Rischio narco-Stato in Europa

Il porto di Anversa (fonte)

Oggi condivido una notizia che arriva dal Belgio e che parla di criminalità. Un giudice istruttore di Anversa, in una lettera aperta pubblicata anonimamente sul sito del tribunale, ha denunciato l’infiltrazione crescente della criminalità organizzata e la corruzione sistemica legata al traffico di droga nel Paese. Prendo la notizia da L’Opinione delle libertà.

“Per fare un narcotraffico ci vuole un narco-Stato. Che è quello che rischia diventare il Belgio, secondo una lettera aperta, pubblicata il 27 ottobre sul sito dei cours et tribunaux, di una dei 17 giudici istruttori di Anversa. Che ha scelto l’anonimato per lanciare un avvertimento che non è passato inosservato al ministero federale della giustizia.
“Siamo di fronte a una minaccia organizzata che sta minando le nostre istituzioni”, ha scritto la donna. Nella sua lettera aperta, il magistrato fa sapere di aver condotto diverse indagini negli ultimi anni, che hanno portato all’arresto di dipendenti del porto di Anversa, funzionari doganali, agenti di polizia, funzionari amministrativi di diverse città e comuni, agenti penitenziari e funzionari assegnati al tribunale di Anversa. Secondo il giudice, tutti questi individui avevano legami con organizzazioni criminali attive nel traffico di droga. La donna sostiene che “vaste strutture mafiose hanno messo radici”, sono “diventate una forza parallela che sfida non solo la polizia, ma anche il sistema giudiziario”. Da qui la domanda: “Stiamo diventando un narco-Stato?”. Secondo lei e i suoi colleghi, “questa evoluzione è iniziata”.
Un’evoluzione che la funzionaria dimostra con i criteri e lo scrupolo propri dell’inquirente. Cosa definisce un narco-Stato? Economia illegale, corruzione e violenza. Il Belgio, secondo la lettera, soddisfa tutte e tre queste caratteristiche. L’inchiesta denominata Sky Ecc, ricorda il magistrato, ha rivelato l’esistenza di una “economia parallela multimiliardaria” nel porto di Anversa. Il “denaro nero si sta infiltrando nel settore immobiliare, facendo salire i prezzi per i cittadini comuni”, sottolinea. Si tratta di circuiti che rimangono ancora “intoccabili”. E così anche la corruzione non può che essere “diffusa”. Le organizzazioni criminali, infatti, “corrompono o minacciano di corrompere i dipendenti portuali”. Spostare un container, “un compito che richiede 10 minuti, fa guadagnare al lavoratore corrotto 100mila euro”, afferma la magistrata. Anche per contrabbandare una semplice borsa sportiva, si osserva, i narcotrafficanti sarebbero disposti a pagare decine di migliaia di euro. Di fronte a tale realtà, il terzo “pilastro” della violenza appare quasi una conseguenza naturale.
“Queste organizzazioni criminali ricorrono alla violenza a comando”, afferma il giudice istruttore, citando “omicidi, torture, rapimenti, minacce o attacchi, a volte contro civili innocenti, utilizzati per mantenere il potere ed eliminare i rivali”. Anche la magistratura, secondo la denuncia, “sta subendo minacce e intimidazioni”. L’inquirente dice di aver dovuto trascorrere diversi mesi in una casa di sicurezza a causa di minacce contro di lei e la sua famiglia. Diversi altri giudici inquirenti sono sotto protezione giudiziaria. Ciò nonostante, “nessun governo ci contatta, nessuno ci offre attivamente supporto, non c’è alcun risarcimento”.
Più di una volta, continua, “ci viene chiesto: ‘Perché lo fai?’ o, come mi ha chiesto un politico, sei un nobile cavaliere dello Stato di diritto o Don Chisciotte? Perché? Beh, condividiamo un impegno, una convinzione nell’importanza delle conquiste del nostro Stato di diritto. Ci rifiutiamo di arrenderci”. Se “il sistema giudiziario inizia a funzionare male, si tratta di un pericoloso attacco alla nostra democrazia”, osserva, non fosse altro perché “sta già diventando difficile trovare giudici disposti a pronunciarsi su casi del genere”.
La lettera non si limita alla denuncia, ma dà spazio ad alcune proposte per combattere il traffico di droga. Il magistrato propone un emendamento legislativo che consenta ai giudici inquirenti di lavorare in forma anonima, e chiede inoltre la creazione di un punto di contatto all’interno dei ministeri dell’interno e della giustizia, un’assicurazione per i danni subiti dai magistrati e dalle loro famiglie e l’occultamento degli indirizzi dei magistrati in banche dati come il registro nazionale. Il giudice istruttore ritiene inoltre che sia necessario istituire un sistema per impedire la comunicazione tra i membri delle reti criminali nelle carceri belghe.
“Le nostre indagini − rileva − sono compromesse dall’invio di copie dei nostri fascicoli a Dubai e in Turchia, e dalle carceri continuano a essere orchestrate massicce importazioni di cocaina”. Lo Stato di diritto, osserva, “non è un concetto astratto”, ma “si basa su persone come giudici, agenti di polizia e guardie carcerarie, che svolgono il loro lavoro con convinzione, ma che meritano anche un governo che li sostenga”. Non si tratta, dunque, di stabilire “se lo Stato di diritto sia minacciato”, perché “lo è già”, ma di capire “come si difenderà”.
La politica federale ha preso molto sul serio la denuncia. Il ministro della giustizia Annelies Verlinden considera le minacce contro i giudici e il personale penitenziario “gravi e preoccupanti”, perché si tratta di persone che “sono ogni giorno in prima linea per il nostro Stato di diritto”, riporta il sito 7sur7. “È inaccettabile che siano il bersaglio di reti criminali, anche all’interno del carcere”. La lettera anonima è servita ad annunciare alcune misure: “Stiamo rafforzando la sicurezza nei tribunali, raddoppiando il numero di varchi di sicurezza all’ingresso e garantendo maggiore sorveglianza da parte della polizia. Stiamo lavorando per rendere anonimi i dati personali nei documenti giudiziari in modo che magistrati e personale siano meno esposti a intimidazioni”. Verranno poi installati dei disturbatori di frequenza (jammer) per bloccare le comunicazioni Gsm nelle carceri. Il ministero promette anche investimenti per carceri “più sicure e meglio protette” per i criminali più pericolosi, “ai quali potrebbe essere imposto un regime più severo”.”

Srebrenica 30 anni dopo

Memoriale di Srebrenica (fonte)

1995: era personalmente un’estate felice. La mia vita aveva avuto due svolte importanti. Avevo deciso di lasciare la facoltà di scienze geologiche che frequentavo a Trieste e di iscrivermi all’Istituto Superiore di Scienze Religiose a Udine e a Scienze dell’Educazione nel capoluogo giuliano. A giugno poi era iniziata la relazione con Sara e certo, in quel momento, a 21 anni, non potevo immaginare che poi lei sarebbe diventata mia moglie e madre dei nostri figli.
Ma di quell’estate ricordo ancora molto bene anche un evento tragico, legato a un nome che non mi ha più lasciato: Srebrenica. Lascio la parola a un estratto di dialogo tra Mario Calabresi e Paolo Rumiz risalente allo scorso luglio. Qui la fonte.

“«Tutti si ricordano dov’erano l’undici settembre 2001, quando sono cadute le Torri gemelle, ma pochissimi hanno presente dove erano quando è avvenuta la strage di Srebrenica che ha fatto il triplo dei morti di New York. Io ero a casa mia, ero appena stato al funerale di Alex Langer, il pacifista che per la Bosnia si era speso fuori misura fino al suicidio. Qualcuno mi telefonò e mi disse che era accaduto qualcosa di terribile da quelle parti. Ma non era ancora del tutto chiaro. Io ero stato lì alcuni mesi prima, nell’autunno del 94, e chiesi: “Ma non erano protetti?”. “No, no, li hanno chiusi dentro e li hanno fatti fuori come in una tonnara”».
Il racconto è di Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, una voce unica nel raccontare e ricordare cosa è successo nei Balcani dopo il crollo del Muro di Berlino.
L’11 luglio 1995, esattamente trent’anni fa, a Srebrenica, una cittadina situata nella Bosnia orientale – era un’enclave sotto il controllo dell’esercito bosniaco ma attorniata da città serbe -, vennero sterminati ottomila bosniaci musulmani con l’intento di una pulizia etnica che è stata poi riconosciuta come genocidio.
Due anni prima, durante la guerra che era nata con la dissoluzione della Jugoslavia, quest’area era stata posta sotto la tutela della missione Unprofor delle Nazioni Unite. Seicento caschi blu olandesi erano stati incaricati di proteggerla.
Tuttavia, nel luglio del 1995 le forze militari serbe invasero la città, uccidendo tutti gli uomini ed espellendo sistematicamente donne, bambini e anziani. I caschi blu delle Nazioni Unite assistettero al massacro senza reagire.
Una strage rimossa e dimenticata, il più grande massacro avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, a cui abbiamo voluto dedicare un podcast in quattro puntate che si chiama “Srebrenica – Il genocidio dimenticato” in cui l’attrice Roberta Biagiarelli – che da oltre 20 anni porta in scena uno spettacolo teatrale dedicato a quel massacro – e Paolo Rumiz, che ha coperto quel conflitto da inviato, ricostruiscono la storia della guerra in Bosnia e del suo tragico epilogo.
«Soltanto il giorno dopo – continua a raccontare Rumiz – mi resi conto della gravità di quanto era accaduto. La cosa atroce è che si erano affidati a noi. Cioè non era una battaglia, non era un bombardamento a tappeto. No, erano entrati in una zona considerata sicura e protetta. Ricordo che la rabbia mi esplose e piansi e in preda alle lacrime e alle convulsioni, ricordo che chiamai il vescovo di Trieste per dirgli quello che era accaduto. E durò un’ora questa telefonata, tanta rabbia si era accumulata in me. Mi resi anche conto che i musulmani erano vittime di serie B. E questo me lo conferma l’attualità, perché anche oggi 100 morti a Gaza fanno notizia come cinque morti a Kiev».
Conosco Paolo da molti anni, è un grande giornalista perché è un grande osservatore e, prima di tutto, un ascoltatore. Ha bisogno di studiare e di capire e con la storia dei Balcani e dell’Europa ha un rapporto fisico, costruito attraverso un numero infinito di incontri, di viaggi e di cammini.
«Sono nato nello stesso giorno in cui il confine è stato tracciato attorno a Trieste, il 20 dicembre 1947 e questo segna il mio pedigree. E da questo confine ho registrato non soltanto il passaggio di diversi popoli, uno dopo l’altro, a conferma di questa destabilizzazione continua che dobbiamo fronteggiare soprattutto a Oriente. […]».
Nel podcast, Rumiz analizza le radici del male, la storia di come è cominciata la guerra nella ex Jugoslavia e poi racconta cosa vide lui: «All’inizio di aprile ‘92 ho attraversato il confine della Bosnia, venendo dalla Serbia, sul fiume Drina. Ero lì con la mia interprete che mi disse: “guarda a controllarci i documenti è il comandante Arkan”, uno che poi si è macchiato di orrendi delitti e che probabilmente in quegli stessi giorni stava ammazzando decine se non centinaia di musulmani».
Ma la cosa più impressionante, nei ricordi di Rumiz, è che la gente non si rendeva conto di quanto stava per accadere. «Arrivai a Sarajevo e mi dicevano: “No, sono ragazzi, vedrai. I serbi sono fatti così. Vedrai, sparano in aria, fanno festa, sono fuochi artificiali”… Ma bastava viaggiare nei dintorni per capire che in tutti i villaggi a maggioranza serba si scavavano trincee in vista di una guerra. Ricordo una famiglia che in quei giorni stava partendo per l’Italia per visitare dei parenti. Quando la figlia diciassettenne chiese di portarsi dietro l’album delle fotografie e le cose più care le dissero di no, convinti di tornare dopo pochi giorni. Quelle fotografie la ragazza, che oggi è una donna, non le ha mai più riviste. C’era un vecchio partigiano ottantenne che aveva annusato che la guerra stava venendo, aveva riempito il frigorifero di cibo. Poi vennero le figlie che lo presero in giro e lui si vergognò al punto che regalò tutto ai vicini. E invece aveva ragione lui: la guerra sarebbe arrivata di lì a poco».
Ma cos’era Sarajevo allora, cosa rappresentava? «Era un luogo dove le religioni convivevano abbastanza in pace, pur con le solite incomprensioni. Ma non era una città musulmana. Ricordo ancora lo stupore dei soldati italiani quando si trovarono davanti ragazze musulmane con le gonne corte, che mangiavano tranquillamente prosciutto e non andavano in moschea. E quello stupore mi dice quanto poco ci siamo resi conto che avevamo a disposizione un Islam europeo che poteva fare da magnifico cuscinetto contro l’islamismo che premeva da altre parti, soprattutto da Oriente. Mi chiedo spesso se ci rendiamo conto di cosa abbiamo perso, cosa ci siamo lasciati scappare dalle mani. Sarajevo era il luogo dove la coesistenza tra religioni era tale che in molte case di cristiani, si teneva una pentola che non aveva mai toccato la carne di maiale per poter essere usata nel caso fossero venuti a trovarti degli ebrei o dei musulmani. Credo che niente più di questa pignatta dica della tolleranza di questo mondo».
Per Paolo la Bosnia è molte cose e molti ricordi, parlarne gli provoca dolore e cerca di parlarne il meno possibile: «È doloroso perché lì hanno abitato molte anime care perdute. In trent’anni ho cercato di dimenticare, di farmi perdonare il fatto di non essere stato all’altezza della sua complessità. Le ho dedicato libri, ma in fondo la Bosnia è presente in tutti i miei libri, anche in quelli in cui non parlo di lei».
La Bosnia sono un serie di immagini rimaste nei suoi ricordi, a ricordarci cosa abbiamo perduto: «Un sopravvissuto al lager che mi regala i calzettoni bosgnacchi di lana grezza, uno stagnino che batte con tempo dispari in 7/8, un pentolino che sta costruendo nel cuore di Sarajevo. Un dolce che una donna mi offrì a casa sua, pieno di mandorle e di miele, quel piccolo dolce sembrava essere il cuore della resistenza contro la barbarie che circondava la città. Un ragazzo che si avvicina a due amanti che si baciano e dice loro: “Scusate, fatevi più in là perché devo rubare in questo chiosco!”.  La Bosnia sono i teatri che hanno continuato a funzionare. Ecco, per me Sarajevo, la Bosnia in generale, è stato un luogo la cui meravigliosa urbanità era Europa a tutti gli effetti. Sarajevo ha chiamato l’Europa e l’Europa non ha risposto. Era per me il centro del mondo. Era Turchia, era Austria, era Spagna sefardita, era mondo slavo, era Mitteleuropa, era Mediterraneo. Io ero innamorato della Bosnia, della sua fragile femminilità».”

Maggiore età digitale: utopia sufficiente?

Immagine creata con Gemini®

Seguo alcuni autori su Substack, anche se il tempo per leggere tutto è poco. Su Il mattinale europeo è stata pubblicata “un’analisi firmata da Camille Lamotte dedicata alla maggiore età digitale, dopo che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato di voler agire contro la dipendenza provocata sui giovani da TikTok e altri social network”.“Per il ritorno a scuola, l’Unione europea ha suonato la carica contro i social network. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è detta favorevole al loro divieto per i bambini lo scorso 24 settembre, durante una conferenza a New York organizzata dall’Australia, primo paese al mondo a introdurre una misura del genere. Obiettivo dell’Ue: “Costruire un’Europa più sicura per i nostri bambini”, coinvolgendo genitori e attori del digitale in un dibattito preliminare. Il presidente francese, Emmanuel Macron, ha rincarato la dose, accusando i giganti del web di alimentare odio, disinformazione e radicalizzazione politica. Ma il timido progetto di maggiore età digitale all’interno dell’Ue reggerà di fronte alla battaglia ideologica a colpi di miliardi di dollari e acquisizioni da parte di Stati Uniti, Cina o Israele per il controllo assoluto degli algoritmi?
“Cyberbullismo, istigazione all’autolesionismo, predatori online e algoritmi che creano dipendenza…”. Ursula von der Leyen ha ricordato i gravi rischi corsi dai minori online. L’Organizzazione Mondiale della Sanità segnalava un netto aumento della dipendenza (11 per cento degli adolescenti nel 2022 contro il 7 per cento quattro anni prima), oltre all’esposizione a contenuti inappropriati (pornografia, cyberbullismo, disinformazione). “Molti Stati membri ritengono che, per quanto riguarda l’accesso ai social network, sia giunto il momento di fissare una maggiore età digitale. E devo dirvi che, come madre di sette figli e nonna di cinque nipoti, sono d’accordo”.
La presidente della Commissione dovrà cercare di agganciare una serie di vagoni europei sparsi. Diversi Stati membri stanno già lavorando separatamente a progetti di regolamentazione dei social per i più giovani. Come in Francia, dove Macron si è impegnato all’inizio di giugno a vietare i social ai minori di 15 anni, se non si arriverà “entro pochi mesi” a una soluzione a livello europeo. Un rapporto parlamentare francese su TikTok aveva raccomandato il divieto, accompagnato da un “coprifuoco digitale” per i 15-18enni.
Il presidente francese ha ipotizzato un sistema di riconoscimento facciale o controlli della carta d’identità per determinare l’età degli utenti. Anche in Germania, alcuni deputati chiedono da oltre un anno una posizione più dura verso TikTok, incluso un possibile divieto generale. La Grecia, sostenuta da Francia e Spagna, ha infine proposto a giugno di fissare una maggiore età digitale per tutta l’Ue, al di sotto della quale i bambini non potrebbero accedere ai social senza il consenso dei genitori. La Danimarca, che presiede fino a fine anno il Consiglio dell’Ue, sostiene questa iniziativa.
Nel loro mirino ci sono social come X, Facebook o Instagram… ma soprattutto TikTok, con i suoi 200 milioni di utenti europei mensili (ovvero 1 cittadino su 3), principalmente giovani. Lanciata nel 2017, questa app offre contenuti video personalizzati grazie a un algoritmo potente che classifica i video in base agli interessi degli utenti. Già nel 2022, Macron aveva lanciato l’allarme durante un incontro con professionisti della salute mentale dei giovani: “Il primo perturbatore (psicologico), la piattaforma più efficace tra bambini e adolescenti, è TikTok. Dietro c’è una vera dipendenza”.
Nel podcast GDIY, a giugno 2024, Macron si era espresso contro il divieto di TikTok – una misura che era stata sostenuta dalla sua lista durante le elezioni europee – ma a favore di “una ricerca accademica libera che possa davvero dire cosa si nasconde sotto il cofano” degli algoritmi delle piattaforme. “Non è vero che in un solo paese si riuscirà a bandire questi social che, nonostante tutto, permettono di informarsi e scambiare contenuti”, aveva detto il capo di Stato francese, lui stesso affezionato alla comunicazione su TikTok. “Invece, bisognerebbe riumanizzarli e domarli, metterli nelle nostre mani”. Ovvero rafforzare la gestione dei dati personali e, soprattutto, revisionare lo status di host che permette ai social di sfuggire alla giustizia.
Nello stesso anno, la questione dei social assumeva già una piega più politica. La piattaforma, allora baluardo essenziale per la campagna elettorale dei giovani alle europee, è stata usata dai candidati di estrema destra come Jordan Bardella, l’account più seguito del Parlamento europeo. Ursula von der Leyen, in lizza come principale candidata del Partito Popolare Europeo di centro-destra, aveva rifiutato di usare TikTok, per coerenza. Dal 2023, la Commissione europea, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue hanno vietato la piattaforma sui dispositivi dei funzionari europei usati a fini professionali. Commentando la decisione del presidente Biden di firmare un progetto di legge che avrebbe potuto vietare TikTok, von der Leyen aveva usato queste parole: “Non è escluso. Conosciamo perfettamente il pericolo”.
Minacce di ingerenze cinesi, elezioni in Romania nel 2024 e inondazione di contenuti digitali di estrema destra… Bruxelles ha fatto pressione sulla piattaforma. La Commissione ha aperto un’indagine ufficiale per timore di danni alla salute mentale dei minori – la seconda indagine su TikTok nell’ambito del Digital Services Act (DSA). Il gruppo, già sotto altre procedure, rischia una multa e un controllo rafforzato fino all’attuazione di misure correttive.
Certo, la protezione dei minori online – regolamentata dal DSA entrato in vigore nel 2023 e applicabile dal febbraio 2024 – obbliga già i fornitori a garantire riservatezza, sicurezza e protezione per i bambini. Il DSA vieta la pubblicità mirata basata sul profiling dei dati personali dei minori. Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR) rende lecito il trattamento dei dati personali di un minore a partire dai 16 anni, lasciando agli Stati membri la libertà di fissare un’età compresa tra 13 e 16 anni. Ma questa forbice di maggiore età digitale2 piuttosto ampia – 13 anni in Belgio, nei Paesi nordici, nel Regno Unito, in Irlanda e Spagna, 15 in Francia, 16 in Germania e Paesi Bassi – crea un mosaico normativo invece che un mercato digitale unificato per la tutela dell’infanzia.
La “minaccia” francese di un’azione unilaterale a giugno mira quindi a introdurre un nuovo limite d’età, ma anche ad accelerare l’attuazione di soluzioni concrete per la verifica dell’età. Parallelamente, il governo australiano – attualmente il più severo – ha però ammesso che “nessun paese al mondo ha ancora risolto questo problema”. Eppure, secondo uno studio inedito sul ruolo dei social tra 2000 bambini, pubblicato il 25 settembre, l’Arcom (Autorità francese per la regolamentazione della comunicazione audiovisiva) evidenzia che il 22 per cento si iscrive prima dei 10 anni e il 62 per cento mente sull’età, con una prima iscrizione media a 12 anni. La famosa maggioranza digitale, pietra angolare ideale per iniziare a regolamentare i contenuti in Europa, sarebbe dunque un miraggio tecnico prima ancora di trovare un accordo?
Non solo. Vittima della sua lentezza nel cambiare rotta, il colosso europeo viene anche travolto da un’attualità sempre più galoppante. Mentre i Ventisette faticano a mettersi in ordine di marcia sulla sovranità digitale, su un altro pianeta politico, gli Usa di Trump finalizzano a marce forzate la nazionalizzazione di TikTok, avviata grazie al braccio di ferro con la Cina reso possibile da un Biden tentato da un divieto puro e semplice. Lo scorso 25 settembre, Donald Trump ha firmato il decreto che permette a TikTok di continuare a operare negli Stati Uniti, autorizzando un gruppo di investitori guidato da americani ad acquistare l’app da ByteDance, la società cinese – accordo che richiede ancora l’approvazione della Cina.
Il colpo di forza permette a Trump di accontentare un elettorato giovane molto legato alla piattaforma – il 43 per cento degli adulti americani sotto i 30 anni ottiene regolarmente notizie da TikTok, più che da qualsiasi altra app di social, secondo un rapporto del Pew Research Center – aprendo al contempo la strada a un controllo ideologicamente orientato (filone MAGA) dell’algoritmo. I nuovi proprietari di TikTok, tra cui il cofondatore di Oracle Larry Ellison e Rupert Murdoch, hanno interessi commerciali e/o politici legati a Trump. La loro influenza sulla piattaforma non sarà neutrale. Dopo Twitter, Facebook e Instagram, anche TikTok – piattaforma sociale di primo piano con 170 milioni di utenti – cade così sotto il controllo del presidente americano, che ora domina i principali social.
Sulle orme della piattaforma Douyin – versione esclusivamente cinese di TikTok, la più censurata al mondo – il potere americano conta di sfruttare il ruolo fondamentale dei social nella sua battaglia ideologica interna. Grazie a uno strumento che combina localizzazione e social, l’ICE annuncia di poter presto tracciare in tempo reale i movimenti di centinaia di milioni di persone tramite il telefono… senza mandato.
Tra strumento utile per un autoritarismo sfacciato e strumento di guerra culturale, i social rischiano di allargare il divario delle realtà parallele. La risposta europea a un futuro alla Minority Report può davvero ridursi a una maggiore età digitale?”

A proposito di Readiness 2030

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Approfitto del fatto che le pagine dei giornali sono occupate dalla questione dazi per tornare su un tema del quale si è parlato nelle scorse settimane: il riarmo dell’Europa. Ho letto un articolo interessante di Gastone Breccia, insegnante di Storia bizantina e Storia militare antica all’Università di Pavia: da anni si dedica anche alla ricerca in campo storico-militare contemporaneo, è esperto di teoria militare, di guerriglia e controguerriglia, ed è autore di studi sulla guerra di Libia e quella di Corea, oltre ad approfondimenti sui conflitti in Afghanistan, Iraq, Siria e, recentemente, Ucraina. Il suo articolo del 24 marzo su La Rivista Il Mulino penso possa fornire lo spunto per numerose riflessioni. Eccolo:

“Le ultime settimane hanno visto una rapida evoluzione della situazione internazionale caratterizzata dalla prospettiva di un parziale disimpegno degli Stati Uniti dalla difesa comune atlantica, a cui l’Unione europea ha risposto con il programma ReArm Europe – ora ribattezzato, per ragioni di convenienza, Readiness 2030 – che è diventato oggetto del dibattito politico anche nel nostro Paese. Questo contributo intende fare chiarezza, in maniera inevitabilmente schematica, su alcuni punti-chiave della questione.
1. La premessa della crisi attuale è che gli Stati Uniti non siano più un alleato affidabile dei Paesi europei. Su questo credo si possa concordare senza ulteriori approfondimenti, anche perché è il presidente Trump a ripeterlo e farlo capire con le sue scelte, prima fra tutte l’imposizione dei dazi commerciali alle merci provenienti dall’Ue, che del resto considera «un’istituzione concepita per fregare l’America». Ne consegue che l’Europa (Regno Unito compreso) si trova oggi di fronte a due opzioni: incrociare le dita e aspettare che passi la nottata, perché tra qualche anno la situazione potrebbe tornare ad essere più favorevole (ovvero più simile a quella degli ultimi ottant’anni), oppure tentare di provvedere da sola, in tempi brevi, alla propria sicurezza. È stata scelta la seconda strada ed è stato approvato un robusto finanziamento di 800 miliardi di euro in 4 anni; non c’è ancora accordo tra i vari Paesi sulle modalità – prestito della Banca europea degli investimenti o deficit spending, essenzialmente – ma si finirà per trovarlo.
2. Sgombriamo il campo da due falsità che vengono spesso ripetute, avvelenando il dibattito sul tema del riarmo europeo, o della «prontezza entro il 2030» che dir si voglia. Primo: ReArm Europe / Readiness 2030 non serve a far guerra alla Russia, né a «sconfiggerla». Nessuno pensa ai cosacchi che abbeverano i cavalli nelle fontane di piazza San Pietro o sulle rive della Senna, come si diceva una volta; nessuno teme un attacco diretto convenzionale russo al cuore d’Europa. Il pericolo esiste, ma è diverso, e il programma di riarmo è finalizzato a scoraggiare la Russia da tentare altre avventure, altre «operazioni militari speciali» in Paesi che una volta facevano parte dell’impero prima zarista e poi sovietico, mentre adesso sono parte dell’Ue. Chi ritiene anche questa possibilità non realistica, quasi certamente sbaglia, perché Putin ce lo ha ripetuto in tutti i modi: la Russia – la «sua» Russia – deve tornare a controllare lo spazio che storicamente e culturalmente le appartiene, e che va dal mar Nero al Baltico, da Odessa a Riga, come si legge nei nuovi manuali scolastici della Federazione. Che non si tratti solo di propaganda lo hanno dimostrato a sufficienza gli ultimi anni di guerra. La seconda falsità, dunque, è che la Russia desideri la pace: la Russia vuole solo una pace, la sua pace, che altri Paesi vedono come il ritorno di un dominio odiato e anacronistico.
3. La Russia, ci viene anche detto da vari commentatori, non avrebbe le capacità militari per proseguire la guerra oltre i confini dell’Ucraina: quindi sarebbe del tutto inutile spendere 800 miliardi di euro per scongiurare una minaccia inesistente. Come già ricordato, nessuno pensa a un attacco convenzionale al cuore della vecchia Europa: ma sono possibili, anzi probabili, in un prossimo futuro, azioni ostili «ibride» (hybrid warfare) per destabilizzare e poi colpire Paesi ai margini dell’Unione, dove vivono minoranze russofone, che potrebbero trasformarsi a loro volta nei focolai di un conflitto più esteso. Gli Stati nordici, dalla Scandinava alla Polonia, dalle Repubbliche del Baltico alla Germania, si stanno preparando per l’eventualità di una guerra con la Russia: a meno di non considerare i responsabili dei loro servizi di intelligence come una banda di sciagurati incompetenti, i loro timori devono essere valutati con estrema attenzione.

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4. Comprendere il significato e i pericoli della hybrid warfare è fondamentale per compiere le scelte più adeguate alla sicurezza del continente nel prossimo futuro. Con questo termine si intendono tutte quelle azioni che, comunque vengano condotte e a prescindere dalle eventuali perdite umane causate, sono concepite per mantenersi al di sotto dell’orizzonte della guerra aperta: dalla disinformazione agli attacchi informatici per mettere in crisi aspetti essenziali della vita civile (circuiti bancari, sistemi di controllo dei trasporti pubblici, database dei servizi sanitari), dagli attentati senza rivendicazione al sabotaggio di infrastrutture strategiche. Cruciale è la capacità di individuare la minaccia e reagire rapidamente: ma nel campo della hybrid warfare chi è vittima di un attacco spesso si comporta come se avesse le mani legate, perché convinto di non aver subito un danno abbastanza grave da meritare una risposta aggressiva. È un pericolosissimo gioco di equilibrio in un mondo grigio, dove è difficile attribuire la responsabilità dei colpi subiti, valutare in tempo utile la loro gravità, e quindi elaborare una strategia efficace per colpire il nemico, e scoraggiarlo da intraprendere ulteriori azioni ostili. Un paio di mesi fa il vicesegretario generale della Nato, James Appathurai, ha spiegato che la Russia non solo ha intensificato da tempo i suoi attacchi ibridi contro i Paesi occidentali, ma continuerà senza dubbio a farlo anche dopo la fine della guerra in Ucraina: «Quello di cui abbiamo bisogno adesso», ha spiegato Appathurai, «è chiarire subito tra noi quali siano le no-go areas, ovvero quali tipi di attacco innescherebbero una risposta armata convenzionale, e quindi trovare il modo di comunicarlo ai russi». In questo ambito il pericolo è chiaro e imminente: una parte non secondaria delle risorse del programma Readiness 2030 andrebbe quindi destinata alla counter-hybrid warfare, la cui efficacia dipenderà in primo luogo da un cambiamento di mentalità, perché per battere chi usa tattiche non convenzionali bisogna essere capaci di agire in maniera ancora più flessibile, innovativa e spregiudicata. Non è solo questione di finanziamenti: come sempre, in guerra, è prima di tutto questione di mentalità, oltre che del talento personale delle donne e degli uomini destinati a combatterla.
5. La «guerra ibrida» è dunque già in corso, e per combatterla sarà opportuno spendere una parte non trascurabile degli 800 miliardi del programma Readiness 2030. Ci sono però altre minacce più tradizionali e altre armi di cui tenere conto: un conflitto potrebbe iniziare in maniera «ibrida», come del resto è accaduto nel 2014 in Ucraina, e poi trasformarsi in uno scontro tra forze regolari. Ad oggi – anche questa è una verità scomoda, ma da non nascondere all’opinione pubblica – un esercito europeo non esiste, né ci sono speranze che possa vedere la luce in tempi brevi, mentre i singoli eserciti europei non hanno né gli effettivi né i mezzi per difendere i confini senza un robusto sostegno statunitense. Che fare, dunque? Per quanto possa piacere poco, la sola strada praticabile nell’immediato è quella del rafforzamento dei singoli contingenti nazionali: più personale – nell’ordine di alcune decine di migliaia solo per il nostro Paese – e più mezzi di ogni tipo, sfruttando i modelli già in produzione. È soltanto una soluzione transitoria, ma la sola praticabile al momento per dotare l’Ue, nel giro di un paio d’anni, di una forza militare sufficiente (forse) non a fare la guerra, ma a scoraggiare avventure militari ostili all’interno dei suoi confini.
6. Ma che senso può avere la «prontezza» militare europea al di fuori della Nato? L’Alleanza è stata concepita per agire contando in larga misura sulla protezione offerta dal «socio di maggioranza» statunitense; se gli Stati Uniti non saranno più disposti a sostenere questo ruolo, il Patto Atlantico va ripensato, e vanno ridistribuite spese e responsabilità tra i Paesi che lo hanno sottoscritto. Cosa non semplice né rapida: nel frattempo, però, tutte le risorse utilizzate per rafforzare gli eserciti europei serviranno anche allo scopo di ridisegnare la strategia difensiva della Nato.
7. In conclusione, che cosa dobbiamo temere? Per contrastare azioni di hybrid warfare serve prima di tutto un cambiamento di mentalità: prontezza nel valutare realisticamente il pericolo, flessibilità nel reagire in maniera efficace; serve poi un coordinamento a livello europeo di tutte le agenzie di sicurezza e informazione, che dovranno essere dotate del personale e degli strumenti tecnologici necessari ad operare nella «zona grigia» dei conflitti non dichiarati. Per scoraggiare azioni ostili convenzionali bisogna possedere invece forze armate in grado di far pagare troppo cara a un avversario qualsiasi violazione del territorio di uno stato europeo.
Come fare? Più effettivi e migliori armamenti è una risposta ovvia; ma quanti effettivi, e quali armamenti? La prima risposta, con un ampio margine di approssimazione, è alcune decine di migliaia per ognuno degli eserciti dei Paesi maggiori, compreso il nostro; la seconda è più complessa, perché esiste una distinzione tra armi difensive e offensive (troppe volte usata a sproposito negli ultimi anni) che bisogna tenere presente. Bisogna, in altre parole, pensare prima di tutto a rinforzare i sistemi missilistici per la difesa tattica di punto, i soli capaci di proteggere sia installazioni strategiche sia obiettivi civili, distribuire alle truppe un numero adeguato di Manpads e Manpats di ultima generazione («sistemi portatili di difesa aerea» e «sistemi portatili anticarro»), e persino – auspicabilmente – concepire nuovi mezzi corazzati a vocazione difensiva. Senza entrare troppo nello specifico, produrre e mettere in linea più Td (Tank Destroyers, «cacciacarri») che Mbt (Main Battle Tanks, «carri principali da battaglia»): i primi, infatti, non soltanto sono più economici e meno vulnerabili degli Mbt, ma sono stati concepiti – fin dalla loro introduzione durante la Seconda guerra mondiale – per contenere e impedire la manovra offensiva avversaria. Esistono esempi eccezionali, per concezione ed efficacia, che è possibile imitare, come il «Carro S» svedese degli anni Sessanta: la strada per la Readiness 2030 passerà anche da scelte innovative di questo tipo, in funzione di una strategia europea finalizzata alla protezione della libertà delle democrazie.”

Gemma n° 2589

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“Quest’anno come gemma ho deciso di portare il viaggio studio che ho fatto quest’estate in Irlanda. Era la prima volta che facevo un’esperienza simile, in un paese dove non ero mai stata, dove la lingua non era la mia e dove non conoscevo nessuno, perciò sono partita con Francesca, una compagna di classe che ho conosciuto l’anno scorso e alla quale tengo molto. 
La nostra esperienza è iniziata il 4 agosto quando siamo partite da Udine con altri 20 ragazzi e due accompagnatori, siamo arrivati all’aeroporto di Venezia dove, dopo aver lasciato le valigie e aver fatto i controlli, siamo partiti per Dublino. Dopo due ore di volo siamo atterrati in Irlanda e sembrava di essere tornati a ottobre, infatti quando siamo scesi dall’aereo pioveva e faceva freddo, dopo aver ripreso i bagagli abbiamo viaggiato altre cinque ore in bus per arrivare a Cahersiveen: un paese sulla costa occidentale dell’Irlanda dove avremmo vissuto per due settimane. Appena arrivati, siamo stati divisi in famiglie, io e Francesca eravamo insieme a una  ragazza spagnola ed eravamo ospitate da una coppia della zona. Le nostre giornate erano impegnative: la mattina avevamo corsi di inglese e il pomeriggio facevamo diverse attività nel territorio e sulle coste irlandesi. Abbiamo avuto la possibilità di conoscere ragazzi provenienti dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Polonia e fare amicizia con loro; l’ultimo giorno quando siamo partiti per tornare a casa eravamo tutti tristi che il viaggio fosse finito, ma allo stesso tempo contenti di aver vissuto un’esperienza così bella. Questa vacanza mi è piaciuta moltissimo e mi ha dato l’opportunità di conoscere un paese nuovo ed entrare nella cultura del suo popolo, ma anche di incontrare ragazzi da tutta Europa e migliorare l’inglese. Spero di ripetere questa esperienza anche in altri paesi” (V. classe seconda).

Nietzsche su Socrate e Gesù

Metto in parte riviste, stralci di giornale, ritagli… Poi, di tanto in tanto, quando devo fare spazio, li riprendo in mano per vedere cosa buttare e cosa tenere. Così mi imbatto in articoli che mi piace condividere sul blog. E’ il caso di questo pezzo pubblicato su La Lettura (pubblicazione settimanale del Corriere sui libri) domenica 19 luglio 2020: è un articolo di David Lloyd Dusenbury tradotto da Matteo J. Stettler, articolo che necessita di una lettura attenta e concentrata e che pertanto inserisco nella sezione “pensatoio”.

“E di nuovo a processo.
Com’è noto, Friedrich Nietzsche firmò le sue ultime lettere come «l’Anticristo» (a Cosima Wagner) e «Il Crocifisso» (al cardinale Rampolla, il segretario di Stato del Vaticano). È difficile isolare la causa dell’ultimo crollo di Nietzsche, ma la sua mente cedette definitivamente nel dicembre 1888. Già nel gennaio 1889 era caduto in uno stato catatonico dal quale non sarebbe più riemerso.
Un decennio prima che iniziasse a firmare le proprie lettere come «il Crocifisso», Nietzsche scrisse un paragrafo di Umano, troppo umano dal titolo «Assassinii giudiziari» (Justizmorde). In questo passaggio, egli nota una sorprendente somiglianza tra quelli che chiama «i più grandi assassinii giudiziari della storia del mondo», con cui intende le morti di Socrate e Gesù. «In entrambi i casi», dice, «si volle morire». E, in entrambi i casi, «ci si fece piantare dalla mano dell’ingiustizia umana la spada nel petto». Nel tardo XIX secolo, le morti di Socrate e di Gesù costituiscono per Nietzsche le pene capitali più simbolicamente cariche nella storia. Ciò rimane valido ancora oggi, agli inizi del XXI secolo.
A differenza della maggior parte dei commentatori su Socrate e Gesù, Nietzsche è incuriosito da un tratto psicologico che afferma si possa rilevare in entrambi. Egli sostiene che Socrate e Gesù abbiano entrambi drammatizzato le proprie morti. In definitiva, la coppa avvelenata di Socrate e la croce di Gesù non sono pene sentenziate dalla corte, ma epiloghi auto-inflitti.
Qualunque morale gli europei abbiano tratto da queste morti, afferma Nietzsche, questi non la trassero da due martiri, ma da due suicidi. L’immaginario europeo è così alla mercé di quelle morti inscenate secondo il copione dettato dalle pulsioni tanatologiche dei suicidi più ispirati della storia, quello del «più grande dialettico ambulante di Atene» (come Nietzsche, sogghignando tra sé e sé, chiama Socrate, in Umano, troppo umano), e quello de «l’uomo più nobile» (come egli, in maniera del tutto disarmante e senza ironia alcuna, si riferisce a Gesù nel medesimo libro). Nessuno che abbia letto le opere di Nietzsche ne rimarrà scioccato.
A prima vista, la riflessione nietzschiana sull’assassinio giudiziario si trasforma in una riflessione sul suicidio. Allo stesso tempo, Nietzsche persevera nel voler attribuire le morti di Socrate e Gesù alla «mano dell’ingiustizia umana [Ungerechtigkeit]». Le ordalie legali che sono commemorate nelle aule e nelle chiese europee, e interpretate da filosofi e teologi, sono dei suicidi segreti. Eppure, come Nietzsche sembra insistere nel sostenere, la corte di cinquecento giudici-cittadini che condannarono Socrate (quasi la metà dei quali favorevoli all’assoluzione) e il giudice romano che condannò Gesù (dopo avere tentato di rilasciarlo) non sono innocenti.
Gli antichi suicidi che la cultura europea santifica come martiri non sono semplicemente suicidi. Le morti storiche di Socrate e Gesù rimangono, per Nietzsche, degli assassinii-giudiziari. Ciò è interessante. Nietzsche è uno dei pochi filosofi moderni (Søren Kierkegaard è un altro) a riflettere sul fatto che la cultura europea è stata inaugurata, anche solo simbolicamente, da questi due processi. (Sebbene esistano anche importanti tradizioni giudaiche e islamiche riguardanti questi processi e queste morti). L’ultimo George Steiner scrisse più di vent’anni fa che «stranamente, fino ad ora non è stata fornita alcuna trattazione completa di questo topos centrale». Per quanto ne so, ciò è ancora vero.

Il riconoscimento da parte di Nietzsche dell’«ingiustizia umana» che pone fine a entrambi i processi sembra suggerire che, a suo avviso — l’avviso di un critico frenetico dell’eredità platonico-cristiana —, la cultura europea è inaugurata da una coppia di ordalie legali in cui sono condannate persone innocenti. Non può che avere avuto effetti profondi e diffusi sull’Europa che il suo dramma della verità sia iniziato non una, bensì due volte, con un testimone innocente in un tribunale — il significato greco di «martire» — che viene condannato a morte. Il rispecchiamento di questi eventi è accentuato dal fatto che Socrate, il protomartire della filosofia europea, e Gesù, il protomartire della teologia cristiana, sono figure liminali condannate per il più alto crimine politico (il tradimento) e il più alto crimine religioso (la blasfemia).
Socrate non smette mai di essere un problema per Nietzsche. In uno dei suoi libri del 1888, Crepuscolo degli idoli, egli riafferma la sua teoria iniziale. «Socrate volle morire», scrive Nietzsche mesi prima del suo crollo. «Non fu Atene, ma lui stesso a darsi la coppa del veleno». Il Socrate nietzschiano è un decadente, e la filosofia platonica è per lui una tradizione che annulla la vita. Ma Nietzsche non firma mai le sue lettere come «l’AntiPlatone» o «L’Avvelenato». Lui è «l’Anticristo» e — come lui stesso si definisce, misteriosamente, durante le ultime ore di semi-lucidità — «Il Crocifisso».
Soffermiamoci solamente sul senso che Nietzsche dà dell’eredità di Gesù nella storia europea. La prima cosa da dire è che Nietzsche è un filologo di prim’ordine. La sua psicologia è modellata dai testi greco-romani pre-cristiani (e anti-cristiani). Questo gli impedisce di vedere il cristianesimo secondo il modello stereotipato dell’Illuminismo: come la fede più sanguinosa nella storia umana (la plus sanguinaire, come diceva Voltaire). Inoltre, questo impedisce a Nietzsche di leggere i Vangeli come un dramma oscuratamente gerarchico o patriarcale. Come i critici pagani del cristianesimo nei primi secoli della nostra era — come Celso, che derideva l’importanza delle donne nei Vangeli — Nietzsche riconosce che i Vangeli, in questo contesto, non rappresentano nulla del genere.Gesù è un «grande simbolista», scrive, e il «decadente più interessante» nella storia. Gesù è una figura di tolleranza irrazionale e amore senza limite. Ne L’Anticristo, Nietzsche ne abbozza la morte in questo modo: «Questo “lieto messaggero” morì come visse […] La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo contegno dinanzi ai giudici, […] il suo contegno sulla croce. Egli non resiste. […] E prega, soffre, ama con loro, in coloro che gli fanno del male». L’amore senza limite è decadente — «contro la vita» — e il cristianesimo è, per Nietzsche, una «negazione della volontà di vita trasformata in religione». Tuttavia, quando Nietzsche vede per la prima volta questo amore nelle ultime ore di Gesù, quest’ultimo diviene puro — divino, addirittura. «Questi in verità è stato un uomo divino», ci dice nell’Anticristo (attraverso le labbra di un criminale morente). Sfortunatamente, il Vangelo di Nietzsche muore con Gesù. I Vangeli canonici sono una cosa completamente diversa dalle «buone novelle» di Gesù — sebbene anche loro siano il non plus ultra della decadenza. Ciò a cui i Vangeli «ci introducono», scrive Nietzsche, è «un mondo che sembra uscito da un romanzo russo, in cui i rifiuti della società, le malattie nervose e un’“infantile” idiozia paiono essersi dati convegno». Il «romanzo russo» evocato qui è senza dubbio uno di quelli di Fëdor Dostoevskij, dal momento che Nietzsche s’imbatté in uno dei romanzi di Dostoevskij a Nizza nel 1887 (mentre scriverà L’Anticristo nel 1888). Affascinato dal suo contemporaneo ortodosso, Nietzsche lesse di tutta furia diversi romanzi di Dostoevskij, definendo Umiliati e offesi «uno dei libri più umani mai scritti» (un gran complimento, quello che viene dall’autore di Umano, troppo umano). Ma Nietzsche intuì che la mentalità cristiana di Dostoevskij si sarebbe presto scontrata con quello che chiamava il suo «istinto più elementare». E cosa c’è nei Vangeli — quella raccolta canonica di «romanzi russi» — che Nietzsche trova di così ripugnante? Cosa c’è, più precisamente, nella politica dei Vangeli che lo terrorizza? È lui stesso che ce lo dice. «Non sottovalutiamo la sorte funesta che dal cristianesimo si è insinuata fin nella politica!», avverte gli europei del XIX secolo. «Nessuno oggi ha più il coraggio di vantare diritti particolari, diritti di supremazia [Herreschafts-Rechte]». Gli effetti politici del cristianesimo sono dannosi per la gerarchia, perché il cristiano «è per profondissimo istinto un ribelle contro tutto quanto è privilegiato — egli vive, combatte sempre per “diritti uguali”». Ciò che i Vangeli rappresentano è una fede i cui istinti più elementari portano al riconoscimento del malato, del povero, del marginale. Questa, per Nietzsche, è l’eredità del cristianesimo in Europa. «Il movimento cristiano, in quanto movimento europeo», egli scrive, «è fin da principio un moto collettivo d’ogni sorta di elementi di rifiuto e di scarto». Ciò che egli detesta di più è quello che chiama «la tendenza democratica degli istinti cristiani». Potrebbe esserci più di un buon motivo per prestare attenzione a uno dei nemici più risoluti del cristianesimo, così come per «transvalutare» il cristianesimo europeo per il XXI secolo. Nietzsche «il filologo» è certo che il primo cristianesimo «non era “nazionale”, non era condizionato dalla razza [nicht rassebedingt]». Al contrario, egli trova di che ridere del fatto che il cristianesimo «si volgeva a ogni specie di diseredati della vita». Quella tendenza propria del XXI secolo a denunciare l’eredità cristiana — e l’eredità platonico-cristiana — come gerarchica, patriarcale e così via, potrebbe non riuscire a convincere in termini storici. E potrebbe indebolire ulteriormente una tradizione europea il cui istinto più elementare è — riprendendo la frase di Nietzsche — di «combattere sempre per “diritti uguali”». Se avessimo ascoltato Nietzsche più attentamente, saremmo più riluttati nell’accusare i due più grandi condannati della storia del mondo — Socrate e Gesù — di nuovi crimini.”

Radici cristiane, ma le foglie?

Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.

“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne? Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione.
Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.

Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché?
O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae  vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”.
P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica.
O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.

Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.

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La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.  Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.

Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr]
P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.  La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.

Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della  République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam.
P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”

La mafia si evolve

Fonte

Lucia D’Alessandro, sostituto Procuratore della Repubblica di Venezia, è intervenuta, meno di un mese fa, agli Stati generali di Libera contro le mafie. Molto numerosi sono gli spunti di riflessione emergenti dalla sua fotografia del nord-est italiano.

“Il Veneto non può certo essere considerata un’isola felice, neppure per il passato: mi riferisco all’esperienza drammatica e violenta della mala del Brenta. Di recente si sta assistendo a una nuova riorganizzazione, a una sorta di rigenerazione di tale fenomeno. Ieri don Ciotti ha parlato di una reiterazione nei nostri discorsi da 150 anni del fenomeno mafioso. Giovanni Falcone diceva che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”. Tutto ciò è vero, ma va detto che la mafia si evolve senza che si estinguano tutte le sue specifiche caratteristiche: soltanto alcune si estinguono e quindi il fenomeno mafioso purtroppo non muore, anzi, si evolve. Oggi assistiamo a un profondo dinamismo evolutivo, un adattamento costante, continuo, intelligente, efficace, alle caratteristiche peculiari del territorio che la mafia intende colonizzare. Così assistiamo ai locali, che altro non sono che una propaggine, una clonazione, una replicazione, filiali vere e proprie delle mafie tradizionalmente nate, vissute e viventi nei territori tipici di provenienza (ndrangheta, camorra, cosa nostra, sacra corona unita e camorra barese). Le tradizionali mafie tendono oggi a deterritorializzarsi, a globalizzarsi: perdono quel sistema di orizzontalità sul quale si erano sempre basate (operazioni “Crimine-Infinito”, “Alba chiara”, “Minotauro”) a favore di una configurazione proteiforme, multiforme e globale. Abbiamo vere e proprie partnership tra mafie tradizionali del territorio e quelle colonizzatrici, tra mafie locali e mafie straniere, vere e proprie mafie miste e anche fenomeni di transnazionalità (la ndrangheta leader internazionale del narcotraffico).
Qui la mafia assume sempre più un volto imprenditoriale: non è immateriale, ma è liquida, osmotica rispetto al tessuto economico, sociale e politico delle regioni più ricche. Il distretto veneto costituisce un terreno particolarmente appetibile, molto aggredibile dagli interessi delle mafie tradizionali che in maniera molto subdola, surrettizia, sotterranea (mafia invisibile o mafia silente) si insinuano nel tessuto economico, sociale, politico e anche culturale. Lo colonizzano andando a captare le caratteristiche socio-ambientali e andando a subentrare in maniera furba e brillante, in un sistema di economia legale, a quelle aziende sottoposte a pressioni e a depauperazioni. I fenomeni di crisi economica vengono sfruttati dalle tradizionali organizzazioni di tipo mafioso per penetrare il tessuto in difficoltà delle aziende locali lecite subentrando ad esse. E’ un subentro che viene per certi versi sfruttato dai destinatari di questa aggressione, che vanno distinti in due macro categorie: coloro che la subiscono e coloro che vi colludono. Il concetto di metodo mafioso sta subendo delle evoluzioni: non si estrinseca necessariamente attraverso attività delittuose di tipo aggressivo, violento, con il sangue, con le estorsioni, con le usure e con gli incendi. Una certa parte di estrinsecazione attraverso una manovalanza di tipo gangsteristico continua anche al nord, ma accanto assistiamo sempre più a una penetrazione osmotica del territorio soprattutto economico. E’ una mafia imprenditrice che sfrutta le imprese legali per cercare di riciclare i propri proventi ottenuti con le attività delittuose tipiche delle regioni meridionali: un reinvestimento ammantato di apparente liceità.
In Veneto stanno penetrando sotto forma di una vera e propria colonizzazione le organizzazioni mafiose tradizionali, in particolare la ‘ndrangheta. Cosa si intende per Locali? Si tratta di vere e proprie gemmazioni, proliferazioni, propaggini, filiali della cosiddetta casa madre, Crimine o Provincia che dir si voglia, localizzata in Calabria. La Provincia in pratica decentra, delocalizza, deterritorializza la propria attività mafiosa in questi Locali al nord. La caratteristica saliente di questi locali è l’acquisizione di una autonomia organizzativa e gestionale pur nel rispetto del legame molto forte e pregnante con la provincia o crimine di cui conservano il Dna e da cui mutuano il know how operativo ed esecutivo. Si tratta quindi di un’autonomia parziale: il legame con la casa madre resta indissolubile per un duplice motivo. E’ utile per il reclutamento di manodopera in grado di gestire e guidare i membri stanziatisi al nord o nativi del nord. Ed è utile per l’assistenza, sia legale, sia per l’eventuale necessità di dover nascondere qualche latitante.
Nel momento in cui assistiamo a una mutazione genetica della mafia, pur nella manutenzione del suo Dna proprio, dobbiamo trovare sempre nuovi strumenti di contrasto, anch’essi in grado di evolversi. Ad esempio è necessario colpire il patrimonio delle mafie. Il mafioso tipico è avvezzo ad essere catturato; il vero punto debole è il patrimonio, non tanto la privazione delle libertà personali. La confisca dei beni è molto importante. Un altro esempio riguarda l’evoluzione comunicativa e l’adozione di nuove strategie dal punto di vista tecnico. Quando vengono svolte attività di intercettazione, i sospettati al telefono fischiettano e in macchina canticchiano: dobbiamo dotarci di strumenti in grado di captare le conversazioni che tengono avvalendosi delle moderne tecnologie, dei social, di whatsapp, di skype… I trojan horse dobbiamo poterli utilizzare…
Passando a quanto è stato, non potendo concentrarmi sulla contemporaneità, non si può dimenticare che oltre alla mala del Brenta, nell’ultimo decennio si sono raggiunti dei risultati. Va detto che in Veneto si assiste alla presenza di una pluralità di mafie: mafie endogene, mafie allogene, di tipo misto, straniere (moldave ad esempio, con un processo arrivato in Cassazione). Questo è il dato. Altro è il tasso di percezione del fenomeno mafioso; il 47,3% della popolazione del Triveneto considera la mafia un fenomeno marginale nel proprio territorio e solo il 17% ne percepisce la pericolosità sociale. Questo anche perché in questi territori la mafia uccide sempre meno, utilizza il sangue e gli incendi sempre meno: utilizza il metodo dell’insinuazione nelle attività cardine del territorio. Ad esempio, il territorio veneziano è caratterizzato da importanti reti e infrastrutture con una serie di porti e aeroporti molto rilevanti accanto a una rete economico-finanziaria poderosa. Questo sono tutti obiettivi per le mafie, che, avvalendosi di tanti importanti snodi, aggrediscono il territorio andando a captare anche il sistema politico. Ovviamente porti e aeroporti significano anche possibilità di intrecci con le mafie estere (sud America, Olanda, Spagna…). A questo proposito è evidente quanto siano importanti gli strumenti di cooperazione internazionale (Eurojust) e la figura di un procuratore europeo.
La Mala del Brenta si sta riorganizzando, si sta rigenerando; alcuni degli esponenti storici stanno uscendo dal carcere e, vuoi per vendetta, vuoi per vocazione a delinquere, si stanno organizzando. Abbiamo già avvisaglie in questo senso. Nell’ultimo biennio ricordo poi una brillante operazione in merito al cosiddetto tesoretto di Felice Maniero: 17 mln di euro. A proposito degli ex componenti della Mala del Brenta posso fare un cenno a un’operazione interforze contro il narcotraffico per sostanze provenienti dall’Olanda e dai paesi balcanici (cocaina, oppiacei, marijuana, hashish); si è scoperta una partnership tra una frangia chioggiotta e una frangia di origine siciliana legata ai calabresi.
Un ultimo cenno al fenomeno della tratta: colonizzazione dei nostri territori da parte della mafia albanese e sodalizi nigeriani. La prima agisce soprattutto con figure maschili molto forti, aggressivi e violenti verso le donne che vengono sfruttate sessualmente e fisicamente; i secondi vedono figure femminili nelle posizioni apicali dell’organizzazione, ex vittime che diventano carnefici e aguzzine di altre donne attraverso anche meccanismi magico-esoterici e minacce di tipo rituale. A proposito di questo voglio ricordare il progetto N.A.Ve., Network Antitratta per il Veneto. Spesso mafia e migrazione si intrecciano nel senso che sodalizi di stampo mafioso sfruttano il fenomeno migratorio per i proprio fini.”

Un concilio poco conciliante?

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Poche ore fa il Presidente ucraino Petro Oleksijovyč Porošenko ha annunciato che il concilio per l’unificazione della Chiesa ortodossa autocefala dell’Ucraina si terrà il 15 dicembre. Proprio domenica mi è capitato di leggere sul numero de La Lettura del 25 novembre un articolo di Marco Ventura che trattava l’argomento. Vi sono vari passaggi che mi lasciano perplesso, ma, come ho spesso fatto, sul blog do spazio a chi fa pensare e stimola la riflessione. Ecco dunque il suo pezzo che ho reperito qui.

Il Concilio annunciato in Ucraina rischia di determinare una rottura traumatica fra il patriarca di Costantinopoli, che ha un primato d’onore in quella confessione, e il patriarca di Mosca, che vanta il maggior numero di fedeli. La posta in palio è il diritto all’autogoverno, «autocefalia», delle autorità ecclesiastiche schierate con Kiev.
È annunciato per le prossime settimane il Sobor, il santo Concilio che cercherà di dare all’Ucraina un’unica Chiesa ortodossa. Competono le tre maggiori Chiese del Paese. Quella fedele al Patriarcato di Mosca, circa il 20 per cento dei credenti sul totale, e le due vicine al governo ucraino presiedute rispettivamente dal patriarca di Kiev Filarete e dal metropolita Macario. La tensione ha raggiunto livelli clamorosi dopo che l’11 ottobre il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, primo tra pari tra i patriarchi del mondo ortodosso, ha ammesso Filarete e Macario alla comunione con le altre Chiese.
Tecnicamente non è il «riconoscimento» delle due Chiese di cui ha parlato la stampa internazionale. Costantinopoli ha invece preannunciato in un comunicato del 19 novembre il rilascio del tomos, il documento specifico con cui si riconoscerà il diritto all’autogoverno, l’«autocefalia» ortodossa, della Chiesa che nascerà dal Concilio. Il passo è grave per il Patriarcato di Mosca, che si sente debole nel processo verso un’unica Chiesa autocefala ucraina. «È stata attraversata la linea rossa», ha dichiarato il portavoce del patriarca Kirill, che ha anche parlato di «catastrofe»e di rischio che si interrompa la comunione eucaristica tra Mosca e Costantinopoli.
Il conflitto ucraino ha gli ingredienti delle grandi storie di religione e potere. I protagonisti si sfidano in ambizione e avidità: ricattano e comprano,sussurrano e gridano, trattano e sparano. Tutti vanno a letto con tutti; tutti avvelenano tutti. Il copione potrebbe funzionare sempre, ovunque. In questo inizio di terzo millennio, tra Kiev, Mosca e Istanbul, esso prende una forma peculiare. Lo spazio è decisivo. Il controllo del territorio attribuisce proprietà e finanze, popolazione e cariche, ricchezza economica e politica. Nel mondo ortodosso la questione è particolarmente cruciale.
Dalla sua ridotta di Istanbul, il patriarca di Costantinopoli ha un primato di onore e non di giurisdizione. Le Chiese sono autocefale, hanno ciascuna un proprio vertice, un capo. Lo spazio dell’ortodossia è concepito come diviso infette controllate dall’una o dall’altra Chiesa. Il territorio canonico è un sofisticato congegno teologico e giuridico il cui funzionamento implica una feroce lotta contro ogni rivale interno al mondo ortodosso ed esterno ad esso,specie cattolici e musulmani. La coesistenza nello stesso territorio di più di una Chiesa, e di più di un capo, è una patologia. L’unità del potere politico segue il medesimo principio: un sovrano, una Chiesa, un territorio.
Le condizioni in cui nei secoli si sono trovati a vivere gli ortodossi hanno spesso contraddetto il principio. Nell’Impero ottomano, gli ortodossi arabi e serbi, greci e bulgari hanno formato comunità mobili e sparse, sotto governanti musulmani. Nel corso delle guerre russo-polacche, l’Ucraina è stata fatta a pezzi tra cattolici e ortodossi. Mentre il puzzle si disfaceva e si ricomponeva, ogni volta in modo nuovo, ogni volta in riferimento a un mitico passato, mentre nell’era della comunicazione digitale il territorio si disperdeva online, l’unità di potere politico ed ecclesiastico sul territorio canonico diveniva tanto più ambita quanto più lontana dalla realtà.
Dopo il crollo del comunismo, gli ortodossi si sono dovuti impegnare soprattutto contro i nemici atei e musulmani. Al centro della battaglia, il patriarca di Belgrado resisteva sotto le bombe degli occidentali secolarizzati e dava battaglia in Bosnia contro i mujaheddin venuti dall’Afghanistan, dalKashmir e dall’Algeria. Lo schema dello scontro mondiale tra cristiani e musulmani ha dominato negli ultimi trent’anni la percezione del ruolo geopolitico degli ortodossi. È stato il caso delle Chiese ortodosse che non accettano il Concilio di Calcedonia (451 d.C.), gli armeni sotto costante minaccia azera e turca, e i copti egiziani. È stato il caso dei russi che,dalla guerra contro i musulmani ceceni e dal controllo dei musulmani nelle proprie frontiere, il 10 per cento del totale della popolazione russa, hanno tratto le risorse per la strategia di influenza sul mondo islamico culminata con l’intervento in Siria.
Il grande scontro con l’islam di cui sono stati protagonisti gli ortodossi ha lasciato in secondo piano altre tensioni. Dei 25 mila morti in Croazia tra il 1991 e il 1995, dei 55 mila caduti in Bosnia tra il 1992 e il 1995, delle centinaia di morti della guerra in Georgia, Ossezia del Sud e Abcasia tra 1988 e 1993 non si è parlato in termini di vittime di una guerra tra cristiani.Invece lo erano. Nel caso della Croazia e almeno in parte della Bosnia, le violenze ebbero luogo tra cristiani di diversa confessione, cattolici e ortodossi. In Georgia, ortodossi uccisero ortodossi. La pace intervenuta successivamente,negli stessi mesi degli accordi che misero fine al conflitto nordirlandese tra cattolici e protestanti, rese le violenze tra cristiani ancor più invisibili.Se c’erano state, e se anche si fossero davvero potute catalogare come«violenze tra cristiani», il loro tempo era finito.
A vent’anni di distanza, l’esplosione della guerra del Donbass nell’Ucraina orientale, ha nuovamente sfidato la convinzione che la violenza religiosa contemporanea abbia soltanto a che fare con l’islam. Come in Georgia negli anni Novanta, e con una magnitudine enormemente maggiore, cristiani hanno ucciso cristiani; addirittura, cristiani ortodossi hanno ucciso cristiani ortodossi. E continuano a farlo.
Il conflitto tra patriarchi e Chiese ortodosse in Ucraina mette allora davanti a un bivio. Lo scontro può essere visto e gustato quale lotta di potere politico ed economico, come fa la maggior parte degli osservatori. Si inseguono le sfumature, si pesano le mosse, si stringe il microscopio sugli attori locali, si allarga il campo a Kirill e a Bartolomeo. Ecco irrompere gli alleati: gli ortodossi americani in gran parte vicini a Costantinopoli, i serbi tradizionalmente amici di Mosca. Ecco i governi mettere mano al portafoglio: a Kiev per strappare qualche vescovo al Patriarcato di Mosca o per far sedere i dignitari filorussi al tavolo del Consiglio interreligioso; a Mosca per boicottare l’imminente Concilio. Ecco pesare gli interessi economici, i gasdotti, le risorse naturali e la diplomazia internazionale, l’Unione Europea, la Nato.
Solletica, questo modo di leggere la crisi ecclesiastica ucraina, ma resta in superfice e induce a sbagliare sui dettagli. La grande stampa internazionale lo fa proprio: perciò commette l’errore di annunciare un inesistente«riconoscimento» delle Chiese ucraine da parte del patriarca di Costantinopoli e trascura la posta in palio nel prossimo Concilio. Appiattiti su polemiche e trame, si resta ciechi davanti alla grande questione per i cristiani in Ucraina, dove dal 2014 sono morti in quasi 10 mila, e le violenze continuano. S’ignora cioè il nesso tra la crisi delle Chiese e questi morti, le migliaia di feriti, gli sfollati: i cristiani ucraini e russi, greci e serbi, appaiono privi di responsabilità, impotenti; in balia della politica e dell’economia,locali e globali.
Ecco il punto. Il processo che condurrà al Concilio sarà il test della capacità degli ortodossi, in Ucraina e altrove, di essere plurali e uniti, senza violenze. Sbaglierebbe, in proposito, chi snobbasse la vicenda come solo ortodossa. L’onda delle decisioni delle prossime settimane a Kiev, Mosca e Istanbul investirà in pieno tutti i cristiani che in Europa e in America, in Asia e in Africa, cercano il proprio posto nel futuro.”

Simili? (e non è la Pausini…)

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L’Agenzia di Stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha pubblicato questo articolo:
Il PEW Research Center ha presentato i risultati di un’indagine sulle differenze teologiche in Europa occidentale e Stati Uniti. Dalla ricerca emerge una sostanziale similitudine di visioni fra protestanti e cattolici su molti temi riguardanti la fede, la grazia, la Bibbia, le opere, la Riforma e gli insegnamenti della chiesa. Ne parliamo con Gabriella Lettini, pastora valdese, docente di teologia etica presso la Facoltà Starr King School for the Ministry della Graduate Theological Union di Berkeley (California).
La metodologia di indagine ha visto due diversi approcci in Europa occidentale (dove sono state effettuate interviste telefoniche a 24.599 persone in 15 paesi) e negli Stati Uniti (dove l’indagine è stata condotta online tra 5.198 partecipanti). Poco più della metà dei protestanti statunitensi (52%) afferma che sono necessarie buone azioni e fede in Dio per “entrare in paradiso”, una posizione storicamente cattolica. Il 46% sostiene che sia sufficiente la sola fede per ottenere la salvezza (uno dei quattro principi fondamentali della Riforma: sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide). Anche in Europa emerge la stessa tendenza, e dati simili riguardano chi sostiene che la Bibbia fornisca tutte le istruzioni religiose di cui un cristiano ha bisogno. Il 52% dei protestanti americani intervistati sostiene che i cristiani dovrebbero cercare la guida dagli insegnamenti e dalle tradizioni della chiesa, oltre che dalla Bibbia (una posizione tradizionalmente cattolica). Solo il 30% di tutti i protestanti statunitensi afferma che sono sufficienti la sola Fide e la sola Scriptura. Altro dato significativo, per cattolici e protestanti dell’Europa occidentale: c’è un livello relativamente alto di disaffiliazione (per fare due esempi, il 15% in Italia, fino al 48% in Olanda, sono le percentuali di chi si descrive come ateo, agnostico o “nulla in particolare”; ma, fra i protestanti praticanti olandesi, la percentuale di quelli che pregano quotidianamente (58%) e frequentano la chiesa ogni settimana (43%) è la più alta in Europa. In tutti i paesi europei, sia protestanti sia cattolici dicono di essere disposti ad accettare membri dell’altra tradizione come vicini o familiari.
Dalla ricerca sembrerebbe emergere un certo analfabetismo religioso; può confermarlo?
Penso che in parte questa ignoranza dottrinale sia il fatto che per molte persone il linguaggio dottrinale del passato non sembri più rilevante alla loro fede nel presente. Per molti credenti, poi, essere cristiani non si esprime necessariamente nella fedeltà ad una dottrina, ma nel seguire la chiamata di Cristo nella vita di tutti i giorni, nel modo in cui trattano il prossimo e si fanno promotori di pace e giustizia. L’occidente teologico cristiano ha dato molto valore all’ortodossia, ma per molti credenti, in tante parti del mondo, la fede si esprime soprattutto nell’ortoprassi. Le teologie della liberazione si sono fatte portavoci di questa posizione.
In ambito teologico e dogmatico, quanto sono, ancora, importanti i concetti di sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide?
La ricerca PEW ci fa vedere come siano le correnti evangelicali più conservatrici, e non i Protestanti delle chiese storiche, a parlare di sola fede e sola scriptura. Molti di loro stanno offrendo supporto all’ideologia per nulla cristiana del presidente Trump. Personalmente preferisco la creazione di nuovi linguaggi teologici che ci aiutino ad essere più vicini al messaggio di amore e giustizia del vangelo, che alla fedeltà a categorie che non sono necessariamente più così rilevanti o sono magari diventate problematiche.
Secondo lei, c’è qualche problema nelle chiese riformate (ma anche cattoliche) nell’approccio alla fede, alla lettura della Bibbia, all’approfondimento in generale?
Per me credo il problema principale sia il fatto che il Cristianesimo sia spesso stato complice, se non istigatore, di alcune fra le più grandi atrocità della storia del mondo. Solo pensando agli ultimi 500 anni, abbiamo la conquista coloniale e il genocidio nelle Americhe, la tratta degli schiavi africani, l’apartheid e la segregazione razziale, l’anti-semitismo, la giustificazione della discriminazione e della violenza contro le donne e le persone omosessuali e transessuali, lo sviluppo del capitalismo. Com’è stato possibile che le teologie dell’Occidente “Cristiano” non siano riuscite ad offrire un correttivo a queste aberrazioni della fede Cristiana? Forse ci sarebbero dovute essere altre questioni al centro del pensare teologico.”

Un’ombra scura

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“Se anche è vero che non c’è, al momento, alcuna speranza di cura, ripugna alla coscienza che al piccolo Charlie Gard, dieci mesi, affetto da una rara e gravissima malattia genetica e dipendente da una macchina per respirare, debba venire data la morte. Ripugna perché in questo caso il paziente non può esprimere la sua volontà e, anzi, se ne esprime una, con la caparbia tenacia del suo cuore che batte, è quella di vivere. Ripugna perché coloro che hanno il diritto di esprimersi nel suo nome, suo padre e sua madre, sono disperatamente contrari a questa morte data e hanno lottato con ogni mezzo, con la testardaggine di chi non può perdere ciò che gli è più caro. Raggela anche l’unanime consenso con cui Corti britanniche e europee hanno emesso la loro sentenza. Il bambino, dicono, soffre, è attaccato a un respiratore artificiale e non ha speranza di guarire. Meglio per lui la morte. Ma quanti sono in Europa e nel mondo i malati gravi che non hanno speranza di guarire, che hanno bisogno di costose terapie quotidiane, che soffrono? Ciò che impressiona però è anche che in questo dramma si prescinda totalmente da quanto finora è stata detta essere la colonna delle norme sulla eutanasia, cioè la volontà del malato o di chi lo rappresenta. Qui non c’è alcuna domanda di morire. Qui c’è lo Stato che interviene su una determinazione di medici e sentenzia: soffri troppo, e non ti si può guarire, conviene per il tuo stesso bene che tu muoia. Sinistro, questo Stato, e poi la stessa Europa, che si ergono a giudici della liceità di una vita. Non si potrebbe almeno lasciare che la malattia del bambino segua il suo naturale decorso? No, evidentemente costa troppo. E sembra quasi una profezia, la vicenda di Londra, sulle nostre vite fra trent’anni, quando saremo vecchi, malati – e costosi. Nel caso di Eluana Englaro era il padre a domandare con insistenza la morte per la figlia, e i giudici infine gli diedero ragione. Qui, al contrario, i genitori combattono strenuamente perché il figlio sia lasciato vivere: e ugualmente invece il verdetto è che lo si abbandoni. Difficile non vedere un favor mortis dentro la logica che sorregge l’approccio di Stati e ‘tecnici’ e i pronunciamenti di certi tribunali circa la vita malata, terminale, fragile. Un favore per la morte anziché per la vita, che comunque si manifesta. O forse quel bambino ricoverato in un ospedale della vecchia Europa con la sua malattia a oggi non guaribile ci ricorda la nostra umana impotenza: testimonia come, in verità, noi tanto sapienti e orgogliosi non siamo padroni di niente. Per questo forse si preferisce ,’per il suo bene’, farlo scomparire. Una sentenza di morte per un bambino di dieci mesi. ‘Soffre, non ha speranza’. Ma di quanti di noi, pensi, un giorno, con l’avanzare degli anni e delle invalidità si potrà dire la stessa cosa. Ed è come se un’ombra oscura ti passasse davanti”.
(Marina Corradi, Avvenire)

Tempo di pluralismo

2377-1 defDEF-350x500In questo articolo, pubblicato su Il Sole 24ore, Massimo Donaddio presenta il libro di Peter L. Berger intitolato I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo.
C’è stato un tempo in cui la gran parte degli studiosi riteneva che la modernità portasse inevitabilmente a un tramonto del fenomeno religioso, come effetto in gran parte della rivoluzione scientifica e tecnologica, che mette a disposizione di larghi strati di popolazione strumenti dalle enormi potenzialità, rendendo meno pressante l’urgenza del ricorso al divino attraverso la fede e la preghiera.
Quest’impostazione, di stampo illuministico ha ancora molti seguaci, come evidenziato nell’ormai classico saggio del filosofo Charles Taylor, L’età secolare (Feltrinelli, 2009). Eppure molti sociologi, da diversi anni, si sono in un qualche modo “convertiti” a un nuovo paradigma, più complesso, che mette in luce non tanto il tramonto delle religioni nel tempo della modernità, quanto la loro convivenza pluralistica all’interno di un mondo dove il discorso secolare rappresenta lo sfondo comune per ciascuno individuo.
Uno degli alfieri di questo approccio è il noto sociologo americano di origine austriaca Peter L. Berger, professore emerito alla Boston University e autore nel 2014 del saggio appena tradotto da Emi con il titolo I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo.
Berger parte dall’assunto generale che il fenomeno religioso sia sempre molto vivo, addirittura in crescita in alcune zone del mondo, nonostante la globalizzazione abbia portato molti popoli ad aumentare le proprie potenzialità, risorse e conoscenze tecniche. Con l’eccezione del continente europeo, contrassegnato da un certo laicismo, i continenti americano, asiatico e africano continuano a mostrare un grande attaccamento alla religione in tutte le sue varie forme, con un continuo proliferare di chiese, sette e confessioni varie.
Sempre più, anzi, religioni diverse sono chiamate a convivere fra loro, come pure con un indubbio approccio di ispirazione secolare, sia nelle menti degli individui che nello spazio pubblico. Secondo Berger, il grande cambiamento portato dalla modernità non è, quindi, il secolarismo (o laicismo), bensì il pluralismo, ossia la coesistenza di diverse visioni del mondo e di scale di valori all’interno della stessa società. Insomma, la laicità europea (e dei circoli intellettuali internazionali) non sarebbe l’unica forma di modernità: esistono, per lo studioso americano, altre versioni di modernità che accordano alla religione un ruolo molto più centrale.
Anche la tensione tra modernità e impostazione religiosa è un fenomeno che non è possibile ignorare: è, infatti, una realtà che continua a bussare alla porta del mondo occidentale in diverse forme. Per esempio è la sfida che si trova di fronte l’islam, in Europa come in Africa e in Asia: come è possibile essere devoti musulmani e nella stesso tempo praticare e apprezzare i valori della modernità? Come deve configurarsi una società islamica moderna? Gli stessi interrogativi vengono sollevati in Cina, in India, in Russia, in Israele, in altre società. È la convivenza tra questi due aspetti, il condividere allo stesso tempo valori laici e religiosi, la caratteristica delle società del tempo moderno.
Naturalmente è essenziale che siano attive strutture istituzionali e politiche che garantiscano l’equa convivenza di una pluralità di religioni e di visioni del mondo, all’interno di un contesto culturale-giuridico che garantisca la libertà religiosa e l’uguaglianza di ogni persona davanti alla legge.
Differenti sono le modalità per raggiungere quest’obiettivo: il mondo occidentale ha battuto la via della laicità di tipo illuministico – anche nella sua variante americana, vedi il Primo Emendamento della Costituzione degli Usa – ma non sono escluse altre sintesi operate da altri contesti sociali e culturali”.

Turchia: quale laicità?

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Un articolo molto molto interessante di Chiara Maritato sulla Turchia, sulla laicità e sul ruolo religioso ed etico dell’Islam. La fonte è l’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa.
In molti articoli che raccontano la Turchia di oggi, compare una narrazione che segue più o meno la seguente trama: nata dalle ceneri di un impero, dove regnava un Sultano/Califfo (kalifat rasul Allah, cioè rappresentante dell’inviato di Dio, e quindi successore di Maometto), la Turchia si è poi laicizzata con la proclamazione della Repubblica fondata il 29 ottobre del 1923 da Mustafa Kemal (che si farà poi chiamare, dal 1934, padre dei turchi, Atatürk).
Oggi, dopo quindici anni di governo conservatore religioso del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), la Turchia si sta islamizzando. Questa visione, seppure molto diffusa, è incompleta. Come si “islamizza” una nazione la cui popolazione è per oltre il 90% di religione musulmana? La domanda può sembrare retorica, ma non lo è del tutto. Nell’aprile 2016, in un intervento che ha scatenato molte polemiche il Presidente del parlamento turco, Ismail Kahraman, ha affermato senza mezzi termini che la Turchia è uno stato a maggioranza musulmana e dovrebbe avere una costituzione religiosa.
Se è vero che il ruolo e il significato della religione nella sfera pubblica sono andati ridefinendosi, l’Islam non ha mai cessato di essere una componente fondante dell’identità turca. Inoltre, la laicità intesa come separazione tra stato e chiesa ha poco o niente a che fare con la laicità turca, laiklik. Principio costituzionale e valore fondante, ispiratore di politiche restrittive e di non pochi colpi di stato, il laiklik è lontano da una separazione tra stato e religione come due realtà a sé stanti. Al contrario, esso si presenta come principio assertivo in cui lo stato, attraverso il suo apparato burocratico e militare, controlla la religione relegandola alla sfera privata.
Un altro aspetto critico è che a livello istituzionale, a differenza di quanto talvolta si legge, la Repubblica turca non nasce laica. L’articolo 2 della Costituzione del 1924 afferma che “la religione della Repubblica è l’Islam”. Quest’articolo sarà emendato nel 1928, quando viene meno il riferimento alla religione, ma è solo nel 1937 che includerà la laicità tra i principi fondamentali della Repubblica. Questo ritardo non sorprende, se invece di concentrarsi esclusivamente sulle celebri misure per la modernizzazione volute da Atatürk, si considera la nascita della Turchia come stato-nazione alla luce del nazionalismo turco, un’ideologia che può essere sintetizzata in tre principi chiave: turchizzazione, occidentalizzazione e islamizzazione.
Nel 1925 sono proclamate una serie di leggi dette “Rivoluzionarie”, che impongono la chiusura delle confraternite sufi e delle comunità religiose e vietano il fez (copricapo ottomano). Durante i primi venti anni della Turchia Repubblicana, l’élite al governo è stata quindi impegnata nella missione di “rieducare” la popolazione a una morale civica e alle cosiddette sei frecce del kemalismo, elaborate nel 1931 (nazionalismo, populismo, repubblicanesimo, statalismo, rivoluzionarismo, laicismo). Questa “missione civilizzatrice” ha avuto l’obiettivo di modernizzare e occidentalizzare usi e costumi, anche negli aspetti più privati. A tale processo, noto in Turchia con il termine di “ingegneria sociale” (toplumsal mühendisliği) si sono contrapposte una serie di rivolte scoppiate tra il 1925 e 1930. Il regime ha risposto rafforzando il suo controllo autoritario contro una costante minaccia islamista (irtica). Tuttavia, le pratiche religiose “non-ufficiali” sono continuate clandestinamente nel quotidiano.
L’intento di educare la società a una modernità secolare non prevedeva la costituzione di una società senza religione. Quello che è spesso definito come Islam kemalista ufficiale versus l’Islam della tradizione e delle confraternite è da intendersi come il controllo dello stato su una religione da praticarsi in forma privata e il più possibile “razionale”. Un aspetto che spesso sfugge quando si analizza la prima secolarizzazione, è che il laicismo turco è stato un tentativo di re-islamizzare la società verso un Islam “nazionale”, “civile”, “ufficiale”, “puro” (doğru din) lontano dalla tradizione e dalla superstizione.
Uno degli strumenti con cui la Repubblica turca ha avviato questa trasformazione del religioso è indubbiamente il Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet). A seguito della proclamazione della Repubblica nel 1923, il 3 marzo 1924 gli affari religiosi diventarono competenza di un’unità amministrativa, il Direttorato per gli Affari Religiosi. Il Diyanet è un organo statale il cui presidente è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo ministro. Tra le sue principali competenze vi sono la gestione dei servizi riguardanti la fede, le pratiche islamiche e l’amministrazione dei luoghi di culto. Concretamente, il Diyanet supervisiona le attività che si svolgono nelle circa 90.000 moschee in Turchia, seleziona gli operatori di culto (che sono quindi dipendenti statali) e diffonde la dottrina religiosa, l’Islam sunnita di scuola hanafita.
Se è vero che nell’ultimo ventennio le competenze e risorse di questa istituzione pubblica sono profondamente mutate, la trasformazione del Diyanet fu avviata molto prima della vittoria dell’AKP alle elezioni del 2002. Nel 1965, la legge sull’organizzazione e i doveri del Direttorato elenca tra i compiti dell’organo quello di “illuminare la società sulla morale”. È dunque a partire dagli anni Sessanta che la sfera morale entra tra le competenze dirette dell’istituzione. Per restarci. Durante gli anni Settanta, e soprattutto dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, sarà anche attraverso la rete capillare del Diyanet, diffusa sul territorio nazionale e nelle comunità turche in Europa, che si consolida la cosiddetta “Sintesi turco-islamica”. Quest’ultima ha visto un utilizzo strumentale della religione come collante della società. Il Diyanet assunse dunque una funzione tutelare di contrasto ai movimenti di sinistra e al partito comunista. Infatti, la Costituzione oggi vigente, promulgata nel 1982 e figlia di quel colpo di stato, all’articolo 136 aggiunge tra le competenze del Direttorato quella di “promuovere la solidarietà e l’integrità nazionale”.
A partire dai primi anni 2000, e soprattutto dal 2010, una riorganizzazione interna ha rinforzato la capacità amministrativa del Diyanet. Il suo budget è oggi pari a più di 2 miliardi di dollari e conta circa 120.000 dipendenti. Nell’ultimo decennio, da protettore del laicismo di stato, il Diyanet è diventato una delle istituzioni più politicizzate, nonché uno degli strumenti attraverso cui diffondere nazionalismo turco e morale islamica, due componenti chiave su cui si fondano le politiche dell’AKP.
kocatepemosqueIn questo quadro si inserisce la volontà di formare una “nuova generazione di devoti”, come ha affermato in un celebre discorso del 2012 l’allora premier Erdoğan. Ad emergere è soprattutto il sostegno morale e spirituale che il Diyanet, tramite il suo personale maschile e femminile, fornisce alla popolazione. Questo avviene non solo nelle moschee dislocate in tutta la Turchia, ma anche in strutture pubbliche come ospedali, orfanotrofi, prigioni, località protette per donne vittime di violenza, riformatori. A seguito di accordi con i ministeri competenti, il personale del Diyanet si reca regolarmente in queste strutture pubbliche per svolgere attività di predicazione, lettura di Corano, guida spirituale (irşad) e sostegno morale.
Dal 2005, sono stati inoltre istituiti uffici del Diyanet con l’intento di fornire sostegno morale e guida spirituale a donne e famiglie (Aile Irşad ve Rehberlik Büröları). Si tratta di una sorta di consultori familiari, dislocati sul territorio nazionale, dove predicatori e predicatrici del Diyanet incontrano su appuntamento donne e famiglie, ascoltano i loro problemi, organizzano seminari e attività di formazione. Questi uffici sono forse la struttura che più di tutte incarna la volontà dello stato, attraverso il Diyanet, di appropriarsi di ambiti nuovi come il supporto morale.
L’educazione alla morale islamica e le misure conservatrici recentemente adottate – da ultima la decisione di rimuovere la teoria di Darwin dai libri di biologia riecheggiano, capovolgendolo, il tentativo di secolarizzazione dei costumi imposto dall’alto, da parte di uno “stato-padre” kemalista chiamato ad educare più che a governare. Tuttavia, la questione va oltre la ricerca di pronostici sul se e come l’Erdoğanismo riuscirà in una nuova impresa di “ingegneria sociale” volta ad una re-Islamizzazione. L’attuale riposizionamento dei confini tra stato e religione in Turchia si evince proprio dal ruolo assunto dalla religione nelle istituzioni pubbliche, in quanto insieme di pratiche oltre che di valori. Tuttavia, la piena realizzazione di una missione “moralizzatrice” solleva non poche perplessità. Nonostante l’ingente apparato burocratico e militare, il fallimento della modernizzazione kemalista invita a riflettere criticamente sugli strumenti e sull’efficacia delle politiche oggi in campo, nonché sugli scenari futuri.”

Un tuffo nel Danubio

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Ci sono eventi che si fissano nella memoria insieme alle cose che stai facendo in quel momento. Una di queste, per me, è il Natale del 1989; avevo 15 anni. Ricordo che nel pomeriggio, a casa di amici, abbiamo iniziato a seguire quanto stava succedendo in Romania e mi ricordo perfettamente l’annuncio dell’esecuzione di Nicolae Ceaușescu e della moglie. Oggi, su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, trovo questo articolo di Marina Constantinoiu e Istvan Deak (Originariamente pubblicato in romeno da http://miscareaderezistenta.ro il 15 marzo 2016. Questo articolo fa parte di una serie di inchieste realizzata nell’ambito del progetto “Reporters in the field”, finanziato dalla Robert Bosch Stiftung, in collaborazione con Berliner Journalisten Schule. Alcuni di questi articoli vengono ora proposti anche ai lettori di OBC Transeuropa)
La fine degli anni ’80 in Romania vedeva esacerbarsi tutti i problemi sistemici del regime comunista instauratosi quattro decenni prima. La popolazione nutriva un profondo risentimento per il grave calo del tenore di vita, la riduzione delle libertà civili, l’isolamento internazionale del paese, le erratiche politiche statali e gli abusi quotidiani; erano in molti a sentirsi sull’orlo della disperazione. Per i romeni, la libertà nell’accezione della Dichiarazione universale dei diritti umani aveva un solo significato: la defezione in Occidente. Oltre il confine del Danubio, oltre il confine di terra finemente arato per rilevare qualsiasi impronta, oltre le onde del Mar Nero: solo lì c’era la libertà. Alcuni trasformavano questa ricerca della libertà in un’ossessione personale. Il proposito si estendeva a tutta la popolazione a prescindere dall’età. Questo potrebbe spiegare perché molti disertori erano minorenni. Con il senno di poi, è facile giudicarli giovani sconsiderati in cerca di adrenalina. Quello che non è facile è mettersi nei loro panni, immaginarsi oggi, dalla nostra prospettiva di persone che godono di accesso all’istruzione e all’informazione e del discernimento e la libertà di scelta che loro non avevano, che cosa significasse vivere in una società recintata.
Allenarsi, raccogliere informazioni, procurarsi mappe, racimolare denaro, contattare guide, nuotare vasche su vasche, ottenere i documenti e sperare. Chi decideva di scappare attraversando a nuoto il Danubio aveva i documenti legati al corpo in un sacchetto di plastica: l’unico tesoro. I più fortunati avevano famiglia o amici in Occidente, e i loro indirizzi erano il loro pass per l’esterno: una piccola garanzia che non sarebbero stati restituiti alle autorità romene. Negli anni ’80 la fuga era un sogno di massa, che molti di noi conservavano in silenzio, perché qualunque confidente si sarebbe potuto rivelare una spia. La brutalità del sistema politico si fa più evidente in questi dettagli diabolici: chi spiava chi? Molti ex fuggitivi, andando a visionare i propri file della Securitate (ora sotto la custodia del Consiglio Nazionale per lo Studio dei file Securitate, o CNSAS), sono rimasti sconvolti nello scoprire che le spie erano i loro mariti e mogli, figli e figlie, fratelli e sorelle, suoceri e anche vicini di casa, colleghi di lavoro, amici o sacerdoti. Il quadro di repressione che trasuda da queste carte meriterebbe un’inchiesta giornalistica a parte.
Giovani e meno giovani erano arrivati a preferire il rischio della possibile morte sul confine o nel Danubio alla vita nella gabbia che era diventata la Romania. La fuga era il sogno di molti. Il risultato? Dal 1985, la Romania ha registrato una migrazione senza precedenti, con persone disposte a tutto per attraversare il confine: un’emorragia umana in atto fin dal 1948-1949, ma mai ai livelli registrati nei tardi anni ’80. La possibilità di emigrare legalmente non era un’opzione percorribile, ad eccezione dei rari casi di persone in grado di rivendicare un diritto al ricongiungimento familiare permanente. La libertà di movimento nella Romania comunista non impediva solo i viaggi all’estero, ma anche gli spostamenti all’interno del paese: ogni viaggio verso una località di frontiera doveva essere motivato e notificato alle autorità. Gli appartenenti alle minoranze tedesca ed ebraica avevano la possibilità di emigrare legalmente, ma ad un prezzo: la Repubblica Federale di Germania e Israele pagavano una somma per ogni individuo a cui il regime comunista permetteva di lasciare la Romania. Agli altri non rimaneva che cercare di attraversare illegalmente il confine, a piedi o a nuoto.
Molti di questi disertori, tuttavia, non sopravvivevano al tentativo di fuga verso la libertà: venivano uccisi dai colpi di pistola sparati dalle guardie di frontiera, picchiati a morte o annegavano nel Danubio. Secondo il codice penale dell’era comunista, attraversare il confine era reato. Chi ci provava, se restituito alle autorità romene da parte dei vicini paesi comunisti, veniva incriminato ai sensi dell’articolo 245 del codice penale, con una reclusione da sei mesi a tre anni. Questo articolo fu abrogato con la legge-decreto 12 del 10 gennaio 1990, appena dopo la caduta del regime di Nicolae Ceaușescu. Testimoni e statistiche indicano che a mietere più vittime tra il 1988 e il 1989 era il confine romeno-jugoslavo, seguito da vicino da quello bulgaro-jugoslavo, dove molti, in particolare tedeschi dell’est, morivano nel tentativo di raggiungere la Germania Ovest.
I media stranieri, in particolare Radio Free Europe, dedicavano grande attenzione ai fuggiaschi romeni. Questi erano anche gli unici canali d’informazione per scoprire che cosa succedeva dietro la cortina di ferro. Su Radio Free Europe si potevano ascoltare lettere inviate dai disertori o dalle famiglie afflitte dalla scomparsa dei loro cari. Ma tutti i media stranieri erano molto attivi sul tema, e già dal 1985 il confine romeno era considerato il più sanguinoso in Europa. La stampa di Ungheria e Germania Ovest dava copertura approfondita delle morti nel tentativo di attraversare il confine.
Il quotidiano ungherese Magyar Hirlap scrisse nel 1988 che 4000 cittadini romeni avevano attraversato quell’anno il confine verso l’Ungheria. Nel numero del 30 dicembre 1988, la pubblicazione della Germania Ovest Niedersachsische definì il confine della Romania come il più sanguinoso d’Europa. Secondo il Frankfurter Allgemeine Zeitung, sempre nel 1988 circa 400 disertori sarebbero stati uccisi dalle guardie di frontiera; l’articolo fu ripreso da The Oregonian con il titolo “I profughi romeni meritano di essere riconosciuti come tali”. Inoltre, il quotidiano jugoslavo Večernje Novosti pubblicò diversi articoli sui disertori romeni, stimando oltre 4000 vittime nel solo 1989.
26 anni dopo la caduta del comunismo, lo stato rumeno deve ancora formulare una posizione ufficiale sulla questione dei fuggiaschi uccisi o arrestati e successivamente maltrattati dalle autorità. Si tratta di un vero e proprio buco nero nella storia recente della Romania: una ferita collettiva lasciata senza medicazione. Una “meningite morale”, nelle parole di una delle persone che intrapresero la fuga. Questo non può non avere conseguenze: è uno dei motivi per cui il paese è bloccato e non riesce ad andare avanti. I fuggitivi sono stati uccisi al confine durante tutto il regime comunista, ma il picco è stato raggiunto negli ultimi anni: 1988-1989. Le persone che hanno dato gli ordini e quelle che li hanno eseguiti con eccesso di zelo sono ancora qui e sono ancora capaci di intendere e di volere. Nessuno li ha mai messi di fronte alle loro responsabilità.
Gli autori di questa inchiesta giornalistica sono riusciti a ricostruire un solo caso di guardia di frontiera processata e condannata per aver ucciso un cittadino romeno mentre attraversava il confine. Questa storia sarà al centro di uno degli articoli di questa serie”.

Imam moderati, non rassegnati

Un’inchiesta di Viviana Mazza pubblicata oggi sul Corriere della Sera. Questa è l’introduzione: “Per lo Stato islamico sono apostati, «bersagli obbligatori». Sono gli imam dei Paesi occidentali che condannano la violenza: questa inchiesta è il risultato di una lunga serie di colloqui che il Corriere ha avuto con loro. «Il nostro attivismo — dicono — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo». Senza finzioni: negano che l’Isis sia l’essenza dell’Islam, ma non dicono che «non ha nulla a che fare con l’Islam». Una riforma è dunque necessaria, «e non solo come reazione all’Isis».”
Ecco l’inchiesta (questa la fonte):
L’imam Suhaib Webb ha 43 anni, suo nonno era un predicatore cristiano dell’Oklahoma, ma lui da ragazzo s’è convertito all’Islam. Nella sua moschea, a Washington D.C., alcune donne portano l’hijab e altre no. Non piace all’estrema destra Usa ma ancor meno all’Isis che considera un complotto il suo uso della cultura pop e il suo accento del sud. Nell’ultimo numero della rivista Dabiq, i seguaci del Califfo lo hanno condannato a morte, insieme ad altri dieci imam occidentali, definiti «apostati», «bersagli obbligatori» e da eliminare con qualunque arma per «farne degli esempi». Ecco cosa tre di loro raccontano al Corriere.

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Suhaid Webb

Contattiamo l’imam Webb su Snapchat, dove pubblica continuamente video contro l’estremismo, alcuni girati nelle gelaterie e ironicamente intitolati «Isis e ice cream». «Il nostro attivismo — dice — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo, è da un po’ che lo facciamo».
Le loro vite, in seguito alle minacce, sono cambiate, anche su suggerimento dell’Fbi. Webb sostiene di prendere qualche precauzione in più quando viaggia e di stare attento prima di incontrare sconosciuti; allo stesso tempo esulta: «È chiaro che stiamo avendo un impatto nel contrastare il messaggio dell’Isis. Se così non fosse, non ci presterebbero attenzione. Le api attaccano chi disturba il loro alveare».
Altri imam, tra quelli minacciati di morte, sono più preoccupati. «Non vivo nella paura, ma so che ci sono simpatizzanti dell’Isis in America, si capisce dai loro tweet, e ci sono molte persone con problemi mentali, fanatici e lupi solitari. Ho cinque figli e non voglio diventare un martire», ci dice Hamza Yusuf,

Hamza Yusuf
Hamza Yusuf

56 anni, di Berkeley, California, definito dalla stampa inglese e americana lo studioso di Islam più importante del mondo occidentale. In un sermone intitolato «La crisi dell’Isis», diventato virale su Youtube, ha implorato Dio di non punire gli altri musulmani «per ciò che fanno questi idioti tra di noi».
Invece lo sheikh Yasir Qadhi, che opera in Tennessee ed è noto per un famoso programma sulla tv satellitare Mbc, si sente più minacciato dall’estrema destra che dall’Isis. «Non credo di correre seri rischi finché resto in America perché l’Isis non ha un grande seguito tra i musulmani qui, e di questi tempi non andrei nei luoghi caldi come Iraq e Siria. Considero comunque più pericolosi i fan di Trump e i Tea Party. Tra l’altro loro mi hanno minacciato ancor prima dei terroristi».
Molti studiosi di Islam che intendono contrastare l’Isis — non solo quelli minacciati di morte — respingono l’affermazione tout court che l’Isis non abbia «nulla a che fare con l’Islam», tanto quanto respingono l’idea che la mentalità dell’Isis sia «l’essenza dell’Islam». Per l’Imam Webb la verità sta da qualche parte nel mezzo. «I testi religiosi, come altri testi, politici o sociali, offrono una licenza interpretativa alle persone. C’è un supporto fattuale per l’Isis all’interno di questo paradigma, ma la loro interpretazione è stata e continua ad essere considerata errata sulla base del sapere normativo dell’Islam. Ci saranno sempre dei lunatici che usano i testi religiosi per legittimare la propria ideologia, e ci saranno sempre coloro che li confutano».
A farlo sono anche ex estremisti, come Maajid Nawaz, che ha un passato di reclutatore del gruppo radicale islamico Hizb ut-Tahrir ma oggi è un consulente per l’Islam del premier britannico David Cameron: «L’affermazione che tutto questo non abbia nulla a che fare con l’Islam non è onesta — ha scritto sul New York Times —. È una affermazione inutile quanto lo è dire che l’Isis è l’essenza dell’Islam. Dobbiamo avere una conversazione onesta e riconoscere che c’è un legame con le Scritture. Ci sono anche le questioni geopolitiche, certo, ma esiste un rapporto con le Scritture».
«Quello che sta accadendo è in parte una reazione protestante all’incapacità dell’Islam tradizionale di rispondere alla crisi del mondo moderno — sostiene Hamza Yusuf, che paragona la crisi attuale nell’Islam a quella della rivolta di Lutero contro il cattolicesimo —. Tutte le istituzioni, nello stesso Occidente, sono in difficoltà, pensiamo a Trump, ma la crisi è particolarmente grave nel mondo musulmano. Ricordiamoci quanto fu violenta la riforma protestante. Secondo me, dovremmo pensare a una sorta di Concilio di Trento, dove gli studiosi musulmani possano discutere le affermazioni che gli estremisti fanno sull’Islam. Si tratta di affermazioni che non hanno a mio parere alcuna legittimità religiosa e che sono inaccettabili sulla base della tradizione legale dell’Islam che proibisce la violenza indiscriminata, l’uccisione dei prigionieri o di civili innocenti considerati infedeli».

Yasir Qadhi
Yasir Qadhi

Quanto si debba porre l’accento sulle Scritture e quanto sulle questioni geopolitiche è però oggetto di dibattito. Yasir Qadhi era un predicatore salafita fino al 2009. Poi uno dei suoi allievi, Umar Farouk Abdulmutallab, l’attentatore delle «mutande bomba» che quel Natale tentò di farsi esplodere su un volo Klm da Londra, lo ha portato a rivedere le sue priorità. «Era stato un mio allievo ad una conferenza. A quel tempo io evitavo la politica, ma quello che è successo mi ha fatto capire che non potevo più stare zitto. Forse proprio perché stavo zitto i giovani gravitano verso gli estremisti». Oggi Qadhi si è anche allontanato dal salafismo per abbracciare una visione dell’Islam più «indipendente». Sostiene che «c’è bisogno di voci moderate», ma allo stesso tempo avverte che alla radice dell’estremismo non ci sono le Scritture, ma piuttosto il senso di un’ingiustizia verso i musulmani, che porta i gruppi estremisti a legittimarsi come freedom fighters. «Certo, l’Islam ha una teoria della “guerra giusta”, come ce l’ha ogni civiltà che predica di difendere gli innocenti, ma la questione se l’Isis sia musulmano o no non è la domanda fondamentale. La domanda è: quali sono le cause dell’Isis? La risposta non è nelle Scritture, ma nelle ragioni sociali e politiche in Iraq e in Siria, di cui è responsabile l’Occidente».
L’imam Webb sostiene di aver provato a parlare di teologia con giovani e meno giovani che considera potenziali prede dell’estremismo. Ma si è reso conto di una cosa: «La maggior parte delle persone che aiuto e che sono influenzate dall’Isis o da altri gruppi hanno problemi esistenziali: povertà, abusi, crisi familiari, questioni emotive, mentali. Molto raramente sono in grado di discutere di teologia, non sono consapevoli dei testi che vietano di uccidere né delle interpretazioni degli studiosi che contestano l’Isis. Infatti spesso sono inconsapevoli perfino delle stesse idee dell’Isis! Per battere l’Isis non servono più teologi, ma servono assistenti sociali, psicologici e sanitari, servono educatori».
L’Isis è una ragione in più per pensare a una riforma dell’Islam? Alcuni ne sono convinti. Il giornalista e commentatore Mustafa Aykol ci dice al telefono da Ankara che «i leader jihadisti immergono se stessi nel pensiero e negli insegnamenti islamici, anche se usano la loro conoscenza per fini perversi e brutali». Certo si tratta di interpretazioni estremiste, basate su scuole di pensiero radicali, ma a suo parere l’esperienza dell’Isis dovrebbe portare i musulmani a riflettere sugli aspetti problematici insiti nella sharia, la legge islamica, dalle questioni della parità di genere alla morte per apostasia. «Se non lo facciamo noi direttamente, l’Isis lo farà comunque a modo suo. In un numero della rivista Dabiq, per esempio, contestavano il concetto di Irja, ovvero l’idea di poter procrastinare il giudizio su chi sia o meno un vero musulmano all’aldilà, accusando altri gruppi ribelli in Siria poiché non costringono le donne a portare il velo e non uccidono gli apostati».
Se l’idea di riforma è condivisa da alcuni, il dibattito è aperto sulla direzione in cui debba andare. Per Hamza Yusuf è irrealistico pensare a una secolarizzazione del mondo musulmano, mentre invece ad esempio lo studioso Abdullahi An-n’aim è convinto che la stragrande maggioranza dei musulmani oggi non tenda assolutamente verso la sharia, ma al contrario verso uno Stato laico. Influenzato dal movimento riformista islamico del sudanese Mahmoud Mohammed Taha (che fu giustiziato per le sue idee), An-Na’im crede in una compatibilità dell’Islam con il secolarismo e i diritti umani. Il problema — ci dice al telefono dagli Stati Uniti, dove insegna all’Emory College — è che i musulmani non riescono ad argomentare e giustificare questa aspirazione da un punto di vista teologico e questo è oggi il compito degli studiosi.
«Quella della sharia resta una nozione romantica, come se al solo evocare la gloriosa sharia, tutti improvvisamente potessimo diventare forti, come se la corruzione potesse essere eliminata. È una fantasia seducente che tende a piacere alla gente. Ed è in parte il risultato di un giustificato risentimento per il comportamento degli Stati Uniti nella regione. Ma la sharia è frutto di interpretazione, è un processo umano. Quando la sharia veniva applicata, prima del periodo coloniale, ciò avveniva in un modo consensuale, in una realtà dove non c’era uno stato centralizzato. Oggi i cosiddetti tradizionalisti dello Stato Islamico, lungi dal tornare ai vecchi tempi, usano la nozione europea di Stato per obbligare la gente a seguire la sharia, la cui applicazione non era mai stata intesa per un contesto simile. E poi c’è la questione su quale parte del Corano usiamo: quello della Mecca che è più inclusivo nel suo linguaggio, con i suoi valori egualitari tra uomini e donne, musulmani e non musulmani; oppure quello di Medina la cui applicazione era legata ad un tempo di schiavitù e sottomissione delle donne?».
Per Qadhi una riforma dell’Islam è necessaria, ma non come reazione all’Isis: «Come musulmani dobbiamo riunirci e decidere quello che possiamo cambiare e quello che non possiamo. Ma se questa riforma è una reazione all’Isis, non funzionerà. L’Isis è un fenomeno temporaneo, la riforma deve essere indipendente, altrimenti è destinata a fallire perché macchiata da finalità politiche». An-Na’im è d’accordo: «L’Isis non può durare, ma dopo l’Isis ci sarà un altro Isis. Perciò dobbiamo lavorare sulla teologia e la legge islamica».

 

Gemme n° 450

The Migrant Journey Through The Eyes Of An Eight Year Old Syrian Girl
Shaharzad Hassan mostra un suo disegno, fotografato nel campo profughi di Idomeni, Grecia, 18 marzo 2016 (Matt Cardy/Getty Images)

La mia gemma consiste in alcune foto dei disegni fatti da Shaharzad Hassan, una bambina di Idomeni, campo profughi in Grecia. Lei è siriana, ha 8 anni e così sta raccontando l’esperienza della diaspora siriana. Sono rimasta colpita perché i disegni raccontano la storia di questi profughi attraverso i suoi occhi. Da un lato emerge la tenerezza, dall’altro quanto loro capiscano la situazione. Penso sia una visione molto realistica dei fatti.” Questa è stata la gemma di G. (classe quinta).
Magnus Wennman è un fotoreporter svedese. In un’intervista alla CNN, presentando il proprio lavoro “Where The Children Sleep” che potete vedere qui, ha detto: “Il conflitto e la crisi possono anche essere difficili da capire , ma non è difficile capire che questi bambini hanno bisogno di un posto sicuro per dormire. Questo è facile da comprendere. Hanno perso la speranza, e ci vuole molto perché un bambino smetta di essere tale e smetta di essere felice, anche nei posti veramente brutti”.