Non mi dispiace l’attesa. Mi spiego: non mi riferisco ad aspettare qualcuno in ritardo o magari all’esito di un esame o di un accertamento. Penso al periodo in cui un desiderio ha il tempo di formarsi, crescere, definirsi: vi si concentrano aspettative, pensieri, emozioni, immagini, fantasie, tutti generalmente positivi. Quando ho un appuntamento, anche semplicemente andare a prendere Sara in stazione, arrivo in anticipo e mi porto sempre dietro un libro. Quel tempo di attesa tra quando spengo il motore dell’auto e l’arrivo del treno non mi dispiace affatto, non lo evito, anzi lo cerco. Diciamo che vivo il tempo dell’attesa in modo proficuo, fertile e non sempre legato al desiderio dell’ottenimento della cosa o della persona aspettata. Ecco perché forse mi trovo a metà tra il concetto di sete del buddhismo e un brano di Charles Juliet che ho letto stamattina. Tra le quattro nobili verità enunciate dal Buddha si ricorda: “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”. Attraverso l’Ottuplice sentiero si deve cercare di arrivare alla soppressione di questa sete “annientando completamente il desiderio, bandirla, reprimerla, liberarsi da essa, distaccarsi”. E’ facile comprendere come la nostra mentalità formata dalla cultura del desiderio (scopo principale di un qualsiasi spot pubblicitario) sia lontana da queste idee. Messe le cose in questa maniera, il discernimento pare abbastanza semplice. Ecco che a complicare le cose arrivano testi come questo estratto di “Dans la lumière des saisons” di Charles Juliet, a cui si fa riferimento a un altro tipo di attesa o desiderio o sete:
“L’attesa. Avete conosciuto, conoscete che cos’è l’attesa? Quell’attesa che per anni non ha smesso di tormentarmi, che m’ha impedito di partecipare, che ha reso vano ciò che avrebbe dovuto farmi sazio. Se sapeste in quale deserto m’ha costretto a vivere. Nulla di ciò che mi si offriva era a misura della mia sete. E di che cosa ero io in attesa? Non avrei saputo dirlo di preciso. Senza dubbio, ero in attesa dell’evento meraviglioso capace d’appagare la sete di ciò che manca ad ogni vita. Ma non c’è alcun evento meraviglioso e io comprendo soltanto ora che non ho da lamentarmene. Ciò che è in grado di rispondere a quella attesa non può venire a noi che dall’istante – quell’istante che è là, prima che muoviamo qualsivoglia nostro passo, e che si offre alla nostra brama. Ma spesso noi lo troviamo troppo grigio, troppo banale e, poiché non ci sembra degno di veicolare ciò di cui desideriamo saziarci, lo oltrepassiamo senza cercare di scoprire ciò che esso cela. Che sbaglio! In ogni momento la vita abbonda, scorre, irriga il quotidiano al quale non sappiamo prestare attenzione. E’ dalla realtà più ordinaria che filtra l’acqua della sorgente. Ma prima di arrivare a comprenderlo, ad ammetterlo, c’è tanto da sfrondare.
L’avidità che tale attesa presupponeva, mi rendevo ben conto che era eccessiva, e ho fatto ricorso a diversi mezzi per tentare di contenerla, ma nessuno ha avuto la ben che minima efficacia. Esistono in noi appetiti, paure, vincoli, angosce… che non siamo in grado di controllare, per quanto grandi siano la lucidità, la determinazione, la conoscenza di noi che mettiamo in opera per dominarli. Il tedio, che nulla riesce a dissipare, è la conseguenza dell’attesa che viviamo fin dall’inizio come immancabilmente delusa. Fin dall’adolescenza ho imparato a leggere su alcuni volti e in alcuni sguardi la forma di tedio in cui si manifesta la sofferenza di una mancanza fondamentale.
L’attesa e la paura. La paura e l’attesa. Non credete che ambedue definiscano, per una grande parte, l’essere umano?”.
Non penso che alla fine i due punti di vista siano così distanti come possono apparire a uno sguardo veloce e posato sulla superficie; in fin dei conti anche il credente buddhista è teso a qualcosa, pur cercando di non fondare questa tensione sul desiderio, sulla brama. Mario Bertin, commentando le parole di Juliet, scrive: “Non un’attesa totalmente passiva. Un’attesa che è tensione versa qualcosa capace di saziare il nostro desiderio. Di appagare la sete di ciò che sentiamo mancarci. Perché non esiste alcun senso predefinito della vita. Il senso della vita, afferma Chaplin in Luci della ribalta, è il desiderio. Quel richiamo ad un oltre sempre inattingibile, che non si spegne mai. Il desiderio traccia la strada – ma te ne accorgi percorrendola – e infonde l’energia per andare verso ciò che l’autore chiama “la sorgente”, cioè verso la propria verità. L’istante è quello che viene immediatamente prima che cominci il nostro cammino. E’ un clic… E’ come un bagliore improvviso, che ci fa intravvedere una strada, da prendere piuttosto che qualsiasi altra strada. Senza ragioni. E’ un lampo nella notte. Soltanto una intuizione… Quasi sempre l’istante si configura in una circostanza banale, quotidiana, che sembra non avere alcun rapporto con il nostro desiderio, con quello che pensiamo sia in grado di saziare la nostra fame. Ma non è così. L’istante è soltanto il momento in cui si dischiude lo spiraglio. Quello che cerchiamo sta oltre la soglia. E non lo vediamo. Non siamo noi ad andare verso l’oggetto del nostro desiderio. D’altronde, il nostro desiderio non ha alcun oggetto. E’ la stessa energia vitale che scorre abbondante e che “irriga il quotidiano” a portarci verso di lui e ad offrircelo in dono. La verità è davanti a noi, “umile, quotidiana, feconda, inesauribile”. Dobbiamo soltanto essere disponibili ad accoglierla. E allora, come d’incanto, tutto si mostra e si chiarisce, il senso di tutto si illumina e si fa evidente. Come in una nuova nascita, si presenta la possibilità di
“suscitare
il me stesso
che dovrà
darmi alla luce”.”
E non penso che alla fine si sia così lontani di quella ricerca del vero sé che sia oltre la propria semplice autopercezione cosciente, cammino al centro delle religioni orientali.
(i testi di Juliet e Bertin sono tratti da “Scuola e formazione” pagg.33-34)
Gemme n° 234
https://www.youtube.com/watch?v=FcPcEzgKv8s
“Questa canzone l’ho sentita la prima volta effettuata dal coro di G., poi, per caso, l’ho ritrovata. Il testo esprime bene le insicurezze di noi adolescenti che spesso ci sentiamo sbagliati, fuori posto, imperfetti rispetto agli amici”. Questa la gemma di G. (classe quinta).
Mi sono venute alla mente le parole di una canzone di Ligabue che mette bene in evidenza questo sentirsi fuori luogo o fuori ritmo. Vien da chiedersi chi sia a fissare il luogo e il ritmo giusti o comunque accettati, chi a dettare le regole, chi a stabilire i principi. “E c’era tanta gente che sembrava lì solo per me, tutti ai blocchi di partenza lo start chi lo dà? E poi il cuore che bruciava e poi correvo come un matto, tutti gli altri eran davanti, cos’è che non va? Brutta storia dico corro corro e resto sempre in fondo sono fuori allenamento oppure è allenato il mondo? Certa gente riesce solo a dire “Sei fuoritempo. Sei fuoritempo, sei come un debito scaduto, sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei quello che ci chiede sempre aiuto”. Fu così che lasciai la gara e resto lì per andare con il passo mio. Stan fischiando, stan fischiando, va bene così. Per di qui per mesi e per chilometri finchè qualcuno dice: “Tu dov’è che stai andando, che siam tutti qui?”. “Io non vado da nessuna parte, io sto andando e basta”. Dicono che se mi beccano mi tagliano la cresta. Certa gente pensa solo a dire “Sei fuoritempo. Sei fuoritempo, arrivi e parti troppo presto, sei fuoritempo, sei fuoritempo”. Vogliamo i suonatori al loro posto, fatti per correre o per rallentare. C’è anche chi ha deciso di camminare al passo che gli pare. “Sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei come un debito scaduto. Sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei quello che ci chiede solo aiuto”.”
Gemme n° 196
https://www.youtube.com/watch?v=FlsBObg-1BQ
“Ho portato questa canzone di Adele per parlare del periodo in cui ero in un’altra scuola, quando la ascoltavo sempre. Ho portato anche una foto e una lettera che mi è stata scritta. E’ molto importante e la leggo sempre”. Non è costata poca fatica a C. (classe terza) leggere quella lettera; non la riporto, ma posso dire che parlava di vicinanza, di fiducia in se stessi, di permettere agli altri di scoprire il tesoro che ciascuno di noi è, anche se a volte nascosto sotto uno strato di sofferenze.
Un breve racconto di Bruno Ferrero:
«“Disse un’ostrica a una vicina: “Ho veramente un gran dolore dentro di me. E’ qualcosa di pesante e di tondo, e sono stremata”.
Rispose l’altra con borioso compiacimento: “Sia lode ai cieli e al mare, io non ho dolori in me. Sto bene e sono sana sia dentro che fuori”.
Passava in quel momento un granchio e udì le due ostriche, e disse a quella che stava bene ed era sana sia dentro che fuori: “Si, tu stai bene e sei sana; ma il dolore che la tua vicina porta dentro di sé è una perla di straordinaria bellezza”.”
E’ la grazia più grande, quella dell’ostrica. Quando le entra dentro un granello di sabbia, una pietruzza che la ferisce, non si mette a piangere, non strepita, non si dispera. Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla: il capolavoro della natura.» (da Quaranta storie nel deserto).
Gemme n° 178
Questa gemma, insieme alla precedente e alle prossime due, sembra formare un poker sullo stesso tema; il bello è che la cosa è assolutamente casuale. F. (classe terza) ha presentato la sua affermando che “questa canzone insegna a combattere senza mai arrendersi, anche nei momenti più difficili della vita, sia per se stessi che per chi si ama”.
Un giorno tornerò sulla canzone che cito qui… ora non mi soffermo. La considero un capolavoro di Vinicio Capossela. La cura, la protezione, la lotta.
“Non dormo, ho gli occhi aperti per te. Guardo fuori e guardo intorno. Com’è gonfia la strada di polvere e vento nel viale del ritorno… Quando arrivi, quando verrai per me guarda l’angolo del cielo dov’è scritto il tuo nome, è scritto nel ferro nel cerchio di un anello… E ancora mi innamora e mi fa sospirare così. Adesso e per quando tornerà l’incanto.
E se mi trovi stanco, e se mi trovi spento, sei meglio già venuto e non ho saputo tenerlo dentro me.
I vecchi già lo sanno il perché, e anche gli alberghi tristi, che il troppo è per poco e non basta ancora ed è una volta sola. E ancora proteggi la grazia del mio cuore adesso e per quando tornerà l’incanto. L’incanto di te… di te vicino a me. Ho sassi nelle scarpe e polvere sul cuore, freddo nel sole e non bastan le parole.
Mi spiace se ho peccato, mi spiace se ho sbagliato. Se non ci sono stato, se non sono tornato. Ma ancora proteggi la grazia del mio cuore, adesso e per quando tornerà il tempo… Il tempo per partire, il tempo di restare, il tempo di lasciare, il tempo di abbracciare.
In ricchezza e in fortuna, in pena e in povertà, nella gioia e nel clamore, nel lutto e nel dolore, nel freddo e nel sole, nel sonno e nell’amore.
Ovunque proteggi la grazia del mio cuore. Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore. Ovunque proteggi, proteggimi nel male. Ovunque proteggi la grazie del tuo cuore.”
Gemme n° 163
“Ho creato questo video per due ragioni: la prima è che si tratta della sigla finale dell’anime che mi ha cambiato la vita; la seconda è che si accenna a una situazione simile alla mia e a una forza che non penso riuscirò mai ad avere”. Questa la gemma di S. (classe terza).
Mi soffermo sulla parte finale del testo: il cammino è fatto in solitudine, lo si ribadisce più volte, ma mi ha colpito la frase “mi stavano tutti aspettando”. Mi è venuta in mente una canzone che appartiene a tutt’altro genere e che appoggio qui come augurio e auspicio. In “Fuoritempo” Ligabue canta:
“C’era tanta gente che sembrava lì solo per me, tutti ai blocchi di partenza lo start chi lo dà? E poi… il cuore che bruciava e poi correvo come un matto, tutti gli altri eran davanti, cos’è che non va? Brutta storia dico corro corro e resto sempre in fondo, sono fuori allenamento oppure è allenato il mondo? Certa gente… riesce solo a dire… Sei fuoritempo, sei fuoritempo, sei come un debito scaduto, sei fuoritempo, sei quello che ci chiede sempre aiuto. Fu così che lasciai la gara e resto lì per andare con il passo mio: stan fischiando… stan fischiando va bene così. Per di qui per mesi e per chilometri finché qualcuno dice: “Tu dov’è che stai andando, che siam tutti qui?”. Io non vado da nessuna parte, io sto andando e basta, dicono che se mi beccano mi tagliano la cresta. Certa gente… pensa solo a dire… Sei fuoritempo, sei fuoritempo arrivi e parti troppo presto… fatti per correre … o per rallentare… C’è anche chi ha deciso di camminare al passo che gli pare”.
Gemme n° 162
Ha fatto fatica C. (classe seconda) a presentare la propria gemma: “Non nascondo che in questo video non manchino le parolacce, ma la sua forza è più grande. Poco prima di vederlo (qualche giorno fa) mi era successa una cosa di cui non avevo parlato con nessuno. Poi ne ho parlato con mia madre che mi ha invitato a stringere i denti. Proprio per questo e per quello che viene detto alla fine del video ho deciso di mostrarlo”.
Alberto Pellai afferma: “In ogni storia di bullismo non c’è mai un vincitore e nemmeno un vinto: c’è solo un soggetto debole che se la prende con uno ancora più debole e approfitta dell’incompetenza e dell’analfabetismo emotivo che domina l’ambiente in cui entrambi vivono e si muovono per affermare un potere fittizio, fatto di degrado, umiliazione, solitudine e omertà”. Voglia essere questo un modo per dare voce, per non far finta di niente. Succede spesso di respirare aria pesante, fatta di sguardi cattivi, battute ciniche e cattive che si ammantano di realismo, sincerità e libertà di pensiero ed espressione: “Ti dico in faccia quello che penso”. No, non è necessario, e neppure opportuno: non solo che tu lo dica, ma anche che solo lo pensi.
Gemme n° 155
“Ho trovato questo video per caso… stavo cercando altro… ma mi ha molto colpita: accettarsi alla nostra età è difficile, siamo continuamente giudicati da altri, da riviste. Se potessimo modificarci saremmo forse tutti uguali. E’ importante accettarsi per quello che si è, tanto si viene comunque giudicati e comunque chi giudica non è perfetto. Perché farmi giudicare da chi avrà sempre qualcosa da dire su di me?”. Così E. (classe quarta) ha presentato la sua gemma.
Una delle ultime canzoni di Marco Mengoni gira molto in radio in questi giorni. Non mi piace molto perché la trovo eccessivamente ripetitiva, ma il testo lo trovo molto calzante:
“Oggi la gente ti giudica, per quale immagine hai.
Vede soltanto le maschere, non sa nemmeno chi sei.
Devi mostrarti invincibile, collezionare trofei.
Ma quando piangi in silenzio, scopri davvero chi sei.
[…] Ma che splendore che sei, nella tua fragilità”.
Inoltre, aggiungo anche un’altra cosa: amo fotografare. Una delle cose che mi piace immortalare è il primo piano delle persone, anzi il primissimo piano, se non addirittura un particolare del volto. Quando lo faccio mi accorgo di quanto bello sia. Più mi avvicino, più aumenta la bellezza. Potessi entrare nel cuore, ne sarei travolto.
Gemme n° 133
Un video che ha lasciato senza parole quello di Pro Infirmis che ha mostrato V. (classe quarta): “L’ho scelto perché quando l’ho visto mi ha colpita, sono rimasta di stucco. Ritengo che nessuno sia perfetto, ognuno coi suoi problemi è speciale e perfetto a modo suo”. Trovo che la vignetta che pubblico qui sotto accompagni molto bene le parole di V.
Gemme n° 132
“Come gemma ho portato il libro «Il blu è un colore caldo». Mi ha colpito molto perché leggendolo si impara a fregarsene di quel che dice la gente, senza cercare di compiacere la società perché la società siamo noi. Tuttavia la frase che ho deciso di leggere ai miei compagni non riguarda questo ma l’amore: «Emma una volta mi ha chiesti se credevo esistesse l’amore eterno. L’amore è qualcosa di astratto e indefinibile. Dipenda da noi, siamo noi a percepirlo e viverlo. Se non esistessimo, non esisterebbe. E noi siamo così mutevoli. Quindi non può che esserlo anche l’amore. L’amore si accende, muore, si spezza, ci spezza, si ravviva, ci ravviva. Forse l’amore non è eterno ma ci rende eterni».”
Eccola qui la gemma di L. (classe seconda). A commento una frase di E.M. Forster: “Non è possibile amarsi e separarsi. Si vorrebbe che fosse possibile. Si può trasformare l’amore, ignorarlo, sprecarlo, ma non si può estirparlo dall’anima. Lo so per esperienza che i poeti hanno ragione: l’amore è eterno.”
Personalità empirica
PERSONALITA’ EMPIRICA (Franco Battiato, Ferro battuto)
Il faut abandonner la personalitè pour retrouver votre “je”
Changer dame cheval et chevalier
Changer d’habit baton et penseé
(retiens la nuit pour nous deux jusqu’à la fin du monde).
Quando non coincide più l’immagine che hai di te
Con quello che realmente sei
E cominci a detestare i processi meccanici e i tuoi comportamenti
E poi le pene che sorpassano la gioia di vivere
Coi dispiaceri che ci porta l’esistente
Ti viene voglia di cercare spazi sconosciuti
Per allenare la tua mente a nuovi stati di coscienza
Quand l’image que tu as de toi ne coincide plus avec ce que tu es réellement
Quand tu commences à hair les automatismes de ta facon d’agir
Et quand les chagrins prennent le pas sur la joie de vivre,
Avec les peines que nous apportent l’existence,
Et t vas chercher des espaces inconnus,
Pour une nouvelle conscience.
Sono poco numerosi i versi di questa canzone di Franco Battiato. Si parte dalla constatazione di quanto sia difficile essere se stessi, conoscersi a fondo. Capita spesso di conoscere dei nuovi aspetti di se stessi, magari delle reazioni che pensavamo impossibili per noi. Dice Pavese: “…Piace di tanto in tanto avere un otre in cui versarvi e poi bervi se stessi: dato che dagli altri chiediamo ciò che abbiamo già in noi. Mistero perché non ci basti scrutare e bere in noi e ci occorra “riavere” noi dagli altri…”
Inoltre, essere se stessi e quello che pensiamo di essere sono la stessa cosa? IO SONO COLUI CHE SONO…
Nell’induismo il principio del mio essere e’ in me, ma non coincide con l’autocoscienza. E’ qualcosa che io sono profondamente, ma non so di essere. Il mio io è la superficie del mio sé: al fondo c’è il mio vero me stesso. Il respiro (atman) diventa indice della presenza in me di una personalità profonda che è vero principio del mio essere (si noti la similitudine con l’anima e con lo spirito che soffia: si dice anche “ha esalato l’ultimo respiro”. Gianna Nannini in Sei nell’anima conclude dicendo “Siamo carne e fiato”).
Battiato parte da una situazione negativa in cui il mio essere vero e l’immagine di me non coincidono. A ciò si aggiungono:
• detestare i processi meccanici (forse perché essi fanno pensare a qualcosa di preordinato e fissato, all’impossibilità dell’imponderabile?)
• detestare i propri comportamenti (forse perché lontani dal vero essere?)
• dispiaceri, pene sono superiori alla gioia di vivere (è un po’ la prima nobile verità del buddhismo…)
Insomma, la situazione non è delle migliori…
Da qui parte la spinta per cercare spazi nuovi e sconosciuti: ma il via viene dal dolore, dalla disillusione per la vita, certo non dalla meraviglia per il creato… E questi spazi nuovi e sconosciuti a cosa servono? La meta della ricerca è raggiungere con la mente nuovi stati di coscienza. Ora sarebbe da discutere cosa si intenda per coscienza e per stati di coscienza… Certo sembra di essere lontani da quel “dall’altra parte del cervello” di Cristicchi: la ricerca qui pare molto più razionale, per quanto, magari, un’espansione del razionale… D’altronde la canzone si intitola “Personalità empirica”, per cui si fa esplicito riferimento a qualcosa che deve essere esperito e non solo teorizzato. Alla fine della ricerca forse si potrebbe arrivare anche alla meta auspicata alla fine della canzone “Prospettiva Nevski”: “e il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire” (il maestro in questione potrebbe essere Gurdjieff).
Gemme n° 100
Il commento di C. (classe quinta) al filmato scelto come gemma è stato molto sintetico e “raffreddato”. “Questo film mi è molto piaciuto e soprattutto questa sequenza: dobbiamo inseguire quello a cui teniamo e che desideriamo”.
A commento e a ulteriore stimolo di riflessione, una scena di Coach Carter:
Gemme n° 90
Oggi M. (classe seconda) ci ha fatto conoscere Antonio Distefano e il suo libro “Fuori piove, dentro pure, passo a prenderti?”. “Questo autore è riuscito ad avere un contratto con una casa editrice, e ieri gli è stato affiancato un manager per curare la sua persona. Lui ha creduto nel suo sogno e si sta battendo per i diritti delle persone di colore. Nel video dice che non si sente italiano, ora invece di sì: si sente sia italiano che africano, pur non essendo mai stato in Africa”.
Riporto, a commento, una favola giapponese presa dalla rete:
“Durante una spaventosa notte di temporale, una piccola capretta bianca ed un lupo nero cercano rifugio in una capanna abbandonata, sul pendio di una collina.
A causa dell’oscurità totale, dell’infuriare del temporale e dello scrosciare della pioggia, i due non si rendono conto di chi sia il proprio compagno di sventura: il lupo non si accorge che il suo compagno è una succulenta capra, mentre questa non capisce che, vicino a lei, c’è il suo atavico nemico, un lupo goloso di carne di capra!
Grazie a questo equivoco, il lupo e la capra iniziano una lunga conversazione, che li porta a scoprire di avere molte cose in comune: l’amore per le verdi colline e per il buon cibo, ma soprattutto la gran paura del temporale!
I due entrano in gran confidenza, raccontandosi della loro infanzia ed incoraggiandosi a vicenda in questa situazione difficile. L’amicizia tra loro è ormai dichiarata, tanto che, prima dell’alba, quando ormai i tuoni e la pioggia sono svaniti, il lupo e la capra si danno appuntamento per il giorno successivo, alla luce del sole…
Il finale è aperto: cosa succederà l’indomani, quando i due personaggi s’incontreranno faccia a faccia?”
Gemme n° 63
E’ un video quello proposto da M. (classe quarta): “Penso siano parole e immagini importanti per chi attraversa l’adolescenza e si trova ad affrontare problemi di scuola, amore e amicizia”.
Le parole che mi vengono in mente alla fine di questo filmato sono esattamente quelle di Sergio Barbarén della gemma 61 🙂
Gemme n° 60
“Preferisco mostrare prima il video e poi commentarlo” ha detto V. (classe quinta).
“La questione expò non è importante per quello che voglio dire. Semplicemente mi sono immedesimata nel video: rispecchia la mia visione attuale del cibo, dopo un problema che mi ha fatto detestare il cibo. All’inizio, per me, il cibo era solo un mezzo di sostentamento, poi però è diventato problema che mi impediva di fare feste e stare con gli amici. Nel video si dice esattamente il contrario: il cibo è festa, condivisione, vita! E’ così che lo percepisco oggi!”
Mi sono venute in mente le parole di Tiziano Ferro nella canzone “Mai nata”:
“In quel frigo…si freddano le lacrime, in dispensa…rinchiudi le tue ansie e poi, sotto il letto…nascondi la tua polvere, poi non dormi…ti chiudi e rifletti. E’ la vita che unita al dolore si ciba di te e della tua strada sbagliata; e continui a pensare, placando il tormento, che bello se non fossi mai nata.
Salpa salpa salpa, il raziocinio toglie l’ancora. Da una cerebrale come te nessuno se lo aspetta, parli parli parli, sei un vulcano inarrestabile, treno più che rapido, efficiente poco timida.
Ma ti hanno detto mai che devi amarti un po’, puoi rallentare e poi pensare un po’ più a te. Che sicurezza mostri se i casini sai risolvere ma i problemi tuoi non li affronti proprio mai.”
Nelle ultime parole la luce alla fine del tunnel: “E la smetti? Rilassati! Forza reagisci sei te che condizioni la tua strada. E, su, prova a pensare che bello sarebbe se invece amassi di più la tua vita”.
Gemme n° 55
I Coldplay sono stati portati in classe da M. (classe terza). “Siamo adolescenti, ci stiamo affacciando all’essere adulti e le sofferenze iniziano: ci sono momenti in cui ci sentiamo giù. Questa canzone l’ho sentita moltissimo e ogni volta che sono giù è l’unica canzone in grado di tirarmi su. Il titolo sembra non c’entrare nulla col testo, sembra allegorico. Mentre la ascoltiamo, proviamo a pensare a qualcuno o a qualcosa che ci faccia dire “viva la vita”. Viviamo di queste cose, di questi ricordi.”
Parto da lontano per arrivare a una canzone che mi fa dire “viva la vita”. C’è un personaggio biblico che deve affrontare un viaggio nella profonda solitudine esistenziale, una di quelle che fanno più male, perché è la condizione dell’abbandonato, o meglio, di colui che è divenuto merce di scambio: e la cosa che crea più dolore è che il commercio è stato organizzato da chi dovrebbe esserti più vicino, in quanto legato a te dal sangue. Mi sto riferendo a Giuseppe, il figlio di Giacobbe, venduto a dei mercanti ismaeliti dai suoi fratelli.
C’è una canzone dello svedese Avicii che nelle prime due strofe si adatta bene alla condizione di Giuseppe. Il brano è “Wake me up” (2013) e le parole sono: “Sento la mia strada nell’oscurità, guidato da un cuore che batte, non so dove il viaggio si concluderà ma so da dove iniziare”. E continua con quello che voglio leggere come un accenno alle invidie e gelosie dei fratelli di Giuseppe nei confronti della benevolenza del padre verso il figlio di Rachele e la sua capacità di sognare e interpretare i sogni: “Hey! Loro mi dicono che sono troppo giovane per capire, dicono che sono rinchiuso in un sogno. La mia vita mi passa davanti se non apro gli occhi, a me va bene così”.
Ascoltare i sogni delle persone e con essi leggere il futuro: questo dono, che poi diventa l’ancora di salvezza per Giuseppe, all’inizio è un regalo scomodo. Ho già scritto che è uno dei motivi di odio dei fratelli; immagino anche che non sia stato facile per lui riferire al capo dei panettieri del faraone la sua triste sorte. Dai tre canestri di pane bianco che tiene sulla testa e che vengono divorati dagli uccelli, Giuseppe deduce, di lì a tre giorni, l’impiccagione dell’uomo e la lacerazione delle sue carni da parte dei volatili… Provo a vestire gli abiti di Giuseppe e penso che non è facile, che vien voglia di non dormire più per evitare quei sogni, che vorrei non dover chiudere gli occhi quando viene sera, che desidererei restituire gentilmente quel dono (un po’ come i precog del film “Minority report” che abbiamo visto in classe). Ma sento anche che se questo è il Suo disegno un motivo deve esserci, e che forse anche io, prima o poi, scoprirò il senso di questo essere qui in Egitto, lontano da mio padre e mia madre, forse anche io capirò il significato del mio viaggio, forse anche io saprò chi sono. Ancora Avicii: “Svegliami quando sarà tutto finito, quando sarò saggio e vecchio… Vorrei rimanere giovane per sempre, non temo di chiudere i miei occhi. La vita è un gioco fatto per tutti e l’amore è il premio. Per tutto questo tempo stavo trovando me stesso e non sapevo che mi ero perso”.
Gemme n° 45
La gemma proposta da S. (classe seconda) è composta da quattro citazioni. La prima è di Giordano Bruno: “Un’unica Forza, l’Amore, lega e dà vita a infiniti mondi”, l’amore come forza vitale e creatrice, capace di essere sostegno unico e indispensabile. La seconda è Di Jimi Hendrix: “La pazzia è come il paradiso. Quando arrivi al punto in cui non te ne frega più niente di quello che gli altri possono dire..sei vicino al cielo”. Ha detto S.:”Questa frase per me è significativa perché mi è capitato di essere esclusa e giudicata per il mio modo di essere. Ne sono uscita fortificata quando ho imparato a non badare al giudizio degli altri”. La terza frase è di Cicerone: “Finché c’è vita, c’è speranza”. S. ha valutato la speranza come uno dei valori fondamentali per lei. Infine una frase “con la quale voglio sottolineare l’importanza dell’amicizia e del riuscire a intendersi con uno sguardo, un cenno”. E’ una frase di Gandhi: “Se urli tutti ti sentono, se bisbigli ti sente solo chi ti sta vicino, ma se stai in silenzio solo chi ti ama ti ascolta..”.
Mi soffermo sulla seconda frase, quella di Jimi Hendrix, restando in ambito musicale e proponendo una vecchia canzone di Vasco Rossi. “Jenny non vuol più parlare, non vuol più giocare, vorrebbe soltanto dormire. Jenny non vuol più capire, sbadiglia soltanto, non vuol più nemmeno mangiare. Jenny è stanca, Jenny vuole dormire. Jenny ha lasciato la gente a guardarsi stupita, a cercar di capire le cose. Jenny non sente più niente, non sente le voci che il vento le porta. Jenny è stanca, Jenny vuole dormire. Jenny non può più restare, portatela via, rovina il morale alla gente. Jenny sta bene, è lontano… la curano, forse potrà anche guarire un giorno. Jenny è pazza, c’è chi dice anche questo. Jenny ha pagato per tutti, ha pagato per noi che restiamo a guardarla ora. Jenny è soltanto un ricordo, qualcosa di amaro da spingere giù in fondo. Jenny è stanca, Jenny vuole dormire.” E nel ritornello la voce di chi la conosce davvero: “Io che l’ho vista piangere di gioia e ridere, che più di lei la vita credo mai nessuno amò. Io non vi credo, lasciatela stare, voi non potete!”.
Gemme n° 38
https://www.youtube.com/watch?v=eGqBM_r932s
“Ho portato come gemma la versione unplugged di Come as you are dei Nirvana. E’ il mio pezzo preferito, anche se un po’ malinconico e anche se il testo è un po confuso. Mi piace il concetto di essere quello che si è”. Questa è stata la presentazione di J. (classe terza). In effetti, bisogna ammettere che i testi dei Nirvana non sono sempre lineari e di immediata comprensione; lo stesso Kurt Cobain non spiegava sempre i testi delle canzoni, lasciando l’interpretazione agli ascoltatori. E sono testi che a volte entrano proprio in contraddizione: prendiamo l’abbrivio di questo. “Vieni come sei, come eri… Come voglio che tu sia… Prenditi tutto il tempo, fai in fretta”. C’è di che impazzire a capire quale sia la cosa giusta da fare. Ma forse è proprio in questo il senso: mostrati per quello che sei, senza curarti di cercare di essere qualcuno per gli altri.
Gemme n° 21
La gemma di oggi ha bisogno di un po’ di introduzione: M. (classe quinta) ha infatti proposto un breve dialogo in inglese tratto da una serie tv statunitense. In alcuni passi le parole sono forti. Piper Chapman è una giovane donna condannata a quindici mesi di carcere per trasporto di droga. Deve lasciare la casa che condivide con il suo promesso sposo Larry per entrare nella prigione federale. Nel decimo episodio della prima serie, le prigioniere hanno il compito di spaventare un gruppo di giovani delinquenti in visita alla prigione, ma hanno difficoltà a spaventare Dina, una ragazza sulla sedia a rotelle. Piper ci riesce con una frase: “le altre persone non sono la parte spaventosa della prigione Dina. È il faccia a faccia con chi davvero sei”. Piper ha paura di non essere se stessa in prigione e ha paura di esserlo.
“Ci sono delle situazioni” ha concluso M. “in cui è importante sapere chi si è fino in fondo e non è così facile farlo e ammetterlo”. Mi sono venute in mente le mie “prigioni”, i miei momenti in cui ho dovuto, per forza di cose, confrontarmi con me stesso, guardandomi veramente in faccia cercando di dare un nome a ciò che vedevo. Non è sempre facile, soprattutto se la ricerca è sincera, ma costituisce uno dei passaggi necessari: pena la finzione.
Gemme n° 13
A. (classe seconda): “Questa canzone l’ho ascoltata praticamente ogni giorno durante l’ultimo anno. Penso che ognuno tema un po’ nel dire agli altri quello che pensa per la paura di essere giudicato. Ecco, secondo me, ciò che emerge da questo brano dei Tre Allegri Ragazzi Morti è che quanto abbiamo dentro sono semplicemente le nostre caratteristiche e non dei difetti da nascondere.” Ecco il video di “La via di casa”:
Riporto alcune delle parole che più mi hanno colpito:
“Dimmi che cos’è che fa la vita storta, che ti fa camminare sul lato sbagliato della via di casa; dimmi che cos’è che ti fa differente […] che cos’è per essere come sono, per fare quello che faccio, per dire quello che dico, non chiederò perdono”.
Concludo con una citazione di Oscar Wilde: “Nessuno può essere libero se costretto ad essere simile agli altri”.
Musulmani d’Italia
Ho trovato questo interessante articolo di Francesca Bellino su Reset: l’argomento è quello degli italiani convertitisi all’Islam.
“Quando si convertono scelgono un nome della tradizione musulmana e lo aggiungono al proprio, ma lo usano soprattutto con “i fratelli e le sorelle di fede”. Da parenti, amici e colleghi d’ufficio continuano a farsi chiamare con il nome della nascita. Sono italiani che hanno scelto l’Islam in età adulta e, per completare il loro ampliamento d’identità, hanno aggiunto anche un nome al loro percorso (se pur la richiesta non sia obbligatoria).
Aver fatto shahada (testimonianza di fede verso Dio e il profeta Muhammad) per la maggior parte di loro è una scelta intima, da non condividere con tutti. Di questi tempi poi, meglio tenere nascosto il proprio credo e quel nome straniero, portatore di fobie, paure e pregiudizi in aumento dopo la nascita dello stato islamico in Iraq e le notizie del reclutamento di jihadisti in Europa e anche in Italia.
Il convertito italiano è, dunque, una figura spesso invisibile, poco conosciuta, incompresa o dipinta dai mass media con un’unica sfumatura, quella violenta ed estremista, usata per parlare di terroristi, tagliagola e indottrinatori. Le molteplici differenze presenti nella religione islamica si riflettono anche nella galassia dei convertiti d’Italia, che è in grande trasformazione rispetto al passato. Ci sono i praticanti e i non praticanti, quelli che seguono le confraternite africane, chi ha “avuto la chiamata”, chi si è convertito per sposarsi, chi per “sfuggire alle contraddizioni della Chiesa” e chi perché ha sentito un bisogno di spiritualità.
“Se trenta anni fa erano gli intellettuali e i pensatori a diventare musulmani, oggi si convertono all’Islam soprattutto persone che vivono nelle periferie, spesso ignoranti ed emarginate. Oggi il fenomeno della conversione nasce dal disagio e dall’esclusione sociale, non più da una ricerca spirituale raffinata. In questa fase assistiamo, inoltre, a un gran ridimensionamento delle conversioni rispetto al passato” spiega Gianpiero Ahmad Vincenzo, sociologo e scrittore napoletano, docente all’Università di Catania, convertito nel 1990.
Il numero dei convertiti in Italia è impreciso perché non esiste un albo. “Non tutti frequentano la comunità religiosa in moschee o centri di culto, dunque non tutti si dichiarano o si registrano”, sottolinea Alessandro Ahmad Paolantoni, segretario nazionale dell’UCOII (Unione delle comunità islamiche d’Italia), convertito dal 2001. “Si può dire che i musulmani italiani siano 40/50 mila, ma è un dato parziale. Tra questi purtroppo ci sono anche tante cattive conversioni: persone che cercano nell’Islam la risoluzione di problemi personali e non la spiritualità. Persone con percorsi accidentati che provano a salvarsi con l’Islam, senza arrivare ai casi estremi di chi decide di partire per il jihad. In quel caso parliamo di eccezioni. Gente indottrinata attraverso il web, con un percorso solitario, “fai da te”, senza alcun contatto con gli imam. Il lavoro dell’UCOII al momento è concentrato molto sulla formazione degli imam sui territori, oltre che sul cercare di accelerare l’intesa con lo Stato che finora non è stata possibile per motivi politici e pratici”.
Alessandro è approdato all’Islam attraverso i libri. Aveva 33 anni e non praticava alcuna religione. Aveva lavorato prima nella tabaccheria dei genitori, poi nel campo delle decorazioni d’interni. Curioso, seguiva la geopolitica, e tra una lettura e l’altra si è imbattuto nell’Islam e ne ha subito apprezzato il concetto di responsabilità individuale, l’assenza di intermediario tra Dio e il credente e il prendere in considerazione tutti i profeti e le rivelazioni precedenti all’arrivo di Muhammad. “Non ho mai sentito di tradire o abbandonare qualcosa – dice – ma solo di aggiungere. Con naturalezza e normalità”.
Stessa sensazione che ha avuto Carlo Ahmed, 27 anni, romano, impiegato, convertito nel 2008 dopo essere stato “affascinato dalla disciplina che c’è nell’Islam”. “Sono sempre stato un appassionato di viaggi e culture – racconta – così un giorno acquistai una copia del Corano. All’epoca frequentavo la facoltà di economia all’università e venivo da un percorso scolastico salesiano. Più leggevo e più scoprivo che Islam, Ebraismo e Cattolicesimo hanno tante cose in comune. Appartengono tutte allo stesso ceppo, ma l’Islam mi è sembrata subito la religione più completa. La mia famiglia all’inizio ha avuto alcune perplessità, poi ha capito che, anche se musulmano, rimanevo la stessa persona di prima. Purtroppo c’è disinformazione che confonde le persone. Quello di cui si parla in giro non è l’Islam”.
“I musulmani non sono tutti jihadisti” tengono a precisare i convertiti italiani che, nella maggior parte dei casi, hanno trovato nell’Islam un senso di completezza e di semplicità. “Mi è sembrata subito una religione immediata ed elementare. Per me è stato un passaggio indolore. Più difficile è stato far capire alla famiglia che non stavo per diventare terrorista” spiega Enrico Karim, 53 anni, ingegnere di Catania, musulmano da 2 anni, noto come “il generoso”. “Convertendomi ho completato il puzzle della mia vita. Ho aggiunto il pezzo mancante che stavo cercando da tempo” racconta Catia Aysha, 57 anni di Modena, madre di 4 figli oggi residente in provincia di Viterbo con il marito palestinese. “Sono sempre stata dubitativa verso la religione cattolica”, spiega. “A scuola facevo molte domande all’insegnante e lei mi rispondeva sempre che “la fede è un mistero e bisogna avere l’umiltà di credere”. Questa risposta non mi convinceva così ho cominciato a seguire le adunate dei testimoni di Geova che non credono nella trinità, ma mi rimanevano sempre dubbi, spesso mi sentivo presa in giro. Quando ho scoperto l’Islam, invece, ha sentito che il discorso filava soprattutto nel punto in cui Gesù non è figlio di Dio, ma un profeta come gli altri. Sono passati quasi 40 anni dal giuramento, in quel momento ho sentito di andare avanti, di evolvermi, senza rinnegare nulla”.
Incontro Catia alla moschea al-Huda di Centocelle a Roma dove il sabato pomeriggio molti italiani interessati alla conversione o già convertiti si riuniscono per confrontarsi con l’imam. Nel gruppo ci sono molte donne, tutte con il velo, tra cui anche alcune convertite da poco come Roberta Aysha, 47 anni, romana, musulmana da 8 mesi. “Non sopportavo più le contraddizioni della Chiesa cattolica, soprattutto dopo aver avuto l’annullamento del matrimonio alla sacra rota – racconta – E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non riuscivo a capire com’è possibile che la Chiesa non accetti il divorzio, mentre lascia che ci si butti fango addosso incolpandosi durante gli annullamenti. Così, dopo un viaggio in Turchia, ho sentito il richiamo dell’Islam”.
Giancarlo Mohammed, 64 anni, romano, divorziato, convertito e oggi sposato con una donna marocchina, anche lui pieno rancori verso la Chiesa cattolica, sintetizza il fenomeno dicendo: “Un tempo si andava verso l’anticlericalismo, oggi si va verso l’Islam”.
Diversa è la storia di Lauretta Amina Decaro, 45 anni, ex dipendente di banca, atea, romana, riceve in regalo una copia del Corano da un amico del marito, lo legge durante un lungo periodo di malattia a letto e ne rimane colpita, poi fa un viaggio in Egitto, conosce il suo futuro marito, divorzia dal precedente e dal 2004, dopo un sogno per lei significativo, si converte. Più immediata, invece, la conversione di Anna Fatma, 38 anni, pugliese, sposata con un egiziano. Quando conosce il suo attuale marito e scopre l’Islam, fa subito shahada (2 anni fa). “Non sapevo di essere musulmana” esclama soddisfatta e oggi che ha addirittura scelto di mettere sulla tessera dell’autobus una sua foto con il velo, così come Catia Aysha l’ha scelta per la carta d’identità. “Ora siamo libere di scegliere una foto con velo per i nostri documenti, così come le suore e i sikh, e allora perché non farlo!”.
Non ha ancora scelto un nome musulmano da aggiungere a quello di battesimo, invece, Antonio, 49 anni, palermitano, residente a Londra dove ha fatto il giuramento 2 anni fa. “Da quando mi sono convertito sono diventato più allegro, più sociale, più umano e mi sento più vicino alla gente, disposto ad aiutare chi ha bisogno” tiene a sottolineare, così come Sokhana Diarra Daniela, 30 anni, di Carbonia in provincia di Cagliari, dice che da quando è musulmana (da 4 anni) ha “trovato la pace”. Il suo incontro è stato con la confraternita di Mouridyia che nasce in Senegal e “si basa sui 5 pilastri dell’Islam, sulla umma e sul lavoro”. “Vengo da una famiglia atea, mi sono sempre sentita libera di scegliere qualcosa di diverso da quello che mi è stato inculcato e sono felice di aver scelto l’Islam. Mi sono convertita prima di incontrare mio marito che è senegalese. L’unica cosa che non accetto è la poligamia. Con mio marito abbiamo messo le cose in chiaro ma in Sardegna conosco molte occidentali che accettano di essere seconde mogli. Non posso che rispettare la loro scelta”.
Anche Donatella Amina, 54 anni, assistente amministrativo al Ministero della Salute, si è sentita libera di scegliere e di cambiare strada, dalla militanza nella sinistra rivoluzionaria all’Islam. “Negli anni 80 frequentavo la facoltà di sociologia alla Sapienza a Roma, non accettavo le ingiustizie sociali e avevo molti dubbi sulla religione cattolica – racconta – Frequentavo un gruppo di atei, anche se atea non sono mai stata, appoggiavo tutte le lotte dei popoli, partecipavo alle manifestazioni fino a quando ho capito che l’azione politica non cambiava nulla né nella mia vita, né intorno a me. Le contraddizioni restavano. La sinistra rivoluzionaria poi mi sembrava il ghetto dei ghetti e avevamo capito che il comunismo era finito, così ho cercato altro”. Donatella ha incontrato l’Islam con Abdul, il marocchino che poi ha sposato ma che non le raccontava nulla sull’Islam. “Ho studiato tutto da sola, lui non voleva sentirsi responsabile della mia scelta. E un giorno, 21 anni fa, ho fatto shahada alla Grande Moschea. In questi anni ho visto molte persone rialzarsi grazie alla fede. Chi parla di jihad non è un vero convertito all’Islam. È un convertito a un’ideologia. È come convertirsi al nazismo”.

