“Quest’anno come ultima gemma ho deciso di portare questa frase di Giovanni Paolo II perché spesso noi (soprattutto gli adolescenti) ci soffermiamo solo sulle cose che non siamo riusciti a fare, invece di “preoccuparci” di quelle che, invece, abbiamo ancora la possibilità di fare, in quanto a tutto c’è un’alternativa o una soluzione, ma possiamo “guardare oltre” solo se lo permettiamo alla nostra mente e quindi dobbiamo eliminare tutti i pensieri negativi” (E. classe quinta).
In un unico post due articoli a commento della visita del papa a Lund. Il primo è di taglio più teologico ed è a firma di Stefania Falasca per Avvenire:
“La memoria guarita, il passaggio dal conflitto alla comunione, il riconoscimento della dipendenza dalla grazia di Cristo nella vita cristiana, la gratitudine a Dio, guardare insieme al futuro e dire no alla strumentalizzazione della religione per fini politici. È quello che descrive oggi l’incontro tra cattolici e luterani nell’antica cattedrale di Lund e la dichiarazione comune che unitamente hanno sottoscritto al termine della preghiera condivisa. La Chiesa cattolica e la Chiesa luterana hanno compiuto il significativo gesto di firmare davanti al mondo la dichiarazione della commemorazione comune della Riforma. Dopo cinquecento anni, cattolici e luterani si ritrovano oggi concordi su una visione congiunta del passato e su imperativi comuni per il prossimo futuro. Si esprime la gioia per ciò che unisce, il pentimento per il danno creato dalla discordia e la ferma intenzione di testimoniare insieme al mondo la misericordia di Dio, operando per la riconciliazione, la pace e la giustizia per l’intero creato. Si compie così la storia con un nuovo passo importante per il cammino verso una più grande unità visibile della Chiesa. Articolata in cinque brevi paragrafi la “carta comune” della guarigione e della riconciliazione riassume il viaggio che ha portato a questo passo. «Cinquanta anni di dialogo ecumenico intenso e proficuo tra cattolici e luterani hanno aiutato a superare molte differenze, hanno approfondito la nostra comprensione e la fiducia reciproca – è scritto nel primo paragrafo della dichiarazione – allo stesso tempo, ci siamo avvicinati gli uni agli altri attraverso il servizio comune al nostro prossimo, spesso in circostanze di sofferenza e persecuzione. Attraverso il dialogo e la comune testimonianza noi non siamo più estranei. Piuttosto, abbiamo imparato che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide». Nel secondo paragrafo dal titolo: Passando dal conflitto alla comunione, cattolici e luterani unitamente confessano e chiedono perdono per aver «ferito l’unità visibile della Chiesa». Riconoscono che «differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti», soprattutto si riconosce ciò che è importante anche per non commettere gli errori del passato nelle contingenze attuali, e cioè che nella storia che ha portato alla divisione «la religione è stata strumentalizzata per fini politici». Così mentre il passato non può essere cambiato, viene però ricordato che la sua memoria può essere trasformata. Pertanto si afferma che si deve «con forza respingere l’odio e la violenza, passati e presenti, in particolare quella espressa nel nome della religione». «Oggi – è scritto – sentiamo il comando di Dio di mettere da parte tutti i conflitti. La nostra fede comune in Gesù Cristo e il nostro comune battesimo richiedono sempre una conversione quotidiana, con cui intrecciare le divergenze storiche e i conflitti che possono impedire la riconciliazione. Ci rendiamo conto che essendo liberati dalla grazia, questo spinge a muoversi verso la comunione a cui Dio ci chiama continuamente». La dichiarazione prospetta poi con chiarezza l’impegno per una testimonianza comune: «Ci impegniamo a testimoniare insieme la grazia misericordiosa di Dio, reso visibile in Cristo crocifisso e risorto. Consapevoli che il modo di relazionarsi tra noi forma la nostra testimonianza evangelica, noi ci impegniamo a un’ulteriore crescita nella comunione radicata nel battesimo, mentre cerchiamo di rimuovere i rimanenti ostacoli che ci impediscono di raggiungere la piena unità conforme al volere di Cristo che desidera che siamo una cosa sola, perché il mondo creda (cfr Gv 17,21)». Da qui la preghiera a Dio affinché si possa compiere insieme il servizio, in particolare ai poveri, difendere la dignità umana, lavorare per la giustizia rifiutando di ogni forma di violenza. «Dio ci chiama ad essere vicino a tutti coloro che desiderano la giustizia, la pace e la riconciliazione. Oggi, in particolare, per la fine della violenza e l’estremismo che colpiscono così tanti paesi e comunità e innumerevoli fratelli e sorelle in Cristo esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere lo straniero, per venire in aiuto di chi è costretto a fuggire a causa di guerre e persecuzioni, per difendere i diritti dei rifugiati e di coloro che cercano asilo». Se atteggiamenti passati di antiecumenismo e di autocompiacimento riemergeranno nelle comunità di fede, la commemorazione comune del 31 ottobre, ricorderà tuttavia con forza che non c’è altro cammino per andare avanti di quello della guarigione della memoria, di un ecumenismo dell’amicizia e di un servizio comune verso un mondo che chiede ad alta voce speranza, pace giusta e riconciliazione.”
Il secondo articolo è di taglio più geopolitico: è di Piero Schiavazzi, pubblicato su L’Huffington Post:
“A mezzo millennio da Martin Lutero e a mezzo secolo da Ingmar Bergman, la cattedrale di Lund è ancora una volta il “posto delle fragole”. Dove l’asprezza dei ricordi evolve, si converte in dolcezza dei gesti. E dove un dialogo acerbo matura e sperimenta il sapore del Verbo: “Con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa…Chiediamo al Signore che la sua Parola ci mantenga uniti.” Come nel film del regista svedese, le mura millenarie, con il loro magnetismo, catturano la scena di una metamorfosi. Una catarsi che solo il tempo sa operare nei protagonisti, aggiustando l’inquadratura e illuminando la zona d’ombra. Sicché la primavera giunge d’autunno, anche a una latitudine già invernale. Occasione da non perdere per Bergoglio, papa cinefilo, amante dei maestri degli anni ’50: “Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma raccontare questa storia in modo diverso”, ha spiegato all’arrivo, dopo l’appello rivolto in volo ai giornalisti: “Aiutateci a far capire”. Così, con un anno di anticipo sul quinto centenario, Francesco ha trasformato la “protesta” di Lutero in festa cattolica, nonché canonica. O poco ci è mancato. E ha inaugurato le danze, schiodando le tesi del monaco ribelle dai battenti di Wittenberg, dove furono affisse nel 1517, per iscriverle d’ufficio sulla porta del Giubileo e registrarle nel libro dei romani pontefici: “…profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma”, recita la dichiarazione comune, sottoscritta con il palestinese Munib Yunan, presidente della Federazione Luterana Mondiale. Gli storici lo chiameranno ecumenismo del tango: un transfert dalle atmosfere creole a quelle scandinave, un allungo dal Baltico al Rio de la Plata. Rinunciando ai giri di valzer dei teologi, che la prendono alla larga, e avanzando barre a dritta in uno spazio stretto, come nelle milonghe di Buenos Aires. Buttandosi avanti e sapendo di non poter tornare indietro, in ossequio alle regole del ballo: “…abbiamo una nuova opportunità… Non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi”. Con il suo paso doble, Bergoglio si spinge verso traguardi che a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sarebbero preclusi, scontando il peccato originale di un pregiudizio etnico – geografico: degli ortodossi russi all’indirizzo del papa polacco e dei protestanti tedeschi nei confronti del pontefice bavarese. Due derby, uno tra slavi e l’altro fra teutonici, nei quali le difese hanno avuto buon gioco in interdizione, stoppando le geometrie di Ratzinger, l’austero, e le acrobazie di Wojtyla, il condottiero. Ma non le fantasie palla a terra di Francesco, il manovriero. Realista e concreto quanto basta per puntare al risultato e portarlo a casa, prima del novantesimo, che stavolta coincide con la duplice chiusura, il 20 novembre, di Anno Santo e anno liturgico, nella domenica di Cristo Re: giorno in cui stilerà bilanci e tirerà somme. Disposto a scoprirsi, a cedere terreno e a prendere gol persino, ma determinato, infine, a metterne a segno uno in più: come in febbraio a Cuba, quando pur d’incontrare Kirill, il patriarca russo, ha siglato con lui una sorta di “Yalta religiosa”. Un accordo di desistenza che impegna le due chiese a non arruolare proseliti e a non evangelizzare, de facto, nelle altrui zone di influenza, dove Giovanni Paolo II aveva posizionato, a presidio, i propri vescovi, con la consegna di marcare a uomo. E come oggi a Lund, quando non si è limitato a riabilitare Lutero, ma lo ha celebrato e addirittura è sembrato che stesse per annoverarlo tra i beati, con tempismo perfetto e significativo, nella vigilia della solennità di Ognissanti. Un passo che Benedetto XVI non avrebbe mai compiuto, vedendo nella riforma protestante, notoriamente, il primo ciak e l’incipit della deriva relativista del pensiero moderno. Valutazioni che Bergoglio condivide sul piano scientifico, come dimostrano i suoi scritti argentini, ma che sbiadiscono e svaniscono in un quadro geopolitico, da quando è asceso al soglio petrino. Paradosso in virtù del quale il primo Papa della Compagnia di Gesù, nata segnatamente allo scopo di contrastare il protestantesimo, trova nel nemico di sempre un alleato, impensato più che insperato. Come nei film dei supereroi, quando i protagonisti depongono antiche, anacronistiche rivalità per fronteggiare un gigante tecnologico, partorito dalla scienza e intenzionato a scalzare la loro primazia, elevando il relativismo a dogma di fede. Oppure, ipotesi ancora più terrificante, un Jurassic World delle religioni, dove i vecchi dinosauri del cattolicesimo, del luteranesimo e dell’ortodossia smettono di combattersi a vicenda per scongiurare una temibile mutazione genetica: una nuova specie aggressiva, uscita dal crogiuolo della storia e in grado di travolgerle, anzi di stravolgerle, deformandone mission e vision. Oggi, esattamente come cinquecento anni fa, l’Europa è infatti teatro dello scontro tra due cristianesimi. Con una differenza di fondo, però, che attiene al DNA, poiché la disputa, questa volta, non verte sul conflitto tra coscienza e autorità, quanto piuttosto tra uguaglianza e identità. Da un lato un cristianesimo identitario: che dopo essere stato liberato dai muri ne costruisce di nuovi, alzando il vessillo e vestendo la corazza di una fede anabolizzata e gonfia di proclami, fuori, ma sterilizzata e vuota di linfa evangelica, dentro. Dall’altro il cristianesimo egalitario, che riconosce in Bergoglio la sua bandiera e lo segue tra l’esultanza dei fedeli e la riluttanza dei governi, preoccupati di dover pagare un prezzo politico. Una tenzone che non risparmia, in prospettiva, neppure le rive della Svezia felix, dove il partito xenofobo lambisce il 15 per cento. Fenomeno che ha indotto socialisti e moderati a correre ai ripari, congelando il patto di unità nazionale fino al 2022: una scadenza inconcepibile al sole del Mediterraneo, dove le maggioranze si sciolgono in un baleno.
“Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere chi è straniero e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo”. Profughi e i migranti, agli occhi del Pontefice, compongono dunque il banco di prova e la frontiera, mobile, del movimento ecumenico, dove si attesta il cammino comune e si testano i cromosomi, la fisionomia delle chiese cristiane.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. La misericordia divina, tormento di Lutero, che in sede speculativa divise in due la cristianità del secondo millennio, diviene, alle soglie del terzo, strumento di rinnovata unità operativa: “Senza questo servizio al mondo e nel mondo, la fede cristiana è incompleta”. Sul set bergmaniano del posto delle fragole, Bergoglio raccoglie i frutti del lavoro avviato cinquant’anni orsono e chiude, al tempo stesso, un ciclo produttivo, trasferendo la pianta dell’ecumenismo dalla serra protetta della teologia, dove tutto appare chiaro e incontaminato, alla selva oscura del mondo globalizzato. In un groviglio a crescita continua che rende arduo discernere il grano dalla zizzania. Nelle latitudini del grande Nord, il Papa del profondo Sud, in definitiva, è venuto a cercare d’autunno la primavera. E a invertire le stagioni della storia. Consapevole, in un’ottica gesuitica e cinematografica, “che il passato non si può cambiare, ma che la memoria, e il modo di fare memoria, possono essere trasformati”.”
A qualche giorno di distanza dal viaggio del papa in Terra Santa posto un articolo di Massimo Faggioli, pubblicato oggi su La Rivista Il Mulino: non è un pezzo di cronaca di quanto è successo, ma una lettura di inquadramento storico del viaggio, per cui lo consiglio alle classi più grandine (anche se non è vietato alle altre…).
“Il pellegrinaggio papale in Terra Santa è entrato a far parte della storia del moderno papato come un test, un momento critico da cui tentare di comprendere alcune traiettorie della chiesa cattolica contemporanea ma anche le differenze tra i singoli pontificati. Il pellegrinaggio di papa Bergoglio in Terra Santa (Giordania, Palestina, Israele, 24-26 maggio 2014) seguiva quello di Paolo VI (gennaio 1964), Giovanni Paolo II (marzo 2000), e Benedetto XVI (maggio 2009).
Il viaggio del 1964 era il primo di un papa moderno all’estero, nel clima del Vaticano II, all’insegna di sensibilità ecumeniche completamente nuove a livello ufficiale, storicamente precedente alla “revanche de Dieu” che inizia con la guerra del 1967 e gli anni Settanta, e teologicamente ancora riluttante a prendere atto del sionismo e del suo frutto compiuto nello Stato di Israele (parola che papa Montini si astenne visibilmente dal pronunciare in quei giorni). Il pellegrinaggio di Giovanni Paolo II del 2000 era il viaggio del primo papa del dialogo interreligioso esercitato in prima persona sulla base del mandato conciliare e oltre esso, nel contesto del Giubileo del 2000, ma prima dell’inizio della cesura dell’anno 2000-2001 (la seconda Intifada dopo la passeggiata di Sharon alle moschee nel settembre 2000 e la scia di attentati e violenze nelle città israeliane e palestinesi; l’11 settembre 2001; la costruzione della “barriera di separazione” tra Israele e territori a partire dal 2002). Il viaggio di Benedetto XVI nel 2009, infine, arrivava a poche settimane dalle polemiche scaturite dalla decisione di togliere la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, uno dei quali notoriamente antisemita, e contribuiva a condizionare la gestualità già inibita del papa teologo: le aspettative del discorso del papa a Yad Vashem circa le responsabilità della Chiesa (anche in quanto cattolico tedesco) andarono deluse.
In questo quadro, rispetto a quello dei precedessori il viaggio di papa Francesco rappresenta un passo ulteriore. Da un lato, Bergoglio ha assunto per la visita a quella terra e ai suoi simboli divisi e condivisi l’immagine della poliedricità (figura da lui analizzata nell’esortazione Evangelii Gaudium per descrivere la Chiesa) dello snodo religione-terra-pace in Medioriente. Il papa ha parlato a interlocutori diversi e ha bilanciato l’immagine di un cattolicesimo che – specialmente sotto Benedetto XVI – aveva ripreso la memoria della Shoah e il ruolo dello Stato di Israele sotto il segno di una “religione civile” che in Occidente ha una forte connotazione islamofobica. Il gesto di preghiera di Francesco di fronte alla “barriera di separazione” da parte palestinese e, il giorno dopo, alla tomba del fondatore del sionismo Theodor Herzl e al monumento per le vittime israeliane del terrorismo rappresentano messaggi inviati a entrambe le parti: ma rappresentano soprattutto la presa di coscienza da parte del papato che vi sono elementi altri (i “loci alieni” della teologia) e storicamente nuovi rispetto all’itinerario teologico-biblico classico del pellegrinaggio cristiano in Terra Santa. In questo senso, papa Francesco ha fatto propria una mappa già nota a molti – cristiani, ebrei e musulmani inclusi -, ma che finora aveva stentato a entrare nel registro dei viaggi papali. Francesco parla e agisce come cristiano in Terra Santa con maggiore libertà rispetto al predecessore italiano, polacco, tedesco che dovevano parlare per forza di cose anche come figli di quella Europa colpevole della Shoah. Le amicizie interreligiose del gesuita Bergoglio in Argentina sono parte di questa nuova condizione di libertà del papato globale dalle ipoteche della storia europea. Dall’altro lato, papa Francesco ha ripreso una rotta invertita dal Vaticano di Benedetto XVI dal punto di vista teologico: l’incontro con il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo rappresenta la ripresa di un dialogo con gli ortodossi orientali che aveva promesso molto, invano, sotto Benedetto XVI. L’incontro di Gerusalemme tra Francesco e Bartolomeo ha un’origine storicamente vicina, durante l’inaugurazione del pontificato nel marzo 2013 e la straordinaria presenza di Bartolomeo a Roma (la prima volta nella storia in un’occasione del genere), ma anche un’origine lontana, quell’incontro tra Paolo VI e Atenagoras nel gennaio 1964 e alla revoca delle scomuniche reciproche nel 1965 alla conclusione del Concilio Vaticano II. L’incontro tra Francesco e Bartolomeo rappresenta la prova delle potenzialità di una ripresa senza timori del concilio.
Il lato sorprendente della visita del papa in Terra Santa riguarda l’azione politica della Santa Sede di Francesco. Sotto Benedetto XVI e il suo segretario di Stato cardinale Bertone, il Vaticano aveva dato segnali di volersi sottrarre alle responsabilità politiche della Chiesa figlia dell’Impero Romano in quell’area (e non solo là), consegnando così la questione geopolitica del cattolicesimo a rappresentanti locali (le chiese arabe compromesse coi regimi, i sicofanti del cattolicesimo teo-con di scuola statunitense). La mossa di papa Francesco dell’invito in Vaticano, “a casa del papa”, rivolto ad Abu Mazen e Shimon Peres nello stesso giorno delle elezioni europee è una delle tante ironie della storia, dopo anni in cui sia l’Europa sia gli Stati Uniti avevano dichiarato fallimento di fronte alla questione israelo-palestinese.
Emerge un volto politico di Francesco, che viene a completare un anno in cui gli interventi “politici” sono stati pochi e ben delimitati: la veglia del 7 settembre 2013 per la Siria (preventivo a un possibile intervento americano); l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del novembre 2013; la freddezza ostentata coi politici italiani in tutto questo periodo; l’udienza al presidente Obama. Il pellegrinaggio in Giordania, Palestina e Israele danno maggiori elementi per giudicare la politica del Vaticano di Francesco e del segretario di Stato cardinale Parolin: un’azione che richiama, in termini diversi, la Ostpolitik di Giovanni XXIII e Paolo VI (allora contro gli episcopati renitenti rispetto alla politica del dialogo, oggi contro i patriarchi e gli episcopati cattolici compromessi coi despoti del Medioriente). Anche da questo punto di vista, continua per forza di cose il protagonismo di papa Francesco, in assenza (tranne rare eccezioni) di una élite episcopale mondiale in grado di seguire la traccia segnata dal vescovo di Roma.”
Susanne Batzdorff, raccontando del suo rapporto con Edith Stein, parla del possibile dialogo tra ebrei e cristiani, proprio a partire dalla filosofa. Tratto da Avvenire.
“Vorrei consegnarvi i miei ricordi di zia Edith Stein: l’ho vista l’ultima volta il 12 ottobre 1933, in occasione del suo quarantaduesimo compleanno, che ha scelto di festeggiare a casa, cioè in casa di sua madre a Breslavia. Era la sua ultima visita, e l’ultimo giorno prima di prendere il treno per Colonia per entrare nel convento carmelitano come novizia. Avevo dodici anni. Mi ricordo chiaramente lo stato d’animo che regnava in casa: mia nonna era malinconica e triste. È stato un momento molto difficile per gli ebrei che dimoravano in Germania.
L’Ordine Carmelitano scelto da mia zia era molto severo e tutti noi ci rendevamo conto che, una volta entrata in clausura, non avrebbe più lasciato il monastero. Era una donna molto decisa. Mia nonna aveva 84 anni ed era, al momento, vigorosa e attiva, ancora in grado di lavorare ogni giorno nella falegnameria, ma non era più in grado o disposta a percorrere grandi distanze. Quindi, noi tutti sapevamo che non avrebbe più rivisto sua figlia. Io e mio fratello, 11 e 12 anni, avevamo cercato di comprendere il dramma che attraversava la nostra famiglia. Zia Edith è sempre stata una figura molto importante per noi tutti: ogni estate trascorreva parte della sua vacanza in casa di mia nonna, una grande casa sotto il cui tetto aspettavamo con tanta impazienza il suo arrivo, perché era sempre disposta ad ascoltarci, a prendere sul serio le nostre preoccupazioni. I miei ricordi di zia Edith si intrecciano con i racconti dei miei genitori, che l’avevano conosciuta durante i suoi anni giovanili. Più tardi, quando zia Edith è entrata nell’Ordine Carmelitano, non potendo più venire a farci visita, ha avviato con noi una fitta corrispondenza epistolare. Ricordo in particolare che le sue lettere erano firmate con il suo nome religioso di Benedetta e ci sembrava che ormai si fosse creata una certa distanza tra noi.
Ricordo la sua beatificazione a Colonia nel 1987. Mi sono recata alla cerimonia per il grande amore che ci ha sempre legate: non ha mai dimenticato le sue radici ebraiche tanto da rimanere sempre solidale con il suo popolo; non ha mai cercato di fare proseliti tra i membri della sua famiglia o con gli amici. Quella cerimonia è stata per me un memoriale per Edith e la sorella Rosa. Mi recai alla cerimonia per il mio popolo ebraico, per testimoniare che ci sono ebrei devoti nella famiglia di Edith Stein; che Hitler non poteva distruggere tutti noi e che non poteva fare a meno della vita ebraica. Tali motivi, per me, erano buoni e sufficienti. Le azioni di papa Giovanni Paolo II hanno dimostrato il suo sincero desiderio di rendere sempre più proficuo il dialogo con gli ebrei e con Israele. È riuscito a costruire ponti fino a quel momento inesistenti: nel 1986, ha compiuto il grande gesto di far visita per la prima volta alla grande sinagoga di Roma; nel 1993, ha stabilito relazioni diplomatiche tra il Vaticano e Israele e nel 1994 ha sponsorizzato un concerto in Vaticano, per commemorare la Shoah. Queste azioni e le dichiarazioni sono state accolte con grande riconoscenza in ambito ebraico. In occasione della breve udienza con Giovanni Paolo II, ho avuto il privilegio di presentargli una copia del mio libro da poco pubblicato, Aunt Edith; the Jewish Heritage of a Catholic Saint, scritto per descrivere l’ambiente familiare in cui era cresciuta zia Edith, l’ambiente ebraico e l’eredità che nostra nonna ci ha trasmesso; libro attraverso cui ho cercato di presentare la mia amata zia nel contesto della sua grande famiglia. È scritto interamente dalla prospettiva di una nipote, la cui infanzia è stata illuminata dalla sua presenza radiosa durante le sue visite troppo brevi nella casa paterna.
Un amico anziano, un sacerdote di 90 anni, ha detto che se Edith Stein potesse essere il mezzo per promuovere il dialogo fecondo tra le nostre due religioni, e se quindi si arrivasse ad un rapporto più armonioso, lei realizzerebbe un miracolo più grande di quello per il quale è stata canonizzata. Credo che il miracolo possa essere raggiunto solo da noi, cristiani ed ebrei, parlando tra di noi, lavorando insieme. Edith Stein può essere un catalizzatore, ma è a noi stessi che dobbiamo guardare per lavorare insieme. Cristiani ed Ebrei hanno già percorso una lunga strada verso l’avvicinamento e una migliore comprensione, ma il nostro lavoro non è finito. Dobbiamo avere una mentalità aperta, concedendo gli uni agli altri il diritto di essere diversi.”
In questa domenica di quaresima per i cristiani, posto un articolo per chi è un po’ più addentro la teologia: Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, fa un parallelismo tra le mistiche degli ultimi due pontefici sintetizzandole nella mistica dell’amore. Il suggerimento viene da un amico di facebook che ha consigliato questo articolo de Il Sole 24 ore.
“Il paragone fra le scelte compiute da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI davanti al venir meno delle loro forze fisiche, è stato avanzato da più parti, talvolta soltanto per immaginare una contrapposizione e ipotizzare retroterra inquietanti. In realtà, l’accostamento fra i due Papi, figure dall’evidente diversità e dalla non meno profonda sintonia, può risultare particolarmente fecondo nell’aiutare a comprendere ciò che sta avvenendo al vertice della Chiesa cattolica e il suo possibile significato per il prossimo futuro. La chiave di lettura più adeguata per interpretare il modo di porsi davanti alla malattia, alla sofferenza e alla morte del Papa polacco, è la mistica slava della Croce.
Avendo avuto il singolare privilegio di predicare a Giovanni Paolo II gli ultimi esercizi spirituali cui egli abbia potuto partecipare, ho avuto anche modo di ascoltare dalle sue labbra parole che restano scolpite nella mia memoria e nel cuore: «Il Papa deve soffrire per la Chiesa». Ciò che mi colpì fu l’intensità con cui le diceva, in particolare la forza posta su quel “deve”.
I Vangeli, d’altra parte, testimoniano che davanti alla sua passione Gesù usò parole simili. Si legge in Marco: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto…» (8,31). E nel racconto di Luca il Maestro dice: «Il Figlio dell’uomo deve soffrire…» (9,22). La cristianità slava si riconosce particolarmente in questo destino, connesso alla sequela di Cristo. Essa sa di essere stata generata nel segno della Croce: «Nella comunità dei popoli europei – scrive P. Tomas Spidlik -, gli slavi ricevettero il battesimo come operai dell’ultima ora. Ciò nonostante, il sangue dovette bagnare i nuovi campi seminati dal Vangelo… Perciò i pensatori slavi si sono sempre soffermati a indagare sul vero senso del dolore». Per essi, «la sofferenza è una grande forza, perché santifica non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato e accettano che il “castigo” sani il “delitto”».
Nicolaj Berdiaev non esita ad affermare: «L’intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell’uomo. Soffro, quindi sono». E Boris Pasternak chiude il suo romanzo Il Dottor Zivago con queste parole: «L’anima è triste fino alla morte… Eppure il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa… Ora deve compiersi ciò che fu scritto. Lascia dunque che si compia. Amen». In questa luce, non meraviglia che il Papa slavo comprendesse la sua missione come martirio, e che abbia voluto proclamare dalla cattedra del vissuto ciò che aveva insegnato con la parola e gli scritti: quanto era detto nella sua lettera apostolica Salvifici doloris dell’11 Febbraio 1984 sul senso incomparabile della sofferenza offerta per amore, Giovanni Paolo II lo proclama al mondo con l’eloquenza silenziosa della sua passione, fino a quel gesto muto di dolore, compiuto spontaneamente quando – affacciato alla finestra su una Piazza San Pietro gremita di folla silenziosa – non poté dire più alcuna parola.
Benedetto XVI si muove in un diverso orizzonte culturale e simbolico, quello della mistica occidentale del servizio. Egli è l’uomo che sa di dover dare gratuitamente quanto ha gratuitamente ricevuto. E sa che questo dare senza ritorno è il servizio cui è stato chiamato, tanto come pensatore della fede, quanto come pastore e apostolo, posto dal Signore a lavorare nella Sua vigna, umile operaio impegnato a spendere tutti i doni d’intelligenza e di fede, ricevuti da Dio, a favore della causa di Dio in questo mondo. Anche questo servizio non è che una “imitatio Christi”, un ripresentare con la parola e con la vita Colui che «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Marco 10,45). Gesù stesso si presenta così: «Chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Luca 22,27). Da fine conoscitore dell’opera del mondo, Joseph Ratzinger non ignora quanto questa mistica del servizio sia alternativa alla logica del potere terreno. È quello che afferma Gesù: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (Matteo 20, 25-27).
È servendo che si diventa umili e fedeli lavoratori della vigna del Signore. Scriveva Benedetto XVI nella sua prima enciclica, la Deus caritas est (2005): «Servire rende l’operatore umile. Egli non assume una posizione di superiorità di fronte all’altro… Chi è in condizione di aiutare riconosce che proprio in questo modo viene aiutato anche lui; non è suo merito né titolo di vanto il fatto di poter aiutare… Egli riconosce di agire non in base ad una superiorità o maggior efficienza personale, ma perché il Signore gliene fa dono. A volte l’eccesso del bisogno e i limiti del proprio operare potranno esporlo alla tentazione dello scoraggiamento. Ma proprio allora gli sarà d’aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza» (35). Come mostrano chiaramente queste ultime parole, rinunciare al servizio quando le forze vengono meno è umile riconoscimento dell’imperscrutabile volontà di Dio, espressione delle fede incondizionata nella Sua fedeltà, che si manifesta secondo tempi e modi che non sono quelli della logica del potere di questo mondo.
La mistica della Croce del Papa slavo e quella del servizio del Papa tedesco si rivelano così volti di uno stesso amore: l’amore a Cristo redentore dell’uomo e al Padre che l’ha donato a noi; l’amore alla Chiesa e all’umanità, per il cui bene maggiore si è chiamati a offrire tutto di sé e a servire. È, insomma, la mistica dell’amore che unisce i due Papi, che hanno saputo essere ciascuno se stesso, fedeli alle loro diverse identità spirituali e alle radici culturali di esse. Proprio così si potrà immaginare chi verrà dopo di loro: anche il prossimo Papa sarà chiamato a vivere la mistica dell’amore. Gli si chiederà di offrire se stesso senza riserve e di servire, mettendo a disposizione del popolo di Dio e dell’umanità i doni ricevuti. E forse, anche grazie al segnale lanciato dalla rinuncia del Papa di fronte alla presa di coscienza della propria fragilità, gli si chiederà in modo particolare di esprimere questa mistica dell’amore in una fraternità sempre più grande, affettiva ed effettiva, con coloro che con lui sono incaricati della sollecitudine per tutte le Chiese.
La collegialità episcopale, volto e strumento della carità che si dona e serve, richiamata dallo stesso Benedetto XVI all’inizio del suo pontificato come priorità decisiva, dovrà conoscere gli sviluppi rimasti ancora impliciti in quanto indicato dal Vaticano II. Ciò esigerà un sussulto di amore da parte del prossimo Successore di Pietro, come della Chiesa tutta con lui. L’agenda del prossimo pontificato, sulla base della consegna che lascia in eredità proprio il Papa ritiratosi nel silenzio, sarà segnata da questa priorità. Ed essa andrà perseguita con l’unica forza che la giustifichi e la renda possibile ed efficace: l’amore ricevuto da Cristo, per essere vissuto e donato a tutti, senza misura, dai suoi discepoli.”