Gemma n° 2698

“Quest’anno come ultima gemma ho deciso di portare questa frase di Giovanni Paolo II perché spesso noi (soprattutto gli adolescenti) ci soffermiamo solo sulle cose che non siamo riusciti a fare, invece di “preoccuparci” di quelle che, invece, abbiamo ancora la possibilità di fare, in quanto a tutto c’è un’alternativa o una soluzione, ma possiamo “guardare oltre” solo se lo permettiamo alla nostra mente e quindi dobbiamo eliminare tutti i pensieri negativi” (E. classe quinta).

Bilanci di viaggio

papa al muro

A qualche giorno di distanza dal viaggio del papa in Terra Santa posto un articolo di Massimo Faggioli, pubblicato oggi su La Rivista Il Mulino: non è un pezzo di cronaca di quanto è successo, ma una lettura di inquadramento storico del viaggio, per cui lo consiglio alle classi più grandine (anche se non è vietato alle altre…).
“Il pellegrinaggio papale in Terra Santa è entrato a far parte della storia del moderno papato come un test, un momento critico da cui tentare di comprendere alcune traiettorie della chiesa cattolica contemporanea ma anche le differenze tra i singoli pontificati. Il pellegrinaggio di papa Bergoglio in Terra Santa (Giordania, Palestina, Israele, 24-26 maggio 2014) seguiva quello di Paolo VI (gennaio 1964), Giovanni Paolo II (marzo 2000), e Benedetto XVI (maggio 2009).
Il viaggio del 1964 era il primo di un papa moderno all’estero, nel clima del Vaticano II, all’insegna di sensibilità ecumeniche completamente nuove a livello ufficiale, storicamente precedente alla “revanche de Dieu” che inizia con la guerra del 1967 e gli anni Settanta, e teologicamente ancora riluttante a prendere atto del sionismo e del suo frutto compiuto nello Stato di Israele (parola che papa Montini si astenne visibilmente dal pronunciare in quei giorni). Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II del 2000 era il viaggio del primo papa del dialogo interreligioso esercitato in prima persona sulla base del mandato conciliare e oltre esso, nel contesto del Giubileo del 2000, ma prima dell’inizio della cesura dell’anno 2000-2001 (la seconda Intifada dopo la passeggiata di Sharon alle moschee nel settembre 2000 e la scia di attentati e violenze nelle città israeliane e palestinesi; l’11 settembre 2001; la costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e territori a partire dal 2002). Il viaggio di Benedetto XVI nel 2009, infine, arrivava a poche settimane dalle polemiche scaturite dalla decisione di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, uno dei quali notoriamente antisemita, e contribuiva a condizionare la gestualità già inibita del papa teologo: le aspettative del discorso del papa a Yad Vashem circa le responsabilità della Chiesa (anche in quanto cattolico tedesco) andarono deluse.
In questo quadro, rispetto a quello dei precedessori il viaggio di papa Francesco rappresenta un passo ulteriore. Da un lato, Bergoglio ha assunto per la visita a quella terra e ai suoi simboli divisi e condivisi l’immagine della poliedricità (figura da lui analizzata nell’esortazione Evangelii Gaudium per descrivere la Chiesa) dello snodo religione-terra-pace in Medioriente. Il papa ha parlato a interlocutori diversi e ha bilanciato l’immagine di un cattolicesimo che – specialmente sotto Benedetto XVI – aveva ripreso la memoria della Shoah e il ruolo dello Stato di Israele sotto il segno di una “religione civile” che in Occidente ha una forte connotazione islamofobica. Il gesto di preghiera di Francesco di fronte alla “barriera di separazione” da parte palestinese e, il giorno dopo, alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl e al monumento per le vittime israeliane del terrorismo rappresentano messaggi inviati a entrambe le parti: ma rappresentano soprattutto la presa di coscienza da parte del papato che vi sono elementi altri (i “loci alieni” della teologia) e storicamente nuovi rispetto all’itinerario teologico-biblico classico del pellegrinaggio cristiano in Terra Santa. In questo senso, papa Francesco ha fatto propria una mappa già nota a molti – cristiani, ebrei e musulmani inclusi -, ma che finora aveva stentato a entrare nel registro dei viaggi papali. Francesco parla e agisce come cristiano in Terra Santa con maggiore libertà rispetto al predecessore italiano, polacco, tedesco che dovevano parlare per forza di cose anche come figli di quella Europa colpevole della Shoah. Le amicizie interreligiose del gesuita Bergoglio in Argentina sono parte di questa nuova condizione di libertà del papato globale dalle ipoteche della storia europea.
paoloviatenagoraDall’altro lato, papa Francesco ha ripreso una rotta invertita dal Vaticano di Benedetto XVI dal punto di vista teologico: l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo rappresenta la ripresa di un dialogo con gli ortodossi orientali che aveva promesso molto, invano, sotto Benedetto XVI. L’incontro di Gerusalemme tra Francesco e Bartolomeo ha un’origine storicamente vicina, durante l’inaugurazione del pontificato nel marzo 2013 e la straordinaria presenza di Bartolomeo a Roma (la prima volta nella storia in un’occasione del genere), ma anche un’origine lontana, quell’incontro tra Paolo VI e Atenagoras nel gennaio 1964 e alla revoca delle scomuniche reciproche nel 1965 alla conclusione del Concilio Vaticano II. L’incontro tra Francesco e Bartolomeo rappresenta la prova delle potenzialità di una ripresa senza timori del concilio.
Il lato sorprendente della visita del papa in Terra Santa riguarda l’azione politica della Santa Sede di Francesco. Sotto Benedetto XVI e il suo segretario di Stato cardinale Bertone, il Vaticano aveva dato segnali di volersi sottrarre alle responsabilità politiche della Chiesa figlia dell’Impero Romano in quell’area (e non solo là), consegnando così la questione geopolitica del cattolicesimo a rappresentanti locali (le chiese arabe compromesse coi regimi, i sicofanti del cattolicesimo teo-con di scuola statunitense). La mossa di papa Francesco dell’invito in Vaticano, “a casa del papa”, rivolto ad Abu Mazen e Shimon Peres nello stesso giorno delle elezioni europee è una delle tante ironie della storia, dopo anni in cui sia l’Europa sia gli Stati Uniti avevano dichiarato fallimento di fronte alla questione israelo-palestinese.
Emerge un volto politico di Francesco, che viene a completare un anno in cui gli interventi “politici” sono stati pochi e ben delimitati: la veglia del 7 settembre 2013 per la Siria (preventivo a un possibile intervento americano); l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013; la freddezza ostentata coi politici italiani in tutto questo periodo; l’udienza al presidente Obama. Il pellegrinaggio in Giordania, Palestina e Israele danno maggiori elementi per giudicare la politica del Vaticano di Francesco e del segretario di Stato cardinale Parolin: un’azione che richiama, in termini diversi, la Ostpolitik di Giovanni XXIII e Paolo VI (allora contro gli episcopati renitenti rispetto alla politica del dialogo, oggi contro i patriarchi e gli episcopati cattolici compromessi coi despoti del Medioriente). Anche da questo punto di vista, continua per forza di cose il protagonismo di papa Francesco, in assenza (tranne rare eccezioni) di una élite episcopale mondiale in grado di seguire la traccia segnata dal vescovo di Roma.”

La visione aspetta l’immagine

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O uomo che vedi anche tu, vieni –

Sto invocandovi “vedenti” di tutti i tempi.

Sto invocandoti, Michelangelo!

Nel Vaticano è posta una cappella, che aspetta il frutto della tua visione!

La visione aspetta l’immagine.

Da quando il Verbo si fece carne, la visione, da allora, aspetta.

La stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi,

si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policromia sistina,

da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato –

Era così nell’agosto e poi nell’ottobre, del memorabile

anno dei due conclavi,

e così sarà ancora, quando se ne presenterà l’esigenza

dopo la mia morte.

All’uopo, bisogna che a loro parli la visione di Michelangelo.

“Con-clave”: una compartecipata premura del lascito delle chiavi,

delle chiavi del Regno.

Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine,

tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio.

E’ dato all’uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio!

Una finale trasparenza e luce.

La trasparenza degli eventi –

La trasparenza delle coscienze –

Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni

al popolo –

Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius.

(Giovanni Paolo II, Trittico romano)

 

Due mistiche in una

 

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In questa domenica di quaresima per i cristiani, posto un articolo per chi è un po’ più addentro la teologia: Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, fa un parallelismo tra le mistiche degli ultimi due pontefici sintetizzandole nella mistica dell’amore. Il suggerimento viene da un amico di facebook che ha consigliato questo articolo de Il Sole 24 ore.

“Il paragone fra le scelte compiute da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI davanti al venir meno delle loro forze fisiche, è stato avanzato da più parti, talvolta soltanto per immaginare una contrapposizione e ipotizzare retroterra inquietanti. In realtà, l’accostamento fra i due Papi, figure dall’evidente diversità e dalla non meno profonda sintonia, può risultare particolarmente fecondo nell’aiutare a comprendere ciò che sta avvenendo al vertice della Chiesa cattolica e il suo possibile significato per il prossimo futuro. La chiave di lettura più adeguata per interpretare il modo di porsi davanti alla malattia, alla sofferenza e alla morte del Papa polacco, è la mistica slava della Croce.

Avendo avuto il singolare privilegio di predicare a Giovanni Paolo II gli ultimi esercizi spirituali cui egli abbia potuto partecipare, ho avuto anche modo di ascoltare dalle sue labbra parole che restano scolpite nella mia memoria e nel cuore: «Il Papa deve soffrire per la Chiesa». Ciò che mi colpì fu l’intensità con cui le diceva, in particolare la forza posta su quel “deve”.

I Vangeli, d’altra parte, testimoniano che davanti alla sua passione Gesù usò parole simili. Si legge in Marco: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto…» (8,31). E nel racconto di Luca il Maestro dice: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire…» (9,22). La cristianità slava si riconosce particolarmente in questo destino, connesso alla sequela di Cristo. Essa sa di essere stata generata nel segno della Croce: «Nella comunità dei popoli europei – scrive P. Tomas Spidlik -, gli slavi ricevettero il battesimo come operai dell’ultima ora. Ciò nonostante, il sangue dovette bagnare i nuovi campi seminati dal Vangelo… Perciò i pensatori slavi si sono sempre soffermati a indagare sul vero senso del dolore». Per essi, «la sofferenza è una grande forza, perché santifica non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato e accettano che il “castigo” sani il “delitto”».

Nicolaj Berdiaev non esita ad affermare: «L’intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell’uomo. Soffro, quindi sono». E Boris Pasternak chiude il suo romanzo Il Dottor Zivago con queste parole: «L’anima è triste fino alla morte… Eppure il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa… Ora deve compiersi ciò che fu scritto. Lascia dunque che si compia. Amen». In questa luce, non meraviglia che il Papa slavo comprendesse la sua missione come martirio, e che abbia voluto proclamare dalla cattedra del vissuto ciò che aveva insegnato con la parola e gli scritti: quanto era detto nella sua lettera apostolica Salvifici doloris dell’11 Febbraio 1984 sul senso incomparabile della sofferenza offerta per amore, Giovanni Paolo II lo proclama al mondo con l’eloquenza silenziosa della sua passione, fino a quel gesto muto di dolore, compiuto spontaneamente quando – affacciato alla finestra su una Piazza San Pietro gremita di folla silenziosa – non poté dire più alcuna parola.

Benedetto XVI si muove in un diverso orizzonte culturale e simbolico, quello della mistica occidentale del servizio. Egli è l’uomo che sa di dover dare gratuitamente quanto ha gratuitamente ricevuto. E sa che questo dare senza ritorno è il servizio cui è stato chiamato, tanto come pensatore della fede, quanto come pastore e apostolo, posto dal Signore a lavorare nella Sua vigna, umile operaio impegnato a spendere tutti i doni d’intelligenza e di fede, ricevuti da Dio, a favore della causa di Dio in questo mondo. Anche questo servizio non è che una “imitatio Christi”, un ripresentare con la parola e con la vita Colui che «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10,45). Gesù stesso si presenta così: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Luca 22,27). Da fine conoscitore dell’opera del mondo, Joseph Ratzinger non ignora quanto questa mistica del servizio sia alternativa alla logica del potere terreno. È quello che afferma Gesù: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Matteo 20, 25-27).

È servendo che si diventa umili e fedeli lavoratori della vigna del Signore. Scriveva Benedetto XVI nella sua prima enciclica, la Deus caritas est (2005): «Servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro… Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare… Egli riconosce di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza» (35). Come mostrano chiaramente queste ultime parole, rinunciare al servizio quando le forze vengono meno è umile riconoscimento dell’imperscrutabile volontà di Dio, espressione delle fede incondizionata nella Sua fedeltà, che si manifesta secondo tempi e modi che non sono quelli della logica del potere di questo mondo.

La mistica della Croce del Papa slavo e quella del servizio del Papa tedesco si rivelano così volti di uno stesso amore: l’amore a Cristo redentore dell’uomo e al Padre che l’ha donato a noi; l’amore alla Chiesa e all’umanità, per il cui bene maggiore si è chiamati a offrire tutto di sé e a servire. È, insomma, la mistica dell’amore che unisce i due Papi, che hanno saputo essere ciascuno se stesso, fedeli alle loro diverse identità spirituali e alle radici culturali di esse. Proprio così si potrà immaginare chi verrà dopo di loro: anche il prossimo Papa sarà chiamato a vivere la mistica dell’amore. Gli si chiederà di offrire se stesso senza riserve e di servire, mettendo a disposizione del popolo di Dio e dell’umanità i doni ricevuti. E forse, anche grazie al segnale lanciato dalla rinuncia del Papa di fronte alla presa di coscienza della propria fragilità, gli si chiederà in modo particolare di esprimere questa mistica dell’amore in una fraternità sempre più grande, affettiva ed effettiva, con coloro che con lui sono incaricati della sollecitudine per tutte le Chiese.

La collegialità episcopale, volto e strumento della carità che si dona e serve, richiamata dallo stesso Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato come priorità decisiva, dovrà conoscere gli sviluppi rimasti ancora impliciti in quanto indicato dal Vaticano II. Ciò esigerà un sussulto di amore da parte del prossimo Successore di Pietro, come della Chiesa tutta con lui. L’agenda del prossimo pontificato, sulla base della consegna che lascia in eredità proprio il Papa ritiratosi nel silenzio, sarà segnata da questa priorità. Ed essa andrà perseguita con l’unica forza che la giustifichi e la renda possibile ed efficace: l’amore ricevuto da Cristo, per essere vissuto e donato a tutti, senza misura, dai suoi discepoli.”