Globalizzazione e religioni

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Un’intervista a Marta Margotti, autrice di “Religioni e secolarizzazioni. Ebraismo, cristianesimo e islam nel mondo globale”: l’ho presa da Vatican Insider.

Professoressa Margotti nel suo libro emerge il concetto di globalizzazione della religione. Come interpretare oggi questa realtà?

Non ci sono dubbi su questo aspetto: le religioni sono coinvolte potentemente nei processi di globalizzazione che stanno trasformando il mondo attuale. Anzi, a ben guardare, i fenomeni religiosi sono tra i fattori che alimentano costantemente i processi di integrazione planetaria degli stili di vita e delle identità individuali, ma favoriscono pure i contatti tra le culture, i mutamenti della vita politica e la definizione degli assetti economici. L’interdipendenza tra fenomeni che si svolgono in luoghi diversi, anche molto distanti tra loro, non è però un fatto recente. La globalizzazione dei fenomeni religiosi ha origini antiche: negli ultimi due secoli (e con maggiore intensità negli ultimi cinquant’anni) ha registrato un’ampiezza tale da toccare società e spazi geografici che in precedenza erano stati soltanto sfiorati dai processi di integrazione del mondo.

Quali sono le cause di questa “globalizzazione delle fedi”?

Le migrazioni di milioni di uomini e donne e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa sono tra i principali veicoli di trasmissione da una parte all’altra del globo di visioni del mondo diverse da quelle tradizionalmente presenti in un certo territorio. E questi fatti hanno avuto, tra le altre, due notevoli ricadute. Da una parte, si è assistito al radicamento di molte tradizioni religiose in luoghi diversi rispetto a quelli in cui sono storicamente sorte (basti pensare ai missionari cristiani nell’Estremo Oriente, alle comunità ebraiche nelle Americhe o alla nascita di comunità indù in Europa), con conseguenze notevoli nelle società di arrivo. Dall’altra parte, la globalizzazione ha prodotto forme variegate di “meticciato delle fedi”, con scambi di riti, di simboli e di credenze che hanno trasformato le singole tradizioni religiose, in maniera spesso rilevante.

Secolarizzazione e secolarismo: cosa rappresentano questi fenomeni nella società contemporanea?

L’allontanamento dalle tradizioni religiose ha assunto in epoca contemporanea una dimensione sconosciuta nei secoli precedenti, coinvolgendo strati consistenti delle società: il distacco dal sacro, proprio perché solitamente percepito come rottura degli equilibri ereditati dal passato, ha accompagnato negli ultimi due secoli la modernizzazione delle strutture sociali e delle mentalità collettive. Almeno dagli anni Settanta del Novecento, sono state però fortemente criticate le teorie di sociologi e filosofi che ritenevano l’“eclissi del sacro” l’esito inevitabile cui sarebbero approdate le società moderne: queste tesi erano spesso basate sull’osservazione delle società industriali europee e ipotizzavano implicitamente la diffusione su scala planetaria del modello occidentale di sviluppo. Non a caso, dopo la fine della guerra fredda, quella che è stata definita la “rivincita di Dio” sembra caratterizzare le più rilevanti dinamiche sociali e politiche a livello planetario. In realtà, le religioni non erano mai sparite di scena, ma dall’ultimo scorcio del Novecento hanno assunto un nuovo ruolo nello spazio pubblico, all’interno dei singoli Stati come a livello internazionale, tanto che è possibile definire l’epoca presente come un tempo “post-secolarizzato”. L’incertezza lasciata dalla caduta delle ideologie politiche, la precarietà provocata dalla globalizzazione economica e l’insicurezza prodotta dai progressi scientifici che sembrano slegati da qualsiasi limite etico hanno provocato quello che soltanto un’osservazione superficiale potrebbe giudicare un “ritorno al sacro”. La situazione è molto più complessa: non si è di fronte a un ritorno al passato e non si assiste tanto al riemergere di società “sacrali” o “teocratiche”. I nostri anni sono immersi nell’apparente paradosso della presenza, nello stesso momento e negli stessi luoghi, di fenomeni religiosi e di fenomeni di secolarizzazione che non si annullano, ma sono anzi così strettamente collegati tra loro da rendere difficile capire dove finisca l’influsso degli uni e inizino gli effetti degli altri.

I grandi monoteismi hanno spesso avuto rapporti contrastati con i valori della laicità. Quali sono le ragioni?

La laicità e la democrazia sono stati considerati, in passato e ancora oggi, punti problematici del confronto tra religioni e modernità. Storicamente, i principi democratici si sono spesso affermati scontrandosi con il pensiero religioso, mentre le istituzioni laiche si sono formate da movimenti di opposizione o, comunque, di emancipazione dalle istituzioni religiose. Questa considerazione generale non consente però di affermare un’inconciliabilità insanabile tra religioni – e religioni monoteistiche in particolare – e principi della laicità. La secolarizzazione rappresenta la fuoriuscita dall’universo religioso da parte dei singoli e delle istituzioni, ma provoca pure un processo di trasformazione religiosa, in quanto nel corso del tempo le fedi non sono mai rimaste uguali a se stesse: il loro cambiamento è stato provocato anche dalla diffusione a livello sociale di visioni secolari della realtà.

Come sono cambiate le religioni di fronte all’affermazione degli Stati laici?

La laicizzazione degli Stati è stata solitamente subita dalle istituzioni religiose che spesso hanno reagito con veemenza per contrastare l’autonomia rivendicata dalle autorità civili. In alcuni casi, dopo lunghi conflitti, le religioni hanno trovato un equilibrio, anche se instabile, con i poteri statali (per esempio, nei paesi occidentali). In altri contesti, è il caso di alcuni paesi di tradizione islamica, il contatto con la modernità politica ha provocato decise reazioni di rigetto dei principi della laicità. Quello che è comunemente definito “islamismo” è una reazione che è sia un’affermazione di un’identità culturale e politica che si richiama miticamente a un passato immutabile, sia una dichiarazione di rifiuto dell’Occidente e dei suoi valori. Vi è da chiedersi, però, quanto queste reazioni siano state generate dai risultati catastrofici del contatto che queste società hanno avuto con l’Occidente coloniale, come pure il frutto delle politiche impopolari e antidemocratiche condotte dalle élite locali laiche, socialiste e nazionaliste.

Le religioni possono contribuire allo sviluppo delle società democratiche?

Attualmente nessun gruppo sociale riesce a ricoprire ruoli totalizzanti, soprattutto nelle società democratiche. Le istituzioni religiose, quando si trovano ad agire in una situazione di pluralismo culturale, sono costrette a definire il proprio campo di azione, selezionando e migliorando la qualità del proprio intervento, ad esempio in campo sociale o dell’assistenza, ma anche nella ritualità e nella propria riflessione teologica. I gruppi religiosi sono portati, in conseguenza a questo, a ridefinire i propri ruoli e a reinventarsi una propria collocazione nella realtà, pur continuando ad affermare con forza i propri legami con il passato e la propria fedeltà alla tradizione. La secolarizzazione sembra aver spinto ai margini l’incidenza della fede nella vita collettiva, ma il pluralismo che caratterizza molte società contemporanee ha dato ai gruppi religiosi la possibilità di svolgere un ruolo centrale nella vita sociale, come pure nel campo politico. La capacità di esprimere valori comuni, di raccogliere consenso in strati diversi della popolazione e di diventare gruppi di pressione influenti anche sulle scelte di governi che pur rivendicano la propria laicità può rendere le istituzioni religiose soggetti centrali della vita democratica e, anzi, permettere una sua espansione. Oggi più che nel passato.

Tra diritto e religioni

9788843067336g.jpgA fine gennaio è uscito il libro “La libertà religiosa in Italia. Un percorso incompiuto” di Alessandro Ferrari. Oggi ho trovato su Vatican Insider questa intervista di Luca Rolandi. Argomento? Diritto, libertà religiosa, laicità dello stato, pluralismo religioso.

Nel racconto del suo saggio si evince come le problematiche del passato riemergano intatte nella società plurale.

Sì, ciò che rende affascinante la storia del diritto di libertà religiosa e, in particolare, il confronto con la storia della libertà religiosa in Italia è proprio questo costante incontro, nel tempo presente, tra passato e futuro, tra i paradigmi che hanno forgiato i caratteri più distintivi di un modello e le forze che, nel corso del tempo, si sono aggiunte, sedimentate sulle vecchie costruzioni giuridiche costringendole a rispondere a nuove domande, a fronteggiare nuove rivendicazioni e portandole, così, a trasformarsi. Nata per rispondere alle esigenze di giustizia di individui e gruppi minoritari ma normalmente appartenenti alla storia ed alla tradizione del Paese (ebrei e valdesi in particolare), il diritto di libertà religiosa si pone oggi anche in Italia come garante di un “pluralismo culturale e confessionale” che la globalizzazione ha reso quantomai variegato. Accanto alla “classica” presenza cattolica convivono, infatti, esperienze religiose ormai definitivamente trapiantate in Europa (si pensi all’islam, al buddhismo, all’hinduismo), gruppi religiosi “europei” trasmigrati dai loro contesti originari (gli ortodossi), galassie cristiane in continua ridefinizione (gli evangelici), non più “nuovi” movimenti religiosi e movimenti non confessionali ma atei ed agnostici anch’essi portatori di un’identità ancorata al diritto di libertà religiosa e di coscienza. In un quadro così complesso il diritto di libertà religiosa si pone, dunque, come strumento di libertà per i singoli e gruppi, come cartina tornasole di una democrazia costituzionale matura ed efficiente capace di assicurare a tutti – e, dunque, anche alle religioni ed ai “gruppi filosofici” secondo le rispettive specificità- la piena partecipazione alla vita pubblica, alla costruzione della “casa comune”.

Il libro di storia e di diritto. Per quale pubblico?

Per chi voglia approfondire un cammino ricco e affascinante, fatto di grandi traguardi, di ingegnosi e coraggiosi accomodamenti ma anche di battute d’arresto e salite affannose. La storia offre il contesto all’esperienza giuridica, alla decisione politica e determina l’angolo prospettico da cui guardare alla libertà religiosa. Quest’ultima, infatti, vive da sempre un movimento, per così dire, pendolare, ora esprimendo con più decisione una vocazione “personalistica”, di protezione pluralistica delle coscienze religiose individuali e collettive ora risentendo maggiormente, invece, di una impostazione più “statocentrica” e, dunque, funzionale alle esigenze – e alle paure – delle maggioranze rivelando, così, un volto preoccupato e spesso ripiegato. E’ proprio quest’ultimo volto che è emerso con più evidenza nell’ultimo decennio, segnato da un confronto con l’islam che tanto ha influito nel ridefinire il volto del diritto della libertà religiosa europea ed italiana e nel rimettere in discussione il cammino di concretizzazione del diritto di libertà religiosa così come delineato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra.

Lei parla di paradigma cattolico, che cosa intende con questo concetto ‘L’Italia, è una Nazione-Stato più che uno Stato-Nazione’?

La coesione civile è stata affidata più alla condivisione di una cultura – e di una religione – comuni che al ruolo espressamente attribuito alle istituzioni politiche, ai circuiti classici della decisione politica. Si tratta di una realtà che ogni giorno risalta con evidenza. L’essere Nazione-Stato ha i suoi pregi (uno stato tendenzialmente “modesto” e non monopolista del dibattito sociale e delle identità civiche) ma anche i suoi limiti, in particolare quando le sfide del pluralismo esigono proprio dalla politica risposte chiare in ordine alla protezione ed alla concretizzazione dei diritti posti alla base del patto costituzionale. Il modello italiano di libertà religiosa, inoltre, si è costruito in relazione alla Chiesa cattolica e, dunque, confrontandosi con una presenza istituzionale del tutto peculiare. Ora, questo modello, di cui nel libro cerco di illustrare i caratteri di confessionalità, bilateralità e tendenza all’accomodamento gerarchico, deve armonizzarsi con un principio di laicità che, pur nato proprio dall’incontro tra Costituzione e cattolicesimo, viene declinato come principio giuridico quale garanzia di un pluralismo ad ampio spettro. Pluralismo la cui piena e necessaria metabolizzazione richiede coraggio non solo da parte delle pubbliche autorità ma anche della stessa Chiesa cattolica.

Le sfide del futuro. Pluralismo religioso e culturale. Quale libertà religiosa per il XXI secolo per dare compimento ad un percorso interrotto?

Il cammino si riprenderà riattribuendo al diritto di libertà religiosa la centralità che gli è stata assegnata dalla Costituzione e dalla Corte costituzionale nel momento in cui ha individuato proprio nella laicità un principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Si tratta, innanzitutto, di riappropriarsi del significato “autentico” di una laicità costituzionale troppo spesso condizionata dai due “opposti estremi” della laicità “anticlericale” e della cosiddetta sana laicità. Rimettere al centro il diritto di libertà religiosa equivale, in realtà, in un’epoca così drammaticamente condizionata da gravi problematiche economiche, ricordarsi della centralità della persona, con le sue profonde esigenze identitarie che nell’età dei “diritti sostanziali” interpellano con urgenza tutta la società. Si tratta, dunque, di una libertà “costosa”, come tutti i diritti, ma il cui prezzo rappresenta una garanzia basilare di pace e convivenza civile. Continuare a dimenticarlo (quando il parlamento italiano si deciderà a dotare il nostro Paese di una legislazione organica in materia superando quel che resta della normativa sui “culti ammessi” del 1929-1930?) ha, in realtà, costi ancora più alti.

Laicismo tra illuminismo e oscurantismo

L’articolo che posto prende lo spunto dal gesto del papa, ma è un pezzo sulla laicità (sullo stesso argomento ne avevo scritto anche qui). In particolare contiene le critiche da parte del filosofo Corrado Ocone al libro “Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger” di Vincenzo Ferrone. E preso da L’Huffington Post.

4973629493_25131208f3_b.jpg“Nei discorsi pubblici che comunemente si fanno si tende a distinguere nettamente, e anzi a contrapporre, il pensiero laico di matrice illuministica a quello cristiano e soprattutto cattolico. E non c’è dubbio che, da un punto di vista empirico di breve raggio (cioè attinente i concreti comportamenti degli uomini di Stato e di quelli di Chiesa), possano esserci fondati motivi per giustificare la contrapposizione. Così come possono essercene altrettanto e fondati, in verità, per contestarla. Arrivare però già solo a concepire un libro come l’ultimo di Vincenzo Ferrone, pubblicato da Laterza con imprevedibile coincidenza proprio in questi giorni di fine pontificato, mi sembra sintomatico, mi si permetta di dire, non solo dell’incapacità di pensiero speculativo e dialettico che è propria dell’autore, ma anche, più in particolare, della fortuna che gode un modo rozzo, prevenuto, a sua volta dogmatico, di affrontare il problema della laicità. Mi riferisco al volume Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger. Chiesa, modernità e diritti dell’uomo, che si ripromette addirittura di “denunciare l’uso disinvolto della storia da parte delle gerarchie vaticane quando si tratta di fare i conti con la modernità, i diritti dell’uomo e il cosiddetto post-moderno”. In esso, l’autore fa le pulci a discorsi, interventi, libri di Benedetto XVI, criticandolo aspramente, da vecchio anticlericale ottocentesco. Senza riuscire a cogliere minimamente, a mio avviso, né lo spessore intellettuale e umano del pontefice dimissionario, né la complessità e difficoltà di temi che esigerebbero una preparazione specifica e una finezza intellettuale che solo in pochi hanno. Non nego tuttavia che il libro di Ferrone possa fungere da stimolo, da una parte, ad una riflessione sul senso “filosofico” complessivo del pontificato che volge al termine; dall’altra, alla ricerca di un’impostazione teoricamente più avvertita del tema del rapporto fra cristianesimo e illuminismo, o meglio fra cristianesimo e modernità. E’ una dimensione interpretativa quella che io suggerisco del tutto antitetica non solo a quella di Ferrone, ma anche di Vito Mancuso, che pure ha diverso spessore intellettuale, sempre secondo me. Mi riferisco, in particolare, ad una frase contenuta in un articolo uscito su Repubblica lo scorso 7 dicembre, a commento di alcune frasi pronunciate il giorno prima dal cardinale Scola. In esso, dopo aver affermato che è solo grazie all’avvento della laicità illuminista, e in particolare della sua idea di diritti umani naturali, che il cristianesimo è stato costretto ad aprirsi un po’ al pluralismo religioso, Mancuso scrive: “la libertà religiosa è stata il dono della laicità al cristianesimo”. Ed è questa l’idea che fa da sfondo anche al libro di Ferrone. Ma, mi chiedo, come è possibile dimenticare che quella laicità e quell’idea di diritti umani nasce proprio da uno sviluppo interno del cristianesimo: che non sarebbe concepibile senza le sue categorie logiche, senza le sue idee guida, senza la sua etica basata sull’interiorità di coscienza e sul libero esame? L’idea stessa di una universale natura umana non si richiama forse all’idea degli uomini come figli di un unico Dio, tutti eguali fra loro? E il concetto di individuo è tanto lontano da quello cristiano di persona? In un certo senso si potrebbe dire che l’illuminismo (ma anche qui bisognerebbe porsi la domanda: “quale illuminismo?”) non fa che rendere più pura, più spirituale, quella visione del mondo cristiana che nella storia ha sempre oscillato fra i poli di una dialettica, cioè fra la tendenza ad autoaffermarsi nella sua essenza più pura e quella opposta a istituzionalizzarsi attraverso la creazione di una Chiesa con i suoi dogmi e la sua gerarchia.

Più in generale, il cristianesimo ha poi immesso, in una visione essenzialistica delle cose qual era quella greca, il tarlo della storia o l’elemento della storicità. E’ questo il senso ultimo, filosofico, di un dogma come l’incarnazione, l’idea rivoluzionaria del Dio che si fa uomo. La cifra dell’Occidente è la lotta che si svolge da sempre in esso fra forme e storia, fra natura e spirito. Ed è un dissidio che attraversa in egual misura sia il cristianesimo sia l’illuminismo, che sono entrambi all’interno appunto di una storia comune. Quando molti uomini di cultura, e fra loro annovererei senza dubbio Ratzinger, fanno riferimento ad una laicità diversa da quella propria del modello francese, credo che si riferiscano all’intolleranza che può presentare una concezione, mi si scusi il bisticcio di parole, laicistica di laicità: un modello che, iscritto all’interno di una retorica e di un modello istituzionale repubblicani, voglia dettare a tutti le regole di una pretesa “neutralità”. Come ha scritto Norberto Bobbio, con la sua indubitabile capacità di essere chiaro e di andare dritto al cuore delle questioni, anche la laicità può diventare un dogma e farsi laicismo, specificando che “per laicismo s’intende un atteggiamento di intransigente difesa dei pretesi valori laici contrapposti a quelli religiosi e di intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose”. Ed ha aggiunto significativamente: “il laicismo, che ha bisogno di armarsi e di organizzarsi, rischia di diventare una Chiesa contrapposta ad altre Chiese”. Come si vede, ci sono molti motivi che imporrebbero a tutti, oggi che Ratzinger si è dimesso, di non portare troppa acqua al mulino della sterile contrapposizione fra laici illuministi e cristiani oscurantisti.”

La gioia di buddhisti e induisti

Prendo dal Corriere della Sera un interessante articolo di Fabrizio Caccia: offre molti spunti di riflessione e discussione. Argomento? Dal 1 febbraio entrano in vigore le intese dello stato italiano con l’Unione Buddhista e con l’Unione Induista.

“C’è fermento tra i cinesi buddisti di Roma: la Grande Pagoda di via dell’Omo – b0595e9abe.jpgseminascosta tra i magazzini di scarpe e vestiti, vicino al Raccordo Anulare – finalmente è pronta, il 31 marzo verrà inaugurata, ma grazie all’intesa tra lo Stato Italiano e l’Unione Buddista, che entrerà in vigore tra due giorni, il tempio sarà riconosciuto da subito «luogo di culto». E non sarà il solo. Venerdì primo febbraio, data storica. «Celebreremo la vittoria della laicità dello Stato, il trionfo della democrazia», annuncia soddisfatto l’avvocato Franco Di Maria, presidente dell’Unione Induista Italiana, che già pensa in grande: «Capito il significato? Potrà nascere una tv induista in Italia, potremo costruire templi, aprire scuole e università teologiche – dice l’avvocato Di Maria, un goriziano che si convertì all’induismo 30 anni fa – Quest’intesa rappresenta un vero aiuto all’integrazione». Per buddisti e induisti d’Italia – tra i primi Sabina Guzzanti e Roberto Baggio, tra i secondi il chitarrista Paolo Tofani – in effetti, rappresenta un gran giorno. Dopo un lungo iter più volte interrotto, l’11 dicembre scorso il Parlamento ha approvato in via definitiva le intese con Ubi e Uii. Mai, finora, il Parlamento italiano aveva approvato accordi con confessioni non cristiane, con l’eccezione, nel 1989, delle Comunità ebraiche e, nel luglio scorso, con i Mormoni. Una scelta compiuta, dunque, nel rispetto del principio sancito dall’articolo 8 della Costituzione, quello che garantisce la libertà di tutte le religioni, purché i loro statuti non entrino in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano.

L’intesa che entra in vigore il primo febbraio comporterà il riconoscimento per i ministri di culto, i luoghi e le festività religiose. E non solo: il diritto a scegliere procedure particolari per la sepoltura e ad avere aree riservate nei cimiteri. Ma soprattutto la possibilità di accedere all’8 per mille del gettito fiscale come le altre religioni riconosciute, la cattolica, la valdese, l’ebraica. «Il nostro obiettivo, però, non sarà affatto quello di riempirci le tasche con l’8 per mille e la suddivisione dei resti, che comunque ci verranno elargiti solo a partire dal 2016 – chiarisce Maria Angela Falà, vicepresidente dell’Unione Buddista Italiana – Quello che ci interessa realmente è che i nostri monaci, in quanto riconosciuti ministri di culto, potranno finalmente assistere spiritualmente i fedeli negli ospedali, nelle case di riposo o in carcere. E le salme dei nostri cari potranno ricevere, ove possibile, il trattamento previsto dalla nostra religione. Sono diritti importantissimi, che per la prima volta ci vediamo assegnati».

Novità in vista, dunque, per tanta gente. Perché le comunità buddista e induista sono una realtà in crescita nel nostro Paese e non solo per effetto dei flussi migratori. I praticanti buddisti italiani sono 80 mila, a questi se ne aggiungono altri 20 mila più saltuari, oltre ai circa 30 mila «nativi» provenienti dall’Asia. E gli induisti in Italia sono più di 135 mila: oltre 119 mila immigrati (dati Caritas) ai quali vanno aggiunti circa 15 mila italiani convertiti. «Cosa cambierà? La nostra festa Vesak, per esempio, l’ultimo weekend di maggio, riconosciuta festa religiosa dalle Nazioni Unite fin dal 2000, ora avrà lo stesso valore anche qui», dice la vicepresidente dell’Unione Buddhista, Maria Angela Falà. «E così pure la nostra Festa della Luce, che arriva con la Luna Nuova di autunno, tra ottobre e novembre, varrà finalmente come festività sul calendario. Perciò, gli operai e gli impiegati di religione induista non dovranno più chiedere il permesso ai loro capi per partecipare», ribadisce il presidente dell’Uii, Di Maria.

C’è grande eccitazione, adesso, nei vari centri buddisti sparsi per la penisola: le comunità sono in festa ad Arcidosso (dove sorge «Merigar», il piccolo Tibet ai piedi dell’Amiata, sede ogni anno di affollati raduni) come a Pomaia, nel pisano, il centro che fa capo al Dalai Lama, dove medita abitualmente il presidente dell’Ubi, Raffaello Longo. E insieme ci si prepara degnamente al Losar, l’inizio del nuovo anno, l’11 febbraio prossimo. Ma attesa e felicità sono sentimenti riscontrabili in queste ore anche ad Altare, nel savonese, dove sorge il primo tempio induista costruito in Italia, nonché uno dei più grandi d’Europa, dedicato alla «Divina Madre Sri Lalita Tripura Sundari» dal monaco Svami Yogananda Giri, al secolo Paolo Valle, uno dei firmatari del patto storico di Montecitorio. «E buona strada a tutti», come dicono loro.”

La rivoluzione scippata

Una bella intervista per Avvenire di Chiara Zappa a una delle protagoniste della lotta per la libertà in Tunisia, Lina Ben Mhenni.

«Ma è possibile che i media occidentali debbano aspettare che ci scappi il morto, prima diLina-Ben-Mhenni.jpg accorgersi di quello che sta succedendo alle nostre rivoluzioni?». Lo sfogo di Lina Ben Mhenni dura solo un attimo, ma la sua tensione è evidente. Su una Avenue Borguiba presidiata dai blindati dell’esercito, a pochi metri dal caffè dove siamo sedute a parlare, sta sfilando l’ennesima manifestazione di islamisti, che urlano con violenza i loro slogan. Questa volta, contro l’Ugtt, il principale sindacato del Paese, definito «un covo di corrotti». «Vorrebbero che il sindacato fosse sciolto, è incredibile…», sospira Lina scuotendo la testa. A due anni dal suicidio dell’ambulante tunisino Mohamed Bouazizi, che il 17 dicembre 2010 diede avvio alle rivoluzioni nordafricane, la blogger più famosa della primavera araba, la “tunisian girl” che lanciava sul web le sue denunce anche quando Ben Ali era ancora al potere, candidata al Nobel per la pace e pluri-decorata per il suo coraggio (a novembre le è stato consegnato il premio Minerva «all’impegno politico e ai diritti umani») è stanca. Ma sempre combattiva. Nonostante la salute precaria e le tensioni quotidiane: «Ricevo minacce di continuo, contro di me è stata montata una campagna diffamatoria violenta». Due volte è stata brutalmente picchiata e molestata dalla polizia. «E ho paura anche della milizia di Ennahda». Il partito di matrice islamica che domina la coalizione di governo è messo sotto accusa da tanti fronti: per l’inconcludenza delle sue politiche – la disoccupazione continua a crescere e la povertà è tangibile, non solo nel Sud del Paese -, ma anche per i giochi di potere e soprattutto per l’eccessiva tolleranza nei confronti degli estremisti religiosi salafiti.

«Il vecchio sistema è ancora là, e in più questo governo ha cominciato da subito a fomentare una divisione nel Paese tra i “buoni musulmani” e i laici, che vengono semplicemente tacciati come atei. Se combatti per mantenere la laicità dello Stato, allora per loro non sei una musulmana. E quest’ambiguità è facile da coltivare qui in Tunisia, dove due dittatori come Bourguiba e Ben Ali hanno sostenuto il secolarismo: così, se qualcuno osa criticare il governo, come sta facendo in queste settimane il sindacato, subito viene accusato di essere anti-islamico, un “residuo del vecchio regime corrotto”. In questo modo, proprio in nome della tutela della rivoluzione, cercano di creare un nuovo regime: siamo stati scippati della nostra rivoluzione!». La ventinovenne, viso acqua e sapone e unghie in tinta con il maglioncino verde, scosta dal viso i capelli corvini e fa una pausa, osservando i poliziotti appostati intorno al ministero dell’Interno. «Sa di quella ragazza violentata dalla polizia?», butta lì. Parla della giovane stuprata a settembre da due agenti che poi la accusarono per atti osceni (infine assolta per mancanza di prove, dopo una mobilitazione massiccia dell’opinione pubblica). «Noi donne siamo state da subito un bersaglio facile: ci dicono che dobbiamo tornare a chiuderci in casa, così si risolverebbe anche il problema della disoccupazione degli uomini!». Al di là del rischio di un rigurgito patriarcale, che in questo caso ha del grottesco, la posta in gioco è alta: «Se ai tempi di Ben Ali le femministe lottavano per ottenere nuovi spazi, noi siamo costrette a farlo per difendere le conquiste del passato. Recentemente siamo dovute scendere in piazza perché dalla bozza della nuova Costituzione fosse ritirato il riferimento alla “complementarietà” tra uomo e donna, che aveva sostituito l’espressione “parità”. Ma a rischio è anche il Codice di statuto personale, all’avanguardia sui diritti femminili, mentre si ipotizza di legalizzare la poligamia ed esponenti sauditi vengono invitati a parlare delle mutilazioni genitali per le bambine…».

Ma con la caduta del regime non è aumentata la libertà di espressione? «Abbiamo avuto un breve periodo di libertà, ma oggi la situazione è di nuovo critica», afferma Ben Mhenni, che insegna linguistica all’università di Tunisi. «Si tenta di imbavagliare i giornali, la tv nazionale è in mano agli islamisti, che hanno riciclato anche giornalisti ex fedeli di Ben Ali, le tv private sono finanziate dai partiti politici e i cyber-attivisti ormai tendono ad autocensurarsi, per timore delle ritorsioni». La denuncia di Lina è dura: «Qui non esiste ancora una giustizia indipendente. Gente che si è macchiata di crimini gravissimi ora è libera: chi è organico al nuovo governo può stare tranquillo. Sono più corrotti di prima e usano gli stessi metodi violenti del passato». Il clima, già teso, è reso incandescente dalla povertà. «La situazione economica è molto grave. Il turismo risente degli attacchi dei salafiti e anche gli investitori non sono incoraggiati a venire qui. A volte ho la sensazione che andiamo verso una guerra civile». Per la giovane attivista, la via d’uscita è solo una: «Dobbiamo portare avanti la nostra rivoluzione, girare il Paese per spiegare alle persone che devono votare secondo i programmi dei candidati, non in cambio di denaro o perché qualcuno si propone come l’unica scelta giusta per i “buoni musulmani”. La religione e la politica devono restare separate. Anche i governi occidentali, che parlano di diritti umani ma oggi sostengono gli islamisti per interesse, dovrebbero ricordarselo».

Sulla laicità

Il concetto di “laicità” è spesso fumoso e confuso. A volte è sinonimo di ateismo, a volte il laico è colui che non appartiene al clero, a volte è colui che non vuole appartenere a un culto religioso o politico o ideologico… Nella serata di qualche giorno fa a Zugliano, nel dialogo fra Margherita Hack e Pierluigi Di Piazza, il fondatore del Centro Balducci vi aveva fatto riferimento proprio nell’ottica che in questo articolo pubblicato su Repubblica delinea Enzo Bianchi.

chagall-03g.jpg“Non sorprende che in un paese come il nostro – dove non esiste più da quasi trent’anni una “religione di stato”, ma dove non c’è ancora una legge specifica sulla libertà religiosa – ogni discussione sulla laicità dello stato e sui diritti dei credenti rischi di provocare un corto circuito. Si aggiungono aggettivi qualificativi alla laicità o la si rinchiude nel peggiorativo laicismo, rendendo quasi impossibile lo sviluppo e l’adattamento alle mutate condizioni sociologiche del nostro paese di quella convergenza di intenti e di valori che il legislatore costituente aveva sapientemente saputo ricostruire sulle macerie della guerra. A furia di ridurre la presenza dello stato e nel contempo di chiedergli di farsi garante di un’etica religiosa specifica, a furia di confondere la somma di beni privati con il bene comune, la coesione sociale viene a mancare e si atrofizza quello spazio comune garantito in cui ciascun soggetto individuale o sociale può contribuire alla crescita umana e spirituale dell’insieme della società.

Lo stato laico, infatti, non può limitarsi alla funzione di chi regola il traffico di una società civile che si muoverebbe secondo direttive proprie, molteplici e slegate da un interesse collettivo. È indispensabile invece trovare e utilizzare modalità laiche per discernere cosa è ritenuto bene per l’insieme della popolazione e cosa danneggia la convivenza, quali adattamenti escogitare affinché il meglio sognato non uccida il bene possibile. Un’etica condivisa non è utopia: si tratta allora di individuarla, perseguirla, garantirla con mezzi consoni a uno stato non confessionale che si faccia carico di una società ormai plurale per religioni e culture. Non dimentichiamoci che l’umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità, intesa come vita interiore profonda, come ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Sono sempre stato convinto che esiste anche una spiritualità degli agnostici, di quanti sono in cerca della verità perché insoddisfatti di verità definite una volta per tutte: è una spiritualità che si nutre di interiorità, di ricerca del senso, di confronto con l’esperienza del limite e della morte. Si tratta, di essere tutti fedeli alla terra e all’umanità, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola oggi abusata fino a svuotarla di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il “luogo” cui l’essere umano si sente chiamato. Del resto la fede – questa adesione a Dio sentito come una presenza soprattutto a causa del coinvolgimento che il cristiano vive con Gesù Cristo – non sta nell’ordine del “sapere” e neppure in quello dell’acquisizione: si crede in libertà, accogliendo un dono che non ci si può dare da sé. Analogamente gli atei, nell’ordine del sapere non possono dire “Dio non c’è”: è, infatti, un’affermazione possibile solo nell’ambito della convinzione. Del resto, il cristianesimo riconosce che il Dio in cui crede è presente e agisce anche nella coscienza di chi non crede, perché ogni essere umano è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e ha in sé la fonte del bene. La laicità dello stato è allora quella opzione di fondo che consente di reinventare continuamente strumenti condivisibili e linguaggi comprensibili da tutti, di garantire presidi di libertà e di non sopraffazione, di difendere la dignità di ciascuno, a cominciare da quelli cui viene negata, di consentire a ciascuno di ricercare, anche assieme ad altri, la pienezza di senso per la propria vita.”

In attesa…

Pubblico un articolo molto bello di Fulvio Scaglione preso da Avvenire.

“Su quanto avviene in queste ore in Egitto si appuntano, e con giusta causa, gli occhi del mondo. Occorre che questo avvenga, però, per le ragioni che davvero contano, e non per quanto conviene alla retorica del momento. È inutile, per esempio, cercare nella deriva autoritaria del presidente egiziano Morsi, espressione politica dei Fratelli Musulmani, la conferma di un fallimento della Primavera araba. Al contrario: la protesta contro le decisioni di Morsi dimostra che la Primavera ha aperto un vaso di Pandora di coscienza civica, prima assente, che sarà impossibile richiudere. Quello che invece deve inquietare è la bozza di Costituzione (da approvare con referendum) che il Presidente ha fatto licenziare in fretta e furia da un’Assemblea costituente popolata solo da Fratelli musulmani e salafiti dopo l’abbandono dei cristiani e dei laici per l’evidente impossibilità di svolgere un lavoro decente. La bozza, all’articolo 2, detta: «I principi della sharia sono la principale fonte della legislazione».morsi.jpg

È un dramma perché lo fa Morsi in Egitto? No, al contrario: è un dramma perché lo fanno tutti. Intanto, l’articolo in questione è tal quale a quello presente nel testo dei tempi di Mubarak. La Costituzione adottata dall’Iraq ha un articolo 2 identico quasi alla lettera. Quella dell’Arabia Saudita, all’articolo 1, dice: «Il Regno dell’Arabia Saudita è uno Stato sovrano arabo islamico con l’islam come religione; il Corano e la Sunnah del suo Profeta… sono la sua Costituzione ». Abbiamo citato per primi due Paesi molto “amici” dell’Occidente, ma se passiamo all’Iran troviamo all’articolo 4: «Tutte le leggi e i regolamenti civili, penali, finanziari, economici, amministrativi, culturali, militari e politici… devono essere fondati su criteri islamici ». E in Tunisia, dove elezioni democratiche hanno dato la maggioranza al partito islamista Ennadha come in Egitto ai Fratelli Musulmani, il tentativo di sottoporre le leggi dello Stato alla legge islamica è stato finora contenuto solo dalla forte mobilitazione dell’opinione pubblica. Questo è uno dei crinali più critici nei rapporti con il mondo islamico. È chiaro infatti che il monopolio della legge affidato a una sola fede, anche se maggioritaria, mina alle radici quel principio della libertà di religione che, al contrario, è uno dei capisaldi della nostra civiltà e della nostra cultura. Con quel che poi ne deriva in termini di reciprocità, sia nei rapporti tra cittadini sia nelle relazioni tra Stati. Ma non basta.

Restando alla bozza egiziana, troviamo che l’articolo 2 è pericolosamente integrato dall’articolo 4, quello in cui si ribadisce che, in materia di legge islamica, può essere sollecitato il parere del grande imam di Al Azhar, la moschea del Cairo che è anche il più prestigioso centro teologico del mondo sunnita. Questo configura non solo la sottomissione della legge dello Stato alla legge islamica, ma anche la subordinazione del potere giudiziario all’autorità religiosa. Mentre noi ben sappiamo che l’indipendenza della magistratura è una delle architravi del nostro Stato democratico. Questo va sottolineato. Perché la violazione del principio della libertà di religione, pur gravissima per ciò che sottintende, potrebbe in teoria scaricarsi solo sui non musulmani, che peraltro in Egitto sono almeno il 10% della popolazione, quindi non pochi. Mentre l’asservimento del potere giudiziario si scaricherebbe su tutti, musulmani e non musulmani, senza distinzioni, aprendo senza scampo la strada a un regime autoritario. In questa battaglia coloro che protestano in tante città dell’Egitto non vanno lasciati soli. Perché è una battaglia che in qualche modo combattono anche per noi.”

Libertà e democrazia

In classe abbiamo parlato a lungo proprio di quello di cui scrive su Sette Stefano Jesurum. L’argomento è ancora il video Innocence of Muslims. Ecco un interessante estratto dell’articolo.

“… l’involontario cortocircuito credo imponga di ragionare su un tema vitale per le nostreislam, democrazia, tolleranza, laicità (e le loro) società: il rapporto tra sensibilità cultural-religiosa e democrazia come libertà di espressione. Perché la reazione dei fondamentalisti che hanno devastato e ucciso non ha affatto per bersaglio stupide vignette o pellicole blasfeme bensì la natura stessa degli Stati che ne permettono la diffusione e non esercitano la censura: le democrazie appunto. Ciò che sarebbe necessaria, dunque, è una profonda primavera araba delle idee. Tuttavia è pur vero che, lo ha ricordato Branca (Paolo, docente di Islamistica all’Università Cattolica di Milano), la libertà va sempre coniugata con la responsabilità. O ci serve forse una legge che dica fino a che punto è legittimo insultare gli altri? O vogliamo educare i giovani a fare ciò che passa loro per la testa ignorandone le conseguenze? Sono interrogativi non più rimandabili, che tornano a riproporsi ciclicamente attraverso fatwe come la condanna a morte di Salman Rushdie per i suoi Versi satanici, insurrezioni e sgozzamenti per vignette danesi o francesi che siano, pellicole e altro materiale più o meno volgarmente in contrasto con l’aniconismo, che non è prerogativa unicamente dell’Islam. Non si tratta affatto di scusare chi considera la laicità un peccato da punire con la morte né tanto meno di tacere di fronte alle farneticazioni criminali di sedicenti guardiani di non si sa quali ortodossie. Si tratta però di non cadere negli stereotipi, evitando l’insensata paura, evitando di vivere l’arabo come popolo truce che brandisce la scimitarra contro il mono esterno. Anche perché, constata il professor Branca, loro sono un miliardo e mezzo, e se fossero tutti come quelli che hanno infiammato le piazze noi non saremmo qui a parlarne.”

La Francia ferma le proteste

Altro articolo interessante preso da Il sussidiario.

“Mentre nel resto del mondo le proteste per il film Innocence of Muslims pian piano sembrano placarsi,drapeau-france.jpg in Francia un’iniziativa del premier Jean-Marc Ayrault rischia di rinfocolare la tensione. E’ stato disposto il divieto, infatti, di protestare, a Parigi, contro il film ritenuto dai fedeli islamici blasfemo. «È stata presentata una richiesta di manifestazione, ma sarà seguita da un divieto», ha dichiarato Ayrault, facendo presente che la Repubblica non alcuna intenzione di lasciarsi intimidire. Così, mentre il settimanale satirico francese Charlie Hebdo ha pubblicato oggi diverse vignette su Maometto e per precauzione, venerdì, saranno chiuse decine di scuole e ambasciate in una ventina di paesi islamici, Ayrault ha ribadito che in Francia è «garantita la libertà d’espressione, compresa la libertà di satira». Chi si sente offeso dal film o dalle vignette, ha concluso, potrà rivolgersi ai tribunali. Khaled Fouad Allam, islamologo e profondo conoscitore dei recenti fenomeni relativi al mondo musulmano (ha appena pubblicato Avere vent’anni a Tunisi e al Cairo. Letture delle rivolte arabe, Marsilio), ci spiega come interpretare la decisione francese.

Che idea si è fatto, anzitutto, della vicenda legata al film e alle successive sommosse?

Da una parte, non possiamo non registrare come il film rappresenti un’offesa per popoli musulmani e per l’Islam, che reputano Maometto persona sacra e inviolabile; d’altro canto, le manifestazioni non sono nient’altro che il frutto di una strategia politica di alcuni movimenti e gruppi radicali che, nel contesto delle primavere arabe, cercano di sfruttare l’occasione per esacerbare i rapporti tra le parti. E’ la prima volta, del resto, che i gruppi in causa si trovano al potere. E sono costretti a confrontarsi con la democrazia, con minoranze, diritti, e diverse religioni.

Chi, in particolare, trae vantaggio dalla situazione?

Siamo in una fase di incognite rispetto al futuro dei Paesi islamici che devono decidere la forma di governo e le istituzioni che assumeranno nei prossimi anni; in un tale scenario di incertezza, i salafiti cercano di creare scompiglio per contare, nel futuro delle società islamiche, il più possibile.

Che impressione le suscita la decisione della Francia?

Forse, sarebbe l’ora che si iniziasse a distinguere, a livello concettuale, la sana laicità dall’esasperazione degli effetti della secolarizzazione. D’altro canto, è pur vero che la Francia moderna si è costituita contro la sua stessa identità religiosa. Sta di fatto che Parigi, fino a pochi decenni fa una delle “capitali” del mondo arabo in occidente, non è più in grado di governare il rapporto tra identità e religione dei suoi abitanti, perché intrappolata in una visione ideologica del concetto di laicità tipicamente francese; tale visione afferma, in sostanza, che la religione deve essere relegata unicamente nella sfera privata. Ovvero, a casa propria. Se questo concetto, di per sé sbagliato, era tuttavia sostenibile a livello pratico fino a trent’anni fa, oggi non lo è più.

Perché?

Il mondo è cambiato, e sotto impulso della globalizzazione la Francia ha al suo interno diverse popolazioni che, ormai, fanno integralmente parte del Paese. Ci sono milioni di persone con la cittadinanza francese che si professano islamici, ma anche buddisti, animisti, indù e via dicendo.

Tornando alla manifestazione: cosa si sarebbe dovuto fare?

La satira è nata nel periodo della Rivoluzione francese, proprio in Francia, dove nessuno mette in discussione la libertà d’espressione. I suoi contenuti possono rattristare un’intera popolazione, ma questo fa parte della stessa democrazia. Ora, se viene accettato un tale principio, coerenza vorrebbe che si accettasse anche il risvolto della medaglia. Che si consentisse, cioè, a chi è contrario, di poter manifestare il proprio pensiero.

Quindi?

Si doveva permettere a chi voleva protestare di farlo. Ovviamente, mettendo in piedi le dovute misure di sicurezza, e consentendo di manifestare unicamente a chi intendeva farlo pacificamente. Vietare la manifestazione, oltretutto, fa il gioco dei salafiti; consente loro di giustificare, in seno alla comunità islamica, l’odio contro l’occidente. Questi episodi, infine, creano sacche di emarginazione e incomunicabilità dentro la nazione.”