Quando il di-battito polarizza

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Sono anni che non seguo un dibattito in tv, da quando si è smesso di portare avanti la forza di un ragionamento, da quando non sono più ammesse le sfumature, da quando è tutto bianco o tutto nero, da quando la dialettica ha perso strada in favore delle grida, da quando la verità ha perso spazio in favore dell’opinione, da quando uno vale uno, cosa alla quale non credo proprio. Ma, mi si dirà, esistono anche dibattiti ben fatti: vero, però sono pochi e non fanno audience. Preferisco seguire approfondimenti giornalistici o interviste a esperti. La diffusa polarizzazione di idee non mi fa sentire a mio agio. Sto scomodo, ad esempio, nella situazione che si sta vivendo in questi giorni dopo l’uccisione di Charlie Kirk nello Utah. E allora mi indirizzo verso letture che cercano di approfondire, di capire un po’ di più, anche staccandosi dalla notizia dell’omicidio, come questa de Il Post, pubblicata venerdì 12 settembre (questo articolo non ha niente a che vedere con le polemiche di questi giorni). Vi si parla di “dibattito”, non tanto inteso come capacità argomentativa, ma con un significato più affine alla derivazione etimologica del termine dal verbo dibattere, che a sua volta è composto dal prefisso “di-” e da “battere”, indicando l’atto di “battere ripetutamente”. 

“Charlie Kirk, l’attivista della destra americana ucciso mercoledì in un attentato nello Utah, era una delle persone non elette più influenti della politica statunitense. Faceva politica senza essere un politico, ma andava molto oltre i contenuti che diffondeva sui social media: usava quell’influenza per organizzare campagne e raccolte fondi, sostenere politici locali e nazionali, costruire relazioni dirette con parlamentari e finanziatori conservatori. Il suo ruolo era per molti aspetti eccezionale perché costruito da giovanissimo e praticamente da zero, e soprattutto nello spazio pubblico che da anni è la sede principale delle “guerre culturali” tra destra e sinistra negli Stati Uniti: i campus universitari.
Nel contesto statunitense, per “guerre culturali” si intendono quei dibattiti conflittuali che non riguardano tanto l’economia o la politica estera, bensì questioni più valoriali e identitarie: l’aborto, i diritti LGBTQ+, le armi, il ruolo della religione nella vita pubblica, i programmi scolastici, il razzismo. Kirk si trovava esattamente in questo contesto, quando è stato ucciso: un dibattito pubblico alla Utah Valley University, primo evento del “The American Comeback Tour”, una serie di incontri che teneva abitualmente nelle università. C’erano circa tremila persone di fronte al gazebo da cui stava parlando, poco prima che qualcuno gli sparasse.
Come ogni altro suo incontro, anche questo era gestito da Turning Point USA, un’associazione non profit di giovani conservatori fondata da Kirk a 18 anni, che riceve decine di milioni di dollari di donazioni, perlopiù da fondazioni, e ha sedi in oltre 850 università americane. In ciascuna organizza periodicamente dei dibattiti in cui sono invitati a parlare politici, oratori conservatori e altri sostenitori del presidente Donald Trump. Kirk aveva parlato giovanissimo già alla convention dei Repubblicani del 2016, ma è soprattutto negli ultimi anni che era diventato una figura potentissima nel partito, capace di raccogliere fondi e di aiutare carriere importanti come quella del vice presidente JD Vance.
La sua capacità di mobilitare migliaia di giovani lo aveva accreditato anche tra gli esponenti più anziani dei Repubblicani, e in occasione delle ultime elezioni aveva aiutato la campagna elettorale negli stati in bilico. Turning Point aveva organizzato a Glendale, in Arizona, l’evento in cui l’ex candidato alle presidenziali e attuale segretario alla Salute Robert Kennedy Jr. aveva annunciato il proprio sostegno a Trump: c’erano circa 20mila persone. Nelle ultime due settimane di campagna elettorale, altre 16mila avevano partecipato a un incontro a Duluth, in Georgia, e 18mila a un altro a Las Vegas, in Nevada, entrambi organizzati da Turning Point. Migliaia di partecipanti, come sempre, erano studenti universitari.
Charlie Kirk insomma aveva mostrato ai Repubblicani che le idee conservatrici potevano far presa anche tra i giovani dei college, che quel mondo per loro non era inaccessibile. E poi c’è il come.
Kirk era uno dei più conosciuti e abili esponenti di uno stile oratorio di grande successo, sia nelle università americane sia sui social media. Durante i suoi dibattiti nei campus, da un gazebo con la scritta Prove me wrong (“dimostrami che sbaglio”), rispondeva alle domande del pubblico con ostentata spavalderia, spesso cercando di umiliare i suoi interlocutori progressisti, più che ragionare con loro. Spezzoni di quegli incontri che circolano sui social media e sono visti da milioni di persone hanno titoli come «45 minuti di Charlie Kirk che zittisce studenti universitari».
Questo tipo di animosità e aggressività verbale è comune sui social media, ma teoricamente meno adatto a un istituto di formazione come le università. Se è stato largamente accolto anche in queste sedi dai giovani conservatori – e da una parte dell’opinione pubblica – è perché da anni la destra e l’estrema destra americana riescono a screditare le università e a rappresentarle come centri di indottrinamento della “cultura woke” e della cancel culture.
L’ostilità verso i progressisti nei dibattiti è percepita da molte persone di destra come un meccanismo legittimo e necessario di difesa e di contrasto a una cultura di sinistra storicamente prevalente nelle università americane. Attraverso i suoi eventi Kirk aveva contribuito a introdurre i discorsi dell’estrema destra in contesti universitari in cui era tradizionalmente prevalente la cultura di sinistra, al punto che in più occasioni gli interventi degli oratori conservatori erano stati cancellati dalle istituzioni universitarie in seguito alle proteste anche violente degli studenti.
Kirk era molto abile a far contraddire gli interlocutori, a porre domande a cui non riuscivano a rispondere, a zittirli con formulazioni a effetto, ma in nessun momento le conversazioni prevedevano una qualche forma di ascolto reciproco e di riconoscimento delle ragioni altrui. Invece di cercare nelle discussioni uno strumento per convincere chi la pensa diversamente, il formato di dibattiti nei campus che Kirk portava in giro premia la sopraffazione e l’annientamento degli avversari, obiettivo inseguito prevalentemente attraverso furbizie dialettiche e più raramente con la sostanza degli argomenti.
È una tendenza strettamente legata alla cultura statunitense dei dibattiti, insegnata fin dalle scuole con corsi e tornei dedicati: tornei ai quali è normale, per esempio, che data una determinata questione divisiva sia scelto casualmente quale squadra debba sostenere la posizione a favore e quale quella contraria. A essere valutata e premiata è insomma la tecnica di argomentazione e la logica dei ragionamenti, a prescindere del merito delle posizioni espresse.
I dibattiti pubblici nei campus, in persona o ripubblicati poi online, sono stati un eccezionale veicolo di diffusione di un approccio al confronto di idee in cui prevalgono quelle più estreme e perentorie. Questo, insieme a molte altre cause, ha contribuito alla polarizzazione dei giovani americani su questioni come la libertà di espressione, l’aborto, l’identità di genere, i diritti delle minoranze o l’invasione israeliana a Gaza. Rispetto a ciascuno di questi temi e di altri, di volta in volta, le università sono state sede di scontri ideologici e spesso anche fisici tra studenti, a cui l’amministrazione di Donald Trump ha reagito attuando politiche repressive e reclamando potere di influenza su programmi di studio e di ricerca, criteri di ammissione degli studenti e altre decisioni.
In questo contesto molto polarizzato la retorica e lo stile di Kirk, come quelli di altri commentatori apprezzati dalla destra americana, da Jordan Peterson a Ben Shapiro, sono diventati un riferimento ammirato da molti studenti e giovani sostenitori del movimento MAGA (Make America Great Again, lo slogan di Trump). In un certo senso, come scrisse a luglio l’Economist, i dibattiti pubblici di Kirk nelle università davano l’impressione di restituire agli intellettuali conservatori una piattaforma a loro sottratta dai progressisti.
Grazie alla sua retorica brillante e alla sua rapidità di ragionamento, Kirk era stato uno degli oratori più abili a trasformare quei dibattiti pubblici in forme di intrattenimento dalle grandi potenzialità virali. A Kirk era ispirato un personaggio della stagione in corso di South Park, protagonista di una sottotrama proprio sui dibattiti nei campus.
Tra le altre cose, Kirk di recente era stato il protagonista del primo episodio di una serie molto popolare di dibattiti su YouTube, intitolata Surrounded (“circondato”) e creata dall’azienda di intrattenimento Jubilee Media. I dibattiti durano circa un’ora e mezza, con un tempo limitato per ogni dialogo tra l’ospite e ciascun suo “avversario”: hanno titoli del tipo «un progressista contro venti conservatori di estrema destra» (è l’episodio con il giornalista Mehdi Hasan).
L’episodio con Kirk, intitolato «25 studenti universitari progressisti possono superare in astuzia un conservatore?», ha più di trentuno milioni di visualizzazioni (oltre trenta milioni le aveva già da prima dell’attentato). Kirk sostiene l’illegalità dell’aborto, per esempio, mentre alcuni suoi interlocutori non riescono a proseguire il dialogo con lui e alla fine lo disprezzano apertamente. «Spero che tua figlia viva una vita molto felice e che riesca a stare lontana da te», dice una di loro.
È un esempio molto chiaro del tipo di dibattito in cui Kirk eccelleva. Come ha scritto di recente il New Yorker a proposito del programma, gli interlocutori più abili sono semplicemente quelli che hanno più esperienza, più abituati a citare dati ed enigmi logici per contraddire le affermazioni dell’avversario il più rapidamente e duramente possibile. «L’obiettivo non è informare o istruire, ascoltare o elaborare, costruire o ragionare, ma vincere, dominare, schiacciare, spaccare il cervello dell’avversario, produrre un argomento di tale devastante perentorietà da poter considerare la questione chiusa, una volta per tutte», ha scritto il New Yorker.”

Gemma n° 2073

“Quando rifletto su una parola che mi possa rappresentare penso alla creatività.
Io sin da piccola sono stata una ragazza che non sta mai ferma o con le mani in mano, che preferisce spendere il suo tempo ad esprimersi … come?
Ho diversi modi per farlo, ma i due che preferisco di più sono ballare e disegnare.
Ho iniziato a ballare danza classica e moderna a 3 anni e non ho mai smesso. Anche sotto la doccia o davanti allo specchio mi piace ascoltare musica senza badare a chi mi sta vicino.
Quando ballo posso definirmi me.
Quando ballo non m’interessa cosa possa accadere in quel momento, io continuerò ad essere me stessa. Di certo non ho paura di sbagliare, perché anche se sbagliassi saprei che quell’errore farebbe parte di me.
Ora mi ritrovo in una situazione in cui non posso utilizzare le punte, ma nonostante questo la mia passione per la danza non è svanita.
Ballare trasmette pensieri e idee senza parole. La creatività di questa disciplina sta nel credere in tutti questi pensieri e idee attraverso il cuore e l’anima.
Questo, di sicuro, è valido per qualsiasi passione che ognuno ha.

Anche il disegno è una passione che porto con me da bambina e non mi sono mai stancata a prendere la penna per sprigionare le mie emozioni. Un aspetto che mi piace di questa attività  è di poter prendere qualsiasi cosa astratta e renderla concreta.
Ogni volta che finisco un disegno sono soddisfatta e felice, perché nella fase d’opera mi diverto a scoprire nuove tecniche e colori (proprio come una bambina).
Credo che la creatività sia il modo migliore per esprimermi, spero di non perderla per strada” (G, classe prima).

Sogni e sognatori

Sogni di viaggi, di velocità, di tecnologie, di invenzioni, di idee geniali… incubi di pressioni, di premura, di superficialità, di menefreghismo, di lavoro allo sfinimento. E di quel sogno luminoso non restano che le ceneri…Ma a morire sono i sognatori, non i sogni. Quelli a bordo dell’R101, un dirigibile britannico schiantatosi e poi incendiatosi su una collina del nord della Francia il 5 ottobre 1930 nel suo volo inaugurale. La sua storia è raccontata in un bellissimo brano dai toni epici nel nuovo album degli Iron Maiden, “The Book of souls”, uscito il 4 settembre. L’ultima traccia è “Empire of the clouds”, il brano più lungo mai scritto dal gruppo britannico, 18 minuti (qui una traduzione).

https://www.youtube.com/watch?v=8CMY99WLRhc

Autoconferme geopolitiche

guerra_libia_2011_820Un interessante articolo di Giovanni Fontana pubblicato ieri su Limes. Si accenna alla Libia, ma l’argomento è più che altro la geopolitica e l’attenzione che si deve porre quando si ragiona su tali temi.
Alla luce della presenza dei seguaci di al-Baghdadi, sbagliammo a intervenire contro Gheddafi? Attenzione a non interpretare i fatti come conferma delle nostre convinzioni.
La presenza dello Stato Islamico in Libia non dimostra che sia stato sbagliato intervenire quattro anni fa. A leggere la stampa italiana di febbraio, oggi dovremmo essere nel pieno di una guerra civile con le milizie dello Stato Islamico (Is) che risalgono l’Italia e minacciano di conquistare la capitale. In realtà, una volta che l’allarmismo di quei giorni si è rivelato inconsistente, la questione ha perso le prime pagine e delle sorti della Libia – tuttora nel pieno degli scontri fra fazioni, ieri l’Is ha rapito venti operatori medici a Sirte mentre il Consiglio Europeo cerca una soluzione diplomatica alla crisi – non ci si preoccupa molto. Probabilmente fino al prossimo proclama di minacce, quando la maggiore preoccupazione della politica italiana tornerà a essere l’ascesa di gruppi affiliati allo Stato Islamico sulla sponda opposta del Mediterraneo. La prospettiva che l’Is stia effettivamente conquistando la Libia è più che discutibile, ma ha già provocato reazioni che è difficile non definire infantili: innanzitutto il provincialismo manifestato dall’occuparsi dei problemi del mondo soltanto quando questi sembrano avvicinarsi a casa.
Inoltre, gli eventi degli ultimi giorni hanno aperto la strada a due grandi filoni di sciacallaggio: il primo è l’allarmismo con cui una parte della stampa parla dello Stato Islamico “alle porte di Roma”, ignorando la quantità di autoproclamazioni. Alcuni account twitter si autoproclamano rappresentanti dei movimenti jihadisti in Libia, i quali si autoproclamano a propria volta rappresentanti dello Stato Islamico nonché capaci di attaccare l’Italia; il secondo tipo di sciacallaggio è quello di chi, oggi, sostiene che questa sia la prova che l’intervento in Libia fosse sbagliato. Dire che ciò che sta accadendo in Libia dimostra che è stato sbagliato intervenire militarmente nel paese è come dire che ciò che accade in Siria dimostra che è stato sbagliato non intervenire militarmente nel paese. In entrambi i casi è una posizione ingenua e ignora il fatto che lo spettro di ciò che si intende per “intervento” è molto fluido e per questo si presta a quello che in psicologia cognitiva si chiama “bias di conferma“, cioè la tendenza a interpretare i fatti del mondo come conferme delle proprie convinzioni.
Da un punto di vista più pragmatico che legale, si può schematizzare un quadro ovviamente più complesso distinguendo vari indirizzi strategici:
si può decidere di intervenire militarmente per conto proprio;
si può decidere di sostenere militarmente l’intervento della parte che si crede migliore;
si può decidere di sostenere politicamente/economicamente la parte che si crede migliore;
si può decidere di non intervenire.
Nel primo caso si procede a una vera e propria invasione militare; nel secondo si appoggiano gli sforzi militari di una parte nel conflitto; nel terzo caso si sovvenziona una parte (o si sanziona l’altra) attraverso il trasferimento di denaro/beni/addestramento/armi; nel quarto caso non si fa nulla di tutto questo. Per semplificare, è possibile provare ad ascrivere ciascuna di queste categorie ad alcuni conflitti recenti: rispettivamente Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011, Ruanda 1994. Da molti punti di vista, come quello della stabilità, ciascuna di queste storie è un gigantesco insuccesso, un fatto che dovrebbe suggerire prudenza nell’affermare che una di queste soluzioni sia buona per tutti i contesti. In realtà, accade l’opposto: ciascuno di questi insuccessi, così diversi fra loro, viene usato per confermare la propria teoria, indipendentemente dal contesto. Ciò avviene spesso con i casi di mezzo, che sono anche i più scivolosi da definire: quand’è che dare aiuti a una parte – o imporre sanzioni alla parte avversa – diventa un coinvolgimento militare? Non è possibile tirare una linea netta, neanche nella natura degli aiuti. Nei fatti, dare o togliere denaro è molto simile a dare o togliere armi: non soltanto i soldi comprano le armi, ma qualunque tipo di aiuto non bellico permette di risparmiare voci di bilancio che possono essere reinvestite in materiale bellico. Per questo si tratta dei casi più discutibili e più soggetti al bias della conferma: se si è convinti dell’ingiustizia di un intervento, si può dire che si è intervenuti troppo; se si è convinti della giustizia di un intervento, si può dire che si è intervenuti troppo poco. Per questo oggi sulla Siria c’è chi dice che il problema sia stato intervenire troppo, dato che la Cia ha armato i ribelli (e parte di queste armi sono finite nelle mani dell’Is), mentre chi ha sviluppato quella strategia – ossia Hillary Clinton – afferma che il “fallimento” degli Stati Uniti sia stato quello di non essere intervenuti in Siria. D’altra parte, c’è chi all’obiezione “siamo intervenuti dalla parte sbagliata” risponde che proprio il rifiuto di intervenire militarmente in prima persona ha costretto a scegliere una parte da sostenere e armare. Ogni argomento ha, intrinsecamente, le radici del suo contrario.
In questo ginepraio di torti e ragioni, dove non sembra esserci una sola via buona per garantire la stabilità di un paese in piena guerra civile, non bisogna perdere di vista un altro piano fondamentale: quello umanitario, della “responsibility to protect“. Se da un punto di vista geopolitico bisogna analizzare attentamente il contesto per identificare quale sia il migliore grado di intervento o non intervento in uno scenario, da quello umanitario non si può prescindere dal dovere di proteggere i civili. Per questo non ci si può dimenticare quale fosse il principale argomento di discussione ai tempi dell’intervento in Libia e del mancato intervento in Siria: la salvaguardia delle vite umane.
La commissione d’inchiesta dell’Alto Commissariato per i diritti umani sui crimini della guerra civile libica parlò di: “violazioni dei diritti umani”, “attacchi ai civili”, “sparizioni forzate”, “torture e maltrattamenti”. L’allora procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, confermò la presenza di: «una precisa politica di stupro degli oppositori del governo». Saif al-Islam Gheddafi annunciò alla tv di Stato che «fiumi di sangue avrebbero inondato la Libia». Il 17 marzo, dopo settimane di violenze, Mu’ammar Gheddafi stava per scatenare il proprio attacco finale alla città di Benghazi, 670 mila abitanti. Nel suo discorso aveva promesso una “resa dei conti”, di “ripulire la città”, di “scovare i ribelli strada per strada”. La sera stessa, dopo settimane di inazione, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò una risoluzione che istituiva una no-fly zone e affermava la necessità di “prendere tutte le misure necessarie […] alla salvaguardia dei civili”. Si può pensare che, da un punto di vista geopolitico, la no-fly zone sia stata un disastro; a maggior ragione si può pensare che sia stato disastroso imbarcarsi in una guerra senza una vera strategia per uscirne; ancora a maggior ragione si può pensare che, oggi, un intervento di terra per sgominare i gruppi che si ispirano all’Is sarebbe ancora più disastroso. Questo, però, non toglie che l’intervento di quattro anni fa sia stato necessario a salvaguardare la vita di migliaia e migliaia di persone che sarebbero state altrimenti trucidate. L’impegno a impedire che questo accada non può che essere il primo cardine di qualunque considerazione geopolitica.

Gli anni

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Era proprio come oggi… A fine gennaio 1998 ho iniziato a insegnare. Nel corso di questi anni ho messo da parte vari scritti, riflessioni, ricerche ripromettendomi, prima o poi, di sfruttarli per una qualche pubblicazione. Tuttavia, ho raggiunto la consapevolezza che sarà molto difficile riuscire a farlo, per cui ho deciso, pian piano di pubblicare quel materiale su questo blog. Non lo raccoglierò sempre in maniera organica, né desidero creare una nuova categoria; cercherò di inserirlo nella struttura già esistente… Il primo post a questo riguardo sarà il prossimo…

Fonti di energia pulite

cascata

Fonti di energia pulita. E’ uno dei temi forti di molti programmi politici. Lo considero un tema forte del mio approccio alla vita. A volte ho bisogno di fonti di energia pulita per la mia anima. Oggi voglio condividerne una.
L’amore mistico per l’umanità non si dispiega per istinto, non deriva da un’idea; non appartiene né al sensibile né al razionale, ma è implicitamente l’uno e l’altro, ed è effettivamente molto di più. Un simile amore è infatti la radice stessa della sensibilità e della ragione, come di tutte le altre cose.” (H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione).

Gemme n° 5

A. con la sua gemma si è decisamente messo in gioco. Prima ha proposto il video di un brano rap dei suoi due rapper preferiti:

Poi ha detto: “Ho portato il rap perché mi piace molto e poi perché da un po’ ho iniziato a scrivere anche io. Vi prego, non ridete”:

https://www.youtube.com/watch?v=9Vc4ZtDh4Ns

Nessuno ha riso. Forse tutti avevano anche fatto proprio il ritornello di LowLow e Mostro: “Finché mi batte il cuore, finché reggono le gambe, scrivo la mia storia col sudore e con il sangue e non puoi più fermarmi ora il mio nome è troppo grande; è il mio stupido sogno, l’unica cosa importante finché avrò questa voce, finché avrò la mia arte sarà sempre MS, voi scusate per il sangue”. Sulla mia stufa c’è questo sassolino, te lo dedico A.:

Sogni