E l’Europa del Nobel?

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Quale il ruolo dell’Europa nella calda situazione israelo-palestinese? Se lo chiede su El periodico de Catalunya la giornalista Rossa Massagué. La traduzione è di Andrea Sparacino, la fonte è Presseurop.

L’escalation bellica tra Israele e la Striscia di Gaza certifica la comparsa di nuovi protagonisti nel processo di mediazione per fermare le violenze. Ora l’iniziativa è nelle mani di un Egitto che non ha niente a che vedere con quello di Mubarak, di una Turchia che continua ad affermarsi come potenza regionale e di un Qatar salito da poco alla ribalta internazionale ma con sufficienti mezzi e interessi (politici, strategici e religiosi) per reclamare un ruolo di primo piano. Questo quadro è senz’altro figlio dei cambiamenti portati dalla primavera araba.

E l’Europa? Non c’è e nessuno l’aspetta. In passato il suo compito nel conflitto israelo-palestinese è stato quello di saldare i debiti dei palestinesi, molto spesso nei confronti degli israeliani. Un ruolo perfettamente recitato e che in fondo risparmiava all’Ue preoccupazioni di altro genere. Ora però la situazione è cambiata. In un certo senso Bruxelles è ancora disposta a pagare, ma il problema è che l’Europa ha grossi problemi a mettersi d’accordo persino per rilasciare un comunicato congiunto. Lunedì 19 novembre, mentre i ministri degli esteri stavano lavorando al documento, Regno Unito e Francia sostenevano la necessità di chiedere a Israele di non lanciare un attacco di terra. Alla fine però il capo della diplomazia europea Catherine Ashton ha imposto il suo punto di vista, spalleggiata dalla Germania. In primo luogo il documento condannava il lancio di razzi contro Israele, in secondo luogo difendeva il diritto dello stato ebraico a proteggere la sua popolazione e solo in terzo luogo invitava Tel-Aviv ad “agire proporzionalmente e assicurare la protezione dei civili”. Il fatto che Gaza, la zona più densamente popolata mondo, subisca un blocco imposto da Israele non è stato nemmeno menzionato. I fatti dicono che l’operazione lanciata da Israele, con l’obiettivo (ufficiale) di fermare il lancio di razzi con attacchi aerei e dalle navi da guerra, ha provocato la morte di almeno 147 palestinesi (molti dei quali donne e bambini), il ferimento di altre 900 persone e la distruzione di molti edifici civili. Confrontando i danni e le vittime dell’operazione israeliana con gli effetti del lancio di razzi palestinesi (5 morti) è evidente che non c’è alcuna traccia della proporzionalità chiesta dall’Europa.

La primavera araba ha profondamente confuso l’Ue. Dopo aver sottolineato più volte la necessità di un miglioramento democratico nella zona – sostenendo nel frattempo le autocrazie, considerate il male minore rispetto all’islamismo – l’Europa non ha saputo come rapportarsi al movimento democratizzante. La stessa cosa sta accadendo in questi giorni. Oltre a firmare dichiarazioni che la realtà si incarica di ridurre immediatamente a parole senza senso, l’Ue sta rinunciando di fatto ad avere un ruolo nella soluzione di un conflitto che si svolge a pochi chilometri di distanza. Come se l’Europa non avesse e non dovesse avere alcun interesse nella zona.

 

“Sia circonciso tra voi ogni maschio”

Cosa deve fare un medico se si presenta una coppia che chiede di circoncidere il figlio? Ferdinando Fava è Antropologo all’Università di Padova e su Popoli ha risposto alla domanda, facendo riferimento alla sentenza di un tribunale tedesco.

circoncisione (copia).jpg“È lecito per un medico circoncidere un bambino per motivi religiosi su richiesta dei suoi genitori? Secondo un tribunale tedesco, questa pratica contiene alcuni elementi per la configurazione di un reato, ma poiché la giurisprudenza al riguardo non è uniforme, se il medico accettasse commetterebbe un inevitabile errore di diritto, proprio per questa mancanza di omogeneità. Egli agirebbe dunque non solo senza intenzionalità dolosa, ma neppure per negligenza o superficialità. Così si conclude la sentenza pronunciata il 7 maggio 2012 dal tribunale regionale di Colonia, resa pubblica il 26 giugno successivo, e che è immediatamente rimbalzata, in parte deformata, nel circuito mediatico scatenando reazioni molto contrastanti e dai toni molto duri. Perché questa sentenza e questa risonanza? I fatti cui si riferisce risalgono al novembre 2010. I giudici del tribunale respingevano il ricorso della procura contro l’assoluzione, in primo grado, di un medico incriminato di avere arrecato lesioni personali a un bambino di quattro anni, nella sentenza indicato come «K1» (per tutelarne la minore età), circoncidendolo nel proprio ambulatorio. I genitori del bambino, a distanza di due giorni dall’intervento, erano dovuti ricorrere al pronto soccorso del dipartimento pediatrico dell’ospedale universitario della città per arginare un’inarrestabile emorragia. Il perito esterno cui i giudici si erano rivolti confermava che il medico aveva agito correttamente secondo gli standard sanitari correnti (l’anestesia locale, la sutura di quattro punti e la visita domiciliare la sera stessa del giorno dell’intervento) ma asseriva anche che la circoncisione, almeno in Europa centrale, non è assolutamente necessaria come cura profilattica. I giudici respingevano l’appello confermando il giudizio di assoluzione del tribunale di primo grado.

Il dispositivo della sentenza è proprio ciò che è all’origine del dibattito che ne è seguito, multiforme e dai toni molto aspri. Ci sembra utile ripercorrerlo brevemente. La corte stabiliva che il bisturi usato con perizia dal medico incriminato non poteva essere considerato uno strumento pericoloso (come sostenuto invece dalla procura), ma riconosceva ciononostante che al bambino era stata certo arrecata una lesione personale. Secondo il tribunale, l’adeguatezza sociale della circoncisione per motivi religiosi, anche se operata in modo corretto da un medico su un bambino incapace di dare il proprio consenso e quindi solo grazie a quello dei suoi genitori, non la assicura dal non presentare elementi di reato. Detto diversamente, per la circoncisione non si prospetta apparentemente il problema della sua corrispondenza a un’ipotesi di reato, perché essa «va da sé» cioè è «socialmente invisibile, generalmente accettata e storicamente approvata e quindi non soggetta allo stigma formale della legge». Questo, però, non implica che la sua conformità alla aspettativa sociale la preservi dalla presenza di possibili elementi di reato: per il tribunale questa conformità dice proprio l’impossibilità di formulare un giudizio di disapprovazione legale. L’azione del medico inoltre, secondo il tribunale, non può essere giustificata dal consenso: il bimbo di quattro anni non ha la maturità per darlo, e quello dei genitori non giustifica la lesione personale che ne consegue. Il diritto all’educazione dei figli concerne quelle misure prese nel loro migliore interesse e questo non può risolversi in una lesione personale permanente.

Pertanto per il tribunale, a questo punto facendo appello alla letteratura accademica, la circoncisione di un bambino non capace di consenso non è una pratica che promuove il suo più grande interesse, che sia quello di evitare la sua esclusione dalla sua stessa comunità religiosa o di adempiere il diritto costituzionale dei genitori alla sua educazione. Questo diritto fondamentale è, infatti, secondo la corte, ristretto da quello altrettanto fondamentale del bambino alla propria integrità fisica e all’autodeterminazione. I diritti civili e politici non sono limitabili dall’esercizio della libertà religiosa: vi sarebbe dunque una fondamentale «barriera costituzionale» al diritto all’educazione dei genitori. Nel giudizio di proporzionalità cui ricorrere quando questi due diritti fondamentali vengono a collidere, la violazione irrimediabile dell’integrità fisica del bambino dovuta alla circoncisione implicata per la sua educazione religiosa, non è commisurata a questo fine anche se necessaria. Essa, infatti, cambia il suo corpo in modo irreversibile e irreparabile: cambiamento che potrebbe in seguito essere contrario agli interessi stessi del bambino, al suo decidersi indipendente, più avanti negli anni, circa la propria appartenenza religiosa. Il diritto fondamentale dei genitori, secondo i giudici, non sarebbe inaccettabilmente meno leso nel chiedere loro di aspettare il momento in cui il figlio possa decidere da se stesso l’assunzione di un segno visibile della propria affiliazione alla religione, in questo caso, musulmana. Il tribunale confermava così l’assoluzione del medico, senza colpa, per avere commesso allora un inevitabile errore sulla legge penale.

Il dibattito che la sentenza ha scatenato è apparso subito composito, sviluppandosi su piani interpretativi molteplici e correlati: quello giuridico, quello religioso, quello socio-culturale e politico. Ma non poteva essere diversamente. Nella sentenza, infatti, si cristallizzano le tensioni chiave che segnano il divenire oggi delle nostre democrazie liberali e i cui tentativi di soluzione, a loro volta, contribuiscono a costruirne la coesione e l’identità: la tensione e l’articolazione tra i diritti universali (umani, civili e politici) e quelli particolari (religiosi e culturali), tra il diritto del singolo, quello del suo gruppo culturale e della società più ampia in cui sono situati, la natura e i limiti dell’intervento dello Stato sull’educazione dei figli nella privacy famigliare. E tutto questo in una congiuntura storica nella quale i giudici, bisogna notarlo, proprio per l’oggetto, il dispositivo della sentenza e il contesto politico e geografico, si espongono all’accusa, tanto superficiale quanto politicamente strumentale, di islamofobia, di antisemitismo, o più in generale d’intolleranza alla religione di matrice razionalistica e liberale.

La sentenza tenta di definire una posizione terza non riconducibile alla separazione rigida e riduttiva che pone in tensione la legge dello Stato da una parte e le pratiche culturali e religiose dei suoi cittadini dall’altra. Essa appare molto più articolata delle caricature che di essa sono state fatte in molte delle sue critiche roventi. Non è nostro obiettivo valutare se essa riesca a salvare tutti i diritti in gioco e se l’argine che pone, la priorità dell’integrità fisica del bambino, sia giuridicamente fondato. Ma certo è che essa, mettendo in primo piano la circoncisione maschile religiosa, non solo ci invita ad approfondire il senso di una pratica che agli orecchi europei suona ancora scontata, innocua o salutistica, sopratutto nella sua versione medicalizzata routinaria, ma anche – e da qui allargando il cerchio dell’analisi -, a sollevare il problema dell’equità di genere rispetto alla facile criminalizzazione della sola circoncisione religioso-culturale femminile o ancora, estendendo l’ascolto e lo sguardo, ad analizzare l’iscrizione corporea del rapporto tra individuo e società come esso si configura proprio nella sempre più diffusa e invadente chirurgia estetica genitale. Insomma, è l’occasione per interrogarci oggi sulle pratiche di manipolazione dei corpi. Anche attraverso queste, il «corpo sociale» ormai globalizzato mantiene le sue molteplici gerarchie e pone in essere i propri confini, inscrivendoli nel corpo individuale proprio perché corpo sessuato. Quest’ultimo è portatore, infatti, rispetto al primo, di un’irriducibile ambiguità: fonte rassicurante della riproduzione del corpo sociale, esso è anche la costante minaccia del suo disfacimento. L’iscrizione corporea ordina il corpo sessuato al corpo sociale, ma di quest’ultimo ne dissimula così la radicale precarietà e dipendenza. Queste pratiche del corpo sono dunque «fatti ambivalenti»: sono fatti sicuramente religiosi e culturali, i cui rituali cristallizzano ideologie e dotano gli individui d’istruzioni per agire circa la personalità, i rapporti di genere, la cosmologia, lo status sociale, ma sono anche «fatti» irriducibilmente fisio-anatomici, modifiche irreversibili, che non possono non interpellare la riflessione etica e l’impalcatura giuridica, trovando nei diritti umani quel possibile fondamento condiviso, tanto universale quanto precario e problematico.”

Dalla Verna all’Europa

San Francesco, il silenzio, la natura, la Verna, De Gasperi, l’Europa: tutto in questo breve articolo. Ne leggo il nome dell’autore e scopro che è una donna dal cognome “noto”. E’ Maria Romana De Gasperi, la figlia dello stesso politico di cui parla nel pezzo.

0537.jpg“A mille e cento metri, dopo aver attraversato grandi boschi, si vede alto sulla roccia il santuario de La Verna. L’uomo di oggi si può chiedere perché san Francesco avesse scelto per la sua preghiera un luogo tanto difficile da raggiungere, allora, a piedi. Era davvero necessario in un tempo già di per se stesso senza rumori se non quelli della natura stessa, delle ruote dei carri sul selciato, degli animali di cui erano abitati i boschi, andare a cercare quell’altezza per una più intensa preghiera? Noi che ci siamo costruiti una civiltà del frastuono ci sentiamo perduti di fronte al silenzio, lo fuggiamo perché non ci dà pace, ma paura. Il silenzio ci mette di fronte allo specchio della nostra anima e pretende quel tipo di verità che non siamo più abituati ad affrontare: quanto di noi sia reale, non teatro per gli altri, non costruzione di fatti sovrapposti per necessità o per convenienza. Il Convento anche nella maestosità delle sue proporzioni assunte negli anni e nella presenza di pellegrini sa offrire, come nella buona pittura, angoli e scorci di solitudine e di silenziosa preghiera. Di fronte al saio di san Francesco martoriato dall’amore di Cristo, ci sentiamo spogliati delle nostre vanità mentre i frati cantano le antiche parole del Cantico delle creature entrando nella chiesa con i piedi scalzi nei sandali che non fanno rumore. Fuori sul grande terrazzo il sole quasi acceca i nostri occhi venuti dall’ombra, cancella le case e le strade laggiù nella campagna e ci dà l’illusione di essere ancora ai tempi del santo frate quando l’orizzonte era segnato solo dai boschi e dalla linea del cielo. Faticoso rientrare nella realtà il 29 settembre quando il «Circolo verso l’Europa» ha voluto ricordare la visita di De Gasperi nel 1952 in questo luogo mettendo assieme vecchi e nuovi amici per un incontro con la storia. C’era allora un discorso non facile tra i giovani che si erano dati il nome di “Terza Generazione” e avevano fretta di cambiare e rinnovare la politica e il Presidente, che conosceva i tempi e la fatica di governare con la presenza di forti avversari e l’inevitabile equilibrio e la fede da mantenere nei confronti di un’Europa che stava appena nascendo. Eppure alla fantasia dei giovani, al loro coraggio egli aveva lasciato la costruzione di una Europa unita nelle leggi della democrazia, nella sicurezza della pace, per un nuovo ordine sociale contro il materialismo, contro le illusioni delle dittature. «Un lavoro imponente, che non potrà essere esaurito forse nel giro di una sola generazione, ma che bisogna intraprendere con coscienza e fermezza». Queste parole mi vengono alla mente quando tolgo il drappo a una lapide messa su queste mura a suo ricordo. I frati mi accompagnano con una melodia che non conosco. Una donna si asciuga le lacrime.”