operatrici di settore a livello internazionale e interlocutore dell’ONU nel programma di accertamenti periodici volti a controllare che i Paesi firmatari del CEDAW, Convenzione per l’Eliminazione di ogni forma di Discriminazione contro le donne, adottata dal Consiglio delle Nazioni Unite nel 1979, rispettino la convenzione;

  • Kamarah, Donne musulmane avvocato per i diritti umani, che punta soprattutto alla necessità di informare in materia di diritto islamico le donne, garantendo loro la capacità di sviluppare con efficacia il loro discorso giuridico in seno alle comunità da cui provengono;

  • Akder, Organizzazione per i Diritti delle Donne contro la Discriminazione, nata nel 1999 per iniziativa di un gruppo di professioniste e studentesse turche cacciate rispettivamente dai propri posti di lavoro ed università perché avevano rifiutato di togliersi il velo, che opera facendo pressioni sui parlamentari per migliori condizioni legislative e riforme, assiste legalmente le vittime di violenza e preme sui consigli comunali per l’assegnazione di case protette per le donne vittime di abusi e per i loro figli. Secondo recenti statistiche infatti almeno una donna su tre in Turchia ha subito molestie sessuali o forme di violenza nel corso della propria vita.

Il fenomeno della globalizzazione e l’intensificazione dell’uso delle comunicazioni di massa ha contribuito all’aumento della cooperazione e del livello di coordinamento sia a livello locale che a livello internazionale tra le varie associazioni, che non raramente organizzano meeting e riunioni per eventuali aggiornamenti o ratifiche, o più semplicemente per valorizzare la diffusione e riaffermare quegli stessi valori di cui si fanno portatrici. Purtroppo, uno tra i più rilevanti problemi delle organizzazioni femministe islamiche sono i finanziamenti, che raramente provengono dagli Stati in cui tali movimenti hanno origine, ma piuttosto da organizzazioni, gruppi e privati di Stati occidentali. La Fondazione Studio e Ricerca delle Donne, una delle ONG più affermate in Iran, è ad esempio finanziata in parte dal Ministero dell’Istruzione ed è stata tra le prime a sponsorizzare la pubblicazione di uno studio del Corano in prospettiva femminile redatto da una donna; la sopra citata Kamarah può contare su invidiabili risorse umane e finanziarie, in minima parte riconducibili al mondo musulmano e per lo più appartenenti invece al mondo occidentale. Basti pensare che nella schiera dei suoi finanziatori si trova anche Bill Gates.

Grazie a una maggiore consapevolezza, un grado migliore d’istruzione, una conoscenza più approfondita dei Testi Sacri e grazie anche al proprio carisma, oggi sempre più donne islamiche si stanno conquistando il tanto agognato ruolo attivo all’interno della società. In ambito religioso possono essere istruttrici all’interno di moschee e madrasa, interpreti della parola islamica, lettrici di preghiere, capi di moschee femminili; in ambito sociale possono operare in centri e reti associative, reti televisive, giornali e riviste, svolgere le professioni di medico, avvocato, autista di taxi ed autobus, membro del Parlamento. Oggi il 30% delle cariche parlamentari in Iran è riservato alle donne, purtroppo non tutti i seggi vengono occupati perché vi è ancora diffidenza, anche da parte delle donne stesse, a votare le proprie compagne sia per il timore delle autorità al potere sia perché non è ancora considerato “normale” pensare alle donne in termini di rappresentanza politica ed istituzionale. Anche nell’ambito dello Sport molte donne hanno lottato per ottenere maggiori libertà e diritti, tra queste spicca maggiormente l’attivista Faezeh Hashemi Rafsanjani, che ha fondato nel 1991 la Federazione dei Paesi Islamici per la solidarietà femminile nello Sport. Tale associazione ha dotato le donne di maggiori libertà e ha permesso successivamente l’organizzazione di olimpiadi speciali per le sole atlete, un traguardo notevole se si considera che con l’affermarsi del fondamentalismo islamico alle donne fu vietato anche il semplice andare in bicicletta. Alcune attiviste però sostengono che i risultati raggiunti, anche se notevoli, non siano sufficienti, poiché se da una parte le donne stanno conquistando sempre più spazio e garanzie in ambito lavorativo, sociale e politico, dall’altra le leggi in tema di diritto di famiglia sono ancora troppo deboli e ciò che non cambia è la situazione di oppressione e sfavore che esse vivono all’interno della propria casa, dove a volte subiscono violenza fisica, stupro coniugale, o nel peggiore dei casi sono vittime del delitto d’onore, ancora molto diffuso. Vi sono Paesi come la Turchia, che già da un decennio ha provveduto a varare leggi in cui si afferma l’equiparazione tra i coniugi, l’uguaglianza di genere in termini legislativi, la criminalizzazione dello stupro coniugale e vi sono Paesi come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi, in cui il codice di famiglia e la stessa shari’a continuano a essere interpretati alla lettera e in questo modo la discriminazione e la disuguaglianza di genere riaffermate e consolidate all’interno della società.

Come afferma German Martin Munoz, docente all’Università di Madrid, il mondo occidentale risulta riguardo queste tematiche particolarmente influenzabile ed influenzato dai massmedia, che hanno il ruolo non solo di fornire l’informazione su determinati fenomeni, fatti ed eventi, ma anche di perpetuare gli schemi culturali e gli stereotipi con cui questi vengono rappresentati. E’ così che ai nostri occhi spesso, o meglio, a prescindere, la società e la cultura araba vengono definite come immobili e conservatrici, determinate più dalla religione che dai cambiamenti sociali, economici, politici in atto. Al contrario la nostra società e la nostra cultura vengono considerate intrinsecamente buone e giuste, per questo migliori. Un atteggiamento, il nostro, riconducibile allo scheletro di un passato modernista e a un presente cosmopolita non privo di venature tendenzialmente etnocentriche. Sotto molti aspetti, non lo si può negare, la nostra società è più equa ed evoluta in numerosi ambiti, a partire da quello legislativo e politico, ma ciò non significa che le nostre democrazie siano sempre efficienti, che le nostre leggi vengano sempre rispettate, o che si sia raggiunta effettivamente l’uguaglianza di genere. Agli occhi di noi occidentali, immersi in una società secolarizzata dove i valori che vengono esaltati e rispettati sono spesso l’individualismo, la competizione, il successo, l’apparenza, appare probabilmente incomprensibile e arretrata una società in cui i valori più importanti sono quelli pronunciati e dettati dalla religione. Così il velo che indossano le musulmane per noi non è e non può essere simbolo della volontà di manifestare un’integrità culturale e religiosa riconducibile a una tradizione fortemente sentita e condivisa (può darsi anche imposta), ma solamente una limitazione ingiusta e un mancato raggiungimento dei diritti fondamentali dell’individuo. La donna velata è vittima del fondamentalismo, ma è anche vittima di un’incomprensione culturale occidentale che non accetta e non riconosce di poter compiere valutazioni errate. L’Occidente vede la donna islamica come uno strumento nelle mani degli uomini e della religione, priva delle proprie libertà e ancorata a degli schemi culturali discriminanti, tanto quanto vuole far finta di non vedere la “velina occidentale” come il proprio oggetto di desiderio e bellezza, ancorata purtroppo anch’essa a degli schemi culturali analogamente discriminanti.”

Statuine al bando

sri-lanka-buddha-statue-z.jpg

Dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, l’Iran ci ha abituati a demonizzare le varie mode e tendenze provenienti dall’Occidente malato: la musica rock, la Barbie, i jeans, i Simpsons, Mc Donald’s… Ecco che ora si affaccia una novità che prendo da Andkronos: “Sono le statuette che rappresentano Buddha l’ultimo bersaglio della censura iraniana, che le ha messe al bando in quanto strumento di “invasione culturale” dall’estero. Il divieto di esporre rappresentazioni scultoree della figura sacra del buddhismo e il conseguente ordine di sequestro per quelle in vendita nei negozi del paese è arrivato dall’autorità per la salvaguardia del patrimonio culturale iraniano, come ha riportato il quotidiano locale ‘Arman’”. Aggiungo il fatto che la maggior parte delle volte le statuine non hanno valenza religiosa ma estetica, facendo da ornamento su mobili e nei giardini.

Una al mese

Quest’anno il sabato è il mio giorno libero, quindi da oggi sono a casa. Ma essendo rientrato con una forte arrabbiatura, non sono assolutamente in clima natalizio. Cerco di rifarmi con un po’ di buone notizie prese dalla parte di sito del Corriere gestita insieme ad Amnesty.

MP900431844.jpg“Buone leggi, importanti sentenze giudiziarie, prigionieri di coscienza scarcerati, condanne a morte commutate. Nonostante tutto, anche il 2012 ha riservato tante buone notizie sul fronte dei diritti umani. Ho cercato, su un totale di 124 registrate da Amnesty International (qui ne trovate molte altre), di selezionare le migliori 12, una per mese. Prima di elencarle, vorrei ricordare che niente di tutto questo sarebbe stato possibile senza l’impegno di giornalisti, giudici, avvocati, organismi della società civile e soprattutto di tante attiviste e di tanti attivisti per i diritti umani. Eccole, allora, queste buone notizie!

Ecuador – Il 4 gennaio 2012 la corte d’appello della città di Lago Agrio, nella provincia di Sucumbios, ha confermato la condanna della Chevron per disastro ecologico e danni alla salute delle parti lese. Nel febbraio 2011 il tribunale aveva ordinato alla Chevron di pagare 8 miliardi e mezzo, ma nella sentenza d’appello l’importo è raddoppiato anche perché la Chevron si è sempre rifiutata di scusarsi pubblicamente, come richiesto dalla sentenza.

Italia – Il 23 febbraio 2012 la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia nel caso Hirsi Jamaa e altri contro l’Italia. Il caso riguarda 11 cittadini somali e 13 cittadini eritrei che facevano parte di un gruppo di circa 200 persone intercettate in mare dalle autorità italiane e respinti direttamente in Libia, senza che fosse stata valutata la loro necessità di protezione internazionale: una delle operazioni di intercettamento e rinvio in Libia eseguite dalle autorità italiane nel 2009, a seguito dell’accordo bilaterale tra Italia e Libia allora in vigore.

Guatemala – Il 14 marzo 2012 Pedro Pimentel Rios, estradato dagli Usa nel luglio 2011, è stato condannato a 6060 anni di carcere per aver preso parte al massacro di Dor Erres nel 1982, che provocò la morte di oltre 250 civili. Si tratta del quinto ex militare condannato dalla giustizia guatemalteca per i fatti di Dos Erres: anche gli altri quattro hanno ricevuto una condanna a 6060 anni, equivalente a 25 anni per ogni omicidio.

Stati Uniti d’America – Il 25 aprile 2012 il governatore del Connecticut ha firmato la legge che abolisce la pena di morte. Il Connecticut è diventato il 17° stato abolizionista degli Usa.

Siria – Yaacoub Shamoun, un cittadino libanese scomparso dopo essere stato catturato dalle forze siriane in Libano nel luglio 1985, è stato rilasciato nel maggio 2012 da un carcere della regione orientale di Hasaka. Dopo il suo rapimento in Libano, Shamoun era stato portato in Siria e, per l’ultima volta, era stato visto 27 anni fa nella prigione di Saydneya, a nord di Damasco.

Egitto – Il 2 giugno 2012 un tribunale del Cairo ha condannato all’ergastolo l’ex presidente Hosni Mubarak e l’ex ministro dell’Interno Habib Al Adly per non aver prevenuto l’uccisione di oltre 840 manifestanti durante le proteste che si svolsero dal 25 gennaio all’11 febbraio 2011.

Repubblica Democratica del Congo – Il 10 luglio 2012 la Corte penale internazionale ha emesso la sua prima condanna, infliggendo 14 anni di carcere a Thomas Lubanga Dyilo, capo di un gruppo armato congolese, per aver reclutato e impiegato bambine e bambini soldato in un conflitto armato.

Messico – Il 21 agosto 2012 la Corte suprema ha giudicato incostituzionale l’articolo 57 II (a) del codice penale militare, sulla base del quale le denunce di violazioni dei diritti umani commesse da membri delle forze armate venivano indagate dalla giustizia militare.

Iran – L’8 settembre 2012 Yousef Naderkhani, un pastore protestante condannato a morte nel 2010 per apostasia, è stato assolto e, avendo terminato di scontare una precedente sentenza di tre anni per un reato d’opinione, è stato rimesso in libertà.

Slovacchia – Il 30 ottobre 2012 il tribunale regionale di Presov ha definitivamente stabilito che la scuola elementare di Sarisské Michal’any ha violato la legge istituendo classi separate per i bambini e le bambine rom.

Myanmar – Il 19 novembre 2012 sono stati rilasciati oltre 50 prigionieri politici e prigionieri di coscienza. Tra questi ultimi, U Myint Aye, cofondatore della Rete dei difensori e promotori dei diritti umani condannato nel 2008 all’ergastolo, e Saw Kyaw Kyaw Min, difensore dei diritti umani e avvocato, condannato a sei mesi nell’agosto 2012.

Nigeria – Il 15 dicembre 2012 la Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale ha giudicato la Nigeria responsabile della violazione della Carta africana dei diritti umani e dei popoli riguardo alle condizioni di vita della popolazione del delta del fiume Niger. La Corte ha stabilito che il governo nigeriano è responsabile del comportamento delle compagnie petrolifere e che a esso spetta chiamarle a rispondere dell’impatto ambientale del loro operato.”

La rivoluzione scippata

Una bella intervista per Avvenire di Chiara Zappa a una delle protagoniste della lotta per la libertà in Tunisia, Lina Ben Mhenni.

«Ma è possibile che i media occidentali debbano aspettare che ci scappi il morto, prima diLina-Ben-Mhenni.jpg accorgersi di quello che sta succedendo alle nostre rivoluzioni?». Lo sfogo di Lina Ben Mhenni dura solo un attimo, ma la sua tensione è evidente. Su una Avenue Borguiba presidiata dai blindati dell’esercito, a pochi metri dal caffè dove siamo sedute a parlare, sta sfilando l’ennesima manifestazione di islamisti, che urlano con violenza i loro slogan. Questa volta, contro l’Ugtt, il principale sindacato del Paese, definito «un covo di corrotti». «Vorrebbero che il sindacato fosse sciolto, è incredibile…», sospira Lina scuotendo la testa. A due anni dal suicidio dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, che il 17 dicembre 2010 diede avvio alle rivoluzioni nordafricane, la blogger più famosa della primavera araba, la “tunisian girl” che lanciava sul web le sue denunce anche quando Ben Ali era ancora al potere, candidata al Nobel per la pace e pluri-decorata per il suo coraggio (a novembre le è stato consegnato il premio Minerva «all’impegno politico e ai diritti umani») è stanca. Ma sempre combattiva. Nonostante la salute precaria e le tensioni quotidiane: «Ricevo minacce di continuo, contro di me è stata montata una campagna diffamatoria violenta». Due volte è stata brutalmente picchiata e molestata dalla polizia. «E ho paura anche della milizia di Ennahda». Il partito di matrice islamica che domina la coalizione di governo è messo sotto accusa da tanti fronti: per l’inconcludenza delle sue politiche – la disoccupazione continua a crescere e la povertà è tangibile, non solo nel Sud del Paese -, ma anche per i giochi di potere e soprattutto per l’eccessiva tolleranza nei confronti degli estremisti religiosi salafiti.

«Il vecchio sistema è ancora là, e in più questo governo ha cominciato da subito a fomentare una divisione nel Paese tra i “buoni musulmani” e i laici, che vengono semplicemente tacciati come atei. Se combatti per mantenere la laicità dello Stato, allora per loro non sei una musulmana. E quest’ambiguità è facile da coltivare qui in Tunisia, dove due dittatori come Bourguiba e Ben Ali hanno sostenuto il secolarismo: così, se qualcuno osa criticare il governo, come sta facendo in queste settimane il sindacato, subito viene accusato di essere anti-islamico, un “residuo del vecchio regime corrotto”. In questo modo, proprio in nome della tutela della rivoluzione, cercano di creare un nuovo regime: siamo stati scippati della nostra rivoluzione!». La ventinovenne, viso acqua e sapone e unghie in tinta con il maglioncino verde, scosta dal viso i capelli corvini e fa una pausa, osservando i poliziotti appostati intorno al ministero dell’Interno. «Sa di quella ragazza violentata dalla polizia?», butta lì. Parla della giovane stuprata a settembre da due agenti che poi la accusarono per atti osceni (infine assolta per mancanza di prove, dopo una mobilitazione massiccia dell’opinione pubblica). «Noi donne siamo state da subito un bersaglio facile: ci dicono che dobbiamo tornare a chiuderci in casa, così si risolverebbe anche il problema della disoccupazione degli uomini!». Al di là del rischio di un rigurgito patriarcale, che in questo caso ha del grottesco, la posta in gioco è alta: «Se ai tempi di Ben Ali le femministe lottavano per ottenere nuovi spazi, noi siamo costrette a farlo per difendere le conquiste del passato. Recentemente siamo dovute scendere in piazza perché dalla bozza della nuova Costituzione fosse ritirato il riferimento alla “complementarietà” tra uomo e donna, che aveva sostituito l’espressione “parità”. Ma a rischio è anche il Codice di statuto personale, all’avanguardia sui diritti femminili, mentre si ipotizza di legalizzare la poligamia ed esponenti sauditi vengono invitati a parlare delle mutilazioni genitali per le bambine…».

Ma con la caduta del regime non è aumentata la libertà di espressione? «Abbiamo avuto un breve periodo di libertà, ma oggi la situazione è di nuovo critica», afferma Ben Mhenni, che insegna linguistica all’università di Tunisi. «Si tenta di imbavagliare i giornali, la tv nazionale è in mano agli islamisti, che hanno riciclato anche giornalisti ex fedeli di Ben Ali, le tv private sono finanziate dai partiti politici e i cyber-attivisti ormai tendono ad autocensurarsi, per timore delle ritorsioni». La denuncia di Lina è dura: «Qui non esiste ancora una giustizia indipendente. Gente che si è macchiata di crimini gravissimi ora è libera: chi è organico al nuovo governo può stare tranquillo. Sono più corrotti di prima e usano gli stessi metodi violenti del passato». Il clima, già teso, è reso incandescente dalla povertà. «La situazione economica è molto grave. Il turismo risente degli attacchi dei salafiti e anche gli investitori non sono incoraggiati a venire qui. A volte ho la sensazione che andiamo verso una guerra civile». Per la giovane attivista, la via d’uscita è solo una: «Dobbiamo portare avanti la nostra rivoluzione, girare il Paese per spiegare alle persone che devono votare secondo i programmi dei candidati, non in cambio di denaro o perché qualcuno si propone come l’unica scelta giusta per i “buoni musulmani”. La religione e la politica devono restare separate. Anche i governi occidentali, che parlano di diritti umani ma oggi sostengono gli islamisti per interesse, dovrebbero ricordarselo».

Le domestiche bambine del Marocco

Nella giornata che celebra i diritti dell’infanzia pubblico questo articolo che parla delle domestiche bambine. Il pezzo si conclude con le richieste fatte da Human Rights Watch al governo marocchino. Mi permetto di aggiungere una domanda: nell’articolo si scrive che spesso quello di queste bambine è l’unica fonte di sostentamento della loro famiglia. Cosa succede ai famigliari? Si potrebbe ipotizzare che lo stesso lavoro venga svolto da un altro membro della stessa famiglia? L’articolo di Monica Ricci Sargentini compare qui.

“Lavorano dalle sei di mattina a mezzanotte, sette giorni su sette, per una paga misera,images.jpg tra gli 11 e i 61 dollari al mese che vengono versati direttamente ai genitori. Sono le domestiche bambine che a migliaia vengono mandate ogni anno a lavorare nelle case della media borghesia marocchina. Una situazione veramente vergognosa per un Paese che cerca di dare di sé una immagine moderna e proiettata verso l’Occidente. Le piccole, spesso di appena 8 anni, vengono da zone rurali e spesso il loro misero stipendio è la sola fonte di sostentamento delle loro famiglie. L’arrivo in città il più delle volte è traumatico, molte raccontano anche di aver subito molestie e violenze sessuali da parte dei padri e dei figli della famiglia ospitante. La loro vita si svolge solo all’interno delle mura domestiche ad eccezione di quando escono per qualche commissione. Ma ribellarsi e denunciare è impossibile. Parliamo di bambine semianalfabete (la metà ha smesso di andare a scuola, un terzo non c’è mai andato) che non sanno dove e a chi chiedere aiuto.

Da tempo si discute della necessità di una legge che regoli il lavoro domestico e il governo ha promesso di metterla in agenda entro il 2013. Troppo poco per Human Rights Watch (HRW) che il 15 novembre ha pubblicato un rapporto dal titolo La servitù solitaria: “Il governo – ha spiegato Jo Becker di HRW – dice che il lavoro minorile è diminuito e la scolarizzazione aumentata. E’ vero ma c’è la necessità di proteggere queste lavoratrici con azioni mirate. Il lavoro al di sotto dei 15 anni dovrebbe essere proibito. Queste ragazzine vengono sfruttare, abusate e costrette a lavorare per moltissime ore per un salario bassissimo. Nessuno sa quante siano veramente”. L’ultimo dato risale al 2001 in cui si stimava che ci fossero tra 66mila e 86mila domestiche bambine, di cui 13,500 solo a Casablanca. Oggi quella cifra, assicura HRW, si è sicuramente ridotta ma il fenomeno è ancora diffuso. Il governo ha promesso dei nuovi dati presto. In ogni caso, dicono oggi le autorità marocchine, il lavoro minorile è sceso drasticamente da 517mila persone nel 1999 a 123mila nel 2011. Agli ispettori, però, è proibito andare nelle case private per questo è più difficile quantificare il fenomeno. “Il lavoro domestico – ha aggiunto ancora Becker – è un problema serio perché queste ragazzine sono invisibili, lavorano all’interno delle abitazioni e quindi sono più vulnerabili all’abuso fisico e per loro è ancora più difficile cercare aiuto”.

Un anno fa fece clamore la morte di Khadija una domestica di soli 11 anni uccisa dalla figlia della padrona di casa perché le aveva rovinato la camicetta lavandola. La ragazzina veniva da Tagadirt, un piccolo villaggio a sud-est di Marrakesh, aveva cominciato a lavorare a nove anni per 50 dollari al mese. La donna che l’ha uccisa aveva 31 anni. Ma anche quest’episodio, seppure agghiacciante e commovente insieme, sembra essere stato dimenticato. Anche perché il fenomeno è così diffuso che spesso chi deve far rispettare le leggi (giudici, poliziotti, ministri) ha in casa una domestica bambina.

  • Human Rights Watch ha chiesto al governo marocchino e al re Mohammed VI di varare le seguenti misure:
  • Stabilire che l’età minima per il lavoro è 15 anni e prevedere multe salate per i datori di lavoro e per i reclutatori
  • Aumentare l’informazione sul lavoro domestico con una campagna stampa in cui si spiega alle ragazze come chiedere aiuto chiamando un numero verde
  • Identificare i lavoratori bambini e rimuoverli immediatamente da quella situazione
  • Perseguire penalmente chi commette violenza e abusi nei confronti dei lavoratori domestici”

Una vita in 23 giorni

648937-govinda-prasad-mainali.jpg

15 anni di carcere prima di riuscire a dimostrare la propria innocenza: è questa la storia di Govinda Prasad Mainali raccontata da Riccardo Noury.

“Dopo aver trascorso 15 anni in carcere, Govinda Prasad Mainali è un uomo definitivamente libero.

Accusato dell’omicidio di una donna, avvenuto nel marzo 1997, l’uomo – un immigrato nepalese che ora ha 46 anni – è stato assolto da ogni accusa mercoledì scorso dall’Alta corte di Tokyo. Il caso era stato riaperto quest’anno, quando nuove prove basate sull’esame del Dna avevano stabilito che non era stato Mainali a uccidere la vittima. Mercoledì il giudice Shoji Ogawa ha finalmente riconosciuto che “ci sono prove che dimostrano che una terza parte ha commesso il reato”. “Siamo molto spiacenti per averlo tenuto in carcere per così tanto tempo” – ha commentato Takayuki Aonuma, vicecapo dell’ufficio della procura di Tokyo.

Dalla sua casa di Katmandu, Mainali non ha trattenuto la felicità ma ha anche espresso enorme amarezza per aver dovuto attendere 15 anni prima di essere riconosciuto innocente. Lo ha aiutato la fede in Dio, dice, e la speranza che un giorno sarebbe riuscito a raccontare la sua vicenda. Nel suo paese natale, Mainali si trova da giugno, quando era stata disposta la riapertura del caso. Uscito dal carcere, le autorità giapponesi si erano ricordate che nel 1997 era entrato illegalmente in Giappone e lo hanno espulso.

La vicenda di Mainali ci dice che in Giappone la giustizia è lungi dall’essere infallibile. Il rischio è intrinseco al sistema giudiziario e ha un nome: daiyo kangoku, le prigioni di polizia. Le persone sospettate di aver commesso un reato possono essere trattenute fino a 23 giorni prima di essere formalmente incriminate. In questo periodo, i contatti con l’avvocato sono ridotti al minimo e le pressioni per ottenere una confessione rasentano, o a volte contemplano, la tortura. Non esistono limiti di procedura alla durata degli interrogatori, che avvengono senza la presenza di un legale e non vengono registrati integralmente. Gli archivi di Amnesty International contengono numerose testimonianze di detenuti che, durante il periodo di daiyo kangoku, sono stati presi a calci e pugni, minacciati, costretti a rimanere immobili, in piedi oppure seduti, e privati del sonno. Le “confessioni” ottenute in questo modo diventano la prova regina dell’accusa. Per smontare un impianto accusatorio del genere, quando va bene ci vogliono anni e anni: 15, come abbiamo visto nel caso di Mainali. In un paese che mantiene e applica la pena di morte, sapere che il destino di una persona può decidersi in quei 23 giorni fa venire i brividi. Un film, presentato al Festival del cinema di Roma nel 2010 ma purtroppo mai distribuito in Italia, “Box – The Hakamada case”, lo spiega alla perfezione. Da anni, Amnesty International e gli organismi sui diritti umani delle Nazioni Unite chiedono una riforma profonda del sistema del daiyo kangoku. Le principali modifiche sollecitate riguardano il pieno accesso dei detenuti alla difesa, soprattutto nel corso degli interrogatori, la registrazione integrale di questi ultimi, in audio e in video, e l’introduzione di sistemi di sorveglianza attraverso telecamere all’interno delle celle e delle stanze d’interrogatorio.”

Mai sarò messo a tacere

Da Missionline

«Ieri mi hanno minacciato dicendo che mia madre deve prepararsi a indossare l’abito nero150570_551269438222383_1857186432_n.jpg e che se non chiuderò la mia grossa bocca faranno in modo che resti spalancata solo per le preghiere. Le mie intenzioni non sono contro la mia nazione, non sono affatto un traditore, io amo il mio popolo: siete voi i veri traditori, voi che vi comportate così con la vostra gente. Giorno e notte ricevo telefonate e lettere, ma non posso stare in silenzio davanti al dolore e alla tragedia che vedo. Non ci sarà mai nella mia vita un momento in cui sarò messo a tacere, anche se questo dovesse portare alla mia morte. Signori, non potreste essere voi a chiudere la bocca e a porre fine alle ingiustizie in modo che noi non dobbiamo denunciarle? Ogni giorno affrontiamo arresti, torture ed esecuzioni di gruppo mai dichiarate ufficialmente, i prigionieri politici subiscono il peggiore trattamento, privati persino della presenza degli avvocati. Non lasciano neppure alle famiglie la possibilità di raccogliere informazioni sui loro cari detenuti. Che razza di legge è questa? Quale nazione senza legge si comporta così? Credete che far sopravvivere il vostro regime qualche giorno in più valga tutti questi omicidi ed esecuzioni? Non abbiamo più paura. Le violenze e le torture non fermeranno il nostro impegno a far uscire le notizie dall’Iran. Il vostro motto è: “Arresteremo, tortureremo, vi faremo tacere e non potrete più dare informazioni”. Ma il nostro è: “Vogliamo uscire dall’oppressione, otterremo la nostra libertà o con la fine della nostra lotta o con la fine della vostra ingiustizia”. Lunga vita all’Iran e agli iraniani e che la mia vita sia sacrificata per il mio Paese».

Così aveva scritto pochi giorni fa sul suo blog Sattar Behesti, 35 anni, uno dei blogger iraniani che diffondono le notizie sul dissenso mai spento a Teheran. Sapeva benissimo di essere nel mirino: le immagini di qualche settimana fa sulle manifestazioni nel bazar rilanciate attraverso i social network sono costate agli attivisti un nuovo giro di vita della cyber polizia degli ayatollah. Fatto anche di minacce personali, che per Sattar si sono tragicamente avverate: arrestato la scorsa settimana, ieri la sua famiglia ha ricevuto una telefonata dal carcere di Kahrizak. «Venite a ritirare il cadavere di vostro figlio». Secondo la ricostruzione dei siti dell’opposizione iraniana Sattar non è sopravvissuto alle torture. Si è avverato, dunque, quanto scriveva nel suo blog. Ma il vero problema è che si sta avverando anche il resto delle minacce rivoltegli dal regime iraniano. Quelle che non dipendono dalla violenza degli sgherri di Teheran, ma dall’indifferenza del resto del mondo. Perché purtroppo è vero: la morte di Sattar sta scivolando via nell’indifferenza. Diffusa ieri pomeriggio la notizia si è guadagnata qualche riga su qualche sito, ma non ce n’è già traccia – ad esempio – sui grandi quotidiani italiani di oggi. Ha scelto anche il giorno sbagliato per morire, Sattar, quello della sbornia da otto o dieci pagine sulle elezioni americane.

L’erba schiacciata

Pubblico un articolo interessante di Andrea de Georgio trovato sul blog sui diritti umani gestito insieme da Corriere della Sera e Amnesty. Tratta del Mali, in particolare della zona settentrionale, e racconta la preoccupante storia di Alhader Ag Almahmoud.

“Ad Alhader Ag Almahmoud, tuareg di Ansongo, poche settimane fa è stata amputata la mali_small_map.jpgmano destra in nome della sharia. Lo ha raccontato lui stesso a Bamako il 20 settembre scorso durante un’affollata conferenza stampa di Amnesty International sulle amputazioni e le violenze che negli ultimi mesi stanno sfiancando la popolazione del nord del paese. Vestito con un’ampia tunica celeste, il volto coperto dal tradizionale turbante tuareg che normalmente lo protegge dalla sabbia e dal vento del deserto, l’uomo ha descritto nei dettagli la sua terribile disavventura mostrando, con riluttanza, il moncherino. Accusato di furto di bestiame, Alhader non è potuto scampare alla sorte che i gruppi terroristi di integralisti islamici del nord riservano ai presunti ladri. Nulla importa se, prima che la punizione fosse perpetrata, gli animali “rubati” erano stati ritrovati. Nulla importa se, con il loro ritrovamento nella foresta, l’accusa fosse decaduta.

“La sentenza era già stata emessa. Con un coltello da carne di quelli che si comprano al mercato il capo del Mujao (Movimento per la jhiad nell’Africa occidentale, ndr) mi ha tagliato la mano destra, dopo avermi avvolto il braccio in un sacchetto di plastica, per il sangue. Ci ha messo circa dieci minuti. Non ho urlato e, sebbene non mi abbiano fatto nessun tipo di anestesia, non sono svenuto. La cosa che più mi ha ferito è che prima di calare la lama sulla mia mano abbiano gridato: Allah akbar!”.

Il Mali e l’intero Sahel, nel quasi totale disinteresse dei media italiani, stanno attraversando la peggiore crisi della propria storia. Da mesi il paese è spezzato in due non più solo dall’enorme fiume Niger che ne divide da sempre la geografia. Nel gennaio scorso combattenti tuareg di ritorno dalla Libia post-gheddafi sconfitti e pesantemente armati hanno deciso di riprendere la lotta per l’indipendenza dell’Azawad (“terra del pascolo” in lingua tamashek, ossia l’ampia regione nord del Mali). Per anni abbandonati a se stessi da uno stato centrale onnivoro di fondi internazionali e per niente interessato alle dune settentrionali – e memori delle passate ribellioni finite male – i tuareg in un primo momento si sono alleati con la galassia di sigle jhiadiste e qaediste della zona (Mujao e Aqmi, Al Qaeda nel Maghreb islamico) trasformando le sabbie del Sahara nel santuario del terrorismo internazionale. L’Mnla (gruppo armato di tuareg per l’indipendenza dell’Azawad) insieme ai “barbuti” venuti da paesi limitrofi nel marzo scorso hanno conquistato le tre città-simbolo del nord, Timbouktou, Gao e Kidal, causando una vera e propria crisi politica nel paese. Amadou Toumani Touré, presidente democraticamente eletto ed emblema della stabilità nazionale è stato investito da durissime critiche per la mala gestione della questione settentrionale. Cavalcando l’onda del malcontento, il capitano Amadou Haya Sanogo nella notte fra il 21 e il 22 marzo 2012 ha preso il potere nel più classico dei colpi di stato militari africani. In poco tempo, nonostante la condanna unanime dell’atto di forza da parte della comunità internazionale, la sua giunta ha epurato le autorità e si è insediata nei posti di comando. Al nord la situazione invece che migliorare è degenerata fino alla dichiarazione da parte del Mujao e di Aqmi, sbarazzatisi nel frattempo degli scomodi e laici alleati tuareg, della sharia. Come racconta Amnesty International nel suo rapporto e Human Rights Watch : alle violenze arbitrarie contro militari e civili commesse dalla giunta al potere si sono sommate, negli ultimi mesi, quelle del nord. La lista che recita Saloum D. Traorè, direttore esecutivo di Amnesty Mali, è lunga: “Distruzioni di luoghi di culto cristiani e sufi, fra cui siti protetti dall’Unesco, divieto di ogni forma di musica, imposizione del velo integrale a tutte le donne, chiusura di scuole miste, ospedali e altri servizi sociali, arresti e omicidi sommari, bambini soldato, stupri di massa, lapidazioni. Sono almeno sette i casi accertati di amputazioni di mani e piedi, senza processo né testimoni, come invece prevedrebbe la legge coranica.”

Il Dottor Traorè è vestito con un grand bubu marrone, abito tradizionale maschile dell’Africa occidentale. Siede nel suo piccolo ufficio in una palazzina di Kalaban Kourà, quartiere periferico di Bamako che si affaccia sulla strada dell’aeroporto. Sul soffitto le pale di un vecchio e polveroso ventilatore cigolano svogliate, senza spostare né l’aria né le alte pile di scartoffie che affollano la sua scrivania. Il racconto continua. “Più di 350 mila persone dall’inizio della crisi sono scappate dai territori del nord cercando rifugio nella capitale o in paesi vicini come Niger, Burkina Faso, Mauritania e Senegal. La gente scappa anche dalla grave crisi alimentare che quest’anno sta decimando il Sahel.”

L’opinione pubblica della capitale, pur essendo un paese al 95% musulmano, condanna fermamente l’interpretazione anacronistica e radicale dei gruppi salafiti, rigettando la sharia e aspettando che l’esercito nazionale e la Cedeao (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) intervengano militarmente per liberare il nord e ristabilire l’integrità nazionale. Un intervento che, però, nasconde anche grandi interessi geopolitici e petroliferi di potenze mondiali quali Francia, Usa, Qatar e Algeria. Nell’attesa è la popolazione civile, come sempre, a soffrire. Come dice un proverbio africano: “quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata” .”

Un po’ qua, un po’ là

Dato che sono stato sul sito di Asianews vi segnalo qualche articolo.

Il primo è sulle proteste in Egitto sul lavoro dell’assemblea costituente che pare abbia inserito nell’articolo sulla parità dei diritti tra uomo e donna una postilla “scomoda”: “le donne hanno uguali diritti rispetto agli uomini, in accordo con i precetti della tradizione islamica”. Altri aspetti sono approfonditi nell’articolo.

Il secondo è sul Kashmir, dove più di cinquanta sarpanch (capo-villaggio) hanno annunciato le loro dimissioni, dopo le minacce di morte ricevute da gruppi fondamentalisti islamici.

Il terzo e ultimo, per cambiare argomento, è sulle parole del Dalai Lama in un recente discorso: “Anche se il mondo immaginato da Marx ha alcuni punti che possono essere condivisibili, il modo in cui i regimi controllano la vita e il pensiero degli esseri umani è inaccettabile”.