Il suo bene

Mou ha da poco festeggiato gli 11 anni. La scorsa settimana ho dovuto portarlo due volte d’urgenza in clinica veterinaria perché faceva fatica a tenere aperti gli occhi, era debole e dolorante. Potrebbe avere un’ernia che gli causa dolore alla schiena. Si tratta di un’ipotesi. Al momento l’unica terapia è riposo assoluto per venti giorni. Mercoledì sera, appena tornato a casa, ho ordinato un recinto: consegna per l’indomani. Giovedì mattina Mou stava già meglio.

La foto qui sopra è di giovedì a pranzo: il recinto non era ancora arrivato e quindi avevo optato per una soluzione temporanea. Le librerie di Mariasole  avrebbero dovuto avere il compito di tenerlo al riparo da fughe per la casa (Mou è un cagnolino piuttosto dinamico), ma non gli impedivano di fare cucù suscitando le risate di Mariasole (e non facendo bene alla sua schiena). Poi finalmente il recinto, a cui si è abituato piuttosto in fretta.

Sabato mattina siamo dovuti andare via e l’abbiamo lasciato nel recinto in bagno (è la stanza in cui si rintana sempre quando ha paura di qualcosa o di qualche rumore, il suo posto preferito) con uno stuoino che faceva da barriera in modo che non fosse disturbato da strane ombre o giochi di luce che lo spaventassero. Siamo rientrati dopo meno di un’ora. L’abbiamo trovato sempre dentro il recinto, ma in salotto e col recinto in posizione verticale, come un criceto dentro la sua ruota.

Della serie: “Se sto male, ok, chiudetemi lì dentro. Ma se sto bene, non pensateci proprio a togliermi la libertà!”. Faglielo capire che è per il suo bene…

Gemma n° 1834

Un video dei Jamiroquai di fine anni ‘90 è stato al centro della gemma di S. (classe prima). “Virtual Insanity parla di una band che vive in una società dove gli umani vivono sotto terra e non hanno rapporti con le altre persone. Ciò impedisce loro di migliorare l’esistenza umana, propria e altrui, attraverso piccoli gesti che sottolineano i diritti del prossimo e i doveri propri”.

A commento della gemma questa volta non metto qualcosa di mio, ma un approfondimento che ho trovato su Louder.
“La vittoria di Jay Kai è totale. Virtual Insanity rappresenta uno dei rari casi in cui un artista raggiunge il successo senza sacrificare parte della sua indole all’altare delle radio, ma confezionando un brano talmente forte da abbattere qualsiasi supposta barriera. Teoricamente il singolo non presenta le caratteristiche per competere con il pop delle Spice Girls o con il rap accattivante dei Fugees. A livello sonoro non gioca nel campionato rock di Blur e Oasis, e non punta nemmeno sull’attitudine rivoluzionaria di band come Prodigy e Underworld. Virtual Insanity è un pezzo funk inaugurato dal pianoforte che dipinge una progressione armonica simile a quella di classici soul, jazz e disco, presto affiancato da una batteria dallo swing spinto. Il basso entra in scena solo dopo cinquanta interminabili secondi, insieme all’orchestra che arricchisce il ritornello. Da qui in poi ogni strumento tocca le note che vuole, lasciando grande spazio a un’improvvisazione che obiettivamente è uno schiaffo alla semplicità. È facile farsi trascinare dalla sognante melodia intonata da Jay, ma se mai doveste scegliere questo pezzo al karaoke vi accorgereste di quanto sia arduo stare dietro a quella linea vocale che disegna evoluzioni tutt’altro che banali.
Ma c’è di più: oltre a melodia e arrangiamento, anche le parole di Virtual Insanity hanno ben poco a che fare con i tipici testi da top 10. “Lasciate che vi racconti qualcosa del mondo in cui viviamo oggi”, esordisce Jason prima di snocciolare una serie di disgrazie a sfondo ecologico. “È un miracolo che l’uomo riesca ancora a mangiare” è un probabile riferimento al morbo della mucca pazza, visto che proprio in quel periodo si scopre che gli esseri umani possono contrarre la malattia. Ma forse anche all’allevamento intensivo: “Le cose grandi che dovrebbero essere piccole” sembra un ammiccamento agli ormoni della crescita somministrati agli animali. La frasi “Adesso ogni madre può scegliere il colore del proprio figlio” e “È assurdo sintetizzare un altro ceppo” si riferiscono invece alla sconvolgente prospettiva della manipolazione genetica, argomento che di lì a qualche mese s’impadronirà delle prime pagine dei giornali grazie alla clonazione della pecora Dolly. Jay Kai è convinto che il nostro egoismo renderà impossibile un’inversione di rotta (“And nothing’s gonna change the way we live / ‘Cause we can always take but never give”). Altro che realtà virtuale; il nostro attaccamento alla tecnologia ha generato quella che lui definisce una follia virtuale (“And now it’s virtual insanity / Forget your virtual reality”).[…] Quando Jason scrive Virtual Insanity, internet è ancora in fasce. I social network sono un miraggio, così come gli smartphone. Eppure, a giudicare dalla dilagante assuefazione a dispositivi sempre più potenti nati per connettere e finiti per diventare spesso un’inquietante causa di solitudine, sembra proprio che la sconfortante profezia di Jay si sia avverata”.

9. Non tradire il patto fiscale

  1. Rispetta la diversità degli altri
  2. Rispetta il Dio degli altri
  3. Tutela sempre la dignità di vita e di morte
  4. Proteggi i bambini e gli anziani
  5. Non sprecare le risorse
  6. Non maltrattare gli animali
  7. Non abusare del tuo corpo
  8. Non deturpare la bellezza
  9. Non tradire il patto fiscale
  10. Non perderti nel mondo virtuale

Su «La Lettura» #285 (maggio 2017) dieci studiosi hanno proposto i sopraelencati precetti etici in sintonia con i nostri tempi. Il nono è esplicato da Maurizio Ferrera, professore di Scienza Politica presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano. Lo si può trovare a questo link.

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“Quando il pastore americano Jonathan Mayhevv, in un sermone del 1750, pronunciò la celebre frase No Taxation without Representation, non immaginava d’aver appena definito il fondamento del patto fiscale democratico: lo Stato può tassare solo se espressamente autorizzato dai cittadini. Nato per limitare il potere pubblico, il principio dell’autorizzazione democratica ha in realtà consentito nel tempo un incessante aumento del prelievo. Dagli anni Cinquanta le entrate dello Stato italiano sono più che raddoppiate in percentuale sul Pil (oggi al 48%). I sondaggi segnalano che quote crescenti di elettori, non solo in Italia, ritengono un simile carico eccessivo e vessatorio.
Questa «alienazione» fiscale ha innanzitutto motivazioni utilitariste: pensiamo di pagare troppo per i benefici che riceviamo. Un calcolo preciso è impossibile, ma è vero che molti servizi pubblici sono di qualità scadente e potrebbero essere trasferiti al mercato. La psicologia cognitiva insegna tuttavia che tendiamo inevitabilmente a sovrastimare le perdite e a sottostimare i guadagni, soprattutto se potenziali (ad esempio assistenza gratuita in caso di malattia). Siamo inoltre continuamente tentati dal cosiddetto free riding: la corsa gratis, cioè ottenere qualcosa senza pagarla. La sensazione di essere tartassati è in parte frutto di simili disposizioni. Lo Stato non può rinunciare al «bastone» per farci pagare le tasse. Deve usare forme di controllo capaci di contrastare l’evasione, cercando però di non diventare oppressivo.
Il patto fiscale è oggi in crisi anche per ragioni di natura culturale: si sono affievoliti i sentimenti di appartenenza collettiva sui quali hanno storicamente poggiato le «etiche dei doveri». Uso il plurale perché nella cultura europea ci sono etiche diverse. Nei Paesi nordici la parola tassa vuol dire anche tesoro condiviso. Nei Paesi latini il termine imposta (impôt, impuesta) evoca invece la sottrazione forzosa di ciò che è nostro. È proprio in Sud Europa che il generale indebolimento delle appartenenze, combinandosi con tradizioni conflittuali, pone oggi al patto fiscale una sfida di particolare intensità.
La tassazione (livelli, modalità, equità) è destinata a rimanere una questione politica centrale. Per contenere il rischio di alienazione (e protesta) fiscale, il principio di autorizzazione democratica da solo non basta più. Occorre razionalizzare la spesa pubblica, modernizzare l’esazione rendendola più equa e, soprattutto, recuperare soglie minime di etica della cittadinanza, ricordando che non ci possono essere diritti senza doveri.”