Dietro il velo

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Un articolo molto interessante di Marco Palillo, pubblicato poche ore fa su L’Huffington Post. Argomenti? Francia, laicità, Europa, femminismo, velo islamico, donne, islam…
La ministra socialista francese della Famiglia, Laurence Rossignol ha recentemente rilasciato una dichiarazione fortemente provocatoria sul velo indossato dalle donne islamiche “Ci sono donne che lo scelgono come c’erano negri americani favorevoli allo schiavismo”. Il parallelo fra velo e schiavismo dei neri è molto interessante e rivela inconsciamente alcuni nodi irrisolti del dibattito europeo su multiculturalismo e identità religiose.
La questione del velo in Francia ha infatti più a che fare con la storia nazionale della Repubblica francese – incluso il periodo colonialista e la tragedia dell’Algeria – che con i recenti attacchi terroristici di Parigi. Già nel 2004 il tema fu affrontato in un tumultuoso dibattito sulla controversa legge che proibiva il velo nelle scuole. Anche allora il movimento femminista francese si divise in maniera significativa: da un lato, alcune donne identificarono quella battaglia con gli ideali di laïcité repubblicana, dall’altro alcuni gruppi femministi, condannarono fortemente la legge bollandola come islamofoba e sessista. Fra questi, la più celebre è senza dubbio Christine Delphy, leader storica del femminismo materialista, cofondatrice con Simone de Beauvoir della rivista “Nouvelles Questions Feministes”. Delphy in un articolo pubblicato dal Guardian definì il divieto del velo come parte di una più ampia strategia anti-Islam iniziata in Francia 40 anni prima e accusò le femministe favorevoli al divieto di farsi strumentalizzare, come già accaduto per esempio durante la guerra in Afghanistan, da chi utilizza i diritti delle donne per sostenere altre battaglie. Secondo Delphy “se le donne musulmane sono un’oppressa minoranza, andrebbero abbracciate, capite, non attaccate o private di un diritto fondamentale, come quello all’istruzione”.
La Delphy ha ragione quando smaschera l’ipocrisia di una battaglia ideologica che si sta facendo sul corpo delle donne (sia islamiche che non islamiche) ma che nasconde altri fini. Innanzitutto, l’esigenza di riempire un vuoto politico prodotto dall’incapacità delle classi dirigenti occidentali di affrontare le complessità prodotte dalla globalizzazione e dalle migrazioni internazionali. In questo quadro di grande ipocrisia, incapacità e malafede, le donne islamiche sono rimaste schiacciate fra due sistemi patriarcali che vogliono utilizzarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il mondo islamico fondamentalista, che le tratta come esseri inferiori, a volte come merci; dall’altro l’occidente che vuole utilizzarle per fare una battaglia contro i maschi islamici, cacciandoli via dalla fortezza Europa.
Insomma, dai fatti di Colonia in poi, è evidente che nello scontro fra islam-occidente, le donne, le loro libertà, i loro corpi, non contano proprio nulla. Se contassero qualcosa, le donne islamiche non verrebbero costantemente rappresentate come delle povere vittime, senza capacità di discernimento o scelta, e dunque sempre assolte, assistite o compatite.
Pensiamo al caso più paradossale delle giovani islamiche che si sono unite al Califfato. Queste ragazze vengono raccontate dalla stampa come delle povere indifese circuite da Imam, ovviamente maschi, finite nelle mani di crudeli mariti in Siria che le segregano. Eppure la cronaca ci insegna che non è così, nella maggior parte dei casi si tratta di donne educate, occidentali, che decidono di unirsi all’ISIS, come i loro commilitoni maschi, prendendo aerei e viaggiando di nascosto raggiungendo spesso da sole il confine siriano dalla Turchia. Musulmane sono anche le soldatesse curde che ai terroristi dell’ISIS sparano con i kalashnikov o le attivista yazide, che stanno cercando di liberare le loro sorelle divenute schiave sessuali dopo la presa del Sinjar.
Insomma la ministra Rossignol, nella sua dichiarazione impacciata rivela due grande verità:
il femminismo europeo (specie quello della sinistra tradizionale) non ha fatto pace con l’autonomia e la soggettività delle donne islamiche, anzi tende a negarle ogni volta che può;
il pensiero femminile europeo non è stato influenzato adeguatamente dal femminismo intersezionale di matrice americana che mette in rilievo come non esista un’unica voce femminile valida per tutte le donne, ma che le differenze prodotte dall’intersezione del genere con i molteplici aspetti che compongono l’identità (classe sociale, etnia, la religione, l’orientamento sessuale) presuppongano più femminismi e il riconoscimento delle differenze non solo tra maschile e femminile, ma anche tra diversi gruppi di donne.
Ecco perché il paragone con gli schiavi afroamericani della Rossignol è assai rivelatorio. Le donne musulmane vengono dipinte comunque come esseri inferiori, costantemente vittime, sia dai loro difensori che dai loro nemici. Soggetti senza voce, a cui le donne occidentali, rivendicando il proprio privilegio, devono sostituirsi (per il loro bene, s’intende) anche quando si tratta di scelte come l’abbigliamento personale e la fede religiosa. In pratica, vogliamo liberare le donne musulmane, sostituendo i maschi islamici (padri, mariti) che parlano e decidono per loro, con altre donne (questa volta occidentali) che però continuano a parlare e a decidere a loro posto. Facendo così si rischia di vanificare l’operazione – questa sì veramente libertaria e rivoluzionaria – di cambiamento sociale portata avanti dalla stragrande maggioranza di giovani islamiche europee, che si sentono pienamente parte della cultura occidentale, aderendo in toto negli stili di vita, costumi, e valori, ma che non vogliono rinunciare alla propria identità etnica-religiosa, di cui il velo è un chiaro simbolo storico-culturale.
Lo racconta bene Amara Majeed, studentessa in neuroscienze alla prestigiosa Brown University, in una lettera aperta alla ministra Rossignol pubblicata da Bustle. Quando a quattordici anni decise di indossare lo hijab, la domanda più frequente fu “sono stati i tuoi genitori a importelo?”. La Majeed raccontando la sua scelta personale, frutto di una libera scelta senza costrizioni, afferma che “il velo le copre la testa non il cervello”. E forse questa rivendicazione di auto-determinazione femminile che spaventa più di ogni altra cosa? Per questo motivo, Amara ha lanciato un esperimento sociale, The Hijab Project, in cui invita le donne di tutte le fedi e razze, a indossare il copricapo islamico per un giorno, raccontando poi l’esperienza sul suo blog. Il progetto che ha riscosso grande attenzione dai media occidentali, dalla BBC a Good Morning America, mira a promuovere l’empowerment delle donne islamiche, facendo capire alle donne occidentali cosa si provi a vivere con il velo. Per Majeed indossare il hijab è una scelta femminista, di ribellione rispetto a un mondo che mercifica e sessualizza costantemente le donne, dalle copertine dei giornali alle molestie sessuali. In questo, sorprendentemente, Amara Majeed riecheggia la ministra francese Rossignol che in un’intervista al Corriere, paragona il velo agli abusi di chirurgia estetica. Chi scrive ovviamente non è d’accordo con nessuna delle due, essendo assolutamente favorevole tanto al velo quanto alle labbra a canotto se frutto di consapevole scelta; allo stesso tempo ritengo però che questo dibattito interculturale tra donne sia una grande ricchezza, perché il tema del velo riapre questioni irrisolte che danno ancora fastidio: il riconoscimento delle soggettività femminili, la libertà di scelta delle donne e l’autodeterminazione sul proprio corpo.
Sia Rossignol che Majeed infatti si interrogano su un sistema simbolico – il velo e la chirurgia estetica – creato dal potere maschile, dalle sue regole e dei suoi canoni estetici, anche se in due culture differenti. Ecco, che allora se da un lato il dibattito sul velo va fatto con le donne musulmane e non al posto loro, non bisogna dimenticare che questo dibattito non è neutro perché avviene comunque all’interno dello scontro fra due sistemi patriarcali, quello occidentale e quello islamico. Essere femministe o femministi, oggi, significa non fare sconti a nessuno dei due, ma soprattutto non farsi strumentalizzare da nessuno dei due.
Le femministe occidentali non devono farsi portavoce delle donne islamiche, soprattutto quando le uniche che frequentano sono le proprie colf. Ecco che la pletora di articoli in stile “io ti salverò”, intrisi di paternalismo e buonismo, non è più accettabile. In questo senso, sono più oneste le commentatrici di destra, alla Fallaci, che vedendo nell’Islam un nemico, vedono le donne islamiche alla stregua dei maschi un avversario da battere. Inoltre, le femministe occidentali, che come me non credono nello scontro fra civiltà, ma semmai fra patriarcati, non possono essere così ingenue da non problematizzare il proprio privilegio che le rende così distanti – quasi aliene – rispetto alle donne musulmane, nonostante la biologia e l’anatomia.
Dall’altra parte, le femministe islamiche non possono però chiederci di non vedere le crudeltà e la violenza inflitte nelle comunità islamiche nei confronti delle donne, delle minoranze religiose, o degli omosessuali. La laicità è un valore irrinunciabile per l’Europa, conquistato con grande fatica e molti sacrifici: non siamo perciò disposti a nessuna forma di indulgenza motivata su basi culturali o religiose verso quelle pratiche che limitino le libertà o il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. Inoltre, le nostre amiche e sorelle islamiche devono avere il coraggio – molte già lo fanno a dire il vero – di aprire una discussione franca su questo con i loro uomini, sfidandone il potere se serve. Noi dobbiamo sostenerle, ma non possiamo e non dobbiamo sostituirci a loro.
Su questi basi si può aprire una vera discussione paritaria fra donne (e uomini) di diverse culture, religioni, classi sociali, che superi lo scontro di civiltà, gli stereotipi, le caricature, per regalarci un vero incontro fra civiltà, non basato sulla stucchevole retorica buonista che non porta da nessuna parte, ma su un mutuo riconoscimento della differenze all’interno di una più ampia politica delle identità.”

Panorama siriano

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Capire quale sia la situazione in Siria penso sia una delle sfide più grandi per i non addetti. Questo articolo della redazione di OasisCenter cerca di fare un po’ di chiarezza con il contributo di Paolo Maggiolini.

La recente decisione russa di impegnarsi militarmente in Siria sta riportando l’attenzione sul conflitto che da quattro anni infiamma il Paese mediorientale e sembra aver messo fine a quella condizione di stallo che ne ha determinato le dinamiche sino a questo momento. In tale contesto è fondamentale capire quali sono, dove operano e da chi sono sostenuti i protagonisti del conflitto.

LE FORZE PRO-ASSAD
Il regime di Assad è sostenuto internazionalmente dalla Russia e dall’Iran. Sul campo operano gli effettivi dell’esercito governativo siriano, varie milizie legate al presidente e le milizie di Hezbollah e di altri gruppi sciiti. La Russia, che dispone in Siria dell’importante porto di Tartus (l’unico sbocco sul Mediterraneo per la flotta militare russa), ha finora colpito soprattutto le zone occupate dai ribelli, in particolare la regione di Idlib, recentemente conquistata dalla coalizione formata da Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham.
L’esercito siriano
Le forze del regime di Bashar al-Assad sono concentrate lungo una dorsale che corre da sud a nord e controllano i territori che guardano al Libano e al Mar Mediterraneo e includono le città di Damasco, Homs, Hama e Latakia.
Nei mesi passati, diverse fonti sottolineavano la debolezza dell’esercito siriano, ridotto ormai alla metà della sua forza originale (300.000 uomini) e limitato dalla presenza sempre più rilevante di soldati di leva. Il presidente siriano ha potuto ovviare a parte di queste criticità grazie alla messa in campo di milizie irregolari (le famigerate Forze di Difesa Nazionale) e, soprattutto, al supporto di forze esterne, come quelle di Hezbollah.
Altre milizie
A sostegno di Assad operano altri gruppi poco conosciuti, di estrazione sunnita, alawita, curda e cristiana. Tra queste si possono menzionare la Muqawama Suriya, la Liwa’ Dir’ al-Sahel e Dir’ al-Watan.
Hezbollah
Hezbollah è la principale milizia sciita impegnata in Siria. Essa giustifica il suo intervento come jihad difensivo per la protezione del santuario di Sayyida Zaynab a Damasco e per combattere le forze takfîrî, cioè i gruppi sunniti estremisti che accusano i musulmani devianti, e in particolare gli sciiti, di miscredenza. Sostenuta dall’Iran, coordina altri gruppi sciiti presenti sul territorio, tra i quali vi sono anche contingenti iracheni e addirittura pakistani. Hezbollah opera principalmente nei territori confinanti con il Libano da Qalamoun a Homs.

LE FORZE ANTI-ASSAD
A livello internazionale, le principali forze che operano per la caduta di Assad sono l’Arabia Saudita, la Turchia, il Qatar e gli Stati Uniti. Esse sostengono sul campo una molteplicità di attori che si distinguono sia sotto il profilo tattico-strategico che per quello ideologico-politico. L’Arabia Saudita è il principale fornitore di aiuti militari e finanziari di diversi gruppi ribelli, e in particolare di quelli salafiti. Gli Stati Uniti forniscono assistenza militare a diverse formazioni ribelli, non escluse quelle islamiste e jihadiste. La CIA ha lanciato un programma di addestramento mirato di 5000 ribelli anti-Assad, poi fallito.
Jabhat al-Nusra
Partendo dalle realtà non collegabili a ISIS, la formazione sicuramente più nota è Jabhat al-Nusra. Costola siriana di al-Qaida, essa opera nella regione di Idlib, lungo il corridoio che separa Hama e Homs, nei pressi di Damasco e sul fronte meridionale, in particolare sulle alture del Golan. È sostenuta e finanziata dalla Turchia, dall’Arabia Saudita e da altri Paesi del Golfo.
Ahrar al-Sham
Meno noto di al-Nusra, esso rappresenta in realtà il movimento di opposizione forse più importante per effettivi e partecipazione popolare. Di ispirazione salafita, punta al rovesciamento del regime di Assad per istituire uno Stato fondato sulla sharî‘a, tanto che dottrinalmente non è facile distinguerlo da Jabhat al-Nusra, anche se a differenza di quest’ultima non è classificata dagli USA come organizzazione terroristica. Opera nelle aree di Aleppo, Idlib, Homs e Hama. Nel 2012 Ahrar al-Sham ha dato vita al Fronte Islamico Siriano, un sigla in cui sono confluite diverse milizie affini, tra cui Jaysh al-Islam, forza che agisce principalmente a Damasco e Liwa’ al-Tawhid, impegnata soprattutto a Aleppo. È sostenuta finanziariamente dai Paesi del Golfo.
Jabhat Ansar al-Din
È una coalizione jihadista che agisce nella Siria settentrionale autonomamente da altri gruppi come ISIS, Jabhat al-Nusra o Ahrar al-Sham. È formata dalla Harakat Fajr al-Sham e dalla Harakat Sham al-Islam. Originariamente ne faceva parte anche il Jaysh al-Muhajirin wa-l-Ansar, che forniva alla coalizione i contingenti più cospicui, ma se ne è recentemente distaccato per unirsi a Jabhat al-Nusra. Prima di questa scissione, Jaysh al-Muhajirin era collegata tramite il suo leader Salah al-Din al-Shisani all’emirato del Caucaso ed era composta soprattutto da combattenti caucasici. Ora è invece perlopiù formata da militanti arabi ed è guidata da un saudita.
Esercito Siriano Libero (Free Syrian Army)
All’inizio della rivolta siriana è stato il braccio armato della Rivoluzione. È composto da formazioni di estrazione esclusivamente siriana e in particolare da disertori dell’esercito governativo. Non essendo classificato come gruppo estremista è destinatario di finanziamenti internazionali, ma è difficile valutare la sua reale capacità operativa.

Le “operation room”
Davanti a una tale complessità ed eterogeneità di gruppi combattenti, il fronte delle opposizioni ha cercato di creare delle ‘camere operative’ con lo scopo di aggregare differenti formazioni all’interno di fronti specifici, ritrovando nell’opposizione al regime di Assad il comune denominatore. Queste sinergie operative sono emerse anche in funzione anti-ISIS, come dimostrato nel dicembre 2013 nel nord-ovest della Siria quando le forze di diverse formazioni confluite nell’“Esercito Islamico” (Jaysh al-Islam) riuscirono a infliggere gravi perdite alle forze del Califfo. Su questa linea è anche interessante ricordare la creazione dell’“Esercito della Conquista” (Jaysh al-Fatah) grazie a cui diversi gruppi si sono coalizzati, in particolare Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham, riuscendo a creare e mantenere una zona di influenza nel contesto di Idlib.

I curdi del PYD
Esistono infine altri due attori rilevanti del conflitto civile siriano che però si distinguono rispetto alle precedenti formazioni per specificità ideologiche e strategiche: l’ala militare del PYD (Partito dell’Unità Democratica, secondo alcuni diretta emanazione del PKK) e ISIS. Per quanto concerne la prima formazione, le forze curde si sono distinte sul campo riuscendo a bloccare l’avanzata di ISIS nel gennaio del 2015 a Kobane e tuttora controllano due ampie sacche a nord della Siria con lo scopo finale di unificare l’intera regione di Rojava, ad oggi interrotta nella sua parte centrale.
ISIS
Infine, presenti sul territorio siriano fin dall’inverno del 2013, le forze di ISIS hanno il loro punto nevralgico nella città di Raqqa. Nonostante si insista a comparare ISIS a uno stato con frontiere e un territorio ben delimitato, la sua presenza in Siria si articola piuttosto lungo corridoi strategici, che permettono i collegamenti con le città irachene occupate (Ramadi e Mosul in particolare) e con le altre aree siriane sotto controllo (tra cui Palmyra e parzialmente Deir ez-Zor) o attacco (tra cui Aleppo e Damasco).”

Storia di un’elicotterista (no, l’apostrofo non è un errore)

Nadyia

Una storia dalle tinte fosche e cupe all’interno delle tensioni russo-ucraine, a firma di Danilo Elia su Osservatorio Balcani e Caucaso.
Il tenente Nadiya Savchenko è la donna pilota più famosa d’Ucraina. Una carriera di oltre dieci anni nelle forze armate di Kiev, prima come paracadutista e poi come elicotterista sui Mi-24. Il 30 luglio scorso Nadiya è comparsa davanti ad un giudice russo per rispondere di omicidio. L’udienza preliminare si è tenuta a porte chiuse nella cittadina di Donetsk, a un tiro di schioppo dai territori in guerra dell’Ucraina, da non confondersi con l’omonima città sotto il controllo dei separatisti, al di là del confine. Nadiya è stata portata lì dalla prigione di massima sicurezza di Novocherkasska, vicino Rostov sul Don, dove era stata trasferita pochi giorni prima dopo più di un anno trascorso a Mosca, tra il carcere n. 6, l’ospedale penitenziario Matroskaya Tishina e il famigerato istituto psichiatrico Serbsky.
All’udienza per la prima volta non è stata ammessa la stampa, e tutto quello che sappiamo lo dobbiamo alle parole del suo difensore, Mark Feygin, e ai suoi tweet. Come quello in cui ha scritto che “il tribunale di Donetsk oggi sembra Fort Knox”, mandando una foto dei corpi speciali Omon della polizia fuori dall’edificio. Per Feygin, e non solo, la mossa delle autorità russe di spostare il processo da Mosca a questa sperduta periferia è l’ennesimo bastone fra le ruote alla difesa di Nadiya. Per il suo difensore il processo contro di lei è montato senza la minima prova, un caso altamente politicizzato, perché “in Russia non esistono tribunali indipendenti. Il sistema giuridico della federazione dipende da un potere autoritario, è solo un’appendice repressiva del governo”. E ancora, “L’unica cosa che può aiutare Nadyia è una forte pressione internazionale. Nient’altro”.
Nadiya è accusata dell’omicidio di Igor Kornelyuk e Anton Voloshin, due giornalisti della tivù di stato russa Rossiya 1 uccisi da colpi di mortaio il 17 giugno 2014 a Metalist, vicino Lugansk in Ucraina. Stavano filmando un posto di blocco separatista preso di mira dall’artiglieria ucraina. Secondo il Comitato investigativo russo, una specie di superprocura alle dirette dipendenze del Cremlino, che ha condotto le indagini, sarebbe stata proprio lei dal suo elicottero a dare le coordinate a terra per sparare i colpi mortali.
La tesi accusatoria e la versione difensiva, però, raccontano due storie completamente diverse. Nadiya è caduta prigioniera dei miliziani filorussi a giugno dello scorso anno nelle vicinanze di Lugansk. Secondo i ribelli, è stata catturata durante uno scontro con le truppe ucraine del battaglione Aydar. La stessa Nadiya però ha raccontato una versione differente in un’intervista a un giornalista russo della Komsomolskaja Pravda, Nikolai Varsegov, quando era ancora prigioniera dei miliziani in Ucraina. Ha detto di essere stata catturata insieme ad altri commilitoni sul campo di battaglia di Shchastya, mentre cercava di soccorrere i feriti. Non era cioè in missione di combattimento col suo elicottero, ma stava partecipando come volontaria in supporto a medici e infermieri militari. I suoi carcerieri l’hanno filmata ammanettata a un tubo mentre si rifiutava di rispondere alle loro domande e hanno caricato il video sul web. Nadiya è rimasta in prigionia nelle loro mani con certezza dal 18 giugno 2014, data della sua cattura e della diffusione del video, al 24 giugno, giorno in cui Varsegov l’ha intervistata. Ma poi di lei non si è saputo più niente. Finché non è ricomparsa davanti a un giudice a Voronezh, in Russia, il 9 luglio 2014, con l’accusa di immigrazione clandestina. Secondo il procuratore, era stata arrestata casualmente durante un controllo di routine perché trovata senza documenti. In un secondo tempo la polizia si sarebbe accorta di avere tra le mani un ufficiale dell’esercito ucraino. Le indagini del Comitato investigativo avrebbero poi ricondotto Nadiya all’uccisione dei due giornalisti russi. Secondo l’accusa, Nadiya, dopo essere stata catturata a Lugansk, sarebbe sfuggita ai suoi carcerieri, avrebbe disertato dall’esercito ucraino e cercato rifugio illegalmente in Russia attraversando il confine senza documenti. Lei invece racconta di essere stata consegnata ai russi, che l’hanno incappucciata e portata al di là del confine, dove ha avuto inizio il suo incubo.
Finora Nadiya ha passato più di un anno in detenzione cautelare, senza cioè che la sua colpevolezza fosse dimostrata. In ogni udienza di proroga della carcerazione, le richieste della difesa sono state puntualmente rigettate. A dicembre dello scorso anno, quando era ormai chiaro che non sarebbe uscita di galera tanto presto, Nadiya ha iniziato uno sciopero della fame. Non ha mangiato per 83 giorni. Ha perso quasi 20 chili ed è arrivata a un passo dalla morte. Ha anche stracciato ogni record del penitenziario. “Nessuno ha mai resistito tanto”, ha detto il medico della prigione a Feygin. “Di solito, dopo un paio di settimane la loro volontà crolla”. Per tutta risposta il giudice ha disposto il suo internamento nell’istituto psichiatrico Serbsky, una struttura statale tristemente famosa dai tempi dell’Urss come centro di detenzione dei dissidenti, che spesso erano dichiarati mentalmente infermi e sottoposti a inumani “trattamenti psichiatrici”. Nel frattempo, anche grazie al suo sciopero della fame, il caso di Nadiya è diventato internazionale. Manifestazioni per la sua liberazione si sono tenute in tutto il mondo, l’hashtag #FreeSavchenko si è diffuso sul web e la rappresentante degli Usa all’Onu, Samantha Power, ha portato il caso all’attenzione delle Nazioni Unite.
In patria Nadiya è diventata un’icona. Alle ultime elezioni parlamentari è stata candidata a distanza da Yulia Tymoshenko nel suo partito Batkyvshchyna, è stata eletta alla Rada. L’immunità parlamentare che le spetta è risultata ovviamente inutile in Russia, così come l’essere rappresentate dell’Ucraina presso la Pace, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nadiya resta in carcere. L’avvocato Feygin dice di aver raccolto prove a sufficienza della sua innocenza, aggiungendo però che “i fatti non contano niente in questo processo”. Il portavoce del Comitato investigativo, Vladimir Markin, ha detto invece che “le prove raccolte dagli investigatori sono abbondanti e dimostrano la colpevolezza dell’accusata nell’uccisione di due o più persone sulla base di odio sociale e di un piano premeditato”.
Nadiya sarà giudicata in base dell’articolo 105 del codice penale russo, che prevede la condanna all’ergastolo per l’omicidio volontario. “Ma lo stesso codice penale proibisce la condanna a vita per le donne”, ha aggiunto Markin. “Nadiya Savchenko può essere condannata a un massimo di 25 anni”. Quello che non ha detto Markin è che la riduzione della pena massima consente di svolgere il processo senza l’ausilio di una giuria popolare. A giudicarla saranno tre giudici a porte chiuse, e la sentenza potrebbe arrivare in tempi rapidissimi.

Uno sguardo su Tunisi

Gli attentati di Tunisi della scorsa settimana mi hanno colpito particolarmente perché hanno toccato luoghi che ho visitato in un viaggio di qualche anno fa. Oggi pubblico un articolo di Simone Olmati del 20 marzo (pubblicato su Limes), con alcune foto che ho scattato nel luglio 2008.

Tunisia 15-22 luglio 2008 323 fbLa sparatoria davanti al Parlamento e il successivo attacco all’adiacente museo del Bardo che ha provocato 22 vittime accertate gettano la Tunisia nella guerra regionale al jihadismo (non solo dello Stato Islamico). Un vortice da cui la giovane democrazia nordafricana avrebbe volentieri mantenuto le distanze, come testimoniano le posizioni assunte dal governo di Tunisi in merito alla crisi libica e la replica, ben più esplicita, del primo ministro Habib Essid all’appello interventista dell’Egitto. “Abbiamo preso tutte le misure necessarie”, aveva dichiarato Essid lo scorso 18 febbraio. Un mese dopo, l’attacco terroristico non solo ha smentito nei fatti le parole del premier, ma ha messo in mostra le falle evidenti dell’intelligence e trascinato di peso il paese dei gelsomini nella lotta al terrorismo. L’attentato avrà senza dubbioTunisia 15-22 luglio 2008 327 fb conseguenze rilevanti sull’approccio che il governo deciderà di adottare per prevenire la penetrazione jihadista. Nel discorso immediatamente successivo all’assalto il premier ha parlato di una “guerra lunga”, ma ha voluto altresì rassicurare i tunisini sul fatto che il governo adotterà contromisure straordinarie per tutelare la capitale e i siti turistici, ben consapevole del danno economico che l’attentato può produrre in termini di riduzione delle presenze turistiche. Il governo stima una perdita di almeno 700 milioni di dollari. Il turismo infatti, sebbene in calo negli ultimi anni, rappresenta pur sempre circa il 15% del pil tunisino.

Case di Sidi copia 2Nel pomeriggio del 19 marzo è arrivata la rivendicazione del gesto da parte dello Stato Islamico (Is), con un file audio e un testo diffusi via twitter. Entrambi i file dovranno essere vagliati attentamente per accertarne l’attendibilità. Nonostante l’attribuzione del gesto all’Is, la presenza organizzata e strutturata di seguaci di al-Baghdadi in Tunisia non sembra trovare riscontro; così come non sembrano esserci state, ad oggi, affiliazioni ufficiali di gruppi jihadisti locali al “califfato”. I messaggi di sostegno all’Is da parte di alcuni battaglioni di terroristi sembrano più opera di singoli militanti che non delle rispettive leadership, ancora fedeli ad al Qaida. Il battaglione Okbaa Ibn Nafaa rientra in questa casistica. La katiba, operativa al confine tra Tunisia e Algeria, ha rivendicato – tra le altre azioni – l’uccisione di quattro soldati di stanza nel governatorato di Kasserine avvenuta nella notte tra il 17 e il 18 febbraio scorso. Nonostante la katiba (non l’unica operativa in Tunisia) abbia in passato diffuso contraddittori messaggi di supporto allo Stato Islamico (come riporta David Thompson), essa non ha mai giurato fedeltà al califfato ed è, viceversa, ritenuta affiliata alla casa madreTappeti! copia 2 Ansar al-Sharia, alla quale garantirebbe un legame “operativo” con al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi). Le forze attualmente attive in Tunisia sono dunque riconducibili all’ombrello di Aqmi più che allo Stato Islamico. Proprio il giorno prima dell’attentato di Tunisi, era stato uno dei leader di Ansar al Sharia, Wannes Fékih, a preannunciare in un video – dove compare soltanto in foto – “giorni pieni di avvenimenti”. Gli arresti delle ultime ore sapranno dare qualche informazione in più a riguardo.

Stato Islamico o al Qaida, la Tunisia deve preoccuparsi soprattutto del “terrorismo di ritorno”, laddove il paese dei gelsomini più di ogni altro esporta foreign fighters sui fronti caldi di Iraq e Siria. Tali combattenti, arruolatisi in molti casi anche a causa di condizioni di marginalità economica e sociale, potrebbero tornare in patria da militanti estremamente radicalizzati ma soprattutto da esperti combattenti, con tutti i rischi che ne conseguono. Lo scorso 13 febbraio, Rafik Chelli – segretario di Stato incaricato della sicurezza – aveva dichiarato che i jihadisti rientrati dalla Siria sarebbero almeno 500. I due autori materiali dell’attacco al parlamento e al Bancarella di spezie copia2Bardo avrebbero trascorso un periodo in due campi d’addestramento in Libia prima di rientrare, secondo quanto riportato dallo stesso Chelli. Si badi bene, però: la Tunisia non è la Libia. A fronte di un non-Stato petrolifero ai suoi confini orientali, il governo di Tunisi, peraltro già impegnato nella repressione dei movimenti estremisti e nel controllo delle proprie frontiere, dispone delle risorse militari e di intelligence da dispiegare per arginare il fenomeno. È prevedibile che l’esecutivo, come preannunciato ieri dai suoi più alti esponenti, adotterà ulteriori misure a protezione dei siti sensibili. Anche grazie a una tradizione laica di bourghibiana memoria e a una società civile variegata ma adulta, la primavera tunisina non è sfociata in un vuoto di potere colmato da gruppi jihadisti, bensì nelle istituzioni democratiche che oggi sono chiamate ad affrontare la situazione. A tale proposito, dal 24 al 28 marzo si terrà a Tunisi il Forum SocialePanettiere copia2 Mondiale, confermato dagli organizzatori proprio per non mostrare cedimento alla minaccia terrorista. Sarà un appuntamento importante sia per dimostrare solidarietà alla società civile tunisina, sia per rimettere al centro del discorso temi quali i diritti sociali e lo sviluppo economico sostenibile che potrebbero costituire dei veri argini al reclutamento jihadista, soprattutto all’interno di società a forte sperequazione sociale come quelle arabe.

L’attentato del Bardo, infine, ha dimostrato che la Tunisia non può combattere da sola. Sarà dunque importante che l’Europa e l’Italia in particolare, per ragioni di prossimità geografica e di relazioni storico-economiche, rafforzino la cooperazione con Tunisi nello scambio di informazioni sensibili e di intelligence. Quattro anni fa i paesi occidentali hanno perso l’occasione di dialogare con le forze progressiste, laiche e religiose dei paesi mediterranei lasciando che fossero altri attori regionali a farsi largo tra le pieghe delle rivoluzioni. La Tunisia ha resistito finora, nonostante tutto. Oggi l’Europa e l’Occidente non possono lasciarla sola.

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Ritorno dal mercato copia2

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Pubblico in pdf ancora alcuni articoli che ho trovato navigando in rete in questi giorni: sono molto vari, spesso in contraddizione tra loro (basta vederne la provenienza). Il tutto per continuare ad alimentare e approfondire la discussione affrontata in classe.

Le colpe dell’Islam e le nostre – La Stampa
La globalità del nuovo islamismo – La Stampa
Io non sono Charlie – La Stampa
Pensiero critico per andare contro gli estremismi – La Stampa
La vera satira non può limitarsi – La Stampa
Ma c’è un confine che va rispettato La Stampa
Come evitare lo scontro di civiltà dopo la strage di Parigi -Limes
Ma Islam vuol dire pace _ Vito Mancuso
La deriva violenta della umma coranica nel mondo – Il Foglio
Un calcio all’estremismo – Il Sole 24 ORE
Ecco come Al-Qaeda ha addestrato e globalizzato la jihad dallo Yemen – Il Sole 24 ORE
Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi – L’Espresso
Io sono Charlie (e stupida). Ho sbagliato_ è scontro di civiltà – Il Giornale
Da al Qaida allo Stato Islamico, ovvero_ il jihad dall’élite al popolo – Limes

Su Parigi

Pubblico in pdf alcuni articoli che ho trovato navigando in rete stamattina, tenendomi ben lontano dalle dichiarazioni degli esponenti politici e dagli scontri di social network e talkshow.

Attacco di Parigi, colpita la libertà di espressione – Avvenire
Condanna senza remore dagli islamici moderati – Avvenire
Il cuore dell’occidente – Repubblica
L’anima e la ragione – Il Sole 24 ORE
Noi Europei – L’Espresso
Noi musulmani dobbiamo reagire – Corriere
Non siamo come loro, è la nostra forza – La Stampa
Quelle voci lasciate sole anche da noi
Un attacco allo stile di vita fondato sulla tolleranza – Il Sole 24 ORE
Appello Organizzazioni Musulmane francesi – Internazionale
Una Guerra ai nostri Valori – La Stampa

Le certezze di sfondo di Habermas

Politica, Europa, spinte separatiste, Merkel, religione, filosofia: questi sono, sommariamente, gli argomenti toccati da Jürgen Habermas in questa intervista pubblicata in giugno sulla “Frankfurter Rundschau” in occasione dell’85mo compleanno del filosofo. L’ho trovata su Reset-DoC, pubblicata il 22 luglio. Non è breve e non è da leggere alla leggera. Per appassionati, dritta nella categoria “Pensatoio”.

Juergen Habermas to receive Heinrich Heine prizeM.S. Signor Habermas, la prossima settimana lei compirà 85 anni. Che cosa significa per lei – alla sua età – “vivere il presente”? Quale filo la collega al mondo dei suoi figli e nipoti?

J.H. Sta pensando a una qualche “passione per il presente”? Sì, seguo sempre con passione gli sviluppi della politica. D’altro canto, veder schiacciare sul passato della storia la propria generazione fa un po’ l’effetto di uno “scuoiamento”. Ieri ho ricevuto la prima copia di una mia biografia[1] scritta da Stefan Müller-Doohm. Anche se la persona dell’autore, di cui ho la massima stima, non me ne darebbe motivo, io ho paura ad affrontare questo libro. Quanto ai miei figli, che sono già grandi, ho l’impressione che condividano tutto sommato le idee politiche e intellettuali dei loro genitori. Solo i miei nipoti sembrano già vivere già in un’altra epoca…

M.S. Retrospettivamente parlando, quali sono state le sue esperienze più importanti che la hanno indirizzato sul piano intellettuale e sul piano pratico?

J.H. Le esperienze intellettuali si lasciano facilmente ricondurre a determinati personaggi. Il mio primo filosofo l’ho incontrato nella figura di Karl-Otto Apel, che mi è stato prima mentore e poi amico. Lo straordinario privilegio di lavorare con Adorno mi ha fatto toccare da vicino un modo di pensare che è illuminante e affascinante nello stesso tempo. Anche Wolfgang Abendroth e Hans-Georg Gadamer sono ancora stati – per me – come una sorta di ultimi maestri accademici. Dopo di che ho potuto imparare da un’intera generazione di “peers” al di qua e al di là dell’Atlantico. Ho avuto soprattutto la fortuna d’incontrare sulla mia strada dei collaboratori brillanti, che mi hanno aiutato in tutte le svolte del mio pensiero. Questi sono stati, tutto sommato, i miei stimoli intellettuali. Ma lei chiede anche delle esperienze “sul piano pratico”. Chiunque sia sposato da sessant’anni e abbia figli, sa che ci sono cose ben più importanti degli stimoli intellettuali…

M.S. Lei venne subito famoso con il suo testo di abilitazione: Strukturwandel der Öffentlichkeit (1961)[2]. Il quadro empirico di riferimento è oggi del tutto cambiato. La sfera pubblica è infatti stata radicalmente trasformata dai nuovi mass-media. Come imposterebbe lei oggi questo lavoro? Come potremmo applicare ai rapporti presenti quel concetto enfatico – e normativamente impregnato – di “sfera pubblica” democratica cui lei non ha mai cessato di essere fedele?

J.H. Oggi vediamo come, persino in Occidente, procedure e istituzioni democratiche possano ridursi a vuote facciate se viene loro a mancare una sfera pubblica funzionante. Per converso, il funzionamento delle sfere pubbliche presuppone sempre esigenti condizioni di tipo normativo. Infatti i circuiti comunicativi pubblici non dovrebbero essere tagliati fuori dai processi decisionali effettivi. In Europa, anche la crisi politica degli ultimi anni ci ha insegnato molto su questi due aspetti del problema.

M.S. Internet è un vantaggio o uno svantaggio per la democrazia?

J.H. Né l’una cosa né l’altra. Dopo le invenzioni della scrittura e della stampa la comunicazione digitale rappresenta la terza grande innovazione sul piano dei media. Con la loro introduzione, questi tre media hanno consentito a un sempre maggior numero di persone di accedere, sempre più facilmente, a una massa sempre più grande di informazioni rese sempre più durevoli. Con l’ultimo passo rappresentato da internet abbiamo anche una sorta di “attivazione”: gli stessi lettori diventano autori. Ma questo, di per sé, non crea automaticamente progresso sul piano della sfera pubblica. Nel corso dell’Ottocento – con l’aiuto dei libri e dei giornali di massa – abbiamo visto nascere delle sfere pubbliche nazionali dove l’attenzione di un numero indefinito di persone poteva applicarsi simultaneamente sugli stessi identici problemi. Questo però non dipendeva dal livello tecnico con cui i dati erano moltiplicati, distribuiti, accelerati, resi durevoli. Si tratta, in fondo, degli stessi movimenti centrifughi che avvengono anche oggi nel web. Piuttosto, la sfera pubblica classica nasceva dal fatto che l’attenzione di un anonimo pubblico di cittadini veniva “concentrata” su poche questioni politicamente importanti che si trattava di regolare. Questo è ciò che la rete non sa produrre: anzi la rete, al contrario, distrae e disperde. Pensi per esempio ai mille portali che nascono ogni giorno: per i collezionisti di francobolli, per gli studiosi di diritto costituzionale europeo, per i gruppi di coscienza degli ex-alcolizzati. Nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità comunicative sono come arcipelaghi dispersi: ce ne saranno miliardi. Ciò che manca a questi spazi comunicativi (chiusi in se stessi) è il collante inclusivo, la forza inclusoria di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono davvero importanti. Per creare questa “concentrazione” occorre prima saper scegliere – conoscere e commentare – i temi, i contributi e le informazioni che sono pertinenti. Insomma, anche nel mare magnum dei rumori digitali non dovrebbero andare perse quelle competenze del buon vecchio giornalismo che sono oggi non meno indispensabili di ieri.

M.S. Con Zwischen Faktizität und Geltung (1992)[3] lei ha offerto allo stato liberal-democratico un’imponente base di legittimazione. Cosa direbbe se qualcuno le facesse notare: Grazie a Habermas la democrazia ha vinto sul piano delle idee, resta però il problema di farla vincere nella realtà.

J.H. Direi: uno slogan amichevolmente avvelenato. Io ho soltanto illustrato uno dei possibili modelli di democrazia, e l’ho fatto in un senso puramente ricostruttivo, senza bisogno di suonare le trombe dell’utopia. La mia ricostruzione poggia sui presupposti pragmatici cui i cittadini non possono fare a meno di aderire tutte le volte che a) vanno a votare, b) portano avanti una causa in tribunale, c) si oppongono allo smantellamento dello stato sociale. Quando questi presupposti normativi (di nuovo: che ogni voto abbia nell’urna lo stesso valore, che i giudici siano imparziali, che i governi perseguano i programmi per cui sono stati eletti) vengono sistematicamente violati, allora crollano le pratiche che su di essi poggiano. Oppure tali pratiche vengono svuotate dall’interno ad opera del cinismo dei governanti e/o dalla muta apatia dei cittadini.

M.S. In certe critiche recenti, orientate più a Hannah Arendt che non a Carl Schmitt, si è anche sostenuto che il suo modello deliberativo – canalizzato in senso discorsivo – manca il suo obbiettivo in quanto vorrebbe ricostruire il Politico come un astratto processo scientifico-conoscitivo, laddove esso è piuttosto uno scontro violento per impadronirsi e mantenere il potere. Che cosa risponde a tali critiche?

habermasJ.H. In una società pluralistica la procedura democratica è l’unica fonte per produrre decisioni riconoscibili come legittime. Questa procedura assicura da un lato inclusione (vale a dire partecipazione di tutti i cittadini), dall’altro lato deliberazione (per es. campagne elettorali e dibattiti parlamentari, in base a ciò che elettori e legislatori decidono di scegliere). Proprio per via di questo elemento di pubblico dibattito – un dibattito che deve svolgersi prima di andare a votare – il risultato delle elezioni politiche (la spartizione del potere tra i partiti concorrenti) è qualcosa di diverso dalle semplici inchieste demoscopiche. Ciò non ha tanto a che vedere coi processi della conoscenza scientifica, quanto piuttosto con l’aspettativa che i problemi politici riescano a trovare una soluzione il più possibile razionale. Questa “aspettativa di razionalità” richiede infatti che – nel formulare proposte significative – siano messe pubblicamente sul tavolo informazioni attendibili e buone ragioni. In questo processo le ragioni normative hanno spesso un ruolo più importante degli stessi dati empirici o delle certificazioni degli esperti: e comunque devono sempre essere ragioni in grado di “contare”. Questa dimensione cognitiva della formazione della volontà (sia dei cittadini che dei politici)[4] diventa ancora più importante quando cresce l’orizzonte d’incertezza in cui dobbiamo prendere le decisioni.

M.S. Un grande tema cui lei è appassionato è l’Europa e la sua unificazione democratica. Di recente lei ha a proposto, in un seminario a Princeton[5], di modificare la costituzione europea nel senso di trasformare il Consiglio dei ministri in una rappresentanza dei singoli stati, facendone una seconda “gamba” legislativa accanto al Parlamento UE. Subito si è obbiettato che il progetto europeo vuole superare le vecchie divisioni statali e dunque non dovrebbe fissarne la sopravvivenza in una “casa degli stati” quale organo del potere legislativo. Come risponde a questa critica?

J.H. Questa critica non tiene conto della situazione politica attuale. Anche il conflitto sulla nomina di Juncker ha mostrato dove sta in realtà il problema. I capi di governo hanno oggi in Europa lo stesso ruolo semicostituzionale un tempo svolto dal sovrano del vecchio Reich tedesco. Occorre perciò stabilire quale quota di potere i capi di governo dovrebbero cedere al Parlamento, in maniera da ridurre quel deficit democratico che grida vendetta. Rispetto a una democrazia transnazionale, che faccia a meno di ogni carattere di statualità, il modello federale USA non è quello che dobbiamo imitare. Piuttosto bisognerebbe equiparare al Parlamento un Consiglio inteso come il luogo di rappresentanza degli stati. Per armonizzare queste due istituzioni legislative occorre istituire delle procedure. Lo scontro per insediare il presidente della Commissione dimostra come ancora manchi, a livello europeo, un organico sistema dei partiti, dove questi (nel proporre i loro candidati) possano fin dall’inizio muoversi in accordo con il Consiglio.

M.S. Parliamo ora delle tendenze separatiste in Ucraina, Scozia, Belgio ecc. Come mai lei ha aspramente criticato, in più occasioni, il separatismo? La Cechia e la Slovacchia dimostrano che ci si può anche separare senza troppe difficoltà. Dal punto di vista storico, la secessione è soltanto una forma diversa di nation-building. Perché dobbiamo scomunicarla dal punto di vista normativo?

J.H. La nazione come sacro principio è stata definitivamente superata a Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Invece di promuovere la pace ha fomentato sempre nuovi conflitti. Il motivo è evidente: nessun popolo è etnicamente omogeneo. Tracciare nuovi confini significa semplicemente riprodurre in maniera capovolta i rapporti di maggioranza e minoranza. Quando Genscher ha riconosciuto la Croazia come nuovo stato sovrano, contribuendo così alla disgregazione della vecchia Jugoslavia, non ha fatto altro che aprire la porta ai più feroci massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stesso errore si è ripetuto con il Kosovo. Si tratta dell’ombra lunga che il nazionalismo ottocentesco ha gettato sul secolo ventesimo. E ora vediamo di nuovo risorgere spettri nazionalistici nel cuore dell’Unione europea, la quale non si mostra nemmeno capace di porre freni all’autoritarismo ungherese di un Orban.

M.S. Nel libro dell’anno scorso, Nella spirale della tecnocrazia, lei attaccava duramente la politica europea della signora Merkel. Così, in quel suo testo, si volle vedere un aiuto alla campagna elettorale della SPD. Ora però i socialisti sono entrati nel governo della Merkel, e la politica tedesca verso l’Europa continua sostanzialmente come prima: lei ha cambiato idea? Si sente deluso?

J.H. La SPD si è lasciata trascinare dentro la coalizione. Su questo tema non ha mai voluto contraddire la Merkel. Adesso però sarà costretta a farlo, se non vuole tradire il suo candidato europeo Martin Schulz.

M.S. Nel frattempo molti stati debitori stanno per uscire dall’ombrello di protezione. Forse che la politica della Merkel non è poi stata così cattiva come si è voluto dipingere?

J.H. In realtà, nell’eurozona, gli squilibri strutturali delle economie nazionali continuano a crescere. Né possiamo proseguire in quella politica di “svalutazione interna” che, nei paesi in crisi, è stata pagata sacrificando gli strati più svantaggiati, le giovani generazioni, le prestazioni assistenziali e infrastrutturali. Se lo facessimo, si rafforzerebbe il populismo di destra, si radicalizzerebbero i conflitti tra i popoli, si fomenterebbe l’ostilità antitedesca. La Merkel ha paura di dire questa semplice verità ai suoi elettori, e dà loro vino adulterato. Lo sbaglio di aver fondato una comunità monetaria senza predisporne un controllo politico è stato un errore compiuto “in solido” da tutti gli stati coinvolti. Adesso noi tedeschi vorremmo schermarci dall’obbligo di subirne le conseguenze.

M.S. Che cosa le dà la forza di non reagire in maniera disfattistica a ciò che il suo maestro Adorno chiamava “il cattivo corso del mondo”?

J.H. Contro il cattivo corso del mondo Hegel metteva in campo lo spirito assoluto, laddove Adorno contrastava la disperazione appellandosi – in maniera controfattuale – a una luce messianica. Infatti, solo nel cono di questa illuminazione egli poteva denunciare la negatività dell’esistenza. Io mi sento piuttosto vicino alla posizione di Kant, cui Adorno giustamente attribuiva il motivo intitolato “inconcepibilità della disperazione”.

M.S. Si sente dire che lei stia lavorando a una grande opera di filosofia della religione, della quale già sono usciti i prolegomeni[6]. A che cosa si deve questo suo nuovo interesse per la religione? Si tratta forse dell’irritante esperienza per cui, contro ogni aspettativa, la religione non solo non è stata neutralizzata dalla secolarizzazione della modernità, ma sembra addirittura rinascere in forme nuove e spesso preoccupanti?

J.H. Se poniamo al centro dell’evoluzione della specie l’adozione del linguaggio quale meccanismo di comunicazione, allora diventa verosimile pensare che – per una specie costitutivamente asociale – i processi di socializzazione debbano essere passati attraverso una forte tensione tra spirito e motivazione. Con tutta evidenza fu il “complesso religioso” ciò che tenne insieme e stabilizzò le prime collettività, schermandole dalle tensioni interiori. Fin dall’inizio i classici della sociologia hanno individuato nel rito e nel mito la fonte della coscienza normativa e della solidarietà sociale. A questo interesse dei sociologi io collego ora la constatazione hegeliana secondo cui molti concetti della filosofia pratica, pur avendo nomi di origine greca, sono sostanzialmente il frutto di un secolare processo di assimilazione e di traduzione semantica di concetti nati nella tradizione ebraico-cristiana. Se pensiamo ad autori come Bloch e Benjamin, Buber, Levinas e Derrida, noi vediamo come questa assimilazione non si sia ancora conclusa. Tutto ciò – per un pensiero postmetafisico che si preoccupa delle risorse normative di una società mondiale portata fuori strada dal capitalismo – potrebbe essere l’occasione per intraprendere finalmente un cambio di prospettiva. La filosofia dovrebbe sapersi mettere in rapporto non solo con le scienze ma anche con le tradizioni religiose tuttora vitali. Non vorrei però essere frainteso: non sto affatto proponendo al pensiero postmetafisico di rinunciare alla sua autocomprensione secolare, ma solo di allargare questa sua autocomprensione in una direzione bifocale.

M.S. Che giudizio dà lei sullo stato della filosofia oggi? In Germania va sempre più di moda il filosofo da talk-show, quello che un tempo si chiamava filosofo popolare. Penso a personaggi come Safranski, Sloterdijk, Precht. È una cosa buona oppure cattiva?

J.H. Beh, i nomi che lei cita non sono i veri rappresentanti della filosofia tedesca. La filosofia è oggi una professione accademico-scientifica come tutte le altre. Dalle altre discipline essa si distingue solo per il fatto che – in quanto pensiero non pre-fissabile – non ha un “metodo” e un “oggetto” definibili a priori. Personalmente sono troppo vecchio per pretendere di dare un giudizio complessivo sullo stato attuale della disciplina. Posso però dirle qual è stata la mia esperienza: la mia generazione ha saputo suscitare interesse e trovare riconoscimento, da parte dei colleghi americani, francesi, e talora persino inglesi, solo nella misura in cui – nel trattare i diversi problemi – siamo stati capaci di mostrare la forza della nostra tradizione, attingendo in maniera sistematica e analitica alle fonti di Kant, Hegel e Marx. Oso fare questa raccomandazione sperando di non essere accusabile di provincialismo.

M.S. Lei si è sempre richiamato ai filosofi antichi che andavano nell’agorà ed esercitavano l’uso pubblico della ragione. D’altro canto lei passa anche per un filosofo difficile e i suoi testi sono così complessi da non essere facilmente comprensibili. C’è una contraddizione in tutto ciò?

J.H. Ok, i lettori di questa intervista le daranno subito ragione. Però vede, io non ho mai avuto come obbiettivo quello di raggiungere un vasto pubblico. Non vado nemmeno in televisione. Il mio mondo è quello dell’università. È vero che concedo troppe interviste e scrivo articoli di giornale, ma di queste mie debolezze si dovrebbero incolpare piuttosto i redattori. Ciò cui io miro non è avere tanti lettori, ma far circolare determinate idee.

M.S. Una domanda personale: non le capita mai – come ha scritto Eduard Mörike in Wintermorgens vor Sonnenaufgang – di svegliarsi la mattina e pensare improvvisamente, come in un incubo, che tutto quanto lei ha finora pensato e scritto sia sbagliato? E se una esperienza simile le è davvero capitata, come affronta questa insicurezza esistenziale?

J.H. Es ist ein Augenblick/ Und alles wird verwehen. [“In un istante/ Tutto sembra sparire”]. Come vede, sono andato a cercare poesia e verso cui lei fa riferimento. Ma ahimé devo deluderla: prima dell’ultimo risveglio non scivolo nel mondo incantevole e fatato di cui parla Mörike. Precipito piuttosto nel vortice di pensieri angosciosi. Dunque la mia insicurezza potrebbe essere più profonda. Se però vogliamo dare alla sua domanda un senso meno drammatico, mettendola semplicemente in relazione con i miei lavori accademici, allora le darò una risposta di tipo pragmatico. È naturale che ogni singolo enunciato, da me messo per iscritto, possa rivelarsi sbagliato. Ma lei in realtà dice: “tutto quanto lei ha finora pensato e scritto”. Dunque, si riferisce all’insieme di tutte le certezze-di-sfondo. Come filosofi – infatti – noi pensiamo sempre sullo sfondo di un orizzonte unificante e di un contesto che ci sostiene. Per fortuna questo contesto può sempre rivelarsi sbagliato quando ne esplicitiamo un elemento particolare. Come una fascia detritica di montagna, questo sfondo intuitivamente presente scivola e si sposta con noi tutte le volte che ci correggiamo o attraversiamo processi di apprendimento. Sennonché questo complesso delle certezze-di-sfondo non può mai essere considerato sbagliato, in quanto non può mai – nel suo insieme – essere fatto oggetto di enunciati falsificabili.

Intervista pubblicata sul “Feuilleton” della “Frankfurter Rundschau” del 14/15 giugno 2014. Le domande sono di Markus Schwering. Titolo originale “Nella spirale dei pensieri. Le procedure democratiche sulla rete, in politica, in Europa”[7].

Traduzione italiana di Leonardo Ceppa.

Note

[1][S. Müller-Doohm, Jürgen Habermas. Eine Biografie, Berlin 2014 – uscita a giugno, per l’85esimo compleanno del filosofo, N.d.T.].

[2][Trad.it.. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 2002, N.d.T.].

[3][Trad.it. Fatti e norme, Milano 1996, nuova edizione Roma-Bari 2013, N.d.T.].

[4][Per Habermas anche le ragioni e le decisioni normative – lungi dall’essere preferenze soggettive e opzioni pregiudiziali – hanno un fondamentale valore cognitivo. N.d.T.].

[5][La conferenza americana di Habermas è stata tradotta, col titolo “Per una democrazia transnazionale”, su Micromega 3/2014, pp. 12-27; sulle reazioni suscitate in America da questa conferenza cfr. il servizio di Patrick Bahners, “Demokratie kommt ohne Völker aus”, Frankfurter Allgemeine Zeitung del 7 maggio 2014. N.d.T.].

[6][Sul grande inedito, cfr. E. Mendieta, Religion in Habermas’s Work, in C. Calhoun, E. Mendieta, J. VanAntwerpen, a cura di, Habermas and Religion, Polity Press, Cambridge UK, pp. 405-406. I prolegomeni cui si fa cenno sono i saggi raccolti nell’ultima grande opera di Habermas, Nachmetaphysisches Denken II, Suhrkamp, Berlin 2012 (in corso di traduzione presso Laterza), N.d.T.].

[7][Allusione al titolo dell’ultimo libro di Habermas: Nella spirale della tecnocrazia, trad.it. Roma-Bari 2014, N.d.T.]

Finire il liceo a 18 anni?

scuola (1)Oggi è il 1° settembre. Per gli insegnanti questa data significa un’unica cosa: inizio del nuovo anno scolastico. Nella maggior parte delle scuole si svolge il Collegio Docenti; così è stato anche nella mia. Tra i vari temi toccati dalla Dirigente c’è stato anche quello della possibile futura riduzione da 13 a 12 anni del percorso scolastico. Negli anni si sono ipotizzati anticipi della scuola primaria, tagli della scuola secondaria di primo grado, taglio del quinto anno di quella di secondo grado… Personalmente non sono un sostenitore convinto al 100% della necessità di terminare gli studi a 18 anni piuttosto che a 19. Semplicemente mi interrogo sulla questione. “Tutta l’Europa termina a 18 anni, ci dobbiamo adeguare”. Non è vero e non sempre, in quei paesi, i risultati sono lusinghieri. Alla fine del liceo scientifico mi sono iscritto a scienze geologiche e mi ci sono voluti due anni per capire che quella non era la strada fatta per me e che dovevo cambiare rotta. Di conseguenza, l’ingresso nel mondo del lavoro è avvenuto, per me, con due anni di ritardo (in realtà ho recuperato dopo, ma questo è un altro paio di maniche). Non mi sento tuttavia così penalizzato rispetto ad altri. Questo mi fa pensare che una delle cose più importanti per una scuola dovrebbe essere l’orientamento, non nel senso di una serie di attività da organizzare, ma nel senso precipuo di una scuola orientante, che permetta ai suoi studenti, attraverso tutta la sua offerta formativa, di capire quale sia la strada da percorrere. Ciò chiederebbe molta flessibilità e di conseguenza una diversa organizzazione: questa la riterrei una vera riforma. E in tal senso un anno non farebbe proprio la differenza: vi sono esperienze talmente significative e formanti che non hanno bisogno di periodi così lunghi e altre che invece richiedono esperienze pluriennali, proprio nel senso di una qualità della scuola.

E ai miei dubbi aggiungo le domande che Nicoletta Viglione scrive su IR di maggio-giugno: “Sono le finalità della scuola che vanno riviste: è più importante puntare sulla professionalizzazione oppure privilegiare una buona preparazione di base come spazio di educazione civile? E’ opportuno anticipare le scelte prevedendo un doppio binario che consenta, a chi non ha interesse per gli studi, di iniziare al più presto percorsi di avviamento al lavoro? Come garantire il reale assolvimento dell’obbligo e diminuire la dispersione scolastica?”.

Boko Haram: uno sguardo dalla Nigeria

boko-haram

Pubblico un articolo di Claudio Fontana che ho trovato su Oasis: le ultime parole di Kukah non lasciano molto spazio a motivi di sollievo (tra l’altro, non nascondo che mi ha fatto un po’ specie trovare alla fine dell’articolo originale un banner pubblicitario dell’Eni).

«Di Boko Haram, il gruppo terroristico che continua a colpire in modo crudele in Nigeria, sequestrando bambine e bambini e uccidendo alla cieca, Monsignor Matthew Hassan Kukah, vescovo della diocesi di Sokoto, è ormai un esperto. Anche la sua diocesi ne avverte la pesante e costante minaccia. Sede storica del Califfato, Sokoto si estende su più di centomila kilometri quadrati, che coprono quattro stati della Repubblica Federale della Nigeria, e ha una popolazione di 12 milioni di abitanti, di cui il 5% cristiani, e tra questi 60 mila cattolici.

Eccellenza, lei vede una correlazione tra la situazione di povertà diffusa e di dissesto economico del Paese e la nascita e diffusione di un movimento terroristico come Boko Haram?

Quella del nesso causa-effetto tra povertà e capacità di presa sulla popolazione di un messaggio fanatico e violento è una tesi molto diffusa. Eppure la povertà può essere una condizione necessaria ma certo non sufficiente per spiegare Boko Haram. Questo gruppo terroristico, infatti, non è nato da persone povere ma anzi proprio da persone che avevano accesso a importanti risorse economiche.
Non è questione di povertà: oggi gli affiliati di Boko Haram sono giovani musulmani che hanno viaggiato in molte zone diverse del mondo musulmano. Sono figli di persone molto privilegiate, come si evince dal caso dell’attentatore che stava per far esplodere l’aereo diretto negli Stati Uniti nel Natale del 2009: suo padre è uno degli uomini più ricchi della Nigeria. Dunque non è questione di povertà, ma di radicalizzazione della società musulmana: molti giovani musulmani della Nigeria vengono a contatto con altri musulmani attraverso pellegrinaggi in luoghi in cui al Qaeda ed altri movimenti estremisti sono dominanti. Queste persone vengono in Nigeria e sono ampiamente responsabili della situazione in cui viviamo ora.

Quindi Boko Haram è solo in parte un problema interno alla Nigeria. Quanto beneficia di influenze esterne? Perché la Nigeria non riesce a controllare efficacemente i suoi confini?

C’è molta corruzione in Nigeria: corruzione nella burocrazia, corruzione all’interno dell’esercito, corruzione nei servizi di controllo dell’immigrazione, troppe persone di malaffare stanno pagando per entrare in Nigeria. Se si guarda alla Nigeria settentrionale, si osserva come ci siano enormi territori dove ci si può muovere liberamente, anche perché in Chad, in Niger e in parti del Sudan, sotto l’ombrello della religione le persone sono libere di spostarsi. Inoltre, in Camerun e in Nigeria si parla la stessa lingua, così non si distingue chi è criminale e chi non lo è. Nessuno sa il numero preciso, ma chiaramente una percentuale rilevante delle persone coinvolte in Boko Haram non è nigeriana. Ci sono persone che arrivano da diverse nazioni: Mali, Somalia, giovani musulmani in cerca di azione, specialmente dopo il collasso del regime in Libia. Questa è una parte del problema: non è sufficiente affrontare Boko Haram se non si ha il controllo dei confini.
Boko Haram si finanzia tramite il traffico di droga, tramite attacchi criminali alle banche, rapinano molte persone e fanno anche ricorso ai sequestri di persone, principalmente di bianchi, stranieri, operai edili. Da questi rapimenti ottengono grandi somme di denaro perché hanno sempre trovato famiglie che hanno pagato milioni di dollari. Sono questi elementi criminali che finanziano Boko Haram, una questione di criminalità, non di Islam.

A proposito di rapimenti, il mondo intero è rimasto scioccato dal rapimento di centinaia di giovani studentesse nigeriane e si è diffusa in modo quasi virale la campagna mediatica #bringBackOurGirls che ha coinvolto personalità di varia provenienza. Come è stata percepita questa mobilitazione da chi vive in Nigeria?

Anche nella mia chiesa abbiamo organizzato una messa e siamo scesi in strada in millecinquecento fedeli per dire “bring back our girls, riportate a casa le nostre ragazze”. Quindi anche noi abbiamo partecipato alla campagna. La chiesa cattolica in Nigeria ha avuto un giorno in cui ogni diocesi, ogni chiesa che poteva, ha organizzato un’ora di preghiera per le ragazze. La campagna è qualcosa che ha causato molto interesse sulla Nigeria.
Riguardo poi all’efficacia della campagna, la si può osservare da due livelli. È stato possibile innalzare la portata della campagna quando persone come Michelle Obama, David Cameron, attori e attrici o individui di alto profilo hanno iniziato ad aderire, portando l’attenzione internazionale sulla campagna. E dopo questo Obama ha detto che gli americani stanno venendo in Nigeria, gli israeliani stanno venendo, i francesi stanno venendo, gli inglesi stanno venendo. Si può considerare questo come un risultato della campagna. Il secondo punto è che sappiamo solo in parte l’efficacia della campagna perché non sappiamo se anche gli americani con i sofisticati equipaggiamenti che hanno e l’intelligence internazionale potranno riportare a casa le ragazze, perché ora è chiaro che sono state divise e non sono più tutte nello stesso posto.

Se non ci si può aspettare che siano l’intelligence o i militari a liberare le ragazze, resta aperta la via dei negoziati con Boko Haram?

Credo che il dibattito in Nigeria verta sulla questione del dialogo con Boko Haram. Sostengono di essere aperti ai negoziati, ma dicono anche che parte del problema è che il governo nigeriano non si fida di loro durante le trattative. Ci sono tre punti critici, Boko Haram dice: “Chiediamo il dialogo, ma vogliamo tre cose. Uno: rilasciate i nostri membri imprigionati. Due: risarciteci, ricostruite le nostre moschee e case che sono state distrutte”. Infine, accusano il governo di aver arrestato alcuni dei loro affiliati che si sono fatti avanti per le negoziazioni. Se il governo non accetta queste condizioni, Boko Haram non inizierà i negoziati. Chiaramente con un po’ più di sofisticatezza e con il governo un po’ più disinvolto penso che sarebbe probabile avere qualche tipo di trattativa informale. Ma ora Boko Haram ha detto di non essere più interessato alle trattative, probabilmente a causa della frustrazione di alcuni membri della comunità musulmana che si erano esposti e avevano preso parte alle negoziazioni, ma poi sono tornati indietro pensando che il governo non fosse serio. L’ex presidente Obasanjo è stato la prima persona ad avere un incontro con Boko Haram ed è ancora in contatto con loro. Purtroppo, per strane ragioni, sembra che l’attuale presidente non stia cooperando con lui. Obasanjo ha avuto un incontro con degli emissari di Boko Haram e dopo il meeting ha affermato che non è sicuro che le ragazze potranno tornare. Ma ha anche affermato che il governo federale non ha pubblicamente riconosciuto il suo ruolo e non gli ha detto di proseguire. Dunque dobbiamo considerare anche questi aspetti legati alla politica interna.

Non possiamo quindi aspettarci che la soluzione al “problema Boko Haram” possa arrivare dalle policies del governo?

Dobbiamo prima di tutto capire che dall’11 settembre fino ad ora gli Stati Uniti stanno combattendo il terrorismo, con tutti i sofisticati mezzi che hanno. In tutta Europa ci si sta proteggendo e l’assenza di attentati a Londra, New York o Parigi è il risultato dell’efficacia dei pesi e contrappesi implementati dagli Usa, non certo del fatto che i terroristi per loro scelta si siano arresi. Quindi, per una nazione come la Nigeria, con la sua estensione, dobbiamo accettare che non ci siano soluzioni semplici. A condizione che i politici nigeriani siano disposti a non scivolare nella beghe politiche, si potrebbe ottenere un po’ di sollievo perché parte della discussione con Boko Haram, per come ho capito, includeva un periodo di cessate-il-fuoco che Boko Haram sembrava preparato a concedere, prima che la discussione si interrompesse. Parte del problema quindi è che né il governo, né nessun altro, sembra essere in grado di incaricare persone sufficientemente credibili per svolgere il ruolo di mediatori. Questa secondo me è la questione cruciale.»

Q

qLa memoria. Sacca piena di cianfrusaglie che rotolano fuori per caso e finiscono col meravigliarti, come se non fossi stato tu a raccoglierle, a trasformarle in oggetti preziosi”.
Capita di andare in libreria e di comprare un libro perché è in offerta e perché sono tanti mesi che lo vedi sui bancali e ha quel titolo enigmatico che non lascia trasparire nulla dell’argomento: “Q”. E’ stato una piacevolissima sorpresa per due motivi. Il contenuto: un giro per l’Europa della riforma, dal 1517 al 1555 tra Germania, Paesi Bassi e Italia, tra protestanti, cattolici, anabattisti ed ebrei, tra quei personaggi che fino ad ora ho solo studiato e che qui popolano le vicende di questo romanzo storico. Lo stile: molto vario e diversificato con capitoli breve e tecniche di scrittura sorprendenti. Pensando al fatto che il nome dell’autore nasconde un collettivo artistico, si aggiunge del pepe al condimento. Lo consiglio ai miei studenti: tenete conto che vi troverete davanti a un linguaggio colorito, figlio però di un periodo storico, quello di ambientazione, altrettanto colorito.

Ebrei di Odessa

odessa

Un articolo che ho trovato ieri sera in tarda serata su Rainews24.
“Nella guerra di propaganda che accompagna la crisi ucraina, le prese di posizione spostano consensi e influenzano la situazione sul terreno. Sono diverse le componenti della complessa società di un paese da sempre sospeso tra mondi contrapposti a esprimere paure e tensioni. Non ultima la comunità ebraica, tradizionalmente forte in tutta l’Europa orientale, vittima di persecuzioni da parte di tutti i totalitarismi. I leader della comunità di Odessa intervengono in queste ore.
In un’intervista concessa al quotidiano israeliano The Jerusalem Post il rabbino Refael Kruskal, direttore generale della filiale di Odessa dell’associazione caritatevole ebraica Tikva (Speranza), ha detto che lo scorso week-end la Grande sinagoga corale è rimasta chiusa, mentre ai membri della comunità ebraica sono stati inviati gli SMS con il consiglio di astenersi dall’uscire dalle proprie abitazioni senza necessità. Secondo il rabbino e altri leader della comunità ebraica, tra le vittime degli scontri dello scorso venerdì a Odessa c’erano anche alcuni ebrei. Gli ebrei non vengono presi espressamente di mira, ma si teme che se la regione dovesse precipitare nel caos, le violenze potrebbero anche colpire la comunità, che si prepara anche ad allontanare i membri, soprattutto dei bambini, verso altre città e forse anche un altro paese, probabilmente nella vicina Moldova. 70 pullman sarebbero pronti in qualsiasi momento a effettuare l’evacuazione d’urgenza di tutti coloro che lo vorranno. Particolarmente delicata potrebbe essere la Giornata della Vittoria sul nazifascismo che si festeggia il 9 maggio. “Il prossimo week-end potrebbe essere molto violento”, – ha detto il rabbino di Odessa.
Secondo il Jerusalem Post, a Odessa attualmente vivono 30 mila ebrei. Nel censimento ucraino del 2001 gli ebrei erano12,4 mila, ossia l’1,2% della popolazione. Prima della Seconda guerra mondiale la popolazione ebraica a Odessa era il 40% del totale. Da Mosca, il vice-presidente del Congresso delle associazioni religiose e comunità ebraiche russe (KEROOR), accusa i politici ucraini: il rogo di Odessa – sostiene il rabbino Zinovij Kogan – sarebbe stato causato da un’impennata del fascismo e della russofobia. Le comunità ebraiche di Ucraina invece appoggiano il governo filo-europeo di Kiev. Uno degli esponenti della comunità ebraica ucraina più in vista, il milionario Igor Kolomojskij, è stato nominato dalle autorità di Kiev governatore della regione di Dnepropetrovsk. L’Ucraina è sempre sospesa sull’orlo della guerra. Anche la comunità ebraica aggiunge i suoi pesi sulla bilancia che separa i nazionalisti, da una parte, e i filorussi, dall’altra.”

Iegor me l’aveva detto

UKRAINE-EU-OPPOSITION-PROTESTChi frequenta il blog sa ormai che amo gli articoli di approfondimento contestualizzati. E’ il caso di questo pezzo di Paolo Bergamaschi, originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani e Caucaso. L’argomento è l’Ucraina, con una parte specifica dedicata alle diversità religiose.

«Iegor me l’aveva detto già a novembre: “Questa protesta durerà a lungo, siamo disposti a rimanere in piazza fino a primavera”. Pensavo scherzasse ma è stato di parola. Ormai sono di casa a Kiev. I tassisti dell’aeroporto hanno volti famigliari e so perfettamente come comportarmi quando mi circondano a caccia di clienti negoziando con loro un prezzo equo per il trasporto in città.

“Il centro è bloccato, siamo costretti a lunghi giri su strade secondarie per arrivare al suo hotel”, si lamentano per alzare la tariffa, “scaricatemi a ridosso delle prime barricate”, rispondo, “ci penso poi io a raggiungere a piedi l’albergo”, mostrando assoluta padronanza della situazione per abbassare il compenso.

Speravo, o forse inconsciamente mi ero illuso, che l’inverno monsonico che ristagna in Europa avesse addolcito anche il clima ucraino ma mi sbagliavo. La stagione fredda qui è veramente polare con temperature che non superano mai i meno dieci nonostante il sole splendente. Ne risente, ovviamente, anche il numero dei manifestanti che stazionano in permanenza sul Maidan sempre consistente ma ridotto rispetto alle occasioni precedenti. Constato, però, la diffusa presenza di giornalisti, telecamere e foto-reporter accorsi in massa dopo l’improvvisa svolta violenta assunta dagli avvenimenti a metà gennaio. Le cariche delle forze anti-sommossa e le prime vittime hanno lasciato il segno ma nemmeno le leggi speciali imposte da Yanukovic per intimidire e schiacciare la protesta sono riuscite a piegare la determinazione dei dimostranti che in risposta hanno provveduto a rafforzare le difese della piazza.

E’ oramai una vera tendopoli quella che occupa il centro della capitale. Si estende ben oltre piazza Indipendenza protetta da una doppia cinta di barricate intervallate da una fascia di “terra di nessuno”. Occasionali incrostazioni di neve e ghiaccio rendono meno spettrali il filo spinato, i reticolati e i cavalli di Frisia che blindano l’accampamento sorvegliato nei punti di passaggio dai discreti controllori che si avvicendano a turno.

All’interno dei tendoni centrali riposano gli uomini del servizio d’ordine inquadrati in strutture paramilitari. Letti a castello e brande sono riscaldati nel mezzo da stufe da campo che mitigano appena con le ruvide coperte di lana grezza le rigide temperature esterne che nella notte scendono oltre i meno venti gradi. Al di là del freddo, però, mi chiedo come si possa dormire tra i decibel degli altoparlanti che per tutte le ventiquattro ore sparano musica ad alto volume che, nelle pause fra un discorso e l’altro, rimbomba ovunque.

Non c’è traccia di polizia a Maidan ma tutto attorno gli agenti presidiano i punti nevralgici della città. Lo schieramento delle forze dell’ordine si fa più compatto nei pressi degli edifici governativi e del parlamento. Qui le vie di accesso sono ostruite dai blindati. E’ un giorno importante, forse decisivo, per alcuni, in vista di un possibile sblocco della crisi. Dopo lunghi e concitati negoziati, sotto la pressione dell’opinione pubblica e della diplomazia europea, i deputati della maggioranza hanno accettato di abolire le leggi speciali adottate solo qualche giorno prima che limitano la libertà di espressione e mettono la museruola al mondo non governativo.

Sono almeno quaranta gli autobus parcheggiati sul viale che porta alla Verkhovna Rada (Parlamento) da cui scendono disciplinati i manifestanti del Partito delle Regioni trasportati dalle provincie orientali per esprimere sostegno alle forze di governo. Marinsky Park, il parco di fronte all’edificio parlamentare, è tutto occupato da tende dove i dimostranti si rifocillano sulla falsariga di quanto avviene a poche centinaia di metri di distanza a Maidan con rivendicazioni opposte. E come a Maidan, nello spiazzo di fianco all’area verde è stato allestito un grande palco con schermo dove gli oratori si alternano sbraitando dai microfoni per catturare l’attenzione degli infreddoliti astanti avvolti in drappi blu, il colore del partito di maggioranza.

Il poliziotto non vuole saperne di farci passare. Nonostante fossimo intruppati e mimetizzati nel flusso dei manifestanti l’agente ci individua e vuole impedirci di avvicinarci all’ingresso del parlamento. A nulla valgono, nella ressa, le rimostranze di Rebecca Harms che mostra il suo badge di eurodeputata e un documento che attesta l’invito della Verkhovna Rada.

Solo l’arrivo della collaboratrice di un deputato ucraino ci sottrae dall’attenzione delle forze dell’ordine determinate a prevenire ogni infiltrazione di persone ostili al governo in carica. Ci ritroviamo così in galleria fra ambasciatori e giornalisti dove assistiamo alla breve sessione in cui all’unanimità i deputati cancellano le leggi vergogna che avevano suscitato l’indignazione generale. Qualcuno ha definito il parlamento ucraino come “il più grande comitato di affari del continente” a sottolineare il legame diretto o indiretto di buona parte dei suoi membri con i vari oligarchi che monopolizzano l’economia del paese.

E gli oligarchi hanno deciso che non è opportuno tagliare i ponti con l’Unione Europea il cui mercato, per alcuni, rappresenta una consistente fetta dei propri affari. ” Business is business “, direbbero gli anglosassoni, meglio allora mettere da parte le ragioni ideologiche per concentrarsi su quelle del portafoglio anche e soprattutto in considerazione del fatto che i cospicui conti correnti sono al sicuro presso le banche dei paesi occidentali.

“L’Ucraina è uno stato artificiale”, dichiarò nel 2008 Vladimir Putin gelando gli altri capi di Stato al vertice NATO di Bucarest cui era stato invitato come ospite d’onore per un incontro bilaterale più di facciata che di sostanza. Le parole dell’uomo forte di Mosca chiamavano in causa l’identità nazionale di un paese profondamente diviso sia dal punto di vista etnico che da quello linguistico. E il terzo elemento che abitualmente viene preso in considerazione nella definizione del profilo di un popolo, quello della religione, rende la situazione ancora più ingarbugliata. Il fattore religioso ha giocato un ruolo primario nella rivoluzione del Maidan.

Sulla piazza si trovano icone e croci un po’ dappertutto: tra il filo spinato delle barricate, appese agli angoli di strada, in edicole improvvisate nei punti di passaggio e, ovviamente, sul palco principale dove campeggia una statua della Madonna affiancata da un grande crocifisso e dall’immagine di Gesù Cristo. Una delle tende sul Maidan è stata riadattata in cappella. Tra la folla si notano spesso sacerdoti che si intrattengono con i dimostranti con vescovi e patriarchi che si alternano al microfono ai leader politici. Ma in Ucraina non c’è una confessione prevalente. Anche se la maggioranza della popolazione, secondo recenti indagini, si dichiara ancora non credente in continuità con l’ateismo di stato del periodo sovietico, il fervore religioso è in rapida crescita. E la politica non può non tenerne conto specialmente se ci si trova in un paese a tradizione ortodossa dove potere temporale e potere religioso vanno sempre a braccetto. “La nazione ucraina è unita al cospetto di Dio nonostante le diverse identità regionali”, dice Filaret, Patriarca della Chiesa Ortodossa Ucraina di Kiev durante un incontro fra i leader religiosi ed alcuni eurodeputati, “i giovani che affollano il Maidan non hanno memoria del passato”, continua, “l’Europa deve sostenere la trasformazione democratica del paese”. Per il Patriarca la sollevazione in corso segna un profondo cambiamento di mentalità. “Nelle province orientali”, afferma, “resiste ancora la cultura sovietica, ma non nel resto del paese”. Filaret rappresenta per numero di fedeli la confessione maggioritaria, seppur di poco, dell’Ucraina. La sua chiesa è nata dopo l’indipendenza ed è quindi idealmente legata a doppio filo con gli sviluppi più recenti della storia del nuovo stato.

Non così la Chiesa Ortodossa Ucraina del Patriarcato di Mosca, la più radicata sul territorio, il cui Metropolita Volodymir durante la riunione si limita laconicamente ad affermare che la gente non è sufficientemente a conoscenza di cosa comporta l’Accordo di Associazione con l’Unione Europea e avrebbe bisogno di più informazioni. I seguaci di Volodymir si trovano soprattutto nella zona orientale dell’Ucraina dove sono più forti i legami con la Russia. Di tutt’altra opinione è l’arcivescovo Sviatoslav in rappresentanza della Chiesa Greco-Cattolica di Ucraina messa al bando durante il periodo sovietico e ritornata alla legalità nel 1987. “Quello del Maidan è un progetto sostanzialmente pacifico anche se a volte la voce dei moderati viene messa a tacere dagli estremisti”, osserva, “occorre, però, fermare i provocatori del governo e la violenza delle forze dell’ordine”.

I Greco-Cattolici, conosciuti anche come Uniati, sono in netta maggioranza nella parte occidentale del paese e rappresentano l’anima più sensibile al richiamo europeo. “L’Ucraina è tagliata dalla linea che divide l’est dall’ovest”, evidenzia, “Dio sta mettendo alla prova la nazione che deve dimostrare di meritare i valori europei”. “E’ una lotta fra impero e democrazia”, conclude. E’ una gelida serata invernale in una sala d’hotel a pochi passi da Piazza Maidan che si conclude con una solenne preghiera ecumenica per invocare la protezione dall’alto dell’Ucraina. Che ne ha davvero bisogno.

La sinagoga Brodskij è situata nella zona centrale della capitale. Restituita alla comunità ebraica alla fine degli anni novanta è stata ricostruita ed inaugurata solennemente nel 2000. E’ il tempio più importante dell’ebraismo ucraino, che si colloca al quinto posto nel mondo per numero di affiliati. Il rabbino capo ce lo illustra, durante una visita guidata, con un certo orgoglio tra i banchi in legno che luccicano ancora di smalto fresco e gli addobbi dalle tinte gravi. Sono più di 100.000 gli ebrei a Kiev e anche loro in larga parte hanno sostenuto le rivendicazioni della protesta. Collegato al retro della sinagoga si trova l’unico ristorante kosher della città, il King David, dove ci intratteniamo amabilmente attorno ad un grande tavolo imbandito di specialità della tradizione locale accompagnate da vino israeliano. Contrariamente a quanto pubblicato dalla stampa occidentale la comunità non si sente minacciata anche se i leader di Svoboda, uno dei partiti che siedono alla Verkhovna Rada, sono spesso accusati di anti-semitismo.

Mi sono ormai abituato a calcolare i tempi di viaggio con precisione maniacale. Cerco di evitare i tempi morti delle attese negli aeroporti e di organizzarmi in modo da sfruttare anche le piccole pause per leggere documenti o rispondere alla posta elettronica che mi insegue ovunque. Non mi era mai capitato di perdere un aereo. C’è sempre una prima volta.

Eppure, nonostante la telefonata da Bruxelles che mi avvisava dell’invio di una nuova delegazione parlamentare in Ucraina fosse arrivata solo tre ore prima della partenza dell’aereo, ero giunto a Malpensa in tempo utile, anche se al pelo. Non fosse stato per l’impiegata allo sportello che ha confuso Kiev con Chisinau ce l’avrei fatta anche stavolta. Fatale, poi, nella concitazione dell’errore, la caduta dell’apparecchio del pagamento bancomat che finisce in mille pezzi sul pavimento ritardando irrimediabilmente l’emissione dei documenti di viaggio.

Nel consegnarmi un nuovo biglietto con un itinerario alternativo per Francoforte che mi obbligherà ad un’odissea di dodici ore, la signorina mi saluta con un sorriso. “Mi fa piacere non si sia arrabbiato con me; altri l’avrebbero fatto”, mi dice dopo essersi scusata per lo sbaglio. Le stringo la mano con distacco zen. E’ la quarta volta in quattro mesi che torno in Ucraina e so già cosa mi aspetta.

Yanukovic è fuggito da poche ore facendo perdere la tracce. Yulia Tymoscenko è già stata liberata e si è subito recata sul Maidan per ringraziare la folla. La morsa del gelo è svanita restituendo al fiume Dnipro il suo aspetto imponente e pacioso. L’Ucraina volta pagina anche se tante, troppe facce sono i volti conosciuti di una vecchia politica che aveva contribuito ad affossare il paese portandolo sull’orlo dell’abisso. Quattro viaggi e quattro fasi distinte di una rivoluzione destinata a ribaltare di nuovo i rapporti fra oriente e occidente in una versione aggiornata del risiko della geopolitica.

A fine novembre dello scorso anno erano i giovani e gli studenti a monopolizzare spontaneamente la piazza con canti e balli per protestare contro il voltafaccia filo-russo del presidente. A dicembre, poi, la mobilitazione ha toccato tutte la fasce sociali in difesa delle libertà civili contro le manganellate brutali della polizia. Le prime vittime, in seguito, hanno trasformato con il nuovo anno la gente di Piazza Indipendenza in un movimento di resistenza alle forze speciali, libere di agire impunemente in ogni angolo della capitale .

Adesso è il momento del lutto, del dolore e del ricordo. Più di cento persone, tra cui molti ragazzi, sono state trucidate a metà febbraio dai cecchini sul Maidan e nelle vie collaterali. E’ domenica e una processione incessante di gente comune, giovani, anziani, intere famiglie con i bimbi in spalla arrivano in piazza portando mazzi di rose a garofani rossi in memoria degli scomparsi. Le fotografie dei morti contornate da ceri costellano via Gruscevskaia ed il Maidan che porta evidenti i segni degli scontri. I marciapiedi si mostrano nudi, scorticati dai manifestanti che hanno utilizzato le pietre come armi improprie per difendersi dalle cariche delle forze anti-sommossa.

Dell’edificio dei sindacati, il quartiere generale della sollevazione, rimangono solo le pareti annerite dall’incendio appiccato dolosamente dalla polizia per snidare i rivoltosi. L’acre puzzo dei roghi non ancora estinti pervade l’aria. Le barricate sembrano discariche a cielo aperto con cumuli di rifiuti e scarti di ogni tipo ammassati alla rinfusa tra reticolati, pile di copertoni e blocchi di cemento. C’è tanta commozione ma si avverte anche un senso di sollievo. E’ caduto il regime ed è cominciata, fra mille incognite, la quarta fase della rivolta, quella della liberazione.

La residenza di Yanukovic si trova a una decina di chilometri dalla capitale. Nel primo fine settimana dopo la fuga dell’ex-presidente si è trasformata in meta di svago per i cittadini di Kiev fino ad allora ignari delle abitudini “a cinque stelle” del capo di stato. Con un tassista concordo a gesti e mugugni ed una stretta di mano il prezzo. Io non parlo ne’ ucraino ne’ russo, lui non sa ne’ inglese ne’ francese ma ci intendiamo subito. Si chiama Yuri ed è curioso come me di visitare la dacia in cui Yanukovic era solito trascorrere le ore di relax lontano dai palazzi del potere.

E’ lunedì ma l’affluenza della gente non si è ridotta. Lunghe file di auto intasano già un paio di chilometri prima tutte le strade di accesso. Siamo costretti ad un parcheggio di fortuna e ad una tranquilla camminata tra gruppi di comitive festose in libera uscita come fosse una gita fuori porta. Tutti vogliono vedere e toccare con mano i lussi e gli eccessi dell’uomo più odiato del Maidan. La residenza è situata in un grande parco sulla riva del fiume Dnipro.

Ci sono diverse palazzine in stile presumibilmente per i vari momenti della giornata con un grande edificio centrale in legno tra stagni artificiali popolati da cigni e prati provvisti meticolosamente di irrigazione a spruzzo. La gente sciama ovunque cercando di sbirciare dalle finestre all’interno della villa per catturare i segreti della vita intima dell’ex-uomo forte del paese. Osservo Yuri sgranare gli occhi incredulo. Possibile che in Ucraina nessuno fosse al corrente di tale sfarzo? Dove erano stampa e opposizione quando fu costruita la dacia? Da qualche parte saranno pur state messe a bilancio le enormi cifre di spesa.

Difficile credere che Arseny Yatseniuk, il nuovo primo ministro, possa rispecchiare fedelmente l’immagine del Maidan. Nonostante abbia solo solo trentanove anni è uno dei politici di più lungo corso della scena di un Paese sceso in strada per invocare rinnovamento e cambiamenti radicali. Con lui al potere la rivoluzione del Maidan sembra assumere i contorni di una restaurazione. Come fosse un rito scaramantico tutti i leader di partito compresi il Partito delle Regioni, quello di Yanukovic, e il Partito Comunista ripetevano che era escluso il pericolo di secessione.

Ci ha pensato, poi, Putin a muovere le sue pedine sulla scacchiera calibrando in Crimea hard e soft power con l’utilizzo sapiente di vecchie e nuove tecnologie a sostegno di un’efficace campagna di propaganda a livello internazionale. Le nuove autorità di Kiev vacillano sotto i colpi della Grande Madre Russia, la stessa che nel 1994 aveva sottoscritto a Budapest con Stati Uniti e Gran Bretagna un memorandum dove si impegnava a garantire la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina in cambio dello smantellamento dell’arsenale nucleare ereditato dopo il crollo dell’Unione Sovietica.

Nemmeno i trattati internazionali hanno più valore ormai. Per il nuovo zar di Mosca sono carta straccia. E non sono certo le blande sanzioni euro-atlantiche a rendere trasparente all’opinione pubblica il vestito dell’imperatore. Yatseniuk, intanto, va in parlamento e promette al paese lacrime e sangue in cambio di un consistente pacchetto di aiuti finanziari dall’occidente per evitare la bancarotta. Qualcuno malignamente sostiene che ha vinto la piazza ma ha perso l’Ucraina. Io, però, mi rifiuto di crederci anche se gli ambulanti a Kiev vendono già i gadget in memoria della rivoluzione del Maidan.»

Parola d’ambasciatore

Dopo i vari articoli cui ho rimandato per cercare di sapere qualcosa della situazione in Ucraina, stasera pubblico un documento proveniente da una voce ufficiale e piuttosto autorevole. L’ambasciatore ucraino in Italia, Yevhen Perelygin, ha infatti scritto a Limes questa lettera:

“Da due settimane ormai il conflitto per la Crimea e l’Ucraina è al centro dell’attenzione dei ambasciatore_ucraina-309x203mass media occidentali e degli esperti di tutto il mondo, Italia compresa. E non c’è niente di sorprendente.
Più interessante è invece il fatto che gradualmente, ma in maniera molto decisa durante l’ultima settimana, sono cambiati i titoli dei giornali e le valutazioni degli esperti. Come mi ha detto un mio vecchio amico – un esperto autorevole di un paese occidentale – l’Ucraina sta perdendo la guerra dell’informazione contro la Russia. Anche qui, non c’è niente di cui meravigliarsi.
In primo luogo, noi – come si è visto in Crimea – seguiamo la tattica dell’opposizione pacifica. In secondo luogo, è facile convincere un partner per il quale, dati i suoi interessi, i tuoi argomenti sono una specie di ciambella di salvataggio. Infine, è molto difficile resistere a una macchina di propaganda affinata durante alcuni decenni.
Qual è il movente principale di questa campagna mediatica? Secondo alcuni esperti occidentali la Russia, invadendo la Crimea, si sta semplicemente difendendo: sta protteggendo i suoi legittimi interessi nella regione, interessi che per molti anni sono stati ignorati dai partner occidentali. Questa interpretazione delle azioni della Russia indubbiamente rispecchia la formula “la miglior difesa è l’attacco”. Tuttavia fino all’ultimo momento sono rimasto convinto che esistessero formule più civili per risolvere problemi, tra cui la più importante è il dialogo.
Cerchiamo di capire quali sono, secondo le opinioni degli esperti occidentali, questi legittimi interessi della Russia. Il più importante è l’opposizione a un ulteriore allargamento della Nato e il suo avvicinamento ai propri confini. A tale riguardo all’Ucraina si propone di valutare la cosiddetta “finlandizzazione”, cioè la politica della neutralità. Voglio ricordare che nel 2010 l’Ucraina ha dichiarato il suo status di paese “fuori dai blocchi militari”, affermandolo a livello legislativo nei “Principi della politica interna ed esterna”.
La possibilità di una nostra adesione alla Nato o all’Organizzazione del trattato della sicurezza collettiva era stata quindi esclusa a livello legislativo: la Russia non doveva preoccuparsene. Lo status di paese fuori dai blocchi, inoltre, non è stato scelto a caso. Si dà il caso che il concetto classico di “neutralità” non prevede la possibilità di un collocamento sul territorio del paese neutrale delle basi militari di uno Stato estero.
Ma come ben sapete a Sebastopoli si trova la base della Flotta del Mar Nero della Federazione Russa. Anzi, proprio nel 2010 il termine del collocamento della Flotta sul territorio dell’Ucraina è stato prolungato per un periodo da record fino al 2042. Quando abbiamo adottato queste misure senza precedenti eravamo senza dubbio convinti che la Russia avrebbe garantito la nostra sicurezza e l’integrità territoriale, in conformità al Memorandum di Budapest (1994). Ma come hanno dimostrato gli avvenimenti delle ultime settimane ci sbagliavamo profondamente.
La Russia ha rinunciato a svolgere le consultazioni con altri paesi-garanti in conformità all’art. 6 di questo trattato, con la scusa che il Memorandum è stato firmato con un’altra Ucraina e che con l’Ucraina di oggi Mosca non avrebbe alcun impegno. Come si suol dire, no comment…
Negli ultimi anni l’Ucraina si stava preparando alla firma dell’Accordo di associazione con l’Unione Europea. L’Ue non è la Nato e qui non si trattava di una membership, ma di un approfondimento della collaborazione economico-commerciale. Ciononostante, abbiamo riscontrato dei forti contrasti da parte della Russia. Considerato che – appunto – non si trattava della Nato ma dell’Ue, i nostri partner russi avevano poche argomentazioni.
La loro tesi principale era che, dopo la firma dell’area di libero scambio con l’Ucraina, ci sarebbe stato un flusso di prodotti europei di bassa qualità verso la Russia. Come se le norme sull’origine del prodotto fossero abolite. Per quanto riguardava l’Ucraina, secondo i russi questa avrebbe sostenuto perdite enormi perché la creazione dell’area di libero scambio con l’Ue avrebbe comportato automaticamente la rinuncia ai legami con Mosca e con l’Unione doganale.
Abbiamo cercato in tutti i modi possibili di spiegare ai partner russi che non si trattava della scelta tra l’uno o l’altro. Proponevamo di esaminare la possibilità di approfondire la collaborazione tra l’Ucraina e l’Unione doganale nel formato 3+1 (senza la membership) oppure nell’ambito dell’area di libero scambio tra i membri della Comunità degli Stati Indipendenti. Ma tutti i nostri tentativi sono stati vani.
Il perché è presto detto: l’avvicinamento di Kiev a Bruxelles non rientrava assolutamente nei piani della Russia. Mosca ci proponeva di entrare nell’Unione doganale; poi i negoziati con l’Ue sarebbero stati condotti dall’Unione Doganale, non direttamente dall’Ucraina. Per i russi, entro il 2015 deve essere formata l’Unione Euroasiatica e l’Ucraina deve esserne parte integrante.
Per noi invece il problema non è che la Russia abbia lanciato un suo progetto: ne ha tutto il diritto. Tra l’altro, se questo progetto si dimostrasse efficace e attraente, non escludo che l’Ucraina possa esservi interessata. Ma il problema riguarda la sostanza del progetto stesso. Ultimamente si ha l’impressione sempre più solida che non si tratta di un tentativo di creare qualcosa di nuovo, ma di un desiderio tenace di ricostruire il vecchio. I metodi, gli strumenti e la retorica stessa (vedi le ultime dichiarazioni del ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa sulla questione ucraina) dei dirigenti russi ci fanno tornare ai tempi dell’Unione Sovietica.
Ma per il popolo ucraino, sopravvissuto alla tragedia dell’Holodomor (la carestia artificiale), non esiste niente di più terribile di un possibile ritorno al passato sovietico. Proprio per questo molti monumenti dedicati a Lenin in Ucraina sono stati abbattuti nei giorni della rivolta di piazza Maidan.
Alla luce di quanto sopra, è chiaro che in Ucraina non c’è una lotta tra Oriente e Occidente, come scrivono alcune testate italiane, ma tra passato e futuro. La comprensione degli obiettivi di Mosca ci fa concludere che la crisi non si limiterà alla Crimea.
La Crimea senza le regioni orientali dell’Ucraina è distinata a morte lenta. La penisola dipende profondamente dall’Ucraina continentale: per quanto riguarda l’energia elettrica all’85%, per l’acqua potabile al 75%, senza parlare delle infrastrutture di trasporto. Perciò impostare una trattativa nei termini “prendete la Crimea e lasciate tutto il resto” non ha nessun senso, sopratutto per la Russia.
I tentativi persistenti di destabilizzare tutto il territorio ucraino – con l’obiettivo di crearci gli stessi problemi che l’Ue affronta ai suoi confini meridionali – si spiegano così. Ciò non significa che l’Ucraina non sia pronta a sedersi a tavolo delle trattative. Anzi, sosteniamo animatamente il dialogo e chiediamo ai nostri partner occidentali, Italia compresa, di fare il possibile per promuoverlo. Siamo inoltre consapevoli che il dialogo presume dei compromessi reciproci.
Tuttavia, ogni compromesso ha le sue “linee rosse”. Per noi, la sovranità e l’integrità territoriale d’Ucraina sono una linea rossa.”

La lingua batte tra Russia e Ucraina

firma-putin-Ancora qualche contributo sulla questione ucraino-russa.
Il primo articolo che ho già proposto stamattina in due quinte è di particolare interesse per il liceo linguistico perché riguarda proprio la questione linguistica: un bilinguismo di fatto si contrappone a una volontà politica monolinguistica che vede proprio nell’idioma un simbolo dell’identità nazionalistica. L’articolo è tratto da Il Manifesto di oggi: questione-linguistica-uno-strumento-di-incomprensione-politica
Il secondo è tratto da Rainews24 e riguarda un possibile allargamento dello scontro: la Moldavia con le due regioni della Gagauzia e della Transnistria: Accanto all’Ucraina, la Moldavia_ tra incudine e martello – Rai News

Ancora su Ucraina, Russia, Crimea e non solo

putin-boardtable-reutersMentre il presidente russo Vladimir Putin sta parlando alla Duma, pubblico degli articoli in pdf molto vari e che ho raccolto da internet. Negli allegati si trovano i rimandi ai siti originali. Il tutto va ad aggiungersi al post Piazza Piazza del 5 marzo.

Antonello Folco Biagini_ uno sguardo storico sulla crisi ucraina

Il bivio di Putin, tra sete di potere e diplomazia _ Europa Quotidiano

Il referendum in Crimea_ scenari per un’era post-imperiale _ FuturAbles

Rabbino pestato a Kiev, in aumento atti razzisti – Rai News

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Tatari di Crimea, il fattore islamico tra Russia e Ucraina

Gioventù europea

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Ho avuto la possibilità, in questi tre giorni, di visitare i palazzi delle Istituzioni Europee a Bruxelles insieme ad alcuni colleghi. Abbiamo incontrato politici, funzionari, liberi professionisti, formatori. Una delle cose che mi hanno colpito di più, soprattutto all’interno del Parlamento Europeo, è stata la notevole presenza di giovani; l’età media era decisamente bassa. Va bene, non saranno certo tutti parlamentari, molti saranno stagisti, collaboratori, contrattisti… però la sensazione di vedere tutti questi ragazzi e ragazze lavorare, incontrarsi, parlare in tante lingue è stata molto bella. Ne ho colto un segno di speranza, uno dei regali più belli di questa esperienza.

Un amore di… Franz

A breve, nel nostro Istituto, terremo un incontro sull’orientamento e sulla valorizzazione dei talenti interni ad ognuno di noi. Uno degli aspetti che emergeranno sarà senz’altro che oggi gli studenti devono avere una prospettiva per lo meno europea sul mondo del lavoro. E allora pubblico una pagina, tra l’altro scritta in uno stile che mi piace molto, del blog Franz io ti amo (recuperata da scambieuropei): frizzante, vivace, coinvolgente.

Franzbroetchen-a24925929.jpg“Il mio blog si chiama “Franz io ti amo” perché quasi tutte le mattine, qui ad Amburgo, mi sveglio con Franz. Non facciamo coppia fissa: lo tradisco spesso, ma stiamo bene così Franz e io. Franz per gli amici, Franzbrötchen per tutti gli altri, è un croissant alla cannella, vanto della pasticceria amburghese da almeno un paio di secoli. Io, invece, mi chiamo Erika. Ho ventisette anni, una laurea magistrale 110 e lode, qualificazioni varie, parlo quattro lingue e devo picchiare molto forte perché il mondo non mi calpesti. Mi sono trasferita in Germania non per amore di Franz (quello è arrivato dopo), bensì per motivi professionali: per trovare, cioè, quelle opportunità che l’Italia, al momento, sembrava non potermi offrire (sarei felice di venire smentita, ovviamente: nel frattempo però non riesco a stare ferma ad aspettare e me la costruisco qui, la mia carriera). Sono partita da sola e da sola mi arrangio. Tranne che per montare le tende; per quello, credo, aspetterò che il mio nuovo coinquilino torni dalle vacanze. Ho iniziato con uno stage, che qui si chiama Praktikum. Adesso proseguo la scalata alle vette di un lavoro dignitoso con un contratto da Trainee. Mi pagano per scrivere testi, correggere bozze, concepire progetti web, realizzare campagne pubblicitarie online. Faccio tutto questo in italiano, tedesco, inglese e francese; mi arrangio con lo spagnolo e il terribile olandese; qualche volta, a fine giornata, ho un po’ di mal di testa.

Sono una ragazza con la valigia. Una ragazza con la valigia lo son sempre stata. Prima per passione, ora anche per necessità. La mia storia è simile a quella di tanti altri giovani volenterosi , testardi e di talento che non hanno avuto altra scelta che lasciare l’Italia. Mi sono laureata il giorno di San Valentino del 2011 (da allora, perlomeno, ho una ragione per festeggiare il 14 febbraio). Subito dopo sono partita per Berlino. Vi sono rimasta per cinque mesi, traslocando per cinque volte. E’ stata, sotto diversi aspetti, una delle esperienze più importanti della mia vita. Neppure dopo, comunque, ho cessato di cacciarmi in situazioni incredibili nei posti più vari: Roma, Bruxelles, Münster, ancora Berlino, Selb, Amburgo, poi di nuovo in Italia, poi di nuovo Amburgo. Borse di studio, progetti europei, tirocini e viaggi della speranza. Il tutto, in circa un anno e mezzo. E’ stato anche divertente, ma non sempre. Ho parlato un mix di lingue diverse, fatto lavori differenti e preso molte, molte, molte fregature (personali, professionali, tutto il possibile e l’immaginabile).

Vivere all’estero: In definitiva è semplice prendere, partire e trasferirsi all’estero? Io credo che, anzitutto, occorra essere parecchio motivati e resistenti agli urti. I primi mesi possono essere logoranti: cercare casa, le procedure burocratiche, la mancanza di qualunque punto di riferimento, gli errori grandi e piccoli commessi perché non sapevi/non ti avevano detto/non avevi capito. Senza dubbio si conosce un’infinità di gente nuova. L’impressione è proprio di non fare altro che ripetere come ti chiami, quanti anni hai, dove hai studiato e cosa fai in Germania, e di arrivare molto più di rado, purtroppo, a discorsi un po’ più densi . Con alcune persone, l’affinità è immediata; con molte altre, le barriere (sia linguistiche, sia culturali) sembrano insormontabili. Per alcuni, sei un animale esotico; per altri, semplicemente, non esisti. Devi importi per far capire ai più ottusi che non sei un Gastarbeiter; che “Italia Mafia” risulta offensivo anche se viene pronunciato col sorriso (anzi, soprattutto in questo caso); che non ne puoi più delle battutine su Berlusconi; che l’Italia è anche altro, accidenti, e che concetti come “Dolce vita”, “Bella Italia”, “temperamento italiano”, ti rappresentano tanto quanto un “O sole mio”, cioè: neanche un po’.

Poi, per quanto mi riguarda, non gesticolo perché sono italiana: gesticolo perché sono nevrotica.”

L’Europa di Morin

Un’intervista molto agile presa da un blog del Corriere della Sera che si occupa di Francia. Ma si parla anche di Europa, di Mediterraneo, di Germania, di Mali. L’intervistato è Edgar Morin.

“A vent’anni Edgar Nahoum entrò nella Resistenza contro i nazisti e il regime di Vichy allora trionfanti, con il nome di battaglia di «Morin». Oggi che di anni ne ha 91, Edgar Morin esorta di nuovo alla lotta e ad avere il coraggio di perseguire l’improbabile: cioè, ai giorni nostri, battersi per una Europa unita. Con Mauro Ceruti, Morin ha scritto «La nostra Europa» (Raffaello Cortina Editore), un libro che ha l’ambizione di rispondere alle domande: «Cosa possiamo sperare? Cosa dobbiamo fare?». Nel suo studio di direttore di ricerca emerito del Cnrs a Parigi, il grande sociologo e filosofo della sinistra francese offre uno sguardo autorevole — e paradossalmente ottimista — sull’Europa di oggi.

Nel 1942 lei voleva sconfiggere Hitler. Oggi vuole una federazione europea. Stesso grado g1220978204_g1207957988_g1207594221_morin2.jpgdi improbabilità?

«Abbastanza. Ma tutta la storia umana ci indica che l’evoluzione accade quando gli eventi non seguono la traiettoria probabile. Il caso più clamoroso è quello della Grecia».

Cioè?

«L’impero persiano provò per due volte a schiacciare le piccole città greche, Atene in testa. Nella Prima guerra persiana gli ateniesi sconfissero l’esercito invasore a Maratona. E nella Seconda ci fu la sorpresa di Salamina, dove la flotta greca distrusse quella persiana. Chi l’avrebbe mai detto?».

L’improbabile ha prevalso anche nella Seconda guerra mondiale?

«Senza dubbio. Quando ho fatto la scelta di combattere nella Resistenza (nel 1942 Morin entrò come luogotenente nelle forze della Francia libera, ndr), i nazisti dominavano l’Europa ed erano sul punto di sconfiggere l’Urss. Niente indicava che potessero essere battuti. Fu una scommessa, per fortuna ci andò bene. Già l’Europa metanazionale del 1945 è figlia dell’improbabile».

Per questo lei e Ceruti avete scelto proprio questo momento per scrivere un libro europeista?

«Sono i giorni della crisi profonda ma, come diceva Hölderlin, “là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”. Bisogna credere in un nuovo, improbabile sussulto, perché le ragioni non mancano».

Non c’è leader europeo, a parte David Cameron, che a parole non sostenga la prospettiva di un’unione politica.

«I fatti non seguono perché nessuno ha il coraggio di accettare una cessione di sovranità a beneficio di tutti. Tutto è più difficile perché ci sono molte forze centrifughe. Guardate l’intervento in Mali, dove la Francia di fatto è sola a difendere interessi di tutta l’Europa».

Ma è proprio la Francia a essere accusata di frenare sull’integrazione politica. Berlino parla spesso di federazione, e Parigi non risponde.

«Angela Merkel evoca l’unione ma non vuole una politica di rilancio dell’economia. È la Francia a preoccuparsi di una politica economica comune, che non serva solo gli interessi di Berlino. L’impressione mia e di molti qui in Francia è che la Germania proponga un’unione ma a condizione di controllarla, perché nel frattempo la cancelliera Merkel impone ovunque il suo rigore».

L’avvento di Hollande all’Eliseo ha suscitato non poche speranze nell’Europa del Sud. Oggi quello slancio sembra essersi fermato, la Francia appare impegnata soprattutto ad affrontare i suoi notevoli problemi interni.

«Il rapporto della Francia con l’Europa del Sud è interessante e controverso. Negli anni Ottanta i premier socialisti di Portogallo, Spagna e Italia chiedevano al presidente Mitterrand di volgersi verso il Mediterraneo, di guardare di più a Sud. Lui a mio avviso non capì l’importanza di quella offerta di alleanza, era ossessionato dall’asse franco-tedesco, dal suo rapporto privilegiato con Helmut Kohl. Quello fu il primo errore».

E poi?

«Nicolas Sarkozy appena diventato presidente propose un’Unione del Mediterraneo. Un’idea priva di contenuto, davvero troppo campata per aria».

Perché per rinascere l’Europa deve guardare a Sud?

«Perché nel Mediterraneo stanno i problemi e le opportunità. A cominciare dal conflitto israelo-palestinese, sorta di cancro che estende le sue metastasi ovunque, che fortifica in Europa tutto quel che è antislamico e antiarabo e rafforza nei Paesi arabi i sentimenti contrari all’Occidente e alla civiltà giudaico-cristiana. Siamo davanti a un processo infernale, e senza svalutare ciò che è europeo, bisogna rigenerare quel che è mediterraneo».

Il Mediterraneo oggi è il luogo delle minacce, della guerra in Siria, delle Primavere arabe che sembrano tradire le speranze.

«Appunto, è qui che si gioca il futuro. Non parlo di misure concrete, ma il nostro ruolo è di rafforzare una sensibilità. Possiamo almeno provare a riportare in vita quel sentimento affettivo di una identità comune legata a un mare che mi piace definire “materno”».

Non è una visione sentimentale ma poco realistica?

«Al contrario. Anni fa ho scritto un testo che si intitolava appunto Togliere e ridare mito al Mediterraneo. Il nostro mare non è solo armonia, Apollo e Partenone; è un luogo di conflitti. Ma è comunque qui che sono nati i monoteismi e il pensiero laico. È il luogo di una costruzione storica inaudita».

Guardando a Sud, François Hollande ha mandato l’esercito francese in Mali. Lei è d’accordo con questo intervento?

«Sì, lo approvo. Anche se arriva troppo tardi e troppo presto. Tardi, perché si è lasciato che gli islamisti si impadronissero del Nord. Presto, perché gli alleati europei hanno seguito la Francia in modo solo simbolico, e anche perché adesso i tuareg e gli islamisti sono esposti alla vendetta dei maliani. È un’avventura storica e, come sempre in questi casi, i rischi sono molto alti, le conseguenze negative secondarie possono essere più importanti dei successi nel raggiungere gli obiettivi principali. Guardiamo la Libia: la decisione di intervenire era comprensibile, viste le minacce su Bengasi e considerato il regime di Gheddafi; ma adesso ci troviamo con un’enorme quantità di armi che sono finite ai jihadisti di tutta la regione, Mali compreso. Siamo nel vortice delle scommesse storiche, molto pericolose, è vero. Ma io penso che, a un certo punto, dei rischi vadano presi».

Prima delle elezioni presidenziali francesi lei ha firmato, con Michel Rocard e altri, il manifesto «Roosevelt 2012» per spronare la sinistra alle riforme, e ha sostenuto la candidatura di François Hollande. Che cosa pensa delle sue difficoltà attuali, tra tasse, fughe dei capitali all’estero e caso Depardieu?

«La Francia nemica dei ricchi, degli imprenditori e del mercato è un’immagine caricaturale, alimentata dall’opposizione sconfitta. Al contrario, molti a sinistra criticano Hollande perché non conduce una politica abbastanza di sinistra. Io non ero d’accordo con la tassa del 75%, perché la ritenevo inutile e controproducente: i ricchi possono benissimo evitarla espatriando. Soprattutto, Hollande non ha ancora fatto quel che ci aspettiamo da lui, una politica rooseveltiana basata sul rilancio delle energie rinnovabili e sull’ecologia intesa in senso largo. Invece l’energia e l’ecologia potrebbero essere il cuore della nuova integrazione europea».

È deluso da Hollande?

«No, lo critico ma ha un grande merito: Hollande ha combattuto e fermato il dogma politico del rigore che stava massacrando i greci e gli spagnoli. L’Europa può ripartire da qui».”

Equilibri sottili

In diverse classi parliamo del rapporto tra Europa e religioni. Aggiungiamo un altro tassello per la discussione: è un articolo di Riccardo Noury di Amnesty, preso da Le persone e la dignità.

“Lunedì scorso la Corte europea dei diritti umani ha stabilito che la compagnia aerea Nadia.jpgBritish Airways ha avuto un comportamento discriminatorio a causa della fede religiosa di una sua impiegata, stabilendo un risarcimento di 32.000 euro. La vicenda è quella di Nadia Eweida, una cristiana copta, che si era rivolta all’organo di giustizia europeo contestando l’obbligo, imposto dalla British Airways, di togliersi un crocifisso dal collo. Nel 2006 la donna, addetta al check-in, si era rifiutata di rispettare il codice di abbigliamento della compagnia aerea che prevedeva l’assenza di ornamenti intorno al collo ed era stata licenziata. Un anno dopo il codice era stato modificato e Nadia Eweida era stata reintegrata. Ma, nel frattempo, il suo ricorso era partito.

Richiamando l’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la Corte europea ha ribadito che indossare simboli religiosi è una parte importante del diritto alla libertà di religione e alla libertà di espressione. Amnesty International, in una nota, ha auspicato che questa sentenza possa contribuire a contrastare la discriminazione nell’impiego nei confronti di fedeli di ogni religione. Sono molti, infatti, i casi simili a quello di Nadia Eweida in molti paesi europei. Divieti o limitazioni relativi a simboli religiosi o culturali, così come a capi d’abbigliamento, soprattutto nei confronti di fedeli musulmani, sono stati imposti da datori di lavoro privati con la scusa che non erano necessari ai fini dello svolgimento dell’opera professionale richiesta. Non è che ognuno possa fare completamente come gli pare, sia chiaro. Vi sono casi in cui i datori di lavoro possono applicare regolamenti restrittivi per un obiettivo legittimo, nella misura in cui tali restrizioni siano necessarie e proporzionali all’obiettivo.

Nella stessa sentenza, la Corte europea dei diritti umani ha respinto il ricorso di altre persone di fede cristiana. In particolare, quelli di Lilian Ladele e di Gary McFarlane, i quali per motivi religiosi avevano, rispettivamente, rifiutato di registrare matrimoni civili omosessuali e di fornire consulenza a coppie omosessuali. Un terzo ricorso respinto riguardava un’infermiera che era stata obbligata a togliersi un crocifisso dal collo in quanto avrebbe potuto ferire i suoi pazienti. La Corte, in questi casi, ha rilevato che i ricorrenti avevano rifiutato di svolgere attività che erano essenziali nel contesto della loro professione. In sintesi, ci dice la sentenza, il diritto alla libertà di religione o di credo dev’essere protetto dalla discriminazione ma può essere limitato allo scopo di proteggere i diritti di altre persone. Un equilibrio sottile, ma indispensabile da mantenere e rispettare.”

Quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?

Questa è la dura lettera del Sindaco di Lampedusa e Linosa Giusi Nicolini. L’ha pubblicata Quel che resta del mondo il 15 novembre. La leggeremo in alcune classi e la commenteremo.

280px-Lampedusa_island.jpg“Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.

Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza”.