Prendo dal Post un articolo molto interessante di Elena Zacchetti sullo scontro che si sta sviluppando in Afghanistan tra talebani e Isis e sui possibili (nefasti) esiti.
“Negli ultimi due mesi e mezzo, da quando Kabul è stata conquistata dai talebani, in Afghanistan si è intensificata una rivalità pericolosa e a tratti poco comprensibile, vista da qui: quella tra i talebani e l’ISIS, due gruppi sunniti estremisti, considerati terroristici da molti paesi occidentali, che condividono l’obiettivo di costruire un qualche tipo di stato islamico basato su un’interpretazione molto rigida della sharia (la legge islamica). È una rivalità che arriva da lontano e che si sta mostrando in tutta la sua violenza tramite attentati – come quello di martedì a un ospedale di Kabul –, esibizione di cadaveri per le strade e uccisioni “extra-giudiziali”, cioè omicidi compiuti o autorizzati da un’autorità statale senza essere preceduti da un procedimento giudiziario.
I rapporti tra i due gruppi sono entrati in «una nuova fase», ha scritto il sito specializzato War on the Rocks, iniziata dopo il ritiro dei soldati statunitensi dall’Afghanistan e che «sarà quasi certamente sanguinosa e violenta».
Si parla di «nuova fase» perché questa inimicizia in Afghanistan non è una cosa nuova. Iniziò a svilupparsi nel 2015, cioè fin dalla nascita dell’ISIS-K (o Provincia del Khorasan dello Stato Islamico), che in maniera un po’ approssimativa si può definire la divisione afghana dello Stato Islamico.
Già allora (ma anche oggi) i talebani erano alleati con al Qaida, grande organizzazione sunnita che si contendeva con l’ISIS la supremazia del mondo jihadista globale, e già allora ISIS e talebani avevano differenze ideologiche significative. Mentre l’ISIS-K, così come il nucleo principale dell’organizzazione (poi sconfitto in Iraq e in Siria), auspicava la creazione di un Califfato islamico esteso oltre i confini di un unico stato, i talebani avevano obiettivi più locali: volevano riconquistare il potere in Afghanistan e imporre un’interpretazione radicale della sharia dentro i confini nazionali. L’ISIS accusava inoltre i talebani di essere «apostati» per adottare posizioni troppo morbide nell’applicare le norme dell’Islam; i talebani sostenevano che l’ISIS fosse un gruppo estremista eretico.
Con il ritiro dei soldati americani, e con il rapido sgretolamento delle forze di sicurezza afghane, lo scorso agosto i talebani sono riusciti a riconquistare l’Afghanistan e allo stesso tempo si sono aperti nuovi spazi d’azione per l’ISIS-K, che ha approfittato fin da subito della nuova instabilità, oltre che delle evasioni di massa dalle carceri afghane che si sono verificate durante la presa di Kabul. In quei giorni confusi di metà agosto erano stati infatti liberati migliaia di detenuti, tra cui molte persone accusate di terrorismo e di essere affiliate all’ISIS.
L’inizio di una «nuova fase» si era già visto già lo scorso 26 agosto, quando l’ISIS-K aveva ucciso quasi 200 civili afghani radunati fuori dall’aeroporto di Kabul nel tentativo di salire a bordo di uno degli aerei impegnati nelle operazioni di evacuazione di stranieri e afghani da Kabul.
Nelle settimane successive l’ISIS-K ha compiuto numerosi attacchi sia nelle zone del paese dove la sua presenza è considerata più solida, come la città di Jalalabad (nell’est), sia in aree che fino a quel momento erano state abbastanza fuori dal suo raggio d’azione, come le città di Kandahar e Kunduz.
Le maggiori violenze si stanno verificando proprio nella provincia di Nangarhar (in rosso nella mappa), dove si trova Jalalabad e dove da settimane sembra essere in corso una specie di guerra segreta ed estremamente cruenta.
Secunder Kermani, inviato di BBC a Jalalabad, ha raccontato quello che sta succedendo in città e le estese violenze di cui sono testimoni gli abitanti locali. Kermani ha scritto che quasi ogni giorno corpi di persone uccise vengono trovati ai lati delle strade, «alcuni colpiti da spari o impiccati, alcuni decapitati. Molti hanno biglietti scritti a mano nelle tasche che li accusano di essere membri della divisione afghana dello Stato Islamico». Nessuno sta rivendicando gli omicidi e molti ritengono che si tratti di uccisioni extra-giudiziali compiute dai talebani contro persone sospettate di far parte dell’ISIS-K: «I due gruppi hanno iniziato una guerra sporca e sanguinosa. Jalalabad è il fronte di questa guerra», ha scritto Kermani.
Il sospetto deriva anche dal fatto che a capo dei servizi di intelligence della provincia di Nangarhar c’è un uomo conosciuto con il nome di Dr Bashir, che già in passato aveva combattuto e sconfitto l’ISIS e che si era fatto una reputazione di grande ferocia e violenza. Dr Bashir ha negato di essere coinvolto nelle molte uccisioni delle ultime settimane e ha sostenuto che i talebani non abbiano motivo di preoccuparsi per la presenza dell’ISIS in Afghanistan.
Nonostante le affermazione di Dr Bashir, sembra che l’ISIS stia riuscendo a ottenere qualche successo e a mettere in difficoltà il nuovo governo talebano, per esempio attaccando la minoranza degli Hazara, di orientamento sciita, a lungo perseguitata in Afghanistan ma con cui ora i talebani stanno cercando di costruire rapporti pacifici. Avinash Paliwal, vicedirettore del SOAS South Asia Institute dell’Università di Londra ed esperto di Afghanistan, ha detto al Financial Times che questi attacchi compiuti dall’ISIS-K «esacerberanno una faglia settaria che non è nell’interesse dei talebani che si infiammi davvero», e ha aggiunto che «la violenza aumenterà e sarà un “tutti contro tutti”».
Con i suoi attentati, l’ISIS sta provocando anche un’erosione di fiducia della popolazione afghana nei confronti dei talebani e della loro capacità di riportare la pace e la sicurezza nel paese. Per anni, infatti, i talebani avevano sostenuto di essere l’unico gruppo in grado di stabilizzare l’Afghanistan. Le cose però si stanno dimostrando più complicate di quanto avessero previsto i leader del gruppo, anche perché i comandanti talebani locali stanno avendo parecchie difficoltà a contrastare le tattiche terroristiche e di guerriglia adottate dall’ISIS.
È difficile prevedere come si svilupperà la rivalità tra i due gruppi, e con che livello di violenza.Il timore, ha scritto War on the Rocks, è che la divisione afghana dell’ISIS provi a diventare ancora più attiva ed efficace reclutando combattenti talebani delusi dal nuovo regime, che in un certo senso sta cercando di ottenere legittimità a livello internazionale collaborando con diversi paesi e diventando allo stesso tempo più attaccabile dalle frange più radicali ed estremiste. Con il ritiro degli americani e delle forze della NATO, inoltre, l’ISIS-K è ora in grado di concentrare tutte le sue forze direttamente contro i talebani, compiendo attacchi ancora più frequenti e violenti rispetto al passato”.
Alla fine ho deciso di abbonarmi a Il Post, un progetto editoriale che seguo da un po’. L’ho fatto sia per continuare ad ascoltare due podcast, Morning e Tienimi bordone, sia perché apprezzo l’accuratezza con cui vengono scritti gli articoli. Inoltre, dopo un po’, hai la sensazione di far parte di un gruppo, di stare effettivamente contribuendo alla realizzazione di un bel lavoro. Infine non nascondo che abbia inciso anche il costo abbordabile per le mie tasche. Mi capiterà, quindi, di pubblicare un po’ più frequentemente dei loro pezzi rispetto a quelli di altre fonti, anche perché non hanno alcuna forma di paywall. Oggi pubblico un articolo sulla situazione che si sta delineando in Pakistan, in particolare sulle pressioni che un gruppo radicale sta esercitando sul governo di Islamabad. L’articolo lo potete trovare qui.
“Dalla fine di ottobre in alcune regioni del Pakistan, a sud della capitale Islamabad, migliaia di persone appartenenti a gruppi islamici fondamentalisti hanno bloccato un’importante autostrada e ricattato il governo, chiedendo diverse concessioni e protestando contro alcuni atti che considerano blasfemi. Il più importante di questi gruppi si chiama Tehreek-e-Labbaik Pakistan (TLP) ed è diventato una forza importante e pericolosa nelle dinamiche sociali del paese. Il 1° novembre, dopo giorni di scontri in cui sono morti quattro poliziotti e durante i quali sono state bloccate alcune tra le più importanti vie commerciali del paese, il governo ha infine ceduto ai manifestanti, raggiungendo un accordo i cui termini sono segreti ma che, a detta dei giornali locali, garantisce molte concessioni ai fondamentalisti. Il TLP è da tempo una presenza influente nella vita politica e sociale del Pakistan e, come avvenuto più volte negli anni scorsi, ha mostrato di essere in grado di ricattare il governo nazionale con manifestazioni e azioni violente per ottenere i suoi obiettivi.
Ad aprile il governo pakistano, per cercare di fermare il TLP, aveva perfino designato il gruppo come organizzazione terroristica e ne aveva arrestato il leader, Saad Hussain Rizvi (nella foto). Dopo l’arresto c’erano state rivolte di piazza, con un numero imprecisato di morti e centinaia di feriti. Il governo allora era riuscito a placare le manifestazioni facendo delle concessioni, ma gli estremisti del TLP sono tornati a protestare lo scorso 21 ottobre. A migliaia, spesso armati, hanno cominciato una marcia da Islamabad, la capitale, alla grande città di Lahore, con l’obiettivo di occupare la Grand Trunk Road, un’autostrada che collega le due città e che è una delle principali vie di trasporto di tutto il paese. Le richieste dei manifestanti erano numerose e confuse, ma le principali erano tre: il rilascio di Saad Hussain Rizvi, il ritiro delle accuse di terrorismo avanzate dai tribunali pachistani contro centinaia di affiliati al gruppo, e l’espulsione dell’ambasciatore francese. Quest’ultima richiesta era una ritorsione per il fatto che un anno fa il presidente francese Emmanuel Macron aveva difeso la pubblicazione di vignette satiriche che raffiguravano il profeta Maometto: è una vecchia battaglia del TLP, che aveva portato a scontri tra i manifestanti e la polizia pachistana già nei mesi scorsi. Secondo alcuni giornali pachistani citati dal New York Times, i termini dell’accordo che ha risolto la crisi degli ultimi giorni prevedono il rilascio di vari membri del gruppo in prigione, la promessa che non ci saranno più accuse contro rappresentanti del TLP e la rinuncia alla designazione di gruppo terroristico. Il TLP avrebbe rinunciato invece a chiedere al Pakistan di tagliare i rapporti diplomatici con la Francia. Il TLP, che oltre a essere un movimento sociale estremista e un gruppo di pressione è anche un partito politico (con poco successo elettorale, finora), fu fondato nel 2015 con lo scopo di difendere la rigida e controversa legge sulla blasfemia del paese, che prevede pene durissime, compresa la pena di morte, per chiunque offenda una qualunque religione. In Pakistan, dove il 96 per cento della popolazione si professa musulmano, quasi sempre la religione offesa è l’islam. Il gruppo divenne un movimento di massa durante i vari sviluppi della vicenda di Asia Bibi, una donna cristiana accusata ingiustamente di blasfemia, la cui vicenda divenne un caso internazionale. Tra le altre cose, il TLP organizzò grandi rivolte di piazza in difesa di Mumtaz Qadri, una guardia del corpo che nel 2011 aveva ucciso il governatore della provincia del Punjab dopo che questi aveva difeso Asia Bibi e chiesto una riforma della legge sulla blasfemia. Nel 2017, il TLP organizzò altre rivolte dopo che il governo aveva proposto di modificare lievemente il testo del giuramento dei parlamentari che faceva riferimento al profeta Maometto: negli scontri morirono sei persone, e centinaia furono ferite. Nel corso degli anni, il governo del Pakistan non è stato in grado di gestire organizzazioni come il TLP: ha consentito che diventasse «uno dei gruppi di pressione più importanti» del paese e di fatto ne è diventato «ostaggio», come ha scritto l’Economist. Il governo tuttavia non è soltanto una vittima. Nel corso degli anni, la politica e l’esercito pachistani hanno alimentato sentimenti fondamentalisti nella popolazione, servendosi di gruppi come il TLP per polarizzare l’opinione pubblica e ottenere vantaggi elettorali. Come ha scritto sempre l’Economist, i legami tra l’élite pachistana e il TLP sono noti: per esempio, durante le proteste del 2017, un alto ufficiale dell’esercito fu filmato mentre consegnava somme di denaro ai leader del gruppo”.
Quello che segue è un post piuttosto lungo. Si tratta dell’articolo uscito su La Civiltà Cattolica 4010 a firma Antonio Spadaro (direttore della rivista) e Marcelo Figueroa (pastore presbiteriano e direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano). Ho deciso di pubblicarlo perché lo trovo ricchissimo di spunti di riflessione.
“In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia. Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male. A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche». Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.
Lyman Stewart
Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush. Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati». Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli. Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto. Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione». In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova». Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».
Rushdoony
Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca [sollevato dall’incarico il 18 agosto 2017] e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1]. «La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa. La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden. Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici. È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano. Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna. Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato. L’ecumenismo fondamentalista Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica. Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici. La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica. È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione». La tentazione della «guerra spirituale» L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiettare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana. Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico. Colpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3]. Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces. Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto. Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista. Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza». Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali. Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico». Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista». Contro la paura Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’alleanza spuria tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo. La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa. Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4]. ******** [1]. Bannon crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny. Cfr anche N. Howe, «Where did Steve Bannon get his worldview? From my book», in The Washington Post, 24 febbraio 2017. [2]. Cfr A. Aresu, «Pope Francis against the Apocalypse», in Macrogeo, 9 giugno 2017. [3]. Cfr «Donald “Constantine” Trump? Could Heaven be intervening directly in the election?», in Church Militant. [4]. Per approfondire queste riflessioni, cfr D. J. Fares, «L’antropologia politica di Papa Francesco», in Civ. Catt. 2014 I 345-360; A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», ivi 2016 I 209-226; D. J. Fares, «Papa Francesco e la politica», ivi 2016 I 373-385; J. L. Narvaja, «La crisi di ogni politica cristiana. Erich Przywara e l’“idea di Europa”», ivi 2016 I 437-448; Id., «Il significato della politica internazionale di Francesco», ivi 2017 III 8-15.
Un articolo breve che tocca diversi temi, da quello della prossima visita del papa in Egitto a quello dei recenti attentati contro la chiesa copta, dal radicalismo islamico all’islam del grande imam di al-Azhar. E’ il frutto dell’intervista di Riccardo Cristiano al professor Antoine Courban, pubblicata su Vatican Insider.
Nel suo appartamento al primo piano di una palazzina moderna nel cuore di Ashrafyyeh, il “quartiere cristiano per eccellenza” di Beirut, il professor Antoine Courban, docente all’Università Saint Joseph, storica istituzione dei gesuiti in Libano, tra icone bizantine e commentari coranici attende con ansia che Papa Francesco giunga al Cairo.
«Per capire la portata di un evento occorre collocarlo nel suo contesto. E il contesto nel quale avverrà questo viaggio è certamente segnato dal duplice attentato contro le Chiese e i fedeli copti d’Egitto. Un attentato? No, piuttosto direi un atto di guerra. Ma quale guerra? La guerra dichiarata dai radicali ai “moderati”, tutti i moderati. Ci si può chiedere come possa una guerra essere dichiarata anche all’islam moderato e avvenire con lo spargimento di sangue cristiano. La mia risposta è semplice: perché aprendo il recente convegno del Cairo sulla cittadinanza il grande imam di al-Azhar ha detto che è giunto il momento di sfidare il fanatismo e l’estremismo che usa la religione come una maschera con un vero scontro culturale, ed ha indicato come farlo. I terroristi hanno capito e trasferito il combattimento sul loro terreno, colpendo il fianco debole, la carne tenera del nemico, le chiese e i fedeli copti». Ci può spiegare? Se è chiaro l’atto di guerra, sembra proprio un atto di guerra contro i cristiani, definiti “infedeli”…
«Per rispondere devo tornare al convegno promosso da al-Azhar poco prima della strage. E per capire bene dobbiamo partire da una parola. Questa parola è “umma”. La conoscono tutti. Nella storia questa parola è stata usata per indicare la comunità dei fedeli musulmani, quindi in senso religioso. Indica una “ecclesia”, o una comunità universale religiosa. Poi è stata usata in senso etnico, l’umma araba, cioè la comunità di tutti i popoli arabi. Queste due concezioni di umma, religiosa o etnica, hanno dato forma alle due prevalenti correnti politiche: il panislamismo e il panarabismo. Nel documento conclusivo del recente convegno di al-Azhar, al quale ho partecipato come inviato come altri 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi come me, si parla però di un’altra umma, alla cui base non c’è la religione né l’etnicità, ma la geografia: l’umma della patria, cioè la comunità di chi vive un territorio. È fondamentale leggere il primo articolo della dichiarazione di al-Azhar, dove si parla di “eguali diritti di musulmani e cristiani nei loro paesi, considerandoli una umma/nazione”. Ma non è tutto. L’articolo 6 dice che l’ambizione è quella di promuovere un nuovo partenariato, “un nuovo contratto tra i cittadini di paesi arabi, musulmani, cristiani o di altra fedeltà”. Tale contratto è basato sul “reciproco riconoscimento, sulla cittadinanza e sulla libertà”. La dichiarazione sottolinea che tutto questo è “una necessità vitale” e specifica che tutti nella patria comune si è sottoposti a un dettato costituzionale. E le costituzioni, si sa, non le scrivono i teologi. È un passaggio importantissimo. Nel paragrafo finale poi si afferma che in questa Patria fondata su una Costituzione “il nostro obiettivo, vivendo sulla stessa barca e facendo parte della stessa società, [….] è garantire un migliore futuro ai nostri figli e alle nostre figlie”». Si indica qui la parità uomo-donna?
«Come vede parliamo di novità storiche, epocali: è da secoli che si cerca di plasmare il concetto di cittadinanza nelle nostre società, la comune cittadinanza senza distinzioni di sesso, di etnia, di fede. Il concetto di nazione, vocabolo che in arabo non esisteva fino all’Ottocento, è stato interpretato in termini etnici o religiosi. Ora la più importante istituzione sunnita, al-Azhar, lo plasma in termini geografici, nella patria comune, dove vivere insieme, da uguali, senza subordinazioni o primati, etnici o religiosi. E, par di capire, di sesso. Ecco perché l’imam di al-Azhar ha voluto parlare di sfida culturale e si capisce perché gli odiosi attentati contro le Chiese copte siano un atto di guerra dei fanatici contro tutti i moderati. Mi preme sottolineare un ultimo aspetto, molto importante per me. Questo testo redatto alla fine della conferenza di marzo e che pone la base per la conferenza sulla pace alla quale parteciperà Papa Francesco è stato letto, in aula, davanti a tutti i delegati e gli ospiti, dal grande imam in persona. Alcuni ulema conservatori di al-Azhar, parte cioè di quella che potremmo definire per capirci “la Curia” di al-Azhar, preferivano che fosse letto da uno speaker. L’intento poteva essere quello di depotenziare il testo, il suo valore vincolante. Lui però ha insistito, ha voluto leggerlo personalmente, e credo che questo abbia un enorme significato. Dunque il viaggio del Papa al Cairo arriva sulla scia di questo, in un contesto nel quale l’islam moderato dice che non ci sono più minoranze etniche o religiose, ma cittadini. E il cardinale Rahi rientrando qui dal Cairo lo ha detto benissimo: non siamo più minoranze». Lei crede che il Libano abbia svolto un ruolo in questo?
«Osservo la platea degli invitati al convegno di marzo: 200 ospiti stranieri, 60 dei quali libanesi. Credo che il Libano del vivere insieme, non del convivere tra comunità, ma del vivere insieme, del legame, della cittadinanza, abbia costituito il nucleo concettuale, il messaggio di partenza di questo incontro che proseguirà a fine mese, alla presenza di Papa Francesco».
Giulio Bertoli è nato a Firenze nel 1989. Nel 2015 si laurea in fisica teorica ad Amsterdam. Attualmente vive a Parigi dove fa un dottorato in gas quantistici disordinati ultrafreddi. Si interessa di teoria della complessità, sul ruolo della contingenza nella conoscenza scientifica e sull’interdisciplinarietà. Nel 2015 ha tenuto una lezione di filosofia della scienza all’Università di Bergamo. Su “L’Indiscreto” è stato pubblicato questo articolo molto interessante (da lì ho anche preso le note biografiche sovrastanti).
“Il fondamentalismo religioso è indubbiamente uno dei temi più caldi nel mondo occidentale. È intimamente connesso all’emergenza sociopolitica dei migranti, solleva dibattiti legati al controllo statale e alla libertà del cittadino, si lega allo spettro inconscio del rifiuto della diversità. La società occidentale si propone come baluardo della lotta al fondamentalismo (islamico) e fa di questa battaglia uno dei suoi obiettivi primari, sotto la bandiera dei valori liberali, ma un altro tipo di integralismo imperversa nei meandri del suddetto liberalismo, imperturbato se non inconsapevolmente lodato, meno esplicito ma altrettanto pericoloso, forse proprio per la sua capacità di nascondersi nelle pieghe del discorso: lo scientismo. A onor del vero, da molto tempo suonano dei campanelli di allarme: già il vecchio Popper se ne lamentava, quando non parlava di tacchini. Ma il problema non è soltanto lo scientismo accademico o dei corsi di filosofia, che lo interpretano come una moda passeggera, parto dell’onda meccanicista di fine ottocento. Lo scientismo è più che mai esteso e attuale. Benché ormai studiosi e scienziati diano per assodato che l’autosufficienza scientifica sia un mito, infatti, il ritratto pubblico della scienza è oltre il più sfrenato positivismo. Si parla di particelle di Dio, di manipolazione del genoma umano, del provato scientificamente come garanzia della certezza assoluta. Ciò che si nasconde dietro a tutto ciò è il sogno infantile del riduzionismo: l’idea che debba esistere un qualche codice, uno schema, qualcosa di semplice dietro alla complessità che ci avvolge. E che questo codice sia in un certo senso ottenibile, se non direttamente per lo meno in maniera asintotica, riducendo il tutto in parti costituenti e carpendone il funzionamento. Siamo così immersi nel mito popolare di un Dio onnisciente e assoluto, talmente divorati dal tentativo di emularlo che perdiamo di vista una delle cose che ha fatto la scienza: distruggerlo. Il riduzionismo, è vero, ha portato a grandi trionfi scientifici. D’altro canto uno dei suoi più grandi limiti è stato di non considerare tutto quel che rimaneva fuori dalla sua (per altro esigua) sfera di applicabilità, e, almeno fino agli anni sessanta del secolo scorso, guardare dall’altra parte, concentrandosi soltanto sui suoi successi. La selezione artificiosa dell’oggetto scientifico, però, preclude una visione globale del mondo e ha in effetti contribuito a creare un’immagine che ancora persiste, seppure sia enormemente fuorviante, ovvero che tutte le cose accadano in maniera riduzionistica. Il bias è talmente forte che persino nella prima teoria scientifica che è andata oltre questo modus operandi, ovvero la teoria del caos, abbiamo sviluppato una fallacia riduzionista. Ci viene detto che il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un uragano in Giappone, ma mentre il significato della teoria è che il sistema è fortemente sensibile alle condizioni iniziali e che il loro minimo cambiamento invalida ogni meccanismo di previsione, ciò che passa al pubblico è l’idea di poter ricollegare cause ed effetti fino al più piccolo particolare in una simmetria temporale. È proprio sulla nozione di simmetria che si basa il riduzionismo: l’abilità di ridurre tutto a delle leggi fondamentali, obbedite dalle parti costituenti, e che la comprensione di tali leggi implica la possibilità di ricostruire il tutto. Ma ciò è ben lontano dalla realtà: fenomeni emergenti, sistemi complessi, rotture di simmetria sono esempi di come la struttura riduzionista ci abbia illuso fino a farci dimenticare che la previsione è un lusso applicabile solo in pochissimi frangenti. Un altro fatto spesso tralasciato è che, dato quest’imprinting simmetrico, ci fidiamo altrettanto ciecamente dell’estrapolazione di dati. Niente in realtà crea più confusione: può anche darsi, infatti, che il famoso battito d’ali causi un uragano, ma ovviamente l’osservazione di un uragano non potrà dirci niente su ciò che l’abbia causato. Con che coraggio, inoltre, si creano previsioni “scientifiche” sulla base di modelli che si rifanno su dati già ottenuti di sistemi complessi (vedi in economia)? Purtroppo “provato scientificamente” ed “elimina il tuo senso critico” stanno diventando pericolosi sinonimi, in cui il bisogno di completezza si sfoga del vuoto lasciato dalla religione e si appiglia a un nuovo Dio tecnologico. Che dire quindi delle “leggi di natura”? Potremmo cominciare a vederle senza la rigidità che contraddistingue la dogmatica impostazione dell’asintoto, dell’avvicinamento a un ideale assoluto figlio dell’Iperuranio. Le nostre leggi stanno diventando asimmetriche nello spaziotempo: la nascita della vita stessa è vista come un fenomeno emergente, così come sciami, stormi e altri sistemi complessi ci stanno insegnando che, in ogni caso, le leggi e regolarità che governano i sistemi non ci danno la possibilità di controllarli e men che mai di prevederne l’andamento. Spesso l’approccio alla scienza è paradossale: da un lato viene considerata legittimante, dall’altro è criticata a priori, o si percepisce nei suoi confronti una certa diffidenza. Spesso questi atteggiamenti coesistono. La confusione, senza considerare fattori come la politicizzazione e la democratizzazione dell’informazione scientifica, è generata dall’ascrivere “poteri” al metodo scientifico riduzionista che semplicemente non sono rappresentativi della realtà: si potrebbe arrivare a dire che la fede nel metodo scientifico (riduzionista) è totalmente non-scientifica. La biologia potrebbe insegnarci qualcosa al riguardo. Interessante in questo senso è l’apporto degli studi sull’evoluzione, dove l’ambiente esterno gioca un ruolo fondamentale. L’idea di un ambiente esterno “inesorabile” prende probabilmente forma dal modo in cui viene considerato in fisica statistica, ovvero come serbatoio termico infinito. In biologia, l’assunto diviene quello di ambiente come infinito interrogatore, invece che serbatoio; questa visione può essere superata se si considera la relazione ambiente-soggetto non come causa-effetto ma come un dialogo. L’importante è considerare l’evoluzione nel tempo, dove gli eventi per via della loro unicità e irripetibilità sono significativi e necessari ma non sufficienti e inevitabili. In altre parole, ciò che osserviamo è compatibile con le leggi di natura che deriviamo, ma non è in alcun modo deducibile. La vita stessa non è un fenomeno inevitabile e necessario, e neppure l’esistenza di Jacques Monod. È innegabile che la scienza occupi un posto dominante nella nostra vita, soprattutto nel rapporto uomo-natura che ha contribuito a creare con la tecnologia. Tale rapporto si profila come uno dei temi più importanti (se non il più importante) del secolo che stiamo vivendo. Una maggiore consapevolezza del ruolo dell’indeterminatezza in questo rapporto ci farebbe sicuramente vedere tutto in una nuova luce: quella di sistemi complessi visti non più nella maniera riduzionistica del “complicato” e quindi non interessante, ma nel loro significato originale della parola: cum-plexus, intrecciato assieme. L’educazione scolastica in questo senso ci insegna a separare le materie dalle altre, oggetti e soggetti dall’ambiente, le scienze dalle arti, o a vedere la storia come una dispiegamento lineare di cause ed effetti; ma non ci insegna ad intrecciare, collegare, cum-plectere. Per poter cominciare a risanare il nostro rapporto con la natura abbiamo bisogno di ricomporre la realtà che noi stessi abbiamo ridotto a scompartimenti e frammenti, credendo sconsideratamente in questo modo di poter prevedere le conseguenze. La scienza si trova a un bivio, verso uno sfrenato fondamentalismo o la rivoluzione. Speriamo che Khun almeno su qualcosa avesse ragione.”
Un’inchiesta di Viviana Mazza pubblicata oggi sul Corriere della Sera. Questa è l’introduzione: “Per lo Stato islamico sono apostati, «bersagli obbligatori». Sono gli imam dei Paesi occidentali che condannano la violenza: questa inchiesta è il risultato di una lunga serie di colloqui che il Corriere ha avuto con loro. «Il nostro attivismo — dicono — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo». Senza finzioni: negano che l’Isis sia l’essenza dell’Islam, ma non dicono che «non ha nulla a che fare con l’Islam». Una riforma è dunque necessaria, «e non solo come reazione all’Isis».” Ecco l’inchiesta (questa la fonte):
“L’imam Suhaib Webb ha 43 anni, suo nonno era un predicatore cristiano dell’Oklahoma, ma lui da ragazzo s’è convertito all’Islam. Nella sua moschea, a Washington D.C., alcune donne portano l’hijab e altre no. Non piace all’estrema destra Usa ma ancor meno all’Isis che considera un complotto il suo uso della cultura pop e il suo accento del sud. Nell’ultimo numero della rivista Dabiq, i seguaci del Califfo lo hanno condannato a morte, insieme ad altri dieci imam occidentali, definiti «apostati», «bersagli obbligatori» e da eliminare con qualunque arma per «farne degli esempi». Ecco cosa tre di loro raccontano al Corriere.
Suhaid Webb
Contattiamo l’imam Webb su Snapchat, dove pubblica continuamente video contro l’estremismo, alcuni girati nelle gelaterie e ironicamente intitolati «Isis e ice cream». «Il nostro attivismo — dice — è una risposta a quanti chiedono: perché i musulmani non fanno nulla per contrastare l’Isis? La verità è che lo stiamo facendo, è da un po’ che lo facciamo». Le loro vite, in seguito alle minacce, sono cambiate, anche su suggerimento dell’Fbi. Webb sostiene di prendere qualche precauzione in più quando viaggia e di stare attento prima di incontrare sconosciuti; allo stesso tempo esulta: «È chiaro che stiamo avendo un impatto nel contrastare il messaggio dell’Isis. Se così non fosse, non ci presterebbero attenzione. Le api attaccano chi disturba il loro alveare». Altri imam, tra quelli minacciati di morte, sono più preoccupati. «Non vivo nella paura, ma so che ci sono simpatizzanti dell’Isis in America, si capisce dai loro tweet, e ci sono molte persone con problemi mentali, fanatici e lupi solitari. Ho cinque figli e non voglio diventare un martire», ci dice Hamza Yusuf,
Hamza Yusuf
56 anni, di Berkeley, California, definito dalla stampa inglese e americana lo studioso di Islam più importante del mondo occidentale. In un sermone intitolato «La crisi dell’Isis», diventato virale su Youtube, ha implorato Dio di non punire gli altri musulmani «per ciò che fanno questi idioti tra di noi». Invece lo sheikh Yasir Qadhi, che opera in Tennessee ed è noto per un famoso programma sulla tv satellitare Mbc, si sente più minacciato dall’estrema destra che dall’Isis. «Non credo di correre seri rischi finché resto in America perché l’Isis non ha un grande seguito tra i musulmani qui, e di questi tempi non andrei nei luoghi caldi come Iraq e Siria. Considero comunque più pericolosi i fan di Trump e i Tea Party. Tra l’altro loro mi hanno minacciato ancor prima dei terroristi». Molti studiosi di Islam che intendono contrastare l’Isis — non solo quelli minacciati di morte — respingono l’affermazione tout court che l’Isis non abbia «nulla a che fare con l’Islam», tanto quanto respingono l’idea che la mentalità dell’Isis sia «l’essenza dell’Islam». Per l’Imam Webb la verità sta da qualche parte nel mezzo. «I testi religiosi, come altri testi, politici o sociali, offrono una licenza interpretativa alle persone. C’è un supporto fattuale per l’Isis all’interno di questo paradigma, ma la loro interpretazione è stata e continua ad essere considerata errata sulla base del sapere normativo dell’Islam. Ci saranno sempre dei lunatici che usano i testi religiosi per legittimare la propria ideologia, e ci saranno sempre coloro che li confutano». A farlo sono anche ex estremisti, come Maajid Nawaz, che ha un passato di reclutatore del gruppo radicale islamico Hizb ut-Tahrir ma oggi è un consulente per l’Islam del premier britannico David Cameron: «L’affermazione che tutto questo non abbia nulla a che fare con l’Islam non è onesta — ha scritto sul New York Times —. È una affermazione inutile quanto lo è dire che l’Isis è l’essenza dell’Islam. Dobbiamo avere una conversazione onesta e riconoscere che c’è un legame con le Scritture. Ci sono anche le questioni geopolitiche, certo, ma esiste un rapporto con le Scritture». «Quello che sta accadendo è in parte una reazione protestante all’incapacità dell’Islam tradizionale di rispondere alla crisi del mondo moderno — sostiene Hamza Yusuf, che paragona la crisi attuale nell’Islam a quella della rivolta di Lutero contro il cattolicesimo —. Tutte le istituzioni, nello stesso Occidente, sono in difficoltà, pensiamo a Trump, ma la crisi è particolarmente grave nel mondo musulmano. Ricordiamoci quanto fu violenta la riforma protestante. Secondo me, dovremmo pensare a una sorta di Concilio di Trento, dove gli studiosi musulmani possano discutere le affermazioni che gli estremisti fanno sull’Islam. Si tratta di affermazioni che non hanno a mio parere alcuna legittimità religiosa e che sono inaccettabili sulla base della tradizione legale dell’Islam che proibisce la violenza indiscriminata, l’uccisione dei prigionieri o di civili innocenti considerati infedeli».
Yasir Qadhi
Quanto si debba porre l’accento sulle Scritture e quanto sulle questioni geopolitiche è però oggetto di dibattito. Yasir Qadhi era un predicatore salafita fino al 2009. Poi uno dei suoi allievi, Umar Farouk Abdulmutallab, l’attentatore delle «mutande bomba» che quel Natale tentò di farsi esplodere su un volo Klm da Londra, lo ha portato a rivedere le sue priorità. «Era stato un mio allievo ad una conferenza. A quel tempo io evitavo la politica, ma quello che è successo mi ha fatto capire che non potevo più stare zitto. Forse proprio perché stavo zitto i giovani gravitano verso gli estremisti». Oggi Qadhi si è anche allontanato dal salafismo per abbracciare una visione dell’Islam più «indipendente». Sostiene che «c’è bisogno di voci moderate», ma allo stesso tempo avverte che alla radice dell’estremismo non ci sono le Scritture, ma piuttosto il senso di un’ingiustizia verso i musulmani, che porta i gruppi estremisti a legittimarsi come freedom fighters. «Certo, l’Islam ha una teoria della “guerra giusta”, come ce l’ha ogni civiltà che predica di difendere gli innocenti, ma la questione se l’Isis sia musulmano o no non è la domanda fondamentale. La domanda è: quali sono le cause dell’Isis? La risposta non è nelle Scritture, ma nelle ragioni sociali e politiche in Iraq e in Siria, di cui è responsabile l’Occidente». L’imam Webb sostiene di aver provato a parlare di teologia con giovani e meno giovani che considera potenziali prede dell’estremismo. Ma si è reso conto di una cosa: «La maggior parte delle persone che aiuto e che sono influenzate dall’Isis o da altri gruppi hanno problemi esistenziali: povertà, abusi, crisi familiari, questioni emotive, mentali. Molto raramente sono in grado di discutere di teologia, non sono consapevoli dei testi che vietano di uccidere né delle interpretazioni degli studiosi che contestano l’Isis. Infatti spesso sono inconsapevoli perfino delle stesse idee dell’Isis! Per battere l’Isis non servono più teologi, ma servono assistenti sociali, psicologici e sanitari, servono educatori». L’Isis è una ragione in più per pensare a una riforma dell’Islam? Alcuni ne sono convinti. Il giornalista e commentatore Mustafa Aykol ci dice al telefono da Ankara che «i leader jihadisti immergono se stessi nel pensiero e negli insegnamenti islamici, anche se usano la loro conoscenza per fini perversi e brutali». Certo si tratta di interpretazioni estremiste, basate su scuole di pensiero radicali, ma a suo parere l’esperienza dell’Isis dovrebbe portare i musulmani a riflettere sugli aspetti problematici insiti nella sharia, la legge islamica, dalle questioni della parità di genere alla morte per apostasia. «Se non lo facciamo noi direttamente, l’Isis lo farà comunque a modo suo. In un numero della rivista Dabiq, per esempio, contestavano il concetto di Irja, ovvero l’idea di poter procrastinare il giudizio su chi sia o meno un vero musulmano all’aldilà, accusando altri gruppi ribelli in Siria poiché non costringono le donne a portare il velo e non uccidono gli apostati». Se l’idea di riforma è condivisa da alcuni, il dibattito è aperto sulla direzione in cui debba andare. Per Hamza Yusuf è irrealistico pensare a una secolarizzazione del mondo musulmano, mentre invece ad esempio lo studioso Abdullahi An-n’aim è convinto che la stragrande maggioranza dei musulmani oggi non tenda assolutamente verso la sharia, ma al contrario verso uno Stato laico. Influenzato dal movimento riformista islamico del sudanese Mahmoud Mohammed Taha (che fu giustiziato per le sue idee), An-Na’im crede in una compatibilità dell’Islam con il secolarismo e i diritti umani. Il problema — ci dice al telefono dagli Stati Uniti, dove insegna all’Emory College — è che i musulmani non riescono ad argomentare e giustificare questa aspirazione da un punto di vista teologico e questo è oggi il compito degli studiosi. «Quella della sharia resta una nozione romantica, come se al solo evocare la gloriosa sharia, tutti improvvisamente potessimo diventare forti, come se la corruzione potesse essere eliminata. È una fantasia seducente che tende a piacere alla gente. Ed è in parte il risultato di un giustificato risentimento per il comportamento degli Stati Uniti nella regione. Ma la sharia è frutto di interpretazione, è un processo umano. Quando la sharia veniva applicata, prima del periodo coloniale, ciò avveniva in un modo consensuale, in una realtà dove non c’era uno stato centralizzato. Oggi i cosiddetti tradizionalisti dello Stato Islamico, lungi dal tornare ai vecchi tempi, usano la nozione europea di Stato per obbligare la gente a seguire la sharia, la cui applicazione non era mai stata intesa per un contesto simile. E poi c’è la questione su quale parte del Corano usiamo: quello della Mecca che è più inclusivo nel suo linguaggio, con i suoi valori egualitari tra uomini e donne, musulmani e non musulmani; oppure quello di Medina la cui applicazione era legata ad un tempo di schiavitù e sottomissione delle donne?». Per Qadhi una riforma dell’Islam è necessaria, ma non come reazione all’Isis: «Come musulmani dobbiamo riunirci e decidere quello che possiamo cambiare e quello che non possiamo. Ma se questa riforma è una reazione all’Isis, non funzionerà. L’Isis è un fenomeno temporaneo, la riforma deve essere indipendente, altrimenti è destinata a fallire perché macchiata da finalità politiche». An-Na’im è d’accordo: «L’Isis non può durare, ma dopo l’Isis ci sarà un altro Isis. Perciò dobbiamo lavorare sulla teologia e la legge islamica».
“La mia gemma è il libro «Mille splendidi soli»: mi ha fatto molto riflettere sulla situazione delle donne protagoniste, sottomesse agli uomini del regime talebano. Nonostante io sia una persona che si lamenta di continuo, penso a loro e alla loro situazione e penso che le mie siano stupidaggini. L’altro aspetto che voglio sottolineare è che in una storia di dolore, violenza e sofferenza possono nascere amicizie e amori: anche dalle cose tragiche possono nascere cose belle.” Con queste parole A. (classe quarta) ha presentato la sua gemma. Ecco uno dei passi in cui si descrive la situazione delle donne: “Donne, attenzione: Dovete stare dentro casa a qualsiasi ora del giorno. Non è decoroso per una donna vagare oziosamente per le strade. Se uscite, dovete essere accompagnate da un mahram, un parente di sesso maschile. La donna che verrà sorpresa da sola per la strada sarà bastonata e rispedita a casa. Non dovete mostrare il volto in nessuna circostanza. Quando uscite, dovete indossare il burqa. Altrimenti verrete duramente percosse. Sono proibiti i cosmetici. Sono proibiti i gioielli. Non dovete indossare abiti attraenti. Non dovete parlare se non per rispondere. Non dovete guardare negli occhi gli uomini. Non dovete ridere in pubblico. In caso contrario verrete bastonate.” Una delle conseguenze? “L’amore era un errore pericoloso e la sua complice, la speranza, un’illusione insidiosa.” La negazione dell’essere umano.
“La mia gemma è questo libro, l’autobiografia di Malala Yousafzai in cui racconta della vita della sua famiglia in Pakistan e di come essa sia cambiata con l’arrivo dei talebani. Presenta la sua attività per l’istruzione e per i diritti delle donne, fino al tentato omicidio che ha subito. Oltre a far capire le differenze della sua cultura, fa apprezzare cose che sembrano banali come la scuola e il diritto all’istruzione”. Questa è stata la gemma di G. (classe seconda). L’unica cosa che mi sento di fare è di dar voce a Malala: “Potrò sembrarvi una sola ragazza, una sola persona, per di più alta neanche un metro e sessanta coi tacchi. Ma non sono una voce solitaria: io sono tante voci. Sono Shazia. Sono Kainat Riaz. Sono Kainat Somro. Sono Mezon. Sono Amina. Sono quei 66 milioni di ragazze che non possono andare a scuola… Racconto la mia storia non perché sia unica, ma perché non lo è. È la storia di molte ragazze. Oggi racconto anche le loro storie.”
Quello che pubblico ora è un articolo molto interessante, in cui il prof. Martino Diez ragiona tra teologia, escatologia e geopolitica per spiegare il motivo per cui Isis abbia chiamato la propria rivista di propaganda Dâbiq.
“Nella sterminata letteratura di hadîth (le centinaia di migliaia di detti attribuiti al Profeta dell’Islam), alcuni godono da sempre di una fortuna particolare in ragione del contenuto, di una formula particolarmente felice o della loro ampia diffusione, vista come garanzia della loro autenticità. È il caso ad esempio della collezione di 40 hadîth raccolta da an-Nawawî, tradizionista siriano del XIII secolo, e tuttora diffusissima nel mondo islamico. Altre volte invece alcuni hadîth altrimenti dimenticati tornano “di moda” perché sono fatti propri da un movimento militante. È il caso oggi della tradizione che situa la battaglia finale tra le forze del bene e del male nella città siriana di Dâbiq, non lontana da Aleppo. Da quando infatti Isis se n’è appropriato facendone il titolo della sua rivista, questo hadîth è uscito dall’anonimato dei polverosi volumi di tradizioni per vivere una nuova vita sotto le luci del palcoscenico globale. Il genere in cui questo hadîth s’inserisce è quello apocalittico, relativo alle profezie intorno agli avvenimenti che precederanno il Giorno del Giudizio. Come illustra David Cook, autore di diversi studi sul tema, la produzione islamica più antica si contraddistingue, rispetto a quella ebraica o cristiana, per il fatto di non presentare “i Segni dell’Ora” secondo una sequenza narrativa continua, ma allo stato di frammenti, tradizioni isolate che saranno poi gli ulema più tardi a cercare di ricucire in una storia unica. E tra questi frammenti, quasi fermi immagine di un film ancora da girare, s’inserisce anche lo hadîth relativo a Dâbiq. Preceduto dalla consueta catena dei trasmettitori (da Zuhayr ibn Harb; da Mu‘allâ ibn Mansûr; da Sulaymân ibn Bilâl; da Suhayl; da suo padre; da Abû Hurayra), esso recita: L’inviato di Dio disse: «L’Ora [del Giudizio] non si leverà finché i Romani non si accamperanno nel basso corso dell’Oronte (al-A‘mâq) o a Dâbiq. Allora muoverà contro di loro un esercito da Medina, composto dai migliori abitanti della terra. Quando le due schiere saranno sul punto di scontrarsi, i Romani diranno: “Lasciateci mano libera con quelli che hanno preso dei prigionieri tra noi: andremo a combattere loro soltanto”. Ma i musulmani risponderanno: “No, per Dio. Non vi lasceremo mano libera con i nostri fratelli”. E il combattimento divamperà. Un terzo [dei musulmani] si volgerà in fuga sconfitto: Dio non ne accetterà mai il pentimento. Un terzo resterà ucciso: saranno presso Dio i martiri migliori. E un terzo conseguirà la vittoria e non avranno più da temere dissensi: questi conquisteranno Costantinopoli. E mentre si troveranno a dividere il bottino, e avranno appeso le loro spade agli ulivi, ecco Satana griderà tra loro falsamente: “L’Anticristo ha preso il vostro posto nelle vostre famiglie!”. Usciranno allora da Costantinopoli. Quando arriveranno in Siria, Satana uscirà contro di loro. Mentre si prepareranno a combatterlo e stringeranno i ranghi, ecco verrà il tempo della preghiera. Allora Gesù figlio di Maria scenderà [dal cielo] a dirigere la preghiera. Quando il nemico di Dio lo vedrà, si scioglierà come il sale nell’acqua. E se lo lasciasse andare, si scioglierebbe fino a scomparire. Ma Dio lo ucciderà per mano sua e mostrerà loro il suo sangue sulla punta della lancia di Gesù». (Sahîh di Muslim, Kitâb al-fitan wa-ashrât al-Sâ‘a, Bâb fî fath al-Qustantîniyya wa-khurûj al-Dajjâl wa nuzûl ‘Îsâ b. Maryam, hadîth numero 7312, pag. 1073, ed. Dâr Sâdir, Bayrût s.d). Qualche veloce spiegazione, necessariamente parziale, per illustrare il contenuto del testo. Innanzitutto la tradizione è conservata nella raccolta di Muslim (m. 875), considerata dai sunniti come la più autorevole insieme a quella di al-Bukhârî (m. 854). Tale raccolta è divisa in diversi libri, uno dei quali s’intitola Il Libro delle tribolazioni e dei segni dell’Ora. In esso si trova un capitolo (bâb 9) dedicato alla «conquista di Costantinopoli, all’uscita dell’Anticristo e alla discesa di Gesù figlio di Maria». Tale capitolo contiene in realtà unicamente questo hadîth. La formula con cui si apre la tradizione («l’Ora non si leverà finché…») è ricorrente nel materiale apocalittico più antico. Ad esempio nello stesso libro della raccolta di Muslim la si ritrova nel capitolo 14 dove sta scritto: «L’Ora non si leverà finché non uscirà dalla terra dello Hijaz [= la regione di Mecca e Medina] un fuoco che illuminerà i colli dei cammelli a Bosra [in Siria]». Poco prima, al capitolo 12 si leggeva del resto che «l’Ora non si leverà finché» non saranno compiute le conquiste, indicate in quest’ordine: la Penisola Arabica, l’impero persiano, l’impero bizantino. A esse seguirà – come racconta anche il nostro hadîth – l’uscita dell’Anticristo, figura mostruosa che s’impadronisce della terra per qualche tempo prima di essere sconfitta da Cristo, il Messia figlio di Maria che per l’Islam è asceso in cielo al momento della crocifissione. A differenza di altri testi apocalittici, non è difficile ricostruire il contesto dello hadîth di Dabiq e la sua zona di origine: esso infatti è evidentemente nato durante le guerre arabo-bizantine. Nello slancio iniziale delle prime campagne militari i musulmani si impadronirono di tutto il vicino Oriente, ma fallirono la conquista di Costantinopoli. La città rimase da allora e per diversi secoli un obiettivo simbolico, mentre il confine si stabilizzava alle pendici dell’altopiano anatolico. Parlare di confine è in realtà inesatto quando lo si immagini come una frontiera moderna, precisamente demarcata. Si trattava piuttosto di una terra di nessuno di diversi chilometri di larghezza, conclusa da una prima linea di piazzeforti e marche di confine (thughûr in arabo) a cui seguiva una seconda linea di città-fortezze (‘awâsim). Ogni anno, con la bella stagione, i due eserciti conducevano campagne offensive nel territorio nemico, per fare prigionieri e bottino. Si comprende dunque come per gli abitanti della Siria (e per quelli dell’Anatolia bizantina dall’altra parte del confine) lo stato di guerra quasi endemico abbia stimolato la formazione di materiale apocalittico che situa in questo contesto di secolare ostilità i tremendi eventi legati all’avvento dell’Ora. L’ambientazione siriana fornisce dunque un elemento utile alla datazione dello hadîth, che deve essere posteriore alla prima ondata di conquiste (un primo assedio di Costantinopoli ebbe luogo dal 674 al 678 e un secondo nel 717-718) e probabilmente si situa tra la tarda età omayyade e la prima età abbaside, non molto tempo prima della compilazione della raccolta di Muslim. Il confine bizantino-arabo rimase poi sostanzialmente immutato fino alle campagne di Niceforo Foca nel X secolo, che culminarono nella momentanea riconquista della Cilicia e di Antiochia da parte dei bizantini. Nel 1071 tuttavia la decisiva vittoria turca a Manzikert segnava il tracollo dell’impero romano d’Oriente e apriva la strada alla conquista dell’Anatolia e infine di Costantinopoli nel 1453. La Siria del Nord, dopo un ultimo decisivo scontro tra ottomani e mamelucchi, usciva così di scena. Come si può intuire anche da questa sommaria presentazione, lo hadîth di Dâbiq non gode dunque di particolare preminenza nel materiale apocalittico islamico. Altre tradizioni situano infatti gli eventi decisivi del giorno del giudizio in altre regioni o città, ad esempio a Damasco o a Gerusalemme. È stato probabilmente il fatto di essersi impadroniti di buona parte della Siria settentrionale ad aver spinto Isis a dare particolare rilievo a questa tradizione. Il recupero del testo avviene attraverso la sua attualizzazione: i romani di cui si parla, cioè i bizantini, sono infatti riletti come gli occidentali in genere. E dato che la conquista della nuova Roma (Costantinopoli) si è già compiuta, Isis sposta le sue attenzioni, per ora fortunatamente solo mediatiche, verso l’altra Roma. Come osserva Hamit Bozarslan in un’intervista in uscita nel prossimo numero di Oasis, lo Stato islamico si muove su un duplice piano: di razionalità strumentale, tesa alla creazione di una compagine statale, e di irrazionalità, protesa alla dimensione simbolica e a volte schiettamente apocalittica. E proprio per questa duplice logica il fenomeno esige, per essere compreso, di essere trattato su diversi livelli, dalle considerazioni geopolitiche fino alle aspirazioni escatologiche, che per una parte almeno della leadership non sono meno reali dei calcoli strategici immediati.”
Gli attentati di Tunisi della scorsa settimana mi hanno colpito particolarmente perché hanno toccato luoghi che ho visitato in un viaggio di qualche anno fa. Oggi pubblico un articolo di Simone Olmati del 20 marzo (pubblicato su Limes), con alcune foto che ho scattato nel luglio 2008.
“La sparatoria davanti al Parlamento e il successivo attacco all’adiacente museo del Bardo che ha provocato 22 vittime accertate gettano la Tunisia nella guerra regionale al jihadismo (non solo dello Stato Islamico). Un vortice da cui la giovane democrazia nordafricana avrebbe volentieri mantenuto le distanze, come testimoniano le posizioni assunte dal governo di Tunisi in merito alla crisi libica e la replica, ben più esplicita, del primo ministro Habib Essid all’appello interventista dell’Egitto. “Abbiamo preso tutte le misure necessarie”, aveva dichiarato Essid lo scorso 18 febbraio. Un mese dopo, l’attacco terroristico non solo ha smentito nei fatti le parole del premier, ma ha messo in mostra le falle evidenti dell’intelligence e trascinato di peso il paese dei gelsomini nella lotta al terrorismo. L’attentato avrà senza dubbio conseguenze rilevanti sull’approccio che il governo deciderà di adottare per prevenire la penetrazione jihadista. Nel discorso immediatamente successivo all’assalto il premier ha parlato di una “guerra lunga”, ma ha voluto altresì rassicurare i tunisini sul fatto che il governo adotterà contromisure straordinarie per tutelare la capitale e i siti turistici, ben consapevole del danno economico che l’attentato può produrre in termini di riduzione delle presenze turistiche. Il governo stima una perdita di almeno 700 milioni di dollari. Il turismo infatti, sebbene in calo negli ultimi anni, rappresenta pur sempre circa il 15% del pil tunisino.
Nel pomeriggio del 19 marzo è arrivata la rivendicazione del gesto da parte dello Stato Islamico (Is), con un file audio e un testo diffusi via twitter. Entrambi i file dovranno essere vagliati attentamente per accertarne l’attendibilità. Nonostante l’attribuzione del gesto all’Is, la presenza organizzata e strutturata di seguaci di al-Baghdadi in Tunisia non sembra trovare riscontro; così come non sembrano esserci state, ad oggi, affiliazioni ufficiali di gruppi jihadisti locali al “califfato”. I messaggi di sostegno all’Is da parte di alcuni battaglioni di terroristi sembrano più opera di singoli militanti che non delle rispettive leadership, ancora fedeli ad al Qaida. Il battaglione Okbaa Ibn Nafaa rientra in questa casistica. La katiba, operativa al confine tra Tunisia e Algeria, ha rivendicato – tra le altre azioni – l’uccisione di quattro soldati di stanza nel governatorato di Kasserine avvenuta nella notte tra il 17 e il 18 febbraio scorso. Nonostante la katiba (non l’unica operativa in Tunisia) abbia in passato diffuso contraddittori messaggi di supporto allo Stato Islamico (come riporta David Thompson), essa non ha mai giurato fedeltà al califfato ed è, viceversa, ritenuta affiliata alla casa madre Ansar al-Sharia, alla quale garantirebbe un legame “operativo” con al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi). Le forze attualmente attive in Tunisia sono dunque riconducibili all’ombrello di Aqmi più che allo Stato Islamico. Proprio il giorno prima dell’attentato di Tunisi, era stato uno dei leader di Ansar al Sharia, Wannes Fékih, a preannunciare in un video – dove compare soltanto in foto – “giorni pieni di avvenimenti”. Gli arresti delle ultime ore sapranno dare qualche informazione in più a riguardo.
Stato Islamico o al Qaida, la Tunisia deve preoccuparsi soprattutto del “terrorismo di ritorno”, laddove il paese dei gelsomini più di ogni altro esporta foreign fighters sui fronti caldi di Iraq e Siria. Tali combattenti, arruolatisi in molti casi anche a causa di condizioni di marginalità economica e sociale, potrebbero tornare in patria da militanti estremamente radicalizzati ma soprattutto da esperti combattenti, con tutti i rischi che ne conseguono. Lo scorso 13 febbraio, Rafik Chelli – segretario di Stato incaricato della sicurezza – aveva dichiarato che i jihadisti rientrati dalla Siria sarebbero almeno 500. I due autori materiali dell’attacco al parlamento e al Bardo avrebbero trascorso un periodo in due campi d’addestramento in Libia prima di rientrare, secondo quanto riportato dallo stesso Chelli. Si badi bene, però: la Tunisia non è la Libia. A fronte di un non-Stato petrolifero ai suoi confini orientali, il governo di Tunisi, peraltro già impegnato nella repressione dei movimenti estremisti e nel controllo delle proprie frontiere, dispone delle risorse militari e di intelligence da dispiegare per arginare il fenomeno. È prevedibile che l’esecutivo, come preannunciato ieri dai suoi più alti esponenti, adotterà ulteriori misure a protezione dei siti sensibili. Anche grazie a una tradizione laica di bourghibiana memoria e a una società civile variegata ma adulta, la primavera tunisina non è sfociata in un vuoto di potere colmato da gruppi jihadisti, bensì nelle istituzioni democratiche che oggi sono chiamate ad affrontare la situazione. A tale proposito, dal 24 al 28 marzo si terrà a Tunisi il Forum Sociale Mondiale, confermato dagli organizzatori proprio per non mostrare cedimento alla minaccia terrorista. Sarà un appuntamento importante sia per dimostrare solidarietà alla società civile tunisina, sia per rimettere al centro del discorso temi quali i diritti sociali e lo sviluppo economico sostenibile che potrebbero costituire dei veri argini al reclutamento jihadista, soprattutto all’interno di società a forte sperequazione sociale come quelle arabe.
L’attentato del Bardo, infine, ha dimostrato che la Tunisia non può combattere da sola. Sarà dunque importante che l’Europa e l’Italia in particolare, per ragioni di prossimità geografica e di relazioni storico-economiche, rafforzino la cooperazione con Tunisi nello scambio di informazioni sensibili e di intelligence. Quattro anni fa i paesi occidentali hanno perso l’occasione di dialogare con le forze progressiste, laiche e religiose dei paesi mediterranei lasciando che fossero altri attori regionali a farsi largo tra le pieghe delle rivoluzioni. La Tunisia ha resistito finora, nonostante tutto. Oggi l’Europa e l’Occidente non possono lasciarla sola.
Pubblico in pdf questo Report a cura di Daniel Pescini sulla Libia. Penso sia utile per farsi un’idea della situazione. Daniel Pescini è giornalista e blogger, specializzato in Storia delle relazioni internazionali alla Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze. Dopo il Master in Comunicazione Pubblica e Politica presso la Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Pisa, ha curato gli uffici stampa di diversi enti pubblici. E’ stato analista politico per la rivista Equilibri.net, per la quale si è occupato in particolare della sicurezza energetica dell’Unione europea. Dall’ottobre 2012 cura il blog “Geopolitica italiana”, i cui articoli sono stati pubblicati su vari siti di settore e utilizzati anche come testi dei seminari dell’Istituto Alti Studi della Difesa.
Una riflessione di Assunta Staccanella: un’altra profonda voce tra quelle che abbiamo letto insieme in questi giorni. Conoscere, leggere, capire, immedesimarsi: non conosco altra via in questi casi.
“Una babele di voci, alla cui torre ogni giorno si aggiungono nuovi mattoni, verbali e grafici: “Io sono Charlie!” “Un attacco al valore europeo della libertà!” “Sono morte diciassette persone!” (… e altre tre …) “Dietro tutto questo ci sono delle manovre degli americani, è un complotto!” “Le solite ipocrisie: i sauditi frustano un blogger e tutti tacciono!” “Ma perché non c’è una marcia di milioni di persone anche per la Nigeria?” “La religione è alla base della strage di Parigi!” “In nome di un pugno di Dei ci si è sempre combattuti!” “Siamo in guerra santa, siamo in guerra santa!!!” “Dieu n’existe pas – Sì” Oggi, durante la pausa caffè, tra Marta che è stata promossa e Chiara che aspetta un bambino, hanno fatto capolino Boko Haram e Charlie Hebdo, mescolandosi senza soluzione di continuità ai mille discorsi quotidiani. La chiacchiera. Immediata, limpida e amara mi coglie la percezione di essere immersa nella chiacchiera. Heidegger diceva che essa si palesa quando il discorso perde il rapporto autentico con il reale, diffondendosi e ripetendosi in cerchi sempre più ampi, dai quali trae autorità. La chiacchiera è la possibilità di credere di aver compreso tutto, senza alcun vero confronto con la cosa da comprendere: “le cose stanno così perché così si dice”. Per la chiacchiera non esiste più nulla di incerto. Vorrei saper smettere di fabbricare mattoni… ma in questa torre artificiale è tanto difficile sostare, perché cambia continuamente, si ingigantisce in nuovi piani e stanze e scale ed androni, tutti aperti e intercomunicanti, in cui fatico a trovare lo spazio necessario alla riflessione, all’autentica appropriazione, al lavorio che occorre per provare a capire. Devo fare ordine. Comincio dal principio. Torno a pensare in compagnia dei grandi. Dio. Che piccola, immensa parola. Karl Rahner, nel suo Corso fondamentale sulla fede, scrive: “per l’uomo la cosa più semplice e inevitabile nella questione di Dio è il fatto che nella sua esistenza spirituale esista la parola Dio”. L’uomo infatti non ha esperienza immediata della realtà di Dio, come può averla di un albero, o di un sentimento interiore. Queste realtà vengono a noi per prime, quasi evocando una parola che le nomini. Per Dio non è così. La parola “Dio” è il primo, generalissimo modo in cui facciamo esperienza del mistero di Dio stesso. L’esistenza di questa parola è attestata in tutte le lingue e in tutte le culture, indica sempre un essere superiore, causa e ordine della realtà. Anche l’ateismo – o la satira! – contribuisce a far sì che essa viva: nel momento stesso in cui nega l’esistenza di Dio, infatti, l’ateo lo nomina rinnovandone la presenza. Paradossalmente, per sperare che essa scompaia, egli dovrebbe tacere in maniera radicale, non dichiarandosi neppure a-teo. Nella nostra cultura però questa parola è quasi divenuta opaca, dice troppo poco, per cui senza pensarci le affianchiamo degli attributi: padre, signore, celeste … Eppure proprio la sua spaventosa mancanza di contorni ci fa intuire la natura di ciò che indica: qualcosa di ineffabile, il silente, colui che è nel mondo in modo assolutamente diverso, presente e non visto, il tutto fondante. La parola Dio risulta essere l’unica parola che pone l’uomo, ogni uomo credente o meno, di fronte all’ipotesi, o alla possibilità, che la realtà sia sensata, organica e armoniosa, frutto di un progetto unitario in cui sentirsi inseriti, l’unica parola che rende possibile chiedersi “perché” sperando in una risposta. È una parola potente, da non nominare invano. Abita il fondo dell’umanità, è un appello ancestrale, può suscitare rabbia o nostalgia, fastidio o invocazione, ma raramente lascia indifferenti, piuttosto convoca e scuote. E’ una parola attiva, capace di muovere al dono di sé come alla guerra, con intensità impensata. Anche per questo sono sorte le religioni: la religione compone, mette ordine, collega intuizioni ed istinti, regola e incanala. Ha ragione il card. Tauran (Avvenire, 10/01/15), quando dice che le religioni non sono il problema, sono parte della soluzione. Solo che troppo spesso gli uomini non le conoscono, le religioni. Molte volte neppure la propria. “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Non trovo preghiera più urgente, oggi: “Rabbunì, che noi vediamo” (Mc 10,51).”
Pubblico un articolo di Giorgio Cuscito tratto da Limes per chi voglia avere in cinque minuti un inquadramento generale su Boko Haram e quanto sta avvenendo in Nigeria.
“Nei giorni in cui si è verificato in Francia l’assalto dei jihadisti, cominciato con l’attentato alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, in Nigeria se ne è registrato uno ancor più grave. L’organizzazione terroristica Boko Haram ha condotto feroci attacchi nel Nord del paese, provocando la morte di migliaia di persone. Nel paese africano si sta assistendo a un’escalation di violenza che se trascurata potrebbe creare i presupposti per un altro Stato Islamico (Islamic State, Is), simile a quello operante in Siria e in Iraq.
Gli attentati
Dal 3 gennaio per circa una settimana, Boko Haram ha compiuto un raid nel villaggio di Baga e in quelli circostanti nel Nord Est della Nigeria. Il ministero della Difesa nigeriano afferma che sarebbero rimaste uccise 150 persone, mentre secondo i funzionari locali le vittime sarebbero circa 2 mila, di cui la maggior parte bambini, donne e anziani. Come ha affermato Amnesty International, potrebbe trattarsi dell’attentato “più sanguinoso” mai sferrato da Boko Haram. Nei giorni successivi, l’organizzazione jihadista ha condotto due attentati a Maiduguri e a Potiskum (sempre nel Nord Est del paese), utilizzando delle “bambine kamikaze” con addosso dell’esplosivo. Il primo attacco ha provocato venti morti, il secondo almeno tre. Negli ultimi mesi, Boko Haram si è servita in più occasioni di donne pronte (o forse no) al martirio per condurre attentati, ma secondo il New York Times, il coinvolgimento di bambine sarebbe una pericolosa novità.
Origini di Boko Haram
Boko Haram (che significa “l’educazione occidentale è peccato”),il cui nome ufficiale è Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’awati wal-Jihad (ovvero “persone impegnate per la propagazione degli insegnamenti del profeta e per il jihad”), è un’organizzazione terroristica fondata formalmente nel 2002 da Mohamed Yusuf e guidata oggi da Abubakar Shekau. Il suo scopo è imporre il califfato in Nigeria. Secondo il dipartimento di Stato Usa, avrebbe dei legami con al Qaida nel Maghreb islamico (Aqim), inoltre, lo scorso luglio Shekau ha dichiarato il suo supporto allo Stato Islamico. Nel 2002 Yusuf ha creato a Maiduguri, nello Stato del Borno, un complesso religioso, che include una moschea e una scuola islamica, con la scopo di contrastare l’educazione occidentale. La scuola ha attratto musulmani da tutto il paese, diventando il luogo perfetto di reclutamento. Ma è dal 2009, a seguito della violenta repressione dell’esercito locale, che l’organizzazione jihadista ha cominciato a seminare il panico, compiendo attentati contro edifici delle forze di polizia, scuole, chiese, moschee e uccidendo civili. L’attività di Boko Haram si è intensificata nel 2011, quando in un clima di tensione è stato eletto l’attuale presidente della Nigeria Goodluck Jonathan, del People’s democratic party e appartenente agli Ijaw, un’etnia cristiana minoritaria del Sud del paese. Nell’aprile 2014, Boko Haram ha rapito 276 alunne nigeriane, episodio che ha dato inizio alla campagna mediatica su Twitter, #BringBackOurGirls. Cinquantasette di loro sono riuscite a scappare, ma le restanti non sono ancora libere. Da questa estate l’organizzazione jihadista ha cominciato ad ampliare il proprio raggio d’azione e secondo il Telegraph attualmente controllerebbe un’area di circa 52 mila chilometri quadrati nel Nord Est del paese. Secondo un rapporto sul jihadismo realizzato dall’International centre for the study of radicalisation and political violence in collaborazione con la Bbc, nel mese di novembre Boko Haram è stata la seconda organizzazione jihadista per uccisioni (801 in 30 attacchi) dopo l’Is (2.206 in 306 attacchi). I talebani sarebbero terzi in questa macabra classifica (720 vittime in 150 attacchi). La ferocia di Boko Haram non è una novità. Già lo scorso anno, il National consortium for the study of terrorism and response to terrorism (Start) aveva affermato che nel 2013 questa organizzazione è stata la terza al mondo per attacchi perpetrati, proprio dopo i talebani e lo Stato Islamico (all’epoca ancora Stato Islamico di Iraq e Levante). In questi anni, a causa degli attentati di Boko Haram, circa un milione e mezzo di nigeriani ha abbandonato le proprie case e centinaia di migliaia di persone sono fuggite in Ciad, Niger e Camerun. Peraltro, paesi in cui i jihadisti nigeriani stanno estendendo il proprio campo d’azione. L’ascesa di Boko Haram e più in generale l’instabilità della Nigeria non dipendono solo dalle tensioni religiose tra musulmani (a Nord) e cristiani (a Sud) ma anche dagli interessi tribali e regionali legati allo sfruttamento delle risorse naturali, dalla corruzione dei politici locali e dalla povertà in cui vive la maggioranza della popolazione. Sono queste le vulnerabilità che l’organizzazione jihadista può sfruttare per consolidare il suo potere sul territorio.
Rischi di nuovi attentati
Il quadro che emerge è preoccupante. Con le dovute differenze, il caos in cui regna la Nigeria non è molto diverso da quello che ha favorito l’ascesa dello Stato islamico in Iraq e Siria. Inoltre, in quanto a determinazione Boko Haram ha poco da invidiare all’organizzazione di al Baghdadi e le forze di sicurezza locali necessiterebbero di un concreto sostegno internazionale, visto che non sembrano adeguatamente equipaggiate, addestrate e motivate per fronteggiare da sole la minaccia. Arginare l’ascesa dell’organizzazione jihadista pare indispensabile per evitare che la sua ombra si estenda sul resto dell’Africa nordoccidentale. Dal canto suo, il governo di Abuja dovrebbe porre rimedio ai problemi sociali e politici che caratterizzano la Nigeria, ostacolando l’attività di proselitismo dell’organizzazione jihadista. Il 15 febbraio in questo paese si terranno le elezioni presidenziali e Muhammadu Buhari, politico musulmano del Nord, appartenente al All progressives congress (principale partito d’opposizione), ex generale dell’esercito nigeriano che ha governato il paese dall’83 all’85, è il più importante antagonista di Jonathan. Il suo passato militare, le sue radici e soprattutto il malcontento per la scarsa efficacia con cui l’attuale presidente ha contrastato Boko Haram sono le carte di cui si servirà nelle prossime settimane. Un periodo che probabilmente sarà segnato da nuovi attentati.”
Un’interessante intervista di Francesca Miglio al professor Filiu, insegnante di Studi Mediorientali, pubblicato qualche giorno fa su Oasis.
“Qual è il rapporto tra Isis e Paesi del Golfo? È possibile rintracciare i flussi di finanziamento diretti verso l’Isis?
Innanzitutto è importante chiamarla Daesh, con l’acronimo arabo (al-dawla al-islâmiyya fi l-‘Irâq wa l-shâm, Stato Islamico di Iraq e Siria), e chiarire che non si tratta di uno stato ma di una macchina del terrore. Per quanto riguarda la domanda su chi lo sostiene economicamente, c’è un’incomprensione di fondo. Si cerca sempre di cogliere la logica del fenomeno rintracciandone l’origine nell’aspetto finanziario, illudendosi che bloccare la fonte possa esaurire anche il fenomeno. Questo non è del tutto sbagliato, ma bisogna ricordare che la lotta finanziaria contro il terrorismo non è servita a molto neppure in passato, al tempo di al-Qaeda, quando questo tipo di approccio aveva finito per finanziare i burocrati che lavoravano sugli aiuti monetari al terrorismo. Per questo non credo che possa avere un grande effetto su Daesh. Quest’idea inoltre ha impedito di porsi le domande giuste e Daesh è stato erroneamente identificato con il Golfo. Ma Daesh non è il Golfo, è il mondo, è un fenomeno globale. Daesh rappresenta oggi l’organizzazione terroristica più ricca: i proventi del petrolio locale le permettono di autofinanziarsi e conta su un budget che va da uno a due miliardi di dollari. È Daesh che può finanziare più che farsi finanziare. Se si vogliono individuare i flussi di denaro, questi sono rintracciabili perlopiù verso singoli individui.
Daesh è un fenomeno nuovo o si colloca nel solco di altri movimenti terroristici?
Sono ormai più di venticinque anni che studio i movimenti jihadisti e non ho mai avuto così tanta paura. La mia paura è ragionevole, ragionata e ben argomentata. Solo per dare un’idea: Daesh ha un esercito di circa trentamila partigiani armati, senza parlare del supporto politico, mentre nel 2001 al-Qaeda ne aveva meno di un migliaio; oltretutto hanno un budget da cinquecento a mille volte superiore a quello a disposizione degli attentatori dell’11 settembre. La base dell’organizzazione si situa in un crocevia strategico, che risuona simbolicamente a tutti i musulmani, al contrario di al-Qaeda che stava in periferia, in Afghanistan. Ciò che più mi rende inquieto è che spesso si cerca di analizzare Daesh come se fosse al-Qaeda, ma il nuovo arrivato è senza dubbio più pericoloso. C’è tuttavia una filiazione evidente tra i due gruppi terroristici per due aspetti in particolare. Il primo è sui nessi tra terra e jihad: il jihad non è condotto per liberare o conquistare un territorio preciso, ma per il jihad stesso. Qui non si tratta di Islam, stiamo parlando di qualcos’altro, questa è una religione del jihad. È la setta del jihad. Era vero per al-Qaeda ed è vero per Daesh. Il secondo aspetto è che per progettare il jihad ci vuole una base solida. La “base” è appunto il significato di al-Qaeda; ora essa è il Califfato per Daesh. E il jihad che progetta, a mio parere, ha come obiettivo l’Europa.
Che cosa spinge numerosi combattenti a unirsi a Daesh? Molti di questi provengono dall’Europa e spesso non hanno un background religioso o etnico comune.
Quello che sta succedendo in Iraq non ha niente a che vedere con l’Islam, come ho già detto si tratta di un’altra religione. Le persone entrano a far parte dei ranghi di Daesh come se si convertissero a una religione, sia perché non ne avevano una propria in precedenza, sia perché, provenendo da una famiglia musulmana, abbandonano l’Islam dei loro genitori, famiglie, culture per volgersi a un presunto “vero Islam” che in realtà è una nuova religione. Non credo quindi che si possa comprendere il fenomeno solamente da un punto di vista musulmano. Daesh parla a dei giovani ribelli, “in rottura”, presenti nel mondo intero, non solo in Europa e nei paesi arabi, ma anche in Australia, Singapore, Canada… Olivier Roy ha fatto un paragone molto giusto, a mio avviso, tra quanto succede in Iraq e i movimenti di estrema sinistra degli anni ’60 e ’70. Daesh attrae una frangia che è già radicale. Non ci si radicalizza per mezzo di Daesh, lo si è già in partenza. L’Islam è l’Islam. Daesh è un’altra cosa.
Nel suo acronimo Daesh fa riferimento alla Grande Siria, Sham, che comprende anche Giordania, Libano e Palestina. Che percezione hanno questi Paesi di Daesh?
Sono preoccupati tanto quanto noi. Il significato di Sham si trova nelle profezie apocalittiche. Nel mio libro L’apocalisse nell’islam (2011) viene già descritta la roadmap di Daesh. In alcuni racconti della fine dei tempi, il territorio di Sham è soprattutto il luogo della “grande battaglia” della fine dei tempi. Noi percepiamo quanto sta avvenendo come la semplice espansione di un califfato, ma per loro siamo alla vigilia della fine dei tempi, per questo le persone aderiscono così numerose, perché sono convinte che la fine è vicina. Se non partecipano alla grande battaglia, perdono. Ma se partecipano nello schieramento giusto, vincono, guadagnano tutto e saranno i migliori musulmani per l’eternità. Il territorio di Sham va dunque visto come il posto in cui avverrà la fine del mondo. Secondo questa tradizione, la grande battaglia sarà a Dabq, a nord di Aleppo, dove i bizantini (Rûm), ovvero gli occidentali, schiereranno il loro esercito contro quello dello stato islamico proveniente da Medina, ovvero Mossul, dove ha sede il califfato appunto. Un terzo dei combattenti morirà, un terzo si arrenderà e l’ultimo terzo avrà la vittoria e sarà considerato giusto nella fede. La dichiarazione secondo cui Daesh vorrebbe arrivare a Roma è in realtà una traduzione sbagliata: dicono Costantinopoli, la nuova Roma, la città dei Rûm. Noi abbiamo tradotto Roma, ma la città dei Rûm può essere Roma così come Parigi, Madrid o New York. Nella tradizione la città dei Rûm dovrà essere conquistata. Non è quindi una questione di conquistare questo o quel Paese, ma di avanzare, perché avanzando le profezie si realizzano. Perciò vanno fermati.
Ritiene che la reazione occidentale sia efficace per combattere il fondamentalismo di Daesh? Non rischia di generare sostegno al califfato da parte di altri gruppi jihadisti?
La reazione dell’Europa e degli Stati Uniti è stata sbagliata per due ragioni. Innanzitutto hanno pensato che il problema potesse essere risolto interrogandosi sulle ragioni che spingono i volontari a partire per la Siria. Certamente è importante domandarselo, a scuola, in carcere, nei tribunali, ma l’idea che per capire Daesh si debba guardare all’Europa e alle sue istituzioni è già fare il gioco di Daesh. La risposta è laggiù, ma noi occidentali non l’abbiamo ancora voluto capire, perché non abbiamo capito completamente la rivoluzione siriana. Non era una guerra tra tribù o comunità, ma la creazione di un nuovo ordine. Dalla storia passata sappiamo che quando una rivoluzione ha successo non è sempre tutto perfetto, ma quando essa è soffocata, quello che ne risulta è anche peggio. L’insuccesso della rivoluzione ha favorito Daesh e Assad contro la rivoluzione. In Siria il punto è che Assad ha usato e sta usando Daesh contro la rivoluzione stessa. Oggi si crede, gli americani in primis, che si possa lottare contro Daesh senza lottare contro Assad e il risultato è che Daesh non è mai stata così forte. Abbiamo sbagliato e la chiave si trova in Siria: deve essere applicata una vera politica sulla rivoluzione siriana e non soltanto su Daesh. E qui diventa necessaria una reale collaborazione con la Turchia, che sa meglio di ogni altro come lottare contro questa minaccia.
Come interpreta l’ideale della costruzione di uno “stato islamico” nel panorama dei movimenti islamisti?
Daesh non costruisce niente, è una banda che non produce nulla. Anche la sua costituzione elaborata tra il 2006 e il 2007 non è altro che una serie di divieti. È un’organizzazione che si è estesa su un territorio e quindi si trova a dover gestire milioni di persone, a differenza di al-Qaeda. Quest’ultima era sottomessa ai talebani e l’amministrazione era in mano ai talebani. Le persone che hanno negoziato a proposito dei Budda in Afghanistan hanno trascorso settimane senza sapere dove fosse il centro del potere, proprio perché in effetti era un’organizzazione e non uno stato. Quando mi trovavo ad Aleppo la gente parlava di dawla (stato), non dicevano “Daesh”, allo stesso modo in cui si dice nizâm (regime) parlando di Assad. Tutti sanno che il nizâm di Assad è unicamente la repressione. Per Daesh l’introduzione dell’idea di stato non indica affatto un’evoluzione ideologica, significa soltanto che Abu Bakr al-Baghdadi vuole essere il signore indisturbato delle zone che controlla. Le uniche zone omogenee in Siria sono il nizâm di Assad e Daesh: la dimensione totalitaria conta più di quella statale.
Alcuni media e alcuni intellettuali dicono che si tratta di un complotto. Cosa ne pensa?
Parlando da storico, è interessante notare che si pensa quando si fa la rivoluzione, mentre quando questa finisce, non si pensa più e si immaginano cospirazioni e complotti. La rivoluzione è razionale; durante la rivoluzione non si parla mai della fine dei tempi, ma se ne parla in continuazione durante la contro-rivoluzione. Naturalmente ci sono domande irrisolte su Daesh, in particolare come mai Abu Bakr al-Baghdadi sia stato imprigionato dagli americani, secondo il Pentagono nel 2004, secondo il capo della prigione nel 2005-2009; non si sa perché non c’è stato un processo o un’inchiesta… Tuttavia coloro che credono alla cospirazione non capiscono una cosa che gli storici conoscono bene: l’immensa stupidità degli uomini. Molte cose si spiegano più per la stupidità, l’incompetenza e la mancanza di coordinazione che per la volontà di manipolare. Gli americani non controllano più niente. Non dico che sia una notizia buona o cattiva, dico solo che ci sono molte persone, in Medio Oriente e altrove, che continuano a pensare che gli americani controllino tutto e interpretano i fatti a partire da questo presupposto. Nel mondo arabo la dietrologia è frequente e il luogo dove si crede di più alla teoria del complotto è l’Egitto. Qui si arriva a spiegare che i Fratelli Musulmani, così come Daesh, sarebbero una creazione degli americani. Ma è ora di finirla con questa logica.”
Un interessante reportage di Eugenio Dacrema, pubblicato sul sito del Corriere della Sera. Lo allego in pdf per non spaventare eventuali lettori interessati a capire un po’ di più la situazione della Tunisia. Il dossier si conclude con queste parole: “ la piccola Tunisia, che ha stupito il mondo nel 2011 spodestando in pochi giorni una dittatura vecchia di sessant’anni, ha tutte le carte per diventare la prima autentica democrazia del mondo arabo. Ma per riuscirci ha bisogno di non essere dimenticata e lasciata a se stessa”.
Faccio seguito alle lezioni sostenute in classe sullo Stato Islamico e sul contesto geopolitico con alcuni articoli che riportano punti di vista variegati sulla situazione. Li ho trasformati in pdf per non perderli, ma indico di volta in volta anche il link corrispondente.
Ma l’Islam moderato esiste o non esiste? Come si configura? Ad esso viene data voce? O non conviene farlo emergere perché non farebbe audience? Esso è effettivamente rappresentativo? Scrive oggi Francesco Pistocchini su Popoli:
“Intrecci politici e militari, spesso opachi, hanno consentito ai militanti estremisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (oggi identificati con la sigla Is) di occupare parte della Siria e dell’Iraq con l’obiettivo dichiarato di fondare un Califfato compiendo stragi, soprattutto tra le minoranze non islamiche (cristiani, yazidi e altri) e tra gli stessi musulmani. Tuttavia molte voci nell’islam sunnita si sono levate contro l’Is, anche se non sempre messe in risalto dai media, non solo in Occidente, ma anche in Paesi musulmani più conservatori. Tra questi spicca il Gran muftì dell’Arabia Saudita, lo sceicco Abdulaziz Al sl-Sheikh, che il 19 agosto ha definito sia l’Is sia al Qaeda «nemici numero uno dell’Islam» e non appartenenti in alcun modo alla fede comune. La corrente wahabita che sostiene il regime saudita condivide alcune posizioni dottrinali dei terroristi, ma respinge i metodi violenti e il pericolo di destabilizzazione che rappresentano. Si ritiene che molti sauditi si siano uniti ai ribelli in Siria e Iraq e non è chiaro quanto la posizione dei religiosi wahabiti possa influenzare le loro scelte. Anche importanti autorità dei principali Paesi dell’area hanno condannato le stragi, a partire dal Gran muftì di al-Azhar, Egitto, Shawqi Allam, che ha denunciato l’Is come una minaccia per l’islam. Il responsabile degli Affari religiosi in Turchia, Mehmet Görmez, ha affermato che: «La dichiarazione fatta contro i cristiani è veramente terribile. Gli studiosi islamici hanno bisogno di concentrarsi su questo perché l’incapacità di sostenere pacificamente altre fedi e culture annuncia il collasso di una civiltà». Sul piano ufficiale, sia l’Organizzazione per la cooperazione islamica, che riunisce 57 Paesi, sia la Lega araba, si sono espresse contro i crimini commessi nelle scorse settimane in Iraq, parlando esplicitamente in difesa delle minoranze cristiane e degli yazidi. E inoltre non sono mancate le condanne da parte delle autorità delle comunità islamiche negli Usa, in Gran Bretagna e Francia, specialmente dopo l’assassinio del giornalista James Foley. Chiara ed esplicita è la posizione dei musulmani in Italia. A fronte di una quarantina di mujaheddin di provenienza italiana partiti per la jihad in Siria e Iraq, persone di cui ha ampiamente parlato la stampa in questi giorni, in un appello del 12 agosto contro le guerre, l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia che raggruppano 1,2 milioni di fedeli, ricorda che «il rispetto e la protezione della Gente del Libro (i cristiani e gli ebrei) e, in generale di tutte le popolazioni che vivono in un Paese o territorio governato dai musulmani è un dovere ineludibile di qualunque potere che si richiami all’Islam». L’Ucoii aggiunge che quando una forza che affigge insegne islamiche viola tutte le regole morali del conflitto, non può essere giustificata o sostenuta da alcuna referenza religiosa. Davide Piccardo, responsabile del Coordinamento associazioni islamiche di Milano (Caim) conferma a Popoli.info la posizione dei musulmani nel nostro Paese: «Quanto sta accedendo in queste settimane in Siria e in Iraq, per effetto dell’avanzata dell’Isis, sono aberrazioni. In questo frangente noi siamo non solo con i cristiani iracheni e siriani, ma con tutte le minoranze religiose vittime della violenza». I musulmani italiani ricordano che anche 16 ulema sunniti di confraternite sufi di Mosul sono rimasti vittime dei fanatici dell’Is così come gli imam di alcune grandi moschee, mentre altri musulmani, tra cui i peshmerga curdi, fanno fronte all’avanzata degli estremisti.”
Nel nostro paese, da qualche anno, vanno di moda i talent-scout: si va alla ricerca di nuovi protagonisti del mondo televisivo. Angelo Calianno, sul numero di maggio di Popoli, ci fa conoscere un tipo diverso di scopritori di talenti giovanili… “L’immagine del terrorismo islamico più diffusa ci rimanda spesso all’Asia e al Medio oriente: talebani in Afghanistan, Hamas in Palestina, Hezbollah in Libano. Le cose però stanno cambiando. L’organizzazione e la formazione di nuovi «combattenti» sono in continua evoluzione e una buona parte dei terroristi del futuro partono e partiranno sempre più spesso dall’Africa e da una delle sue zone nevralgiche: il Corno d’Africa. Nel settembre 2013 il mondo ha conosciuto meglio al-Shabaab, organizzazione di estremisti islamici somali, che ha attaccato un centro commerciale di Nairobi uccidendo 72 civili. Al-Shabaab (parola originata dall’arabo che significa «la gioventù») si è affiliata ad al-Qaeda nel 2012, ma opera in maniera indipendente e i miliziani nelle proprie fila sono sempre più numerosi. Ma questi ragazzi come si trasformano in terroristi? Chi li recluta? Da dove? Qualche anno fa a nord di Londra un ragazzo di origine somala, con regolare passaporto inglese, viene arrestato per aver fabbricato ordigni esplosivi artigianali. La notizia diventa, per chi scrive, la prima traccia di una pista che ci porterà lontano. Seguendo la storia a ritroso siamo infatti arrivati nel Corno d’Africa da dove comincia tutto, dove veri e propri talent scout cercano nuove reclute da arruolare tra le file dei combattenti del jihad. Ci troviamo così a viaggiare sulla frontiera tra Somaliland, Puntland e Somalia per conoscere le storie di quelle che saranno le nuove leve di al-Shabaab. Nei giorni in cui ci spostiamo via terra dall’Etiopia verso il Somaliland fino al Golfo di Aden la situazione è molto tesa, non è passato molto tempo dall’attentato di Nairobi. I confini vengono chiusi al primo allarme. L’M16 (l’intelligence britannica) staziona da tempo a Berbera, in Somaliland. Spostandoci verso Sud-Est riusciamo, per caso, a entrare in contatto con alcuni emissari affiliati ad al-Shabaab. Sono in tre, viaggiano su un pick-up rosso con vetri scuri e si sistemano nello stesso albergo in cui dormiamo anche noi. Riusciamo ad avvicinarli subito dopo la preghiera della sera e si offrono di darci un passaggio. In questa zona non è facile vedere bianchi senza scorta, questo rende più facile avvicinare i somali. I reclutatori masticano voracemente qat, la droga locale in foglie che qui è legale. Dicono abbia proprietà afrodisiache, certamente ha effetti allucinogeni. Gli uomini ne hanno fatto una buona scorta anche perché si dice che le foglioline del Somaliland siano della qualità migliore. Ce ne offrono un po’. Noi rifiutiamo, ma approfittiamo della confidenza che si è creata per fare loro qualche domanda. Siete in viaggio per lavoro? Dove siete diretti? «Giriamo per i villaggi, cerchiamo ragazzi che hanno problemi, sono poveri e non hanno un lavoro. Offriamo loro una possibilità, un’istruzione e un’educazione militare». Ma dove li portate? E come avviene il training militare? «Offriamo loro la possibilità di entrare nelle file del nostro esercito, per combattere contro i nemici del popolo e della libertà. Paghiamo loro il viaggio fino ai campi d’addestramento in Somalia. Prima esistevano più campi e scuole in Sudan, Eritrea, Somaliland, ora gli infedeli ci hanno costretto a chiuderli». Non menzionano mai il nome dell’organizzazione ma, mentre parlano, uno di loro ci mostra su un cellulare la foto del campo di addestramento dove sventola la bandiera di al-Shabaab. «Emissari come noi lavorano in tutta l’Africa, noi ci occupiamo solo di questa zona, ma ce ne sono in Eritrea, Etiopia, Gibuti, Somaliland, Puntland e Somalia. Cerchiamo ragazzi di fede islamica. Di solito li reclutiamo attorno agli 11-12 anni, è una buona età per formarli. Cerchiamo ragazzi sani e robusti, non li prendiamo mai troppo piccoli perché da queste parti molto spesso i bambini sono malnutriti, molti altri invece hanno problemi di cuore, nei campi vengono anche visitati da medici». È facile trovare ragazzi da reclutare in Africa, molto più facile che in qualsiasi altro continente del mondo. La promessa di tre pasti al giorno, un piccolo aiuto economico per i genitori e un’educazione islamica sono elementi così allettanti che gli emissari non hanno bisogno di insistere molto per convincere i combattenti del futuro. Questi emissari non sono necessariamente membri dell’organizzazione affiliata ad al-Qaeda. «Alcuni sono legati all’organizzazione – spiega la nostra fonte -. Noi veniamo solo pagati per cercare nuovi ragazzi. Siamo liberi, ma crediamo in questa guerra. Riusciamo a trovare molti ragazzi e tanti sono contenti di unirsi a noi così come i loro genitori che ricevono un aiuto economico. La maggior parte arrivano dalle zone rurali dove la povertà è più dura e l’opportunità di avere un addestramento militare e studiare rappresenta una nuova vita». Le nuove leve vengono portate in Somalia approfittando degli scarsi controlli alle frontiere con Somaliland e Puntland e della facilità con la quale si possono corrompere gli agenti e i funzionari delle polizie di confine. Una volta nei campi di addestramento, viene offerta una formazione di base di matrice islamica, ai miliziani è poi consegnata una copia del Corano che i jihadisti porteranno sempre con sé. L’addestramento militare è molto duro e prevede impegnative sessioni di ginnastica e un intenso training all’uso delle armi. Raggiunta un’età adeguata si passa al vero corso di combattimento che dura sei mesi. I più bravi e meritevoli entrano nella brigata suicida: la trafila per entrare in questa brigata è più lunga. Dopo un indottrinamento così intenso e pervasivo, il martirio è il premio più ambito. Qualche giorno dopo aver incontrato i reclutatori, parliamo con un funzionario della polizia governativa nel Somaliland, che conosce bene la situazione di al-Shabaab. È lui a raccontarci che cosa succede dopo l’addestramento. «Ci sono diversi ruoli da ricoprire nelle file di al-Shabaab – spiega -. Molti diventano pirati e attaccano le navi nel Golfo di Aden. La pirateria è un’importante fonte di finanziamento per i terroristi. Altri combattono in Somalia, mentre un numero sempre maggiore cerca di raggiungere la Libia o le coste del Nord. Da lì provano ad arrivare in Europa per entrare poi nelle cellule dormienti, pronte a colpire in qualsiasi momento. Da quando è diventato indipendente (1998), il Somaliland è uno Stato pacifico. Molti parenti dei leader ricercati di al-Shabaab però si trovano ancora qui. Noi cerchiamo di sorvegliarli, ma i nostri confini sono ancora molto deboli a livello di sicurezza». Oggi al-Shabaab conta circa 15mila combattenti, non tutti africani: ci sono anche cittadini britannici, svedesi, tedeschi di origine africana tornati qui per combattere la guerra santa. Il movimento fondamentalista è una sorta di holding impegnata su vari fronti. I corsi di formazione, così come gli attentati, vengono finanziati con la pirateria (si parla di 30 milioni di dollari l’anno provenienti da rapimenti e attacchi alle navi), il traffico di armi, minerali preziosi e ultimo, ma non meno redditizio, dal bracconaggio. Squadre specializzate di al-Shabaab cacciano animali nelle riserve di Kenya e Tanzania per poi rivendere pelli e avorio. Da queste scuole escono i «terroristi del futuro», come li hanno definiti da queste parti. Difficile controllare questa nuova ondata perché molti di questi ragazzi possono agire in modo autonomo e in qualsiasi momento; sono fisicamente preparati e, come ci raccontava uno degli emissari, hanno molto talento: il talento per la morte.”
Nelle classi quinte stiamo leggendo una sintesi del libricino (il diminutivo è legato alla dimensione non certo al valore del lavoro) di Khaled Fouad Allam “Lettera a un kamikaze”. Ora allego tre articoli che ritengo interessanti.
Il primo è un editoriale di Avvenire del 3 aprile:
Chiudo il post con alcune parole di Allam rivolte all’aspirante shahid: ” La tua morte non è soltanto la morte tua e delle tue vittime, è lo svanire di ogni speranza, perché in essa tutto si annulla. Ma la vita non muore, rimane “l’eterno desiderio di durare”, come recita Apollinaire. Anche il fondo dell’abisso si ripopola, la vita riemerge come il fiore nel deserto, come il fiore delle montagne che la lingua tedesca chiama Vergissmeinnicht, non ti scordar di me. Perché la vita si trova di fronte a un imperativo – rimanere per sperare – senza il quale l’umanità finisce per negare se stessa. … Se è la distruzione il fine ultimo del tuo agire, il messaggio stesso dell’islam viene tradito: se esiste una prescrizione fondamentale nell’islam, è quella di proteggere la vita in sé e la propria vita; dare la morte spezza il legame tra noi e Dio.”
Sto riorganizzando le lezioni su terrorismi e fondamentalismi religiosi per le quinte, sui rischi delle Ideologie con la I maiuscola, disponibili, in nome di se stesse, a calpestare la dignità di interi popoli o gruppi sociali, etnici, politici, religiosi. Una delle domande che emergono frequentemente è “Ma come può succedere che si arrivi a quel punto? Cosa fa sì che molte persone ci credano e sacrifichino le proprie vite e quelle altrui, magari anche della propria famiglia?”. Le risposte sono molte, ma poco fa mi sono imbattuto in questa citazione contenuta nel bel libro di Miachael Burleigh “In nome di Dio. Religione, politica e totalitarismo. Da Hitler ad Al Qaeda”. “In due periodi cruciali per la Germania, quello della superinflazione tra il 1919 e il 1923 e quello della Depressione dal 1929 al 1933, nel Paese pullulavano i profeti itineranti che si aggiravano scalzi, con barbe e capelli lunghi, spillando alla gente somme considerevoli per assistere a riunioni in cui profetizzavano la fine del mondo e annunciavano l’avvento di un rinnovamento morale e di un nuovo tipo d’uomo che avrebbe dovuto creare un nuovo modello di società prima che fosse troppo tardi. Secondo un giornalista di un quotidiano di Colonia che aveva assistito ad una di queste riunioni a Berlino: «Oggi il pubblico riempie le sale per assistere alle conferenze di questi affabulatori dato che, a causa della sua monumentale confusione mentale, è alla ricerca di qualsiasi genere di sostegno per consolarsi. Alla fine della guerra, dopo che l’inutilità di qualsiasi sforzo diventò evidente, si impose un senso di illimitata delusione. Come se non bastasse, negli ultimi mesi il cervello della gente è stato completamente sconvolto da insormontabili difficoltà economiche, dalla lotta senza speranza contro l’inflazione… Tutti, soprattutto i soggetti più deboli, dato che non hanno altro a cui aggrapparsi, si sono radunati intorni a questi redentori contemporanei con i loro capelli lunghi e con le loro strambe fantasie. La profezia è un brutto sintomo dell’odierna condizione spirituale della Germania. Non va sottovalutata: potrebbe generalizzarsi con le crisi che ci aspettano. Il tempo è fuori dai cardini!, come diceva Amleto”