Gemma n° 2022

“Il primo video l’ho portato perché mi ritrovo nelle parole di Rkomi. L’album è uscito il 30 aprile dell’anno scorso e l’ho ascoltato spesso; tutti i video sono canzoni con altri artisti mentre lui è al volante. Mi rispecchio nella sua musica ed è come se mi lasciassi guidare da lui. Alla fine dice che lo scopo nella vita non è pensare solo a se stesso ma anche agli altri, è come se stesse pensando a me, a chi ascolta la sua musica.

La seconda canzone definisce un po’ l’amico che vorrei e che magari avevo in passato e che ora non  ho più per vari motivi o proprio perché il colore che vedeva lui non era quello che vedevo anch’io. Mi è sempre mancato un amico con cui sfogarmi, rispecchiarmi, dire tutti i miei problemi, essere me stesso al 100%. Infatti mi ritrovo molto anche nel titolo Amico dove sei?

L’ultima canzone mi serve per definire un po’ la mia visione del mondo di oggi, secondo me veramente rovinato dai social. Riconoscendo di esserne vittima, cerco di allontanarmi dai social perché constato che rovinano tante amicizie e identità. Spesso si preferisce stare sui social che viversi la vita al di fuori. Mi rispecchio nel video e mi emoziono molto ogni volta: mi fa riflettere una parte del testo, quella che fa: “la gente come me morirà da sola”. Difatti il bambino fino alla fine rimane solo e anche la ragazza muore da sola senza essere ricordata”.

Che casualità! L’ultima gemma di quest’anno scolastico porta il numero dell’anno in cui siamo. Se l’avessi voluta questa coincidenza non sarei riuscito ad ottenerla. E questa proposta da G. (classe terza) è una gemma densa, offre tanti spunti di approfondimento. Ne scelgo uno dal primo video proposto. Le ultime parole di Rkomi sono “Uno dovrebbe cercare di avvicinarsi alle altre persone”. Ebbene, ieri sera stavo rileggendo alcune parole di don Pierluigi Di Piazza, da poco scomparso. Le riporto perché le trovo attinenti a questo “avvicinarsi alle altre persone”.“… Gesù, nel suo modo di vivere, non insegna una dottrina, ma un modo di essere, di relazionarsi. E lo fa certamente con le parole, ma soprattutto con i suoi gesti nel rapporto con le persone. E quando qualcuno gli chiede chi è il prossimo e cosa ognuno di noi deve fare per vivere da uomo di fede, per salvare e per salvarsi, lui racconta quella storia straordinaria che è la parabola del samaritano, in cui quello che conta è la compassione di uno straniero che si china su uno sconosciuto, ferito e abbandonato lungo la strada, perché è mosso a compassione dai suoi gemiti e dalle sue sofferenze. E la compassione lo porta a prendersi cura di quella persona, mentre prima il sacerdote del tempio era passato e aveva guardato dall’altra parte, e la stessa cosa aveva fatto il levita, l’inserviente del tempio. A me ha sempre colpito molto la laicità di questa parabola, perché non vi si nomina mai la fede, non si nomina mai Dio, ma è come se si dicesse che dove un uomo aiuta un altro uomo lì c’è già la presenza di Dio. Senza nominarlo, Dio è presente” (Accoglienza Giustizia Pace. Commenti ai Vangeli di Pierluigi Di Piazza, 2008). Sono parole che muovono le mie emozioni, i miei pensieri e mi determinano ad agire.

Radici cristiane, ma le foglie?

Un post piuttosto lungo e che affronta temi stimolanti che portano ad approfondite riflessioni. La fonte originale è Le Figaro, ripreso in Italia da Il Foglio. L’ho scovato grazie a una segnalazione di Oasis Center.

“Intellettuale di primo piano, il filosofo Pierre Manent rivendica le radici cristiane delle nazioni europee. Una riflessione che l’autore aveva esposto in Situation de la France (2015). Da parte sua, nel suo nuovo saggio L’Europe est-elle chrétienne? Olivier Roy esamina la questione dei rapporti tra cristianesimo, cultura e identità. La giornalista del Figaro Eugenie Bastié li ha fatti sedere per una discussione.
Bastié: Siete entrambi concordi nel parlare di “radici cristiane” dell’Europa?
Olivier Roy: Sono assolutamente d’accordo nel dire che l’Europa, e in particolare il progetto di costruzione europeo così come l’hanno pensato i padri fondatori, si riferisce a un’eredità cristiana. L’Europa occidentale è lo spazio del cristianesimo latino, della chiesa cattolica della riforma gregoriana dall’XI secolo fino alla frattura della Riforma. Quel che mi trova freddo quando si parla di “radici” è che non si parli di foglie. Si parla del passato, ma non si sa cosa fare di questo passato, che si traduce nel presente sotto il termine “identità”. Ora, io penso che il progetto cristiano non sia mai stato un progetto identitario. Perché tutt’a un tratto nel 2004 ci si riferisce alle “radici cristiane”, che negli anni 1950 andavano da sé? A causa della presenza dell’islam, dall’interno con l’immigrazione lavorativa degli anni 60 e 70 che si è trasformata in presenza permanente di una popolazione musulmana in Europa, e dall’esterno con la candidatura della Turchia a entrare nell’Unione europea. Quel che si voleva era dire che l’Europa non era musulmana. Il problema è che questa è un’identità negativa. Che cosa s’intende per identità cristiana? A quale sistema di valori ci si riferisce? E parlando di “radici” si schiva questo dibattito.
Pierre Manent: Parlare di “radici cristiane” mi va decisamente a genio, ma questo non ci dice alcunché di preciso né sul passato né sull’avvenire della nostra relazione col cristianesimo. “Radici” non dice niente sul contenuto della proposta cristiana né sulla maniera in cui essa ha contribuito a dare all’Europa la propria forma. Questa proposta giunge a toccare ciascuno a una profondità a cui non arriva la polis, anche se la stessa lascia gli associati liberi di organizzarsi politicamente secondo la ragione naturale. Essa suscita un approfondimento interiore, ma anche un approfondimento della cosa pubblica che ha condizionato la formazione dello Stato-nazione europeo.

Olivier Roy, lei fa risalire la grande rottura fra cultura dominante e cultura cristiana agli anni 60. Perché?
O. R. Fino agli anni 50, i valori della società sono dei valori cristiani secolarizzati. Lo si vede nel diritto con la concezione di famiglia. Anche la legalizzazione del divorzio si fa in nome della colpa e non del mutuo consenso. Negli anni 60 si cambia registro antropologico. L’individuo che desidera diventa fondamento del vincolo sociale. Il Maggio ’68 non è stato un fuoco di paglia: vediamo a poco a poco il diritto che vi si adatta e che rompe col sostrato comune della legge naturale, dalla legge Neuwirth al matrimonio omosessuale. La comunità di fede si ritrova fuori dalla cultura dominante. La prima constatazione fu fatta da Paolo VI con l’Humanae  vitae, che scoppia come un fulmine a ciel sereno anche per i cattolici freschi di concilio Vaticano II. Mentre tutti parlavano di liberazione, di giustizia sociale, tutt’a un tratto il Papa pubblica un’enciclica sulla normatività sessuale. Aveva ben compreso che stava lì il falso contatto antropologico con la cultura secolare, che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI avrebbero qualificato come “pagana”.
P. M. E’ vero che il riferimento a una “legge naturale”, anche presa nel senso più lato, è scomparso. E’ qualcosa di inedito. Va pure detto che la chiesa, essendo in guerra contro il “mondo”, è sempre stata in lotta contro la cultura dominante, un tempo militare e aristocratica, oggi individualistica.
O. R. Certamente la chiesa s’era sempre richiamata a un ordine che non era mondano. Ma il cavaliere dei duelli e l’aristocratico fornicatore domandavano l’estrema unzione e andavano a confessarsi. C’erano due ordini, ma un’unica cultura. Oggi la chiesa dice “la cultura dominante non è più cristiana”. A fronte di ciò, si presentano tre opzioni. O essa cerca di intervenire politicamente per cambiare le norme sui “princìpi non negoziabili” che ha definito Benedetto XVI; o essa sceglie ciò che Rod Dreher ha chiamato l’“opzione Benedetto”, vale a dire la ritirata – si vive ad intra, nella comunità di fede, fuori “dal mondo”; o la terza possibilità è la predicazione – considerare l’Europa come una terra di missione.

Voi pensate che il Vaticano II, aprendo la chiesa al mondo, abbia precipitato la sua secolarizzazione?
P. M. Col concilio, la chiesa prende l’iniziativa di un radicale cambiamento d’attitudine. Senza toccare il proprio fondamento dogmatico, essa dichiara la propria “apertura al mondo”. Col Vaticano II l’istituzione madre dell’occidente dà il segnale del movimento che successivamente avrebbe coinvolto tutte le istituzioni del mondo occidentale, comprese quelle profane che ormai vanno a cercare nel “mondo” le regole della loro azione. E’ questo in particolare il caso dello stato-nazione europeo, che sostituisce alla sua legittimità interiore l’autorità dei “movimenti del mondo” ai quali si tratta di aprirsi e conformarsi. La questione urgente per noi oggi è quella di sapere se le associazioni di cui facciamo parte saranno capaci di produrre di nuovo la regola a partire da loro stesse o se sono condannate all’estinzione.
O. R. Non è soltanto una questione di secolarizzazione, ma anche di deculturazione, dovuta alla mondializzazione che porta con sé una relativizzazione delle culture locali. Quel che constato è la scomparsa del ponte e l’incomprensione tra “quelli che credono al cielo” e quelli che non ci credono. Non condividono più la medesima cultura. L’incultura religiosa dei non credenti è abissale e inedita. Nel mio libro cito il caso di quel parroco in Aubagne che ha dovuto interrompere una cerimonia di matrimonio perché gli invitati si distribuivano delle lattine di birra in chiesa.

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La strumentalizzazione di un cristianesimo identitario da parte dei partiti populisti vi inquieta?
P. M. Francamente, almeno nel nostro paese, i segni di una siffatta “strumentalizzazione” mi sembrano rari e deboli. Esiste in ogni caso un pericolo simmetrico, quello della dissoluzione del proprium del cristianesimo nei “valori cristiani” o nell’“apertura all’altro”. Il principio del cristianesimo è la presa di coscienza di ciascuno della propria ingiustizia – come avrebbe detto Pascal – ingiustizia dalla quale non si può uscire con le proprie forze. La carità non ha molto a che vedere con la compassione, la quale nasce dalla similitudine umana e nulla ha di specificamente cristiano. I comandamenti cristiani danno forma alla vita del cristiano, certamente, ma non si può dedurre da questi comandamenti una linea di condotta politica.  Il cristianesimo in quanto tale non comanda una politica migratoria aperta piuttosto che restrittiva. Questo dipende da una decisione prudenziale da parte della comunità dei cittadini. Mi incorre l’obbligo di prendermi cura di colui che sono in situazione di aiutare, ma non m’incorre quello di “promuovere una generosa politica migratoria”. Non esiste una “teologia politica” cristiana, né identitaria né multiculturalista. La difficoltà del cristianesimo è precisamente che propone ai cristiani una regola di vita straordinariamente esigente, pur lasciando una considerevole latitudine alla valutazione prudenziale del politico.
O. R. Sono d’accordo nel dire che esiste un’irriducibilità metafisica del cristianesimo, dalla quale non si saprebbe dedurre una politica. Parto dalla “minorizzazione” della comunità di fede. Penso che la parola dei cattolici nello spazio pubblico appaia come essenzialmente normativa oppure “da assedio”: o la predica o la cittadella assediata. Capisco molto bene che i credenti domandino l’autonomia dello spazio della credenza. Io penso che questo spazio religioso sia in pericolo, perché siamo nell’estensione del dominio della secolarizzazione, sotto la forma di una laicità normativa. Ma credo che l’identitarismo sia anch’esso una forma di secolarizzazione del religioso. L’alleanza con i populisti è perdente per i cristiani, perché la locomotiva populista è secolare.

Secondo voi bisogna riformare la legge del 1905? [La legge di separazione tra Stato e Chiese, ndr]
P. M. Cambiare la regola dà l’illusione che si stia agendo. Io penso che sia meglio non toccare la legge del 1905, ma bisogna guardarsi dal credere che quella, da sola, permetterà di gestire la situazione. Essa non risponde all’installazione durevole dei costumi islamici in Francia. La legge ha poca presa sui costumi. La chiesa cattolica poneva un problema di potere, ma i cattolici non avevano costumi visibilmente distinti e separati. Ma che fare in quei quartieri in cui lo spazio pubblico appartiene esclusivamente agli uomini? Molti musulmani sono tranquillamente “integrati”, ma il numero di quelli che vivono separati è sufficientemente considerevole perché formino degli isolati definiti religiosamente, dove la vita sociale segue delle regole che cozzano coi nostri princìpi, in particolare con l’uguaglianza fra i sessi. Il minimo che si possa fare è tener conto di queste cose quando si decide una politica migratoria.
O. R. L’islam è oggi, in Francia, in una posizione post-migratoria. Se anche si arrestasse completamente l’immigrazione, l’islam resterebbe una questione importante. Che cos’è che chiamiamo “costumi islamici”? Il burqa non riguarda che qualche migliaio di donne, tra cui una forte proporzione di convertite che se ne appropriano con l’argomento sessantottino “è mio diritto”. Per costumi islamici s’intende sia una cultura – in generale magrebina – sia un salafismo mondializzato che è una forma patologica di deculturazione. In entrambi i casi sono forme di transizione.  La cultura magrebina sta scomparendo e il salafismo è una forma instabile alla cui perennità io non credo, a meno che non si rifugi in “modalità lubavitch”, vale a dire nell’auto-ghettizzazione volontaria. Il fondo del problema è il rapporto tra cultura e religione.

Si può davvero dire che credenti cristiani e musulmani hanno i medesimi valori? La cosa è tutt’altro che evidente…
O. R. I musulmani non sono multiculturalisti. I multiculturalisti (tipo indigeno della  République) sono tutti secolarizzati. Non sono i musulmani che chiedono di togliere i presepi dai municipi. Essi riconoscono l’esistenza di una cultura dominante, non chiedono la soppressione delle feste religiose. Ci si fissa sui quartieri difficili, ma non si vede l’ascesa della classe media musulmana, che sta per riformulare l’islam.
P. M. Forse cristiani e musulmani condividono una certa mancanza di entusiasmo davanti alle attuali evoluzioni della società. Le loro prospettive sulla famiglia, però, sono assai differenti. Il matrimonio cristiano è la prima istituzione nella storia umana che deriva dal consenso uguale dei due partner. Il sacramento stesso consiste nel consenso libero e uguale dell’uomo e della donna. Il punto decisivo per la nostra vita comune: due movimenti potenti oggi smuovono – e sconvolgono, perfino – la società francese. Da una parte l’islam, dall’altra la rivendicazione sempre più virulenta dei diritti soggettivi. Da un lato tende a imporsi una legge senza molta libertà, e dall’altro una libertà senza uno straccio di legge. I cristiani – in linea di principio – si sanno e si vogliono liberati sotto la legge. Sempre più respinti ai margini, essi sono purtuttavia i custodi di quel punto d’equilibrio che permetterebbe alla vita comune di conservare il proprio baricentro.”

Scienza e laicità

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Ieri, su L’indiscreto, ho trovato un articolo molto interessante in cui si tratta di scienza, religione, secolarismo, laicità. Si tratta della traduzione di “Why religion is not going away and science will not destroy it” di Peter Harrison (Laureate Fellow e direttore dell’Institute for Advanced Studies in the Humanities presso la University of Queensland. Il suo libro Narratives of Secularization è in uscita quest’anno). La traduzione è a cura di Francesco D’Isa.

Poco più di cinquant’anni fa, nel 1966, l’illustre antropologo canadese Anthony Wallace aveva fiduciosamente predetto la scomparsa della religione per mano del progresso scientifico: “La credenza nei poteri soprannaturali è destinata a estinguersi in tutto il mondo, a seguito della crescente precisione e diffusione delle conoscenze scientifiche”, – e la visione di Wallace non era un caso isolato. Al contrario, le scienze sociali moderne, che si sono sviluppate nell’Europa Occidentale del XIX secolo, interpretano la recente esperienza storica della secolarizzazione come un modello universale. Le scienze sociali presumevano (e talvolta prevedevano) una convergenza di tutte le culture verso un modello secolare che grosso modo somigliava alla democrazia occidentale liberale. Ma è accaduto quasi l’opposto.
Non solo la laicità non è riuscita a continuare la sua marcia globale, ma molti paesi come Iran, India, Israele, Algeria e Turchia hanno visto dei governi secolari cedere il passo a favore di governi religiosi, o perlomeno l’ascesa di influenti movimenti nazionalisti religiosi. La secolarizzazione, così com’era prevista dalle scienze sociali, ha fallito.
A dire il vero, il fallimento non è incondizionato. Molti paesi occidentali continuano a vivere il declino della fede e delle pratiche religiose. I più recenti dati censuari pubblicati in Australia, per esempio, mostrano che il 30 per cento della popolazione si identifica come “priva di religione”, e che questa percentuale è in aumento. Indagini internazionali confermano dei livelli relativamente bassi di religiosità in Europa occidentale e Australasia. Anche gli Stati Uniti, che sono spesso causa di imbarazzo per la tesi della secolarizzazione, hanno visto un aumento dell’ateismo. La percentuale di atei negli Stati Uniti si trova ora a un livello più alto (se “alto” è la parola giusta) di circa il 3 per cento. Nonostante questo però, il numero di persone che si ritengono religiose a livello globale rimane alto, e le tendenze demografiche suggeriscono che il modello generale dell’immediato futuro sarà di crescita religiosa. Ma questo non è l’unico fallimento della tesi della secolarizzazione.
Scienziati, intellettuali e sociologi pensavano che la diffusione della scienza moderna avrebbe portato alla secolarizzazione – che la scienza, insomma, sarebbe stata una forza secolarizzante. Ma non è stato così. Se guardiamo alle società in cui la religione è ancora vitale, le loro caratteristiche comuni hanno meno a che fare con la scienza e più con il senso di sicurezza esistenziale e di protezione da alcune delle incertezze fondamentali della vita, sotto forma di beni pubblici. Una rete di sicurezza sociale potrebbe essere correlata con i progressi scientifici, ma in modo impreciso, e ancora una volta è istruttivo il caso degli Stati Uniti. Gli USA, infatti, sono senza dubbio la società più scientificamente e tecnologicamente avanzata al mondo, e allo stesso tempo sono la più religiosa delle società occidentali. Come ha scritto il sociologo britannico David Martin ne Il futuro del cristianesimo (2011): “Non c’è alcuna relazione coerente tra il grado di progresso scientifico e la riduzione di influenza, fede e pratica religiosa”.

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Jawaharlal Nehru

La storia della scienza e della secolarizzazione diventa ancora più intrigante se si considerano quelle società che hanno avuto reazioni significative contro l’agenda laica. Il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru ha sostenuto ideali laici e scientifici, e ha inserito l’educazione scientifica nel suo progetto di modernizzazione del paese. Nehru era sicuro che il passato vedico indù e i sogni musulmani di una teocrazia islamica avrebbero ceduto entrambi davanti all’inesorabile marcia della secolarizzazione. “La Storia prosegue a senso unico”, ha dichiarato. Ma, come attesta l’aumento di indù e di fondamentalismo islamico, Nehru aveva torto. Inoltre, l’associazione della scienza all’agenda laica ha causato l’effetto collaterale di fare della scienza una vittima collaterale della resistenza alla laicità.
La Turchia è un caso ancor più rivelatore. Come la maggior parte dei nazionalisti pionieristici, Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica turca, era un laico. Atatürk credeva che la scienza fosse destinata a soppiantare la religione. Al fine di assicurarsi che la Turchia fosse sul lato giusto della storia, ha conferito alla scienza, in particolare alla biologia evolutiva, un posto centrale nel sistema di istruzione della nascente Repubblica turca. L’evoluzionismo e il secolarismo sono stati associati al programma politico di Atatürk. Di conseguenza i partiti islamici turchi, che cercano di contrastare gli ideali laici dei fondatori della nazione, hanno attaccato anche l’insegnamento delle teorie evolutive. Per loro, l’evoluzione è associata al materialismo secolare. Questo sentimento è culminato nella decisione dello scorso giugno di rimuovere l’insegnamento della teoria evolutiva dalle classi del liceo. Anche in questo caso, la scienza è diventata una vittima per via di un’alleanza sbagliata.
Gli Stati Uniti hanno un contesto culturale diverso, in cui potrebbe sembrare che la questione chiave sia il conflitto tra le letture letterali della Genesi e le caratteristiche fondamentali della storia evolutiva. Ma in realtà gran parte del discorso creazionista è incentrato su valori morali. Anche nel caso degli Stati Uniti, vediamo che l’anti-evoluzionismo è motivato almeno in parte dal presupposto che la teoria dell’evoluzione favorisca il materialismo secolare e la sua visione morale. Come in India e Turchia, di fatto la laicità sta danneggiando la scienza.
In breve, non solo la secolarizzazione globale non è inevitabile ma, quando accade, non è causata dalla scienza. Inoltre, quando si prova a usare la scienza per promuovere il secolarismo, i risultati rischiano di danneggiarla. La tesi che “la scienza causa la secolarizzazione” fallisce il test empirico e arruolare la scienza come strumento di secolarizzazione si rivela una pessima strategia. La scienza e il laicismo sono un’accoppiata così imbarazzante da farci chiedere: perché c’è ancora chi non se ne accorge?
Storicamente, le fonti che hanno avanzato l’idea che la scienza avrebbe soppiantato la religione sono due. In primo luogo, le concezioni progressiste della Storia del XIX secolo, in particolare quelle associate al filosofo francese Auguste Comte, che sostiene che le società passano attraverso tre fasi – religiosa, metafisica e scientifica (o “positiva”). Comte, che ha coniato il termine “sociologia”, voleva diminuire l’influenza sociale della religione e sostituirla con una nuova scienza sociale. L’influenza di Comte si è estesa fino ai “giovani turchi” e Atatürk.
Nel XIX secolo, inoltre, si è assistito alla nascita di un “modello conflittuale” tra scienza e religione. È la visione che la storia possa essere compresa nei termini di un “conflitto tra due epoche nell’evoluzione del pensiero umano – quella teologica e quella scientifica”. Questa descrizione viene dall’influente testo di Andrew DicksonWhite A History of the Warfare of Science with Theology in Christendom” (1896), il cui titolo incorpora alla perfezione la teoria dell’autore. Il lavoro di White, così come il precedente “History of the Conflict Between Religion and Science” (1874) di John William Draper, fonda la tesi del conflitto come metodo standard per interpretare le relazioni storiche tra scienza e religione. Entrambe le opere sono state tradotte in più lingue. La Storia di Draper ha visto più di 50 edizioni nei soli Stati Uniti, ed è stata tradotta in 20 lingue. In particolare, è diventata un bestseller nel tardo impero ottomano, influenzando il pensiero di Atatürk che il progresso consista nella sostituzione della religione da parte della scienza.
Oggi, le persone sono meno fiduciose che la storia si muova attraverso una serie di tappe indirizzate a una destinazione comune. La maggior parte degli storici della scienza inoltre, nonostante la sua persistenza nel pensiero comune, rifiuta l’idea di un conflitto duraturo tra scienza e religione. Celebri scontri come il caso di Galileo, nascevano anche dalla politica e dalle personalità in campo, non solo dalla scienza e la religione. Darwin aveva significativi sostenitori religiosi e detrattori scientifici, e viceversa. Molti altri casi di presunto conflitto scienza-religione sono ora considerati invenzioni. La norma, infatti, è più spesso quella del sostegno reciproco. Nei suoi anni di formazione nel XVII secolo, la scienza moderna era basata sulla legittimazione religiosa. Nel corso del XVIII e XIX secolo, la teologia naturale ha contribuito a divulgare la scienza.
science_religion-e1487601998562.pngIl modello conflittuale tra scienza e religione ha offerto una visione sbagliata del passato, che, in combinazione con le aspettative della secolarizzazione, ha portato a una visione sbagliata del futuro. La teoria della secolarizzazione è fallita sia dal punto di vista descrittivo che predittivo. La vera domanda è perché esistono ancora sostenitori di questo conflitto. Molti di loro sono eminenti scienziati. Sarebbe superfluo ribadire le riflessioni di Richard Dawkins sull’argomento, ma non si tratta di una voce solitaria. Stephen Hawking ritiene che “la scienza vincerà perché funziona”; Sam Harris ha dichiarato che “la scienza deve distruggere la religione”; Stephen Weinberg pensa che la scienza abbia indebolito la fede religiosa; Colin Blakemore prevede che la scienza finirà per rendere inutile la religione. Le testimonianze storiche non supportano tali visione. Anzi, suggeriscono che siano fuorvianti.
Allora perché persistono? Le risposte sono politiche. Lasciando da parte qualsiasi predilezione per le pittoresche visioni della storia del XIX secolo, dobbiamo guardare alla paura del fondamentalismo islamico, l’esasperazione del creazionismo, l’avversione per le alleanze tra i religiosi di destra e i negazionisti del cambiamento climatico, le preoccupazioni circa l’erodersi dell’autorità scientifica. Anche se potremmo concordare con queste preoccupazioni, non c’è nulla di male nello smascherare il fatto che queste nascono da un’intrusione gratuita di impegni normativi nel dibattito. La speranza che la scienza sconfiggerà la religione non è un valido sostituto di una valutazione delle realtà presenti. Continuando con questa linea difensiva si rischia di ottenere un effetto opposto a quello voluto.
La religione non scomparirà presto, e la scienza non la distruggerà. Semmai, è la scienza che è soggetta a crescenti minacce alla sua autorità e alla sua legittimità sociale, motivo per cui ha bisogno di tutti gli alleati possibili. I suoi sostenitori farebbero bene a smettere di vedere un nemico nella religione, o insistere sul fatto che l’unica strada per il futuro si trovi in un connubio di scienza e laicità.

Totalitarismo contabile?

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Un suggerimento per una futura lettura (anche se in lista d’attesa c’è già moltissima roba…). Lo spunto arriva da Elisa Bonzoni.
“È possibile misurare il successo lavorativo? Un’idea? Un’emozione? «Vivere significa nuotare in aperti oceani dove la logica e la matematica non possono arrivare». E quando hanno la pretesa di farcela arrivare, a emergere è una realtà che è più vicina a un’ossimorica realtà distorta.
Non era facile scrivere un libro così, su questo tema e in questo modo. Stefano Diana c’è riuscito mettendo una dietro l’altra quasi 300 pagine (Noi siamo incalcolabili. La matematica e l’ultimo illusionismo del potere, Stampa Alternativa) sul tema senza mai essere ridondante.
Diana descrive il percorso involutivo dell’umanità, un percorso che sta rapidamente portando alla catastrofe ambientale, all’inquietante preponderanza delle tecnologie virtuali, al restyling penoso della parola, all’incomprensione della realtà e dei suoi processi, all’incomunicabilità e alla mancanza di relazioni tra esseri umani. Un percorso che non ci permette di controllare e capire i processi avviati, che rende il mondo meno democratico e egalitario, e più ingiusto. Processi che ci portano rapidamente verso il baratro e ci allontanano da noi, dall’essenza dell’uomo e dalla risposta che è dentro di noi, ed è proprio quella giusta!
La tendenza è misurare tutto quello che non ha misura. Un «totalitarismo contabile» e una «tossicodipendenza da numero» secondo i quali ogni cosa è stimabile con criteri razionali che risultano essere tutto tranne che razionali. Dai trend finanziari al rendimento scolastico dei figli, dagli stipendi ai criteri di valutazione o di soddisfazione di qualsiasi ordine e grado. Dio e Cesare si fondono e si confondono e a rimanere sul campo è una visione contorta e distorta della realtà che ci rende tutti più ignoranti e incapaci di capire, interpretare, conoscere, sentire. Cosa? Tutto! Per eterogenesi dei fini più cerchiamo di codificare la realtà più ci allontaniamo dal suo significato, entropicamente. Leggiamo Dio con Cesare deformandolo; e discutiamo teoremi, che nulla hanno di razionale e di reale anche perché partono da assiomi falsi. Davanti non abbiamo più né Dio né Cesare.
E in questo caso Dio, in un contesto di dichiarato ateismo, diventa l’essere umano nel suo valore intrinseco, le emozioni, e la neurobiologia stessa. Questo è il percorso di santità che a dirla tutta, somiglia alla visione della santità cattolica. E la salvezza universale (che Diana vede chiaramente in ottica laica) passa da qui. Passa dal santo che è in ognuno di noi che è il valore intrinseco, che sono le neuroscienze, che è l’uomo. E la salvezza è l’empatia e la compassione, il superamento dell’egoismo per arrivare all’altro e a noi con l’altro.”

Tempo di pluralismo

2377-1 defDEF-350x500In questo articolo, pubblicato su Il Sole 24ore, Massimo Donaddio presenta il libro di Peter L. Berger intitolato I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo.
C’è stato un tempo in cui la gran parte degli studiosi riteneva che la modernità portasse inevitabilmente a un tramonto del fenomeno religioso, come effetto in gran parte della rivoluzione scientifica e tecnologica, che mette a disposizione di larghi strati di popolazione strumenti dalle enormi potenzialità, rendendo meno pressante l’urgenza del ricorso al divino attraverso la fede e la preghiera.
Quest’impostazione, di stampo illuministico ha ancora molti seguaci, come evidenziato nell’ormai classico saggio del filosofo Charles Taylor, L’età secolare (Feltrinelli, 2009). Eppure molti sociologi, da diversi anni, si sono in un qualche modo “convertiti” a un nuovo paradigma, più complesso, che mette in luce non tanto il tramonto delle religioni nel tempo della modernità, quanto la loro convivenza pluralistica all’interno di un mondo dove il discorso secolare rappresenta lo sfondo comune per ciascuno individuo.
Uno degli alfieri di questo approccio è il noto sociologo americano di origine austriaca Peter L. Berger, professore emerito alla Boston University e autore nel 2014 del saggio appena tradotto da Emi con il titolo I molti altari della modernità. Le religioni al tempo del pluralismo.
Berger parte dall’assunto generale che il fenomeno religioso sia sempre molto vivo, addirittura in crescita in alcune zone del mondo, nonostante la globalizzazione abbia portato molti popoli ad aumentare le proprie potenzialità, risorse e conoscenze tecniche. Con l’eccezione del continente europeo, contrassegnato da un certo laicismo, i continenti americano, asiatico e africano continuano a mostrare un grande attaccamento alla religione in tutte le sue varie forme, con un continuo proliferare di chiese, sette e confessioni varie.
Sempre più, anzi, religioni diverse sono chiamate a convivere fra loro, come pure con un indubbio approccio di ispirazione secolare, sia nelle menti degli individui che nello spazio pubblico. Secondo Berger, il grande cambiamento portato dalla modernità non è, quindi, il secolarismo (o laicismo), bensì il pluralismo, ossia la coesistenza di diverse visioni del mondo e di scale di valori all’interno della stessa società. Insomma, la laicità europea (e dei circoli intellettuali internazionali) non sarebbe l’unica forma di modernità: esistono, per lo studioso americano, altre versioni di modernità che accordano alla religione un ruolo molto più centrale.
Anche la tensione tra modernità e impostazione religiosa è un fenomeno che non è possibile ignorare: è, infatti, una realtà che continua a bussare alla porta del mondo occidentale in diverse forme. Per esempio è la sfida che si trova di fronte l’islam, in Europa come in Africa e in Asia: come è possibile essere devoti musulmani e nella stesso tempo praticare e apprezzare i valori della modernità? Come deve configurarsi una società islamica moderna? Gli stessi interrogativi vengono sollevati in Cina, in India, in Russia, in Israele, in altre società. È la convivenza tra questi due aspetti, il condividere allo stesso tempo valori laici e religiosi, la caratteristica delle società del tempo moderno.
Naturalmente è essenziale che siano attive strutture istituzionali e politiche che garantiscano l’equa convivenza di una pluralità di religioni e di visioni del mondo, all’interno di un contesto culturale-giuridico che garantisca la libertà religiosa e l’uguaglianza di ogni persona davanti alla legge.
Differenti sono le modalità per raggiungere quest’obiettivo: il mondo occidentale ha battuto la via della laicità di tipo illuministico – anche nella sua variante americana, vedi il Primo Emendamento della Costituzione degli Usa – ma non sono escluse altre sintesi operate da altri contesti sociali e culturali”.

Turchia: quale laicità?

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Un articolo molto molto interessante di Chiara Maritato sulla Turchia, sulla laicità e sul ruolo religioso ed etico dell’Islam. La fonte è l’Osservatorio Balcani e Caucaso – Transeuropa.
In molti articoli che raccontano la Turchia di oggi, compare una narrazione che segue più o meno la seguente trama: nata dalle ceneri di un impero, dove regnava un Sultano/Califfo (kalifat rasul Allah, cioè rappresentante dell’inviato di Dio, e quindi successore di Maometto), la Turchia si è poi laicizzata con la proclamazione della Repubblica fondata il 29 ottobre del 1923 da Mustafa Kemal (che si farà poi chiamare, dal 1934, padre dei turchi, Atatürk).
Oggi, dopo quindici anni di governo conservatore religioso del partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), la Turchia si sta islamizzando. Questa visione, seppure molto diffusa, è incompleta. Come si “islamizza” una nazione la cui popolazione è per oltre il 90% di religione musulmana? La domanda può sembrare retorica, ma non lo è del tutto. Nell’aprile 2016, in un intervento che ha scatenato molte polemiche il Presidente del parlamento turco, Ismail Kahraman, ha affermato senza mezzi termini che la Turchia è uno stato a maggioranza musulmana e dovrebbe avere una costituzione religiosa.
Se è vero che il ruolo e il significato della religione nella sfera pubblica sono andati ridefinendosi, l’Islam non ha mai cessato di essere una componente fondante dell’identità turca. Inoltre, la laicità intesa come separazione tra stato e chiesa ha poco o niente a che fare con la laicità turca, laiklik. Principio costituzionale e valore fondante, ispiratore di politiche restrittive e di non pochi colpi di stato, il laiklik è lontano da una separazione tra stato e religione come due realtà a sé stanti. Al contrario, esso si presenta come principio assertivo in cui lo stato, attraverso il suo apparato burocratico e militare, controlla la religione relegandola alla sfera privata.
Un altro aspetto critico è che a livello istituzionale, a differenza di quanto talvolta si legge, la Repubblica turca non nasce laica. L’articolo 2 della Costituzione del 1924 afferma che “la religione della Repubblica è l’Islam”. Quest’articolo sarà emendato nel 1928, quando viene meno il riferimento alla religione, ma è solo nel 1937 che includerà la laicità tra i principi fondamentali della Repubblica. Questo ritardo non sorprende, se invece di concentrarsi esclusivamente sulle celebri misure per la modernizzazione volute da Atatürk, si considera la nascita della Turchia come stato-nazione alla luce del nazionalismo turco, un’ideologia che può essere sintetizzata in tre principi chiave: turchizzazione, occidentalizzazione e islamizzazione.
Nel 1925 sono proclamate una serie di leggi dette “Rivoluzionarie”, che impongono la chiusura delle confraternite sufi e delle comunità religiose e vietano il fez (copricapo ottomano). Durante i primi venti anni della Turchia Repubblicana, l’élite al governo è stata quindi impegnata nella missione di “rieducare” la popolazione a una morale civica e alle cosiddette sei frecce del kemalismo, elaborate nel 1931 (nazionalismo, populismo, repubblicanesimo, statalismo, rivoluzionarismo, laicismo). Questa “missione civilizzatrice” ha avuto l’obiettivo di modernizzare e occidentalizzare usi e costumi, anche negli aspetti più privati. A tale processo, noto in Turchia con il termine di “ingegneria sociale” (toplumsal mühendisliği) si sono contrapposte una serie di rivolte scoppiate tra il 1925 e 1930. Il regime ha risposto rafforzando il suo controllo autoritario contro una costante minaccia islamista (irtica). Tuttavia, le pratiche religiose “non-ufficiali” sono continuate clandestinamente nel quotidiano.
L’intento di educare la società a una modernità secolare non prevedeva la costituzione di una società senza religione. Quello che è spesso definito come Islam kemalista ufficiale versus l’Islam della tradizione e delle confraternite è da intendersi come il controllo dello stato su una religione da praticarsi in forma privata e il più possibile “razionale”. Un aspetto che spesso sfugge quando si analizza la prima secolarizzazione, è che il laicismo turco è stato un tentativo di re-islamizzare la società verso un Islam “nazionale”, “civile”, “ufficiale”, “puro” (doğru din) lontano dalla tradizione e dalla superstizione.
Uno degli strumenti con cui la Repubblica turca ha avviato questa trasformazione del religioso è indubbiamente il Direttorato per gli Affari Religiosi (Diyanet). A seguito della proclamazione della Repubblica nel 1923, il 3 marzo 1924 gli affari religiosi diventarono competenza di un’unità amministrativa, il Direttorato per gli Affari Religiosi. Il Diyanet è un organo statale il cui presidente è nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo ministro. Tra le sue principali competenze vi sono la gestione dei servizi riguardanti la fede, le pratiche islamiche e l’amministrazione dei luoghi di culto. Concretamente, il Diyanet supervisiona le attività che si svolgono nelle circa 90.000 moschee in Turchia, seleziona gli operatori di culto (che sono quindi dipendenti statali) e diffonde la dottrina religiosa, l’Islam sunnita di scuola hanafita.
Se è vero che nell’ultimo ventennio le competenze e risorse di questa istituzione pubblica sono profondamente mutate, la trasformazione del Diyanet fu avviata molto prima della vittoria dell’AKP alle elezioni del 2002. Nel 1965, la legge sull’organizzazione e i doveri del Direttorato elenca tra i compiti dell’organo quello di “illuminare la società sulla morale”. È dunque a partire dagli anni Sessanta che la sfera morale entra tra le competenze dirette dell’istituzione. Per restarci. Durante gli anni Settanta, e soprattutto dopo il colpo di stato del 12 settembre 1980, sarà anche attraverso la rete capillare del Diyanet, diffusa sul territorio nazionale e nelle comunità turche in Europa, che si consolida la cosiddetta “Sintesi turco-islamica”. Quest’ultima ha visto un utilizzo strumentale della religione come collante della società. Il Diyanet assunse dunque una funzione tutelare di contrasto ai movimenti di sinistra e al partito comunista. Infatti, la Costituzione oggi vigente, promulgata nel 1982 e figlia di quel colpo di stato, all’articolo 136 aggiunge tra le competenze del Direttorato quella di “promuovere la solidarietà e l’integrità nazionale”.
A partire dai primi anni 2000, e soprattutto dal 2010, una riorganizzazione interna ha rinforzato la capacità amministrativa del Diyanet. Il suo budget è oggi pari a più di 2 miliardi di dollari e conta circa 120.000 dipendenti. Nell’ultimo decennio, da protettore del laicismo di stato, il Diyanet è diventato una delle istituzioni più politicizzate, nonché uno degli strumenti attraverso cui diffondere nazionalismo turco e morale islamica, due componenti chiave su cui si fondano le politiche dell’AKP.
kocatepemosqueIn questo quadro si inserisce la volontà di formare una “nuova generazione di devoti”, come ha affermato in un celebre discorso del 2012 l’allora premier Erdoğan. Ad emergere è soprattutto il sostegno morale e spirituale che il Diyanet, tramite il suo personale maschile e femminile, fornisce alla popolazione. Questo avviene non solo nelle moschee dislocate in tutta la Turchia, ma anche in strutture pubbliche come ospedali, orfanotrofi, prigioni, località protette per donne vittime di violenza, riformatori. A seguito di accordi con i ministeri competenti, il personale del Diyanet si reca regolarmente in queste strutture pubbliche per svolgere attività di predicazione, lettura di Corano, guida spirituale (irşad) e sostegno morale.
Dal 2005, sono stati inoltre istituiti uffici del Diyanet con l’intento di fornire sostegno morale e guida spirituale a donne e famiglie (Aile Irşad ve Rehberlik Büröları). Si tratta di una sorta di consultori familiari, dislocati sul territorio nazionale, dove predicatori e predicatrici del Diyanet incontrano su appuntamento donne e famiglie, ascoltano i loro problemi, organizzano seminari e attività di formazione. Questi uffici sono forse la struttura che più di tutte incarna la volontà dello stato, attraverso il Diyanet, di appropriarsi di ambiti nuovi come il supporto morale.
L’educazione alla morale islamica e le misure conservatrici recentemente adottate – da ultima la decisione di rimuovere la teoria di Darwin dai libri di biologia riecheggiano, capovolgendolo, il tentativo di secolarizzazione dei costumi imposto dall’alto, da parte di uno “stato-padre” kemalista chiamato ad educare più che a governare. Tuttavia, la questione va oltre la ricerca di pronostici sul se e come l’Erdoğanismo riuscirà in una nuova impresa di “ingegneria sociale” volta ad una re-Islamizzazione. L’attuale riposizionamento dei confini tra stato e religione in Turchia si evince proprio dal ruolo assunto dalla religione nelle istituzioni pubbliche, in quanto insieme di pratiche oltre che di valori. Tuttavia, la piena realizzazione di una missione “moralizzatrice” solleva non poche perplessità. Nonostante l’ingente apparato burocratico e militare, il fallimento della modernizzazione kemalista invita a riflettere criticamente sugli strumenti e sull’efficacia delle politiche oggi in campo, nonché sugli scenari futuri.”

Cosa ci resta di Voltaire

Giulio Giorello presenta il nuovo libro del filosofo spagnolo Fernando Savater sulle pagine de La Lettura. Pungente, acuto, stimolante.

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Fernando Savater

«Ci sono voluti sessant’anni per farci accettare quello che Newton aveva dimostrato; incominciamo appena adesso a salvare la vita dei nostri bambini col vaccino; non applichiamo che da poco tempo i giusti principi dell’agricoltura: quando cominceremo ad applicare i giusti principi dell’umanità?». Così Voltaire scriveva in una pagina del suo Trattato sulla tolleranza, pubblicato nel dicembre del 1763. Il 9 marzo dell’anno precedente a Tolosa era stato messo a morte il protestante Jean Calas, che una giuria aveva ritenuto colpevole della morte di un figlio «impiccato dal padre stesso» perché aveva espresso l’intenzione di tornare alla fede cattolica. Voltaire si era convinto presto che quella condanna era l’ennesimo mostruoso errore giudiziario ispirato dal fanatismo manifestato dalla maggioranza cattolica della città. Nello stesso tempo aveva compreso il peso di quella che oggi chiamiamo opinione pubblica sulla vita dei singoli cittadini. Doveva scrivere nell’opera di teatro Olimpia il verso: «L’opinione fa tutto; è lei che ti ha condannato».

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Voltaire visto da Nicolas de Largillière (1724-25)

Poteva sembrare una resa, era invece l’inizio di una nuova battaglia. Nel giugno del 1764 aveva visto la luce il Dizionario filosofico portatile, che tutto era tranne che un dizionario nel senso usuale del termine; piuttosto un’arma filosofica contro i disastri prodotti da pregiudizi e superstizioni, disponibile per qualsiasi tipo di lettori, per il fatto che era trasportabile e facilmente consultabile, al contrario dei grandi volumi di «metafisica» destinati a una ristretta cerchia di eruditi. Nella voce «Miracoli» del Dizionario si legge: «Un miracolo è la violazione delle leggi matematiche, divine, immutabili, eterne. Solo per questa definizione, un miracolo è una contraddizione in termini: una legge non può essere immutabile e violata»; e perché mai «per favorire gli uomini Dio dovrebbe alterare ciò che ha stabilito per tutti i tempi e per tutti i luoghi? I suoi favori sono già nelle sue stesse leggi». E nella voce «Abramo» (che apre la prima edizione) Voltaire diceva che era uno di quei personaggi «come Thot tra gli Egizi, l’antico Zoroastro in Persia, Ercole in Grecia, Orfeo in Tracia, Odino presso i popoli del Settentrione, che sono più noti per la loro fama che non per una storia ben accertata».
Bastava questo perché all’epoca l’opera di Voltaire fosse considerata un libro uscito «dal torchio di stampa di Belzebù!». E oggi? «È mercé dunque alla filosofia/ che in Europa vi son più lumi che pria,/ i mortali sono meno inumani,/ l’acciaio è spuntato, i fuochi lontani», verseggiava lo stesso Voltaire. Anche per merito suo il fanatismo sarebbe stato costretto a cessare guerre e roghi; però c’è da dubitare che sia davvero così.
Fernando Savater, uno dei maggiori intellettuali spagnoli contemporanei, nel suo Voltaire contro i savater-voltaire-contro-i-fanaticifanatici (Laterza) si chiede «che cosa ci resta veramente di Voltaire? Ci resta l’esempio della sua militanza, (…) che non mirava semplicemente a modificare la nostra comprensione del mondo o la condotta individuale del saggio nel mondo, ma a modificare il mondo stesso (…); nessuno prima di lui si era accorto con tanta chiarezza della forza rigeneratrice che le idee possono esercitare sull’opaca e logora struttura della società».
Savater sottopone al lettore agili estratti dalle opere di Voltaire che illustrano la necessità di «separare ogni tipo di religione da qualunque genere di governo», in modo che «la religione non debba essere questione di stato in misura maggiore che la cucina». E i filosofi debbono «lavorare alla vigna e schiacciare l’infame». Gli infami sono i tanti «scellerati devoti» che impongono la condanna di opinioni e forme di vita diverse dalle loro. Soprattutto in questioni «spirituali». «Quanto più divina è la religione cristiana, tanto meno spetta all’uomo imporla; se Dio l’ha fatta, Dio la sosterrà senza di voi». Per Savater sono ancora troppi i fanatici che hanno «l’hobby di uccidere». Resistere a costoro che ancora si sentono «crudeli come dèi», è importante oggi come all’epoca di Calas. E smettiamola di credere che l’immenso universo sia stato fatto da un nostro Dio solo per noi. Noi siamo piccolissimi atomi, «i cui occhi guidati dal pensiero hanno però osservato la Luna».

Dietro il velo

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Un articolo molto interessante di Marco Palillo, pubblicato poche ore fa su L’Huffington Post. Argomenti? Francia, laicità, Europa, femminismo, velo islamico, donne, islam…
La ministra socialista francese della Famiglia, Laurence Rossignol ha recentemente rilasciato una dichiarazione fortemente provocatoria sul velo indossato dalle donne islamiche “Ci sono donne che lo scelgono come c’erano negri americani favorevoli allo schiavismo”. Il parallelo fra velo e schiavismo dei neri è molto interessante e rivela inconsciamente alcuni nodi irrisolti del dibattito europeo su multiculturalismo e identità religiose.
La questione del velo in Francia ha infatti più a che fare con la storia nazionale della Repubblica francese – incluso il periodo colonialista e la tragedia dell’Algeria – che con i recenti attacchi terroristici di Parigi. Già nel 2004 il tema fu affrontato in un tumultuoso dibattito sulla controversa legge che proibiva il velo nelle scuole. Anche allora il movimento femminista francese si divise in maniera significativa: da un lato, alcune donne identificarono quella battaglia con gli ideali di laïcité repubblicana, dall’altro alcuni gruppi femministi, condannarono fortemente la legge bollandola come islamofoba e sessista. Fra questi, la più celebre è senza dubbio Christine Delphy, leader storica del femminismo materialista, cofondatrice con Simone de Beauvoir della rivista “Nouvelles Questions Feministes”. Delphy in un articolo pubblicato dal Guardian definì il divieto del velo come parte di una più ampia strategia anti-Islam iniziata in Francia 40 anni prima e accusò le femministe favorevoli al divieto di farsi strumentalizzare, come già accaduto per esempio durante la guerra in Afghanistan, da chi utilizza i diritti delle donne per sostenere altre battaglie. Secondo Delphy “se le donne musulmane sono un’oppressa minoranza, andrebbero abbracciate, capite, non attaccate o private di un diritto fondamentale, come quello all’istruzione”.
La Delphy ha ragione quando smaschera l’ipocrisia di una battaglia ideologica che si sta facendo sul corpo delle donne (sia islamiche che non islamiche) ma che nasconde altri fini. Innanzitutto, l’esigenza di riempire un vuoto politico prodotto dall’incapacità delle classi dirigenti occidentali di affrontare le complessità prodotte dalla globalizzazione e dalle migrazioni internazionali. In questo quadro di grande ipocrisia, incapacità e malafede, le donne islamiche sono rimaste schiacciate fra due sistemi patriarcali che vogliono utilizzarle ognuno a proprio piacimento: da un lato, il mondo islamico fondamentalista, che le tratta come esseri inferiori, a volte come merci; dall’altro l’occidente che vuole utilizzarle per fare una battaglia contro i maschi islamici, cacciandoli via dalla fortezza Europa.
Insomma, dai fatti di Colonia in poi, è evidente che nello scontro fra islam-occidente, le donne, le loro libertà, i loro corpi, non contano proprio nulla. Se contassero qualcosa, le donne islamiche non verrebbero costantemente rappresentate come delle povere vittime, senza capacità di discernimento o scelta, e dunque sempre assolte, assistite o compatite.
Pensiamo al caso più paradossale delle giovani islamiche che si sono unite al Califfato. Queste ragazze vengono raccontate dalla stampa come delle povere indifese circuite da Imam, ovviamente maschi, finite nelle mani di crudeli mariti in Siria che le segregano. Eppure la cronaca ci insegna che non è così, nella maggior parte dei casi si tratta di donne educate, occidentali, che decidono di unirsi all’ISIS, come i loro commilitoni maschi, prendendo aerei e viaggiando di nascosto raggiungendo spesso da sole il confine siriano dalla Turchia. Musulmane sono anche le soldatesse curde che ai terroristi dell’ISIS sparano con i kalashnikov o le attivista yazide, che stanno cercando di liberare le loro sorelle divenute schiave sessuali dopo la presa del Sinjar.
Insomma la ministra Rossignol, nella sua dichiarazione impacciata rivela due grande verità:
il femminismo europeo (specie quello della sinistra tradizionale) non ha fatto pace con l’autonomia e la soggettività delle donne islamiche, anzi tende a negarle ogni volta che può;
il pensiero femminile europeo non è stato influenzato adeguatamente dal femminismo intersezionale di matrice americana che mette in rilievo come non esista un’unica voce femminile valida per tutte le donne, ma che le differenze prodotte dall’intersezione del genere con i molteplici aspetti che compongono l’identità (classe sociale, etnia, la religione, l’orientamento sessuale) presuppongano più femminismi e il riconoscimento delle differenze non solo tra maschile e femminile, ma anche tra diversi gruppi di donne.
Ecco perché il paragone con gli schiavi afroamericani della Rossignol è assai rivelatorio. Le donne musulmane vengono dipinte comunque come esseri inferiori, costantemente vittime, sia dai loro difensori che dai loro nemici. Soggetti senza voce, a cui le donne occidentali, rivendicando il proprio privilegio, devono sostituirsi (per il loro bene, s’intende) anche quando si tratta di scelte come l’abbigliamento personale e la fede religiosa. In pratica, vogliamo liberare le donne musulmane, sostituendo i maschi islamici (padri, mariti) che parlano e decidono per loro, con altre donne (questa volta occidentali) che però continuano a parlare e a decidere a loro posto. Facendo così si rischia di vanificare l’operazione – questa sì veramente libertaria e rivoluzionaria – di cambiamento sociale portata avanti dalla stragrande maggioranza di giovani islamiche europee, che si sentono pienamente parte della cultura occidentale, aderendo in toto negli stili di vita, costumi, e valori, ma che non vogliono rinunciare alla propria identità etnica-religiosa, di cui il velo è un chiaro simbolo storico-culturale.
Lo racconta bene Amara Majeed, studentessa in neuroscienze alla prestigiosa Brown University, in una lettera aperta alla ministra Rossignol pubblicata da Bustle. Quando a quattordici anni decise di indossare lo hijab, la domanda più frequente fu “sono stati i tuoi genitori a importelo?”. La Majeed raccontando la sua scelta personale, frutto di una libera scelta senza costrizioni, afferma che “il velo le copre la testa non il cervello”. E forse questa rivendicazione di auto-determinazione femminile che spaventa più di ogni altra cosa? Per questo motivo, Amara ha lanciato un esperimento sociale, The Hijab Project, in cui invita le donne di tutte le fedi e razze, a indossare il copricapo islamico per un giorno, raccontando poi l’esperienza sul suo blog. Il progetto che ha riscosso grande attenzione dai media occidentali, dalla BBC a Good Morning America, mira a promuovere l’empowerment delle donne islamiche, facendo capire alle donne occidentali cosa si provi a vivere con il velo. Per Majeed indossare il hijab è una scelta femminista, di ribellione rispetto a un mondo che mercifica e sessualizza costantemente le donne, dalle copertine dei giornali alle molestie sessuali. In questo, sorprendentemente, Amara Majeed riecheggia la ministra francese Rossignol che in un’intervista al Corriere, paragona il velo agli abusi di chirurgia estetica. Chi scrive ovviamente non è d’accordo con nessuna delle due, essendo assolutamente favorevole tanto al velo quanto alle labbra a canotto se frutto di consapevole scelta; allo stesso tempo ritengo però che questo dibattito interculturale tra donne sia una grande ricchezza, perché il tema del velo riapre questioni irrisolte che danno ancora fastidio: il riconoscimento delle soggettività femminili, la libertà di scelta delle donne e l’autodeterminazione sul proprio corpo.
Sia Rossignol che Majeed infatti si interrogano su un sistema simbolico – il velo e la chirurgia estetica – creato dal potere maschile, dalle sue regole e dei suoi canoni estetici, anche se in due culture differenti. Ecco, che allora se da un lato il dibattito sul velo va fatto con le donne musulmane e non al posto loro, non bisogna dimenticare che questo dibattito non è neutro perché avviene comunque all’interno dello scontro fra due sistemi patriarcali, quello occidentale e quello islamico. Essere femministe o femministi, oggi, significa non fare sconti a nessuno dei due, ma soprattutto non farsi strumentalizzare da nessuno dei due.
Le femministe occidentali non devono farsi portavoce delle donne islamiche, soprattutto quando le uniche che frequentano sono le proprie colf. Ecco che la pletora di articoli in stile “io ti salverò”, intrisi di paternalismo e buonismo, non è più accettabile. In questo senso, sono più oneste le commentatrici di destra, alla Fallaci, che vedendo nell’Islam un nemico, vedono le donne islamiche alla stregua dei maschi un avversario da battere. Inoltre, le femministe occidentali, che come me non credono nello scontro fra civiltà, ma semmai fra patriarcati, non possono essere così ingenue da non problematizzare il proprio privilegio che le rende così distanti – quasi aliene – rispetto alle donne musulmane, nonostante la biologia e l’anatomia.
Dall’altra parte, le femministe islamiche non possono però chiederci di non vedere le crudeltà e la violenza inflitte nelle comunità islamiche nei confronti delle donne, delle minoranze religiose, o degli omosessuali. La laicità è un valore irrinunciabile per l’Europa, conquistato con grande fatica e molti sacrifici: non siamo perciò disposti a nessuna forma di indulgenza motivata su basi culturali o religiose verso quelle pratiche che limitino le libertà o il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti la legge. Inoltre, le nostre amiche e sorelle islamiche devono avere il coraggio – molte già lo fanno a dire il vero – di aprire una discussione franca su questo con i loro uomini, sfidandone il potere se serve. Noi dobbiamo sostenerle, ma non possiamo e non dobbiamo sostituirci a loro.
Su questi basi si può aprire una vera discussione paritaria fra donne (e uomini) di diverse culture, religioni, classi sociali, che superi lo scontro di civiltà, gli stereotipi, le caricature, per regalarci un vero incontro fra civiltà, non basato sulla stucchevole retorica buonista che non porta da nessuna parte, ma su un mutuo riconoscimento della differenze all’interno di una più ampia politica delle identità.”

Gemme n° 369

presepe

La mia gemma è una lettera scritta da me; so che verrà usata per pretesti, litigi, ma il mio intento è assolutamente pacifico.” Questa è stata la premessa di L. (classe quinta) alla sua gemma che ora segue: “La mia gemma è un oggetto piccolo, direi piccolissimo per dimensione ma grande per significato. Si tratta di un presepe di pochi centimetri che il 9 dicembre ho portato in classe per condividere un evento per me importante, la Natività. Per non offendere chi, a differenza di me, legittimamente non crede o crede in un altro Dio, l’avevo scelto appositamente piccolo. Voleva essere un segno, nulla di più, ma anche nulla di meno in nome della libertà di espressione, di culto e intellettuale che ha sempre contraddistinto i discorsi in classe in tutte le materie, da filosofia a storia, da italiano a ovviamente religione. Alle proteste di una compagna, il resto della classe presente si è dichiarato favorevole in nome dello stesso Credo o del rispetto reciproco, senza sentirsi infastidito ma anzi gradendo la condivisione di una festività.
In questa classe ci siamo indignati all’unisono dinanzi alle stragi di Parigi. Ci siamo commossi all’unisono per quei coetanei uccisi dall’intolleranza e dall’incapacità di rispettare la libertà degli altri, fosse di stampa o di religione o “semplicemente” di ascoltare musica.
Ebbene, pochi giorni dopo quelle lacrime espresse a parole e quel grido di libertà che ha unito il mondo, nel microcosmo della nostra classe è andata in scena l’intolleranza. Il Bambinello è stato nascosto sotto un pezzo di carta fermata dal nastro adesivo, come se il solo vederlo mettesse a rischio la serenità di 27 persone. Non ho detto nulla, triste più per la viltà del gesto che per l’offesa arrecata alla mia fede. Mi sono limitata a “spacchettare” il piccolo Gesù.
Ma quel presepe bonsai, a dispetto delle sue dimensioni, rappresenta un grande affronto per una o più persone, quelle stesse che ogni giorno, di ogni settimana, di ogni mese di questi ultimi due anni hanno elargito all’intera classe, ad ogni occasione anche la più pretestuosa, lezioni di politica non richieste e non gradite eppure civilmente e pazientemente ascoltate da tutti, sebbene recentemente mal sopportate.
Ebbene ieri, giorno in cui ero assente per una indisposizione, quel piccolo simbolo di libertà, tolleranza e condivisione, a scanso di equivoci è finito dritto dritto in un angolo nascosto dell’armadio di classe.
Sono sinceramente amareggiata. Per due volte ho visto lesa la mia e altrui libertà di credere in un Dio. Chi ha agito nell’ombra ha soprattutto dimostrato quanto sia enorme la distanza tra le parole e i fatti in tema di rispetto, uguaglianza, solidarietà e dialogo interculturale.
Non vorrei essere fraintesa. Il gesto non merita commenti e neppure diventare un casus bellico, ma – secondo me- deve essere lo spunto per una riflessione comune.
Credo nella tolleranza, nel rispetto reciproco, nella cultura italiana e multietnica, nel saper ascoltare il cuore e non solo la mente.
Credo che questo episodio, indubbiamente piccolo se rapportato ad altri drammi, debba comunque ricordarci che la libertà non ha prezzo. Nella vita tutti noi, prima o poi, incroceremo lungo le nostre strade persone che, con prepotenza, ignoranza e ipocrisia, cercheranno di imporsi e di annullare le nostre libertà. Oggi come domani non dovremo farci intimidire.
Noi siamo il futuro. Il mondo sarà presto nelle nostre mani. Non ci saranno scusanti. Le scelte che verranno fatte saranno le nostre e non potremo nasconderci nell’anonimato o accusando altri.”
Una vita che nasce, una coppia che diventa generatrice di vita, un aiuto dato e ricevuto, delle persone povere e umili chiamate a condividere qualcosa che ha cambiato la storia (i pastori), l’uguale dignità del primo e dell’ultimo, la pace e la convivenza, l’incontro con altre culture e altri popoli (i magi), la natura non solo cornice ma protagonista della scena, gli animali coinvolti nella scena, l’attenzione centrata sul soggetto debole ma protagonista del futuro, dei fuggitivi che trovano un riparo. Ho pensato di buttare giù al volo dei significati che una persona non cristiana può trovare in un presepe. Vuole vederci altro? E’, appunto, una questione di volontà. E la volontà ha mille sfaccettature. E’ la volontà che mi porta a pensare che incontro, apertura, dialogo, conoscenza, corrispondano a un di più e non a un di meno. Qualsiasi simbolo, qualsiasi cosa, può essere interpretata in modi diversi, talora opposti. Qual è la volontà che mi guida in tale lettura? La volontà di incontrarmi o quella di scontrarmi?
Pongo qui sotto una citazione. Ho tolto una parola per non renderla riconoscibile. Quando chiedo in classe chi possa aver scritto queste parole vengono nominati il papa, Gandhi, Manzoni (quella provvidenza con la P maiuscola…), Mandela, Obama… A pochi viene in mente il vero autore. “Quando guardo agli ultimi cinque anni che stanno dietro di noi non posso fare a meno di dire: questa non è stata opera solo dell’uomo. Se la Provvidenza non ci avesse guidati spesso, non sarei stato in grado di percorrere questo cammino vertiginoso. C’è qualcosa che i nostri avversari dovrebbero sapere sopra ogni cosa. Che noi, …, siamo fondamentalmente dei devoti. Non abbiamo scelta: nessuno può fare la storia di una nazione o la storia del mondo se le sue azioni e le sue capacità non sono benedette dalla Provvidenza.”
Cosa voglio vedere?
Quale volontà mi guida? La volontà di incontrarmi o quella di scontrarmi?

Uno sguardo su Tunisi

Gli attentati di Tunisi della scorsa settimana mi hanno colpito particolarmente perché hanno toccato luoghi che ho visitato in un viaggio di qualche anno fa. Oggi pubblico un articolo di Simone Olmati del 20 marzo (pubblicato su Limes), con alcune foto che ho scattato nel luglio 2008.

Tunisia 15-22 luglio 2008 323 fbLa sparatoria davanti al Parlamento e il successivo attacco all’adiacente museo del Bardo che ha provocato 22 vittime accertate gettano la Tunisia nella guerra regionale al jihadismo (non solo dello Stato Islamico). Un vortice da cui la giovane democrazia nordafricana avrebbe volentieri mantenuto le distanze, come testimoniano le posizioni assunte dal governo di Tunisi in merito alla crisi libica e la replica, ben più esplicita, del primo ministro Habib Essid all’appello interventista dell’Egitto. “Abbiamo preso tutte le misure necessarie”, aveva dichiarato Essid lo scorso 18 febbraio. Un mese dopo, l’attacco terroristico non solo ha smentito nei fatti le parole del premier, ma ha messo in mostra le falle evidenti dell’intelligence e trascinato di peso il paese dei gelsomini nella lotta al terrorismo. L’attentato avrà senza dubbioTunisia 15-22 luglio 2008 327 fb conseguenze rilevanti sull’approccio che il governo deciderà di adottare per prevenire la penetrazione jihadista. Nel discorso immediatamente successivo all’assalto il premier ha parlato di una “guerra lunga”, ma ha voluto altresì rassicurare i tunisini sul fatto che il governo adotterà contromisure straordinarie per tutelare la capitale e i siti turistici, ben consapevole del danno economico che l’attentato può produrre in termini di riduzione delle presenze turistiche. Il governo stima una perdita di almeno 700 milioni di dollari. Il turismo infatti, sebbene in calo negli ultimi anni, rappresenta pur sempre circa il 15% del pil tunisino.

Case di Sidi copia 2Nel pomeriggio del 19 marzo è arrivata la rivendicazione del gesto da parte dello Stato Islamico (Is), con un file audio e un testo diffusi via twitter. Entrambi i file dovranno essere vagliati attentamente per accertarne l’attendibilità. Nonostante l’attribuzione del gesto all’Is, la presenza organizzata e strutturata di seguaci di al-Baghdadi in Tunisia non sembra trovare riscontro; così come non sembrano esserci state, ad oggi, affiliazioni ufficiali di gruppi jihadisti locali al “califfato”. I messaggi di sostegno all’Is da parte di alcuni battaglioni di terroristi sembrano più opera di singoli militanti che non delle rispettive leadership, ancora fedeli ad al Qaida. Il battaglione Okbaa Ibn Nafaa rientra in questa casistica. La katiba, operativa al confine tra Tunisia e Algeria, ha rivendicato – tra le altre azioni – l’uccisione di quattro soldati di stanza nel governatorato di Kasserine avvenuta nella notte tra il 17 e il 18 febbraio scorso. Nonostante la katiba (non l’unica operativa in Tunisia) abbia in passato diffuso contraddittori messaggi di supporto allo Stato Islamico (come riporta David Thompson), essa non ha mai giurato fedeltà al califfato ed è, viceversa, ritenuta affiliata alla casa madreTappeti! copia 2 Ansar al-Sharia, alla quale garantirebbe un legame “operativo” con al Qaida nel Maghreb Islamico (Aqmi). Le forze attualmente attive in Tunisia sono dunque riconducibili all’ombrello di Aqmi più che allo Stato Islamico. Proprio il giorno prima dell’attentato di Tunisi, era stato uno dei leader di Ansar al Sharia, Wannes Fékih, a preannunciare in un video – dove compare soltanto in foto – “giorni pieni di avvenimenti”. Gli arresti delle ultime ore sapranno dare qualche informazione in più a riguardo.

Stato Islamico o al Qaida, la Tunisia deve preoccuparsi soprattutto del “terrorismo di ritorno”, laddove il paese dei gelsomini più di ogni altro esporta foreign fighters sui fronti caldi di Iraq e Siria. Tali combattenti, arruolatisi in molti casi anche a causa di condizioni di marginalità economica e sociale, potrebbero tornare in patria da militanti estremamente radicalizzati ma soprattutto da esperti combattenti, con tutti i rischi che ne conseguono. Lo scorso 13 febbraio, Rafik Chelli – segretario di Stato incaricato della sicurezza – aveva dichiarato che i jihadisti rientrati dalla Siria sarebbero almeno 500. I due autori materiali dell’attacco al parlamento e al Bancarella di spezie copia2Bardo avrebbero trascorso un periodo in due campi d’addestramento in Libia prima di rientrare, secondo quanto riportato dallo stesso Chelli. Si badi bene, però: la Tunisia non è la Libia. A fronte di un non-Stato petrolifero ai suoi confini orientali, il governo di Tunisi, peraltro già impegnato nella repressione dei movimenti estremisti e nel controllo delle proprie frontiere, dispone delle risorse militari e di intelligence da dispiegare per arginare il fenomeno. È prevedibile che l’esecutivo, come preannunciato ieri dai suoi più alti esponenti, adotterà ulteriori misure a protezione dei siti sensibili. Anche grazie a una tradizione laica di bourghibiana memoria e a una società civile variegata ma adulta, la primavera tunisina non è sfociata in un vuoto di potere colmato da gruppi jihadisti, bensì nelle istituzioni democratiche che oggi sono chiamate ad affrontare la situazione. A tale proposito, dal 24 al 28 marzo si terrà a Tunisi il Forum SocialePanettiere copia2 Mondiale, confermato dagli organizzatori proprio per non mostrare cedimento alla minaccia terrorista. Sarà un appuntamento importante sia per dimostrare solidarietà alla società civile tunisina, sia per rimettere al centro del discorso temi quali i diritti sociali e lo sviluppo economico sostenibile che potrebbero costituire dei veri argini al reclutamento jihadista, soprattutto all’interno di società a forte sperequazione sociale come quelle arabe.

L’attentato del Bardo, infine, ha dimostrato che la Tunisia non può combattere da sola. Sarà dunque importante che l’Europa e l’Italia in particolare, per ragioni di prossimità geografica e di relazioni storico-economiche, rafforzino la cooperazione con Tunisi nello scambio di informazioni sensibili e di intelligence. Quattro anni fa i paesi occidentali hanno perso l’occasione di dialogare con le forze progressiste, laiche e religiose dei paesi mediterranei lasciando che fossero altri attori regionali a farsi largo tra le pieghe delle rivoluzioni. La Tunisia ha resistito finora, nonostante tutto. Oggi l’Europa e l’Occidente non possono lasciarla sola.

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Quale direzione Tunisia?

TUNISIA

Un interessante reportage di Eugenio Dacrema, pubblicato sul sito del Corriere della Sera. Lo allego in pdf per non spaventare eventuali lettori interessati a capire un po’ di più la situazione della Tunisia. Il dossier si conclude con queste parole: “ la piccola Tunisia, che ha stupito il mondo nel 2011 spodestando in pochi giorni una dittatura vecchia di sessant’anni, ha tutte le carte per diventare la prima autentica democrazia del mondo arabo. Ma per riuscirci ha bisogno di non essere dimenticata e lasciata a se stessa”.

Tunisia tra salafismo e democrazia

L’attualità di Marsilio e Guglielmo

Pesco ancora una volta dal blog di Matteo Andriola. E’ una riflessione su laicità, politica, stato, chiesa, democrazia, potere, rappresentanza a partire da Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham.

guglielmo-dockham_d05ac472cc155cbdab2ad35f08d97832Seppur con le dovute cautele del caso, il dibattito relativo alla natura del potere spirituale è quanto mai vivo e attuale. In un’epoca come la nostra, preoccupantemente monca di teorie politiche, la questione stuzzica il mio interesse e, senza nascondere le mie perplessità per una figura, quella del pontefice, che ritengo anacronistica almeno nella forma, trovo incredibile che, pur modificandosi nel tempo, il dibattito relativo al rapporto fra potere temporale e potere spirituale abbia mantenuto inalterata la propria vitalità. Soltanto un ottuso potrebbe sostenere che la società sia effettivamente laica, e nella fattispecie, la figura del papa ha consolidato nel corso dei secoli la propria connotazione politica, e in questo senso, con i caratteri che il ruolo stava assumendo, fu molto più coerente Bonifacio VIII di quanto non lo sia stato il casto e puro Celestino V, costretto a gettare la spugna di fronte all’impossibilità di rendere puro un potere oramai vittima di se stesso e dell’imperante corruzione. Ancora oggi, come detto, la querelle relativa agli eventuali limiti del potere spirituale è percepita come straordinariamente attuale, soprattutto in una società che professa laicità senza crederci veramente. Sostengo la laicità dello Stato, ma più mi guardo attorno e meno la scorgo, e per quanto lo si voglia negare, forse oggi più di ieri, il pontefice è un alleato cui pochi si sentono di rinunciare.
Come spesso mi accade, per comprendere il Presente, certo di non sbagliare, attingo al Medioevo, culla naturale di una disputa che ieri toglieva il sonno a Dante Alighieri e che oggi, seppur in maniera diversa, mantiene inalterata la propria vigoria. Due pensatori hanno affrontato la questione con una veemenza che, quasi contraddittoriamente, trova un’incredibile modernità nella propria essenza profondamente Medioevale: Marsilio da Padova e Guglielmo di Ockham. Marsilio decide di incamminarsi su un sentiero piuttosto impervio, ponendosi l’obiettivo di far crollare la pretesa assolutistica di un papato che agli occhi di molti aveva perso notevolmente prestigio. Parallelamente, Ockham contempla addirittura, in maniera certo clamorosa, la possibilità di un papa eretico, giustificando un’eventuale resistenza nei suoi confronti da parte dei fedeli. Secondo Marsilio, la società è il frutto del desiderio insito in qualunque individuo di condurre un’esistenza che meriti essere effettivamente vissuta; dal canto suo, Ockham assume una posizione destinata a suscitare non meno scalpore, sostenendo la possibilità che il potere temporale prevarichi quello spirituale, riconoscendo a un sovrano temporale la possibilità di deporre un pontefice che non si mostri ossequioso verso le Scritture. Contrariamente ad alcune correnti di pensiero che auspicavano l’unione dei due poteri, Ockham, tanto cauto quanto lungimirante, si mostra invece accanito sostenitore della loro divisione, utile a suo giudizio per preservare una sorta di equilibrio bipolare.
I due filosofi, in un moderno quanto sorprendente slancio di inconsueto sapore democratico, sono concordi nel ritenere il popolo quale depositario del potere, ed entrambi accettano il rischio di sostenere una tesi che inevitabilmente avrebbe finito per scontrarsi contro un potere, quello del papa, mai troppo incline ad accettare di essere messo in discussione. A mio giudizio, anche in relazione al tempo in cui vive, Marsilio, individuando la società quale risultato dell’opportunismo dei singoli, è di una modernità sconvolgente nel ritenere che gli uomini si associno soltanto per andare oltre la mera sopravvivenza, tentando così di realizzare appieno le proprie potenzialità. Le contese, di esempi il Medioevo ne offre molti, dominano la società e la pace può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua il proprio vantaggio. Solamente le leggi e un “guardiano” in grado di imporle e vigilare sulla loro pedissequa applicazione, possono garantire la sopravvivenza di uno Stato e tali norme, a suo giudizio ritrovano la propria essenza nell’essere imposte con la forza da chi ne ha l’autorità. La loro validità dunque, secondo Marsilio, non dipende da una qualsivoglia subordinazione a un’entità superiore, quanto piuttosto dall’esclusivo fatto di essere emanate correttamente. Chi conosce il Medioevo sa bene che gli slanci democratici erano merce rarissima al tempo, e per questo, che due pensatori concordino nel conferire ai cittadini una responsabilità legislativa, è da considerarsi un defensorfenomeno straordinariamente all’avanguardia. Sia Marsilio che Ockham, infatti, sono in perfetta sintonia nel riconoscere ai cittadini il delicato compito di entrare nel meccanismo legislativo, e laddove il primo sostiene che i sudditi debbano stabilire le normative in grado di regolare la vita della comunità, il secondo, individuando negli uomini il tramite tra Dio e il potere dello Stato, attribuisce ai cittadini la facoltà di assegnare il potere. Anche se Ockham, ritornando parzialmente suoi propri passi, in casi eccezionali contempla la possibilità che il papa destituisca un sovrano temporale divenuto pericoloso, i due pensatori, troppo acuti per cadere in errore, non faticano a riconoscere nel papato una subdola macchina politica e tentano encomiabilmente di riportarlo entro i ranghi attraverso le proprie teorizzazioni. Marsilio infatti, consapevole del fatto che la Chiesa ricorra troppo spesso a Dio come strumento persuasivo, ridimensiona la forza terrena della legge divina, negando che essa possa risultare vincolante nell’esistenza temporale degli individui; essa infatti, per natura eterna e infallibile, non può né potrà mai possedere nel mondo terreno quella forza coercitiva necessaria per renderla effettivamente valida. Il potere spirituale, che né Marsilio né Ockham negano, può trovare la piena realizzazione soltanto esercitando un ruolo per così dire didattico, educando religiosamente i fedeli in maniera non coercitiva.
Testi come il Defensor pacis e il Dialogus, a conti fatti, non meritano di giacere impolverati dimenticati su uno scaffale, ma il loro contenuto, straordinariamente lungimirante, necessita più che mai di una riscoperta in grado di rinvigorirne freschezza e vitalità.”

La blasfemia in Pakistan

Dal sito di Reset. Dialogue on Civilizations prendo questo articolo molto interessante sulla legge sulla blasfemia in Pakistan. E’ di Martino Diez.

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“La legge sulla blasfemia pakistana è tristemente nota per i suoi effetti discriminatori verso le minoranze religiose e il caso di Asia Bibi, di cui si attende la sentenza in secondo grado dopo la condanna a morte in primo grado, non è purtroppo isolato. Ma da dove nasce questo provvedimento, contenuto agli articoli 295/B-C e 298/A-C del codice penale? Storicamente, esso rappresenta una delle sinistre eredità del dittatore filo-islamista Zia-ul-Haq (1978-1988). Promulgate tra il 1984 e il 1986, le norme integrano l’originario comma 295/A che gli inglesi avevano inserito nel 1927 nel codice penale indiano. Ma mentre la disposizione coloniale mirava a proteggere i luoghi di culto di tutte le religioni, sullo sfondo delle crescenti tensioni tra musulmani e hindu, i nuovi commi voluti da Zia-ul-Haq (e che Nawaz Sherif ha ulteriormente inasprito nel 1990) sono a senso unico. Viene proibito il danneggiamento del Corano, in qualsiasi forma, nonché espressioni offensive verso il Profeta dell’Islam, «a parole, dette o scritte, o con rappresentazione visibile» e verso i protagonisti della storia sacra islamica, in particolare le mogli del Profeta e la sua famiglia, i quattro califfi ben guidati e i Compagni. Non pago, l’articolo 298 vieta al «gruppo Qadiani o Lahori (che chiamano sé stessi Ahmadi)» di attribuire il titolo di “Comandante dei credenti” a qualcuno diverso dai califfi ben guidati, o di “Madre dei credenti” a qualcuno diverso da una moglie di Muhammad, di chiamare “membro della Casa” una persona al di fuori della famiglia di Muhammad, di denominare il proprio luogo di culto “moschea” o azan il proprio appello alla preghiera. Infine, il codice vieta agli Ahmadi di definirsi musulmani. Il tutto accompagnato da pene draconiane, fino all’ergastolo e alla morte.
Oltre a offrire un esempio efficace dell’irrigidimento che la sharî‘a classica (una giurisprudenza più che un diritto) subisce nel processo di traduzione nei moderni codici statali, queste norme s’inseriscono in un clima di mobilitazione permanente che tende a presentare l’Islam in Pakistan come oggetto di una minaccia costante. Affermazione quantomeno sorprendente in un Paese in cui il 96% della popolazione è musulmana e in cui la Costituzione del 1973, all’articolo 31, attribuisce allo Stato il compito primario di «permettere ai musulmani […], individualmente e collettivamente, di ordinare le loro vite in accordo con i principi fondamentale e i concetti basilari dell’Islam e offrire loro strumenti con cui comprendere il significato della vita secondo il Santo Corano e la Sunna». Senza dubbio, leggi come quelle sulla blasfemia sono funzionali al mantenimento della tensione sociale nel Paese, perpetuando l’esistenza di capri espiatori (le minoranze religiose non musulmane, ma anche la comunità sciita) su cui scaricare la responsabilità degli insuccessi economici e politici di cui è testimone la storia recente del Pakistan[1].
In effetti, e contrariamente a quello che si potrebbe pensare istintivamente, numerosi studi – Pew Forum in testa – hanno dimostrato che il livello di violenza a sfondo religioso è direttamente proporzionale agli sforzi che lo Stato mette in atto per favorire una fede sulle altre. «Più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa»[2]. E il caso pakistano non fa eccezione. Tra il 1927 e il 1986 si contano 7 soli casi di blasfemia, mentre dal 1986 a oggi gli episodi hanno già superato il migliaio e la norma sulla blasfemia è costata la vita a più di 20 persone. Anche se finora non sono mai state eseguite condanne a morte ufficiali (presumibilmente per le reazioni internazionale che susciterebbero), molti accusati sono stati raggiunti in carcere da sicari e molti altri sono stati linciati dalla folla inferocita. Anche solo proporsi di toccare questa legge può costare caro, come mostra l’assassinio di due politici coraggiosi che si erano battuti per modificarla, il cristiano Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze, e il musulmano Salman Taseer, governatore del Punjab. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la legge è diventata una bandiera, tant’è vero che nell’aprile del 2009 il Pakistan ha presentato alla Commissione ONU dei Diritti umani la proposta di «estendere a livello mondiale le proprie leggi sulla blasfemia»[3].
Dopo trent’anni di abusi, è forte la tentazione di liquidare come provocatoria non solo questa proposta pakistana, ma anche una serie di richieste analoghe presentate negli anni dall’Organizzazione della Conferenza Islamica e che invocano la tutela delle religioni (al plurale). È facile opporre a queste richieste il principio della libertà di espressione, ma occorre anche riconoscere che un problema con i simboli religiosi esiste. L’elenco degli incidenti a sfondo confessionale montati ad arte negli ultimi anni è molto lungo: si va dai roghi del Corano inscenati da un oscuro pastore in Florida, a film offensivi contro la figura di Muhammad, ma anche a numerose profanazioni di luoghi di culto o simboli religiosi ebraici e cristiani. Per fare un solo esempio, in Egitto lo shaykh salafita Abu Islam nel 2012 ha pubblicamente bruciato la Bibbia esortando i suoi seguaci a orinarvi sopra.
In quest’ottica, le proposte di “tutela delle religioni” possono essere lette come la risposta, sbagliata, a una necessità reale, quella cioè di definire fin dove può arrivare la libertà di espressione e se esista un limite al diritto di critica e alla creatività artistica. Istintivamente, la risposta dell’occidentale medio a queste domande è no, salvo poi dover prendere atto degli incidenti continui che si verificano a livello mondiale e che dimostrano come ogni gesto individuale debba ormai considerare le sensibilità di una platea mediatica potenzialmente globale. Nel campo musulmano invece, come abbiamo visto, viene spesso avanzata la proposta di una neutralizzazione preventiva, secondo il principio per cui “ogni religione deve rispettare le altre”. L’espressione in sé sarebbe condivisibile, ma nei fatti finisce per significare che andrebbe rifiutata qualsiasi critica a ogni religione. Non è difficile comprendere come questa opzione sia nei fatti inaccettabile. Non solo, com’è ovvio, per quanti non si riconoscono in nessuna religione (e che si troverebbero così ridotti al silenzio), ma anche per i credenti, che finirebbero costretti a un dialogo delle cortesie, senza la possibilità di un dibattito reale. In effetti anche i musulmani, quando invocano questo principio, lo fanno in realtà a partire da una pre-comprensione delle altre fedi che è implicita nel concetto islamico di (mono-)profezia. Le altre religioni, nei fatti, non sono da criticare nella misura in cui si conformano all’immagine che il Corano ne fornisce. Il problema è più arduo di quanto appaia a prima vista, perché ogni fede contiene inevitabilmente degli elementi di rottura (e dunque di critica, anche vigorosa) con la tradizione che la precede. Sarebbe ben curioso se, in forza di un’applicazione del principio di “protezione delle religioni”, venisse proibito ai predicatori musulmani di stigmatizzare le pratiche pagane dell’Arabia preislamica. Difficile a ogni modo pensare che questo potesse essere l’obiettivo della richiesta pakistana presentata alle Nazioni Unite.
Commentando alcuni fatti che nell’estate 2012 avevano visti protagonisti diversi militanti salafiti e che ancora una volta mettevano in luce il problema dei limiti della libertà d’espressione, il giurista tunisino Ben Achour scriveva: «Se la nozione di muqaddasât [cose sacre] è lasciata al potere politico, quest’ultimo si porrà come arbitro del gioco e dunque padrone delle coscienze. In questo modo si ritorna allo Stato teocratico. […] A mio avviso, la libertà di espressione artistica e filosofica dev’essere allargata senza limiti, a meno che essa non perturbi l’ordine pubblico»[4]. L’affermazione di Ben Achour sembra cogliere nel segno, permettendo di uscire dall’impasse. In linea di principio la priorità va accordata al diritto di critica, senza il quale il pensiero non può conoscere reale avanzamento. I numerosi intellettuali musulmani che sono dovuti riparare in Occidente mostrano che il vero problema oggi in molti Paesi islamici è liberare la parola dal timore dell’accusa di eterodossia, non proteggere una religione che è già presente in modo massiccio nella vita quotidiana. Scriveva con lucidità l’editorialista egiziano Muhammad Khair: «Gli estensori della Costituzione [islamista del 2012] combattono una battaglia immaginaria contro i fantasmi dell’“identità”, del “proselitismo”, della “propaganda sciita” e dell’“occidentalizzazione”, e varie altre “cospirazioni”, ma il risultato è che la Costituzione, anziché svolgere il suo compito di garante dei diritti e delle libertà, finisce per fare l’esatto contrario, in quanto cerca di tutelare tutti coloro che godono della maggioranza, del potere o dell’autorità»[5].
Tuttavia nella proposta di Ben Achour si trova anche un’importante clausola, il riferimento all’ordine pubblico. Benché anche questo principio si presti a strumentalizzazioni, esso ha il vantaggio di toccare non il piano delle convinzioni, ma quello dei comportamenti pratici. Vanno cioè proibiti quegli atteggiamenti che, dalla critica, passano all’attacco delle persone e della loro dignità, mettendo a rischio il bene pratico della convivenza, mentre lo Stato non ha titolo per valutare l’ortodossia o meno di una posizione teologica. A nostro avviso questo semplice principio (che tra l’altro ispirava la legge pakistana prima delle aggiunte di Zia-ul-Haq) è sufficiente per consentire al pensiero critico di esplicarsi in libertà, senza dimenticare le ricadute anche comunitarie delle scelte di ciascuno e le offese che attentati gratuiti ai simboli sacri portano inevitabilmente con sé. Un conto insomma è bruciare il Corano (un atto da condannare senza riserva), un altro è discutere di metodi esegetici senza la minaccia di un’accusa di apostasia (si pensi al caso dell’egiziano Nasr Abu Zayd).
La proposta di sanzionare in modo complessivo ogni “diffamazione delle religioni”, proprio perché fa di ogni erba un fascio, si rivela confusa e potenzialmente pericolosa. Ciò che va condannato piuttosto è l’incitamento all’odio. Di questo incitamento, peraltro, l’attuale legge pakistana sulla blasfemia costituisce purtroppo un raffinato esempio.
[1] Sulla condizione dei cristiani in Pakistan cfr. l’articolo molto documentato di John O’Brien, Christians in Pakistan, «Islamochristiana» 39 (2013), 175-189.
[2] Angelo Scola, Non dimentichiamoci di dio, Rizzoli, Milano 2013, 78.
[3] L’espressione si trova nell’Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, maggio 2009, 65.
[4] Yadh Ben Achour, La misura della libertà: libertà senza misura?, «Oasis» 16 (2012), 18.
[5] Muhammad Khair, Il mondo dell’uomo, originariamente pubblicato su at-Tahrîr, 13 novembre 2012.”

Turchia: quale direzione?

Prendo la notizia dall’Huffington Post, un pezzo di Francesco Cerri.

“Cade nella Turchia targata Recep Tayyip Erdogan uno degli ultimi grandi simboli dello stato laico di Mustafa Kemal Ataturk: il divieto di indossare il velo islamico negli uffici pubblici.

Il premier di Ankara ha annunciato oggi la revoca del divieto del “turban” per funzionarie, erdogan.jpgpostine, insegnanti nel quadro del pacchetto di riforme di “democratizzazione” varato dal governo per cercare di tenere in carreggiata il fragile processo di pace avviato da dicembre con i ribelli curdi del Pkk. Con il divieto del velo cade anche per i funzionari il bando della barba, altro simbolo dell’Islam vietato dallo stato laico kemalista turco.

L’opposizione da tempo accusa il “sultano” di Ankara di volere “reislamizzare” la repubblica turca fondata da Mustafa Kemal Ataturk nel 1923 sulle rovine dell’impero ottomano.

Ataturk aveva imposto al paese, prevalentemente musulmano, una svolta occidentale, e tentato di allontanare lo stato dalla religione. Negli ultimi anni il partito islamico Akp di Erdogan, al potere dal 2002, ha progressivamente cancellato i vari divieti del “turban” introdotti dallo stato kemalista, nelle università, nelle scuole durante i corsi di religione, nelle cerimonie ufficiali, nei tribunali fra gli avvocati donne. Ora, ha spiegato oggi Erdogan, le sole a non poter portare il velo saranno le donne magistrato, le poliziotte e le donne soldato, perchè per loro è prevista una specifica uniforme.

La revoca del divieto del velo è cosi diventata la misura più forte del pacchetto preannunciato da tempo dal governo per rafforzare la democrazia nel Paese. Gli altri provvedimenti sembrano però non rispondere alle aspettative delle varie minoranze, in particolare dei curdi (20% della popolazione).

Erdogan ha annunciato che si potrà studiare in lingue diverse dal turco, perciò anche in curdo, nelle scuole private. Sarà inoltre abrogato il divieto di impiegare nei documenti pubblici le lettere Q, X e W, usate dai curdi, ma escluse dall’alfabeto turco, saranno ripristinati i nomi curdi di località del Kurdistan “turchizzate”. I partiti potranno inoltre fare campagna in curdo, otterranno rimborsi elettorali a partire del 3%, la soglia del 10% per il parlamento potrebbe essere abbassata.

Timide le aperture verso le altre minoranze. Gli aleviti (per sapere chi sono, consiglio questo articolo, ndr) attendevano un riconoscimento dei loro luoghi di culto – le cemevi – che non c’è stato. Ai siriaci è stata promessa la restituzione delle terre del monastero di Mor Gabriel confiscate dallo stato. Ai Rom una fondazione.

I curdi si sono detti insoddisfatti. “Questo pacchetto non risponde alle esigenze democratiche della Turchia, e alle attese dei curdi”, ha chiarito subito la copresidente del partito legale curdo Bdp, Gulten Kisanak. Il Pkk ha sospeso ai primi di settembre il ritiro dei suoi armati previsto dagli accordi di pace con Ankara, accusando Erdogan di non stare ai patti e di non varare le riforme promesse. Chiede maggiore autonomia per il Kurdistan turco, il curdo nella scuola pubblica, una modifica delle leggi anti-terrorismo, la liberazione delle migliaia di attivisti, sindacalisti, universitari e giornalisti arrestati.

Erdogan ha invece definito “storiche” le riforme varate oggi.

Per il giornale Cumhuriyet, è l’inizio della campagna elettorale del premier, che in giugno spera di essere eletto nuovo capo dello stato.”

L’essenziale nella bisaccia

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Il blog è nato per accrescere il dialogo con gli studenti, per mettere a disposizione materiale interessante che magari in classe non riusciamo ad affrontare, per approfondire argomenti solo abbozzati. Tuttavia so che è letto anche da altre persone e da alcuni colleghi. Questo post penso che possa interessare maggiormente questi ultimi, soprattutto coloro che si ricordano di aver studiato sui testi del “mitico” Enrico Chiavacci. Come insegnanti di Udine abbiamo anche avuto il piacere (per me ascoltare un toscano è sempre un piacere, per le orecchie e per il cuore, perché mi ricorda le sere dei campiscuola passate a sentire la cadenza di una cara persona che non c’è più) di seguire, qualche anno fa, un corso di aggiornamento tenuto da lui. Il pezzo qui sotto verte su laicità-laicismo, clericalismo-anticlericalismo e, a mio avviso, è in grado di provocare molte riflessioni e pensieri, magari utili per un confronto di idee. E’ del 2005 ed è preso dal sito Dimensionesperanza.

“”D’ora in poi predicherò solo Cristo, e Cristo crocifisso”, esclama Paolo (cfr. 1Cor 2,2). La fede in Cristo non è un ‘bagaglio di valori’, ma è l’assunzione di un unico valore che deve dominare la mia intera esistenza, esserne il senso ultimo su cui io scelgo di misurare me stesso in ogni mia scelta concreta (o, se si vuole, storica). Questo unico valore è fare della propria esistenza un dono offerto a tutti i fratelli in umanità, buoni o cattivi, bianchi o neri, amici o persecutori. “Questo corpo che è per voi, questo sangue versato per voi e per tutti”: Gesù nella cena dichiara il senso del suo andare deliberatamente incontro alla croce, e con questo gesto supremo di dono accompagnare la storia, la vicenda intera della famiglia umana.

Spesso però noi cristiani ci dimentichiamo che ogni essere umano è chiamato dal proprio interno a una ‘vita morale’ cioè all’assunzione di un significato unico e ultimo del proprio esistere e alla coerenza con esso in ogni situazione concreta. Tale assunzione può nascere da un’esperienza interiore indicibile, cioè non dimostrabile ad altri come l’unica vera; può anche avere una motivazione filosofica e nascere da una argomentazione, ma il mettersi ad argomentare o a interrogarsi sul senso della propria esistenza è già vita morale. Anche l’ateo, il laicista, il ‘laico’, l’anticlericale, l’aderente a qualunque fede religiosa non cristiana, ha in sé la chiamata a una vita morale: il che equivale al bisogno di dare un senso al proprio esistere. Ma noi cristiani crediamo che anche il non-cristiano, come ogni essere umano, trovi in se stesso una chiamata divina, e precisamente la chiamata di un dio, del Dio che ci è apparso in Nostro Signore. A Lui tutti dobbiamo rispondere, che lo conosciamo o no, e da Lui tutti abbiamo bisogno di perdono. Tutto ciò è espresso chiaramente in Paolo, Rm 2. Giovanni XXIII riprende il tema indirizzando a tutti gli uomini di buona volontà la grande enciclica Pacem in terris: se ne rilegga l’intestazione, il proemio, e tutta la V parte. E la Gaudium et spes esplicita il contenuto di questa esperienza morale che accomuna tutti gli uomini intorno al grande tema della pace. Si veda il n. 77, ma specialmente il n. 92. In esso la Chiesa si dichiara aperta al dialogo e alla cooperazione (che ne è lo scopo e la cercata conseguenza) con uomini di qualsiasi fede, con gli agnostici e gli atei, e paradossalmente anche con i propri persecutori: a tutti coloro che “praeclara animi humani bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt”. E conclude dicendo che Dio Padre, principio e fine di tutti, ci chiama tutti a essere fratelli nella ricerca della pace: siamo tutti chiamati ad una stessa vocazione (hac eadem vocatione vocati: si noti che eadem in latino indica con precisione una stessa identica vocazione, unica per ogni essere umano). …

In questo quadro le espressioni del tipo ‘laico’ o ‘laicista’ non hanno necessariamente il significato di contrapposizione al cristianesimo: esse possono indicare l’assunzione degli alti valori vissuti e insegnati da Gesù Cristo, anche senza conoscerne o riconoscerne l’Autore. Nello stesso modo può avere un senso l’espressione ‘cristianizzazione senza Dio’: ma l’espressione è paradossale in quanto indica l’assunzione di valori assoluti evitando di riconoscere un assoluto a cui agganciarli. Io credo che in molti casi sarebbe più appropriato il binomio ‘clericale-anticlericale’: in esso si cela non tanto il problema di Dio o di Gesù Cristo, quanto il problema di accettazione della chiesa nel suo modo – passato e presente – di presentare il Vangelo di Gesù Cristo attraverso le sue strutture, regole, pronunciamenti, devozioni, predicazione. Il rifiuto della chiesa per i motivi ora detti può portare, e di fatto ha portato, al rifiuto in blocco del suo annuncio su Dio e/o su Gesù Cristo (si rilegga il n. 19 di GS). Lo stesso Giovanni Paolo II ha chiesto perdono per gli errori del passato.

A partire almeno dal II millennio, il potere decisionale nella chiesa – in tutti i campi – si è sempre più accentrato nelle mani del clero (si pensi che nell’area ortodossa anche il clero contava e conta poco: quelli che contano veramente sono i monaci e i monasteri). E almeno dal XVI sec. ogni potere decisionale si è sempre più accentrato, passando dal clero e anche dai vescovi alla Santa Sede. Un papato monarchico non solo temporale ma anche spirituale (dottrinale, giuridico, liturgico etc.) da un lato era forse necessario per combattere eresie o errori pericolosi, dall’altro ha generato una reazione sia dottrinale che spirituale. Clericalismo e anticlericalismo, azione e reazione: difficile dire chi ha sparato per primo. Non posso discuterne qui, e nessuno ha una risposta certa. Ma non dobbiamo mai dimenticare che senza una comunità dei credenti in Cristo organizzata, pur con tutti i suoi limiti storici e i suoi errori, il Vangelo non ci sarebbe giunto. Ricordiamo il celebre detto, attribuito al grande regista Buñuel: “Io sono ateo, grazie a Dio”; e ricordiamo anche che il film più fedele al Vangelo – e forse fino ad oggi l’unico fedele – è dovuto a P.P.Pasolini. Ma qui si deve aprire un altro discorso. Mi si domanda “che ne è del pellegrino che viaggia con solo l’essenziale nella sua bisaccia?”. Rispondo che non può esistere tale pellegrino: non esiste e non può esistere un essere umano senza condizionamenti culturali e storici da un lato, e senza una sua fatica di ricerca dall’altro lato. La stessa chiesa apostolica per trasmetterci il Vangelo ci ha trasmesso quattro vangeli, ciascuno scritto con preoccupazioni, filosofie, sensibilità diverse. La trasmissione del Vangelo è poi avvenuta tutta all’interno della cultura e della filosofia occidentale, con arricchimenti spirituali grandiosi (si pensi a Dante) e con una forza propulsiva enorme in tutti i campi della riflessione umana, dalla scienza o all’arte in tutte le loro forme. Ma dopo il XV sec. è iniziato il contatto massiccio e costante con altre culture, e con esso la presa di coscienza che anch’esse offrivano nuove possibilità di comprensione e di vita evangelica; ma solo nel XX sec. tali possibilità sono state accolte e recepite ufficialmente con l’autorità di un Concilio Ecumenico (si rilegga il n. 44 di GS). E pertanto l’accentramento dell’autorità presso un’unica istanza tipicamente, e ancora, occidentale e tale da lasciare poco spazio a culture, tradizioni, filosofie, sensibilità storiche locali risulta ormai – teoricamente e praticamente – insostenibile per la credibilità della chiesa e anche del Vangelo. Se il cosiddetto ‘senso comune’ indica ciò che è socialmente ammesso e approvato nell’area occidentale, il suo controllo sulla vita religiosa è mortale per l’annuncio del Vangelo. … La giustizia di Dio è sempre la giustizia resa al povero, e cioè al più socialmente debole, all’emarginato, allo straniero e anche a chi viene socialmente giudicato un ‘peccatore’. Questa giustizia appare in tutta la vita e la parola del Signore: è la bontà misericordiosa del Padre che ci appare nel Figlio. E la GS dice, al n. 77, che la “vera et nobilissima pacis ratio” è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla faccia della terra. Così sia, almeno io spero per la mia chiesa.”

Globalizzazione e religioni

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Un’intervista a Marta Margotti, autrice di “Religioni e secolarizzazioni. Ebraismo, cristianesimo e islam nel mondo globale”: l’ho presa da Vatican Insider.

Professoressa Margotti nel suo libro emerge il concetto di globalizzazione della religione. Come interpretare oggi questa realtà?

Non ci sono dubbi su questo aspetto: le religioni sono coinvolte potentemente nei processi di globalizzazione che stanno trasformando il mondo attuale. Anzi, a ben guardare, i fenomeni religiosi sono tra i fattori che alimentano costantemente i processi di integrazione planetaria degli stili di vita e delle identità individuali, ma favoriscono pure i contatti tra le culture, i mutamenti della vita politica e la definizione degli assetti economici. L’interdipendenza tra fenomeni che si svolgono in luoghi diversi, anche molto distanti tra loro, non è però un fatto recente. La globalizzazione dei fenomeni religiosi ha origini antiche: negli ultimi due secoli (e con maggiore intensità negli ultimi cinquant’anni) ha registrato un’ampiezza tale da toccare società e spazi geografici che in precedenza erano stati soltanto sfiorati dai processi di integrazione del mondo.

Quali sono le cause di questa “globalizzazione delle fedi”?

Le migrazioni di milioni di uomini e donne e la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa sono tra i principali veicoli di trasmissione da una parte all’altra del globo di visioni del mondo diverse da quelle tradizionalmente presenti in un certo territorio. E questi fatti hanno avuto, tra le altre, due notevoli ricadute. Da una parte, si è assistito al radicamento di molte tradizioni religiose in luoghi diversi rispetto a quelli in cui sono storicamente sorte (basti pensare ai missionari cristiani nell’Estremo Oriente, alle comunità ebraiche nelle Americhe o alla nascita di comunità indù in Europa), con conseguenze notevoli nelle società di arrivo. Dall’altra parte, la globalizzazione ha prodotto forme variegate di “meticciato delle fedi”, con scambi di riti, di simboli e di credenze che hanno trasformato le singole tradizioni religiose, in maniera spesso rilevante.

Secolarizzazione e secolarismo: cosa rappresentano questi fenomeni nella società contemporanea?

L’allontanamento dalle tradizioni religiose ha assunto in epoca contemporanea una dimensione sconosciuta nei secoli precedenti, coinvolgendo strati consistenti delle società: il distacco dal sacro, proprio perché solitamente percepito come rottura degli equilibri ereditati dal passato, ha accompagnato negli ultimi due secoli la modernizzazione delle strutture sociali e delle mentalità collettive. Almeno dagli anni Settanta del Novecento, sono state però fortemente criticate le teorie di sociologi e filosofi che ritenevano l’“eclissi del sacro” l’esito inevitabile cui sarebbero approdate le società moderne: queste tesi erano spesso basate sull’osservazione delle società industriali europee e ipotizzavano implicitamente la diffusione su scala planetaria del modello occidentale di sviluppo. Non a caso, dopo la fine della guerra fredda, quella che è stata definita la “rivincita di Dio” sembra caratterizzare le più rilevanti dinamiche sociali e politiche a livello planetario. In realtà, le religioni non erano mai sparite di scena, ma dall’ultimo scorcio del Novecento hanno assunto un nuovo ruolo nello spazio pubblico, all’interno dei singoli Stati come a livello internazionale, tanto che è possibile definire l’epoca presente come un tempo “post-secolarizzato”. L’incertezza lasciata dalla caduta delle ideologie politiche, la precarietà provocata dalla globalizzazione economica e l’insicurezza prodotta dai progressi scientifici che sembrano slegati da qualsiasi limite etico hanno provocato quello che soltanto un’osservazione superficiale potrebbe giudicare un “ritorno al sacro”. La situazione è molto più complessa: non si è di fronte a un ritorno al passato e non si assiste tanto al riemergere di società “sacrali” o “teocratiche”. I nostri anni sono immersi nell’apparente paradosso della presenza, nello stesso momento e negli stessi luoghi, di fenomeni religiosi e di fenomeni di secolarizzazione che non si annullano, ma sono anzi così strettamente collegati tra loro da rendere difficile capire dove finisca l’influsso degli uni e inizino gli effetti degli altri.

I grandi monoteismi hanno spesso avuto rapporti contrastati con i valori della laicità. Quali sono le ragioni?

La laicità e la democrazia sono stati considerati, in passato e ancora oggi, punti problematici del confronto tra religioni e modernità. Storicamente, i principi democratici si sono spesso affermati scontrandosi con il pensiero religioso, mentre le istituzioni laiche si sono formate da movimenti di opposizione o, comunque, di emancipazione dalle istituzioni religiose. Questa considerazione generale non consente però di affermare un’inconciliabilità insanabile tra religioni – e religioni monoteistiche in particolare – e principi della laicità. La secolarizzazione rappresenta la fuoriuscita dall’universo religioso da parte dei singoli e delle istituzioni, ma provoca pure un processo di trasformazione religiosa, in quanto nel corso del tempo le fedi non sono mai rimaste uguali a se stesse: il loro cambiamento è stato provocato anche dalla diffusione a livello sociale di visioni secolari della realtà.

Come sono cambiate le religioni di fronte all’affermazione degli Stati laici?

La laicizzazione degli Stati è stata solitamente subita dalle istituzioni religiose che spesso hanno reagito con veemenza per contrastare l’autonomia rivendicata dalle autorità civili. In alcuni casi, dopo lunghi conflitti, le religioni hanno trovato un equilibrio, anche se instabile, con i poteri statali (per esempio, nei paesi occidentali). In altri contesti, è il caso di alcuni paesi di tradizione islamica, il contatto con la modernità politica ha provocato decise reazioni di rigetto dei principi della laicità. Quello che è comunemente definito “islamismo” è una reazione che è sia un’affermazione di un’identità culturale e politica che si richiama miticamente a un passato immutabile, sia una dichiarazione di rifiuto dell’Occidente e dei suoi valori. Vi è da chiedersi, però, quanto queste reazioni siano state generate dai risultati catastrofici del contatto che queste società hanno avuto con l’Occidente coloniale, come pure il frutto delle politiche impopolari e antidemocratiche condotte dalle élite locali laiche, socialiste e nazionaliste.

Le religioni possono contribuire allo sviluppo delle società democratiche?

Attualmente nessun gruppo sociale riesce a ricoprire ruoli totalizzanti, soprattutto nelle società democratiche. Le istituzioni religiose, quando si trovano ad agire in una situazione di pluralismo culturale, sono costrette a definire il proprio campo di azione, selezionando e migliorando la qualità del proprio intervento, ad esempio in campo sociale o dell’assistenza, ma anche nella ritualità e nella propria riflessione teologica. I gruppi religiosi sono portati, in conseguenza a questo, a ridefinire i propri ruoli e a reinventarsi una propria collocazione nella realtà, pur continuando ad affermare con forza i propri legami con il passato e la propria fedeltà alla tradizione. La secolarizzazione sembra aver spinto ai margini l’incidenza della fede nella vita collettiva, ma il pluralismo che caratterizza molte società contemporanee ha dato ai gruppi religiosi la possibilità di svolgere un ruolo centrale nella vita sociale, come pure nel campo politico. La capacità di esprimere valori comuni, di raccogliere consenso in strati diversi della popolazione e di diventare gruppi di pressione influenti anche sulle scelte di governi che pur rivendicano la propria laicità può rendere le istituzioni religiose soggetti centrali della vita democratica e, anzi, permettere una sua espansione. Oggi più che nel passato.

Tra diritto e religioni

9788843067336g.jpgA fine gennaio è uscito il libro “La libertà religiosa in Italia. Un percorso incompiuto” di Alessandro Ferrari. Oggi ho trovato su Vatican Insider questa intervista di Luca Rolandi. Argomento? Diritto, libertà religiosa, laicità dello stato, pluralismo religioso.

Nel racconto del suo saggio si evince come le problematiche del passato riemergano intatte nella società plurale.

Sì, ciò che rende affascinante la storia del diritto di libertà religiosa e, in particolare, il confronto con la storia della libertà religiosa in Italia è proprio questo costante incontro, nel tempo presente, tra passato e futuro, tra i paradigmi che hanno forgiato i caratteri più distintivi di un modello e le forze che, nel corso del tempo, si sono aggiunte, sedimentate sulle vecchie costruzioni giuridiche costringendole a rispondere a nuove domande, a fronteggiare nuove rivendicazioni e portandole, così, a trasformarsi. Nata per rispondere alle esigenze di giustizia di individui e gruppi minoritari ma normalmente appartenenti alla storia ed alla tradizione del Paese (ebrei e valdesi in particolare), il diritto di libertà religiosa si pone oggi anche in Italia come garante di un “pluralismo culturale e confessionale” che la globalizzazione ha reso quantomai variegato. Accanto alla “classica” presenza cattolica convivono, infatti, esperienze religiose ormai definitivamente trapiantate in Europa (si pensi all’islam, al buddhismo, all’hinduismo), gruppi religiosi “europei” trasmigrati dai loro contesti originari (gli ortodossi), galassie cristiane in continua ridefinizione (gli evangelici), non più “nuovi” movimenti religiosi e movimenti non confessionali ma atei ed agnostici anch’essi portatori di un’identità ancorata al diritto di libertà religiosa e di coscienza. In un quadro così complesso il diritto di libertà religiosa si pone, dunque, come strumento di libertà per i singoli e gruppi, come cartina tornasole di una democrazia costituzionale matura ed efficiente capace di assicurare a tutti – e, dunque, anche alle religioni ed ai “gruppi filosofici” secondo le rispettive specificità- la piena partecipazione alla vita pubblica, alla costruzione della “casa comune”.

Il libro di storia e di diritto. Per quale pubblico?

Per chi voglia approfondire un cammino ricco e affascinante, fatto di grandi traguardi, di ingegnosi e coraggiosi accomodamenti ma anche di battute d’arresto e salite affannose. La storia offre il contesto all’esperienza giuridica, alla decisione politica e determina l’angolo prospettico da cui guardare alla libertà religiosa. Quest’ultima, infatti, vive da sempre un movimento, per così dire, pendolare, ora esprimendo con più decisione una vocazione “personalistica”, di protezione pluralistica delle coscienze religiose individuali e collettive ora risentendo maggiormente, invece, di una impostazione più “statocentrica” e, dunque, funzionale alle esigenze – e alle paure – delle maggioranze rivelando, così, un volto preoccupato e spesso ripiegato. E’ proprio quest’ultimo volto che è emerso con più evidenza nell’ultimo decennio, segnato da un confronto con l’islam che tanto ha influito nel ridefinire il volto del diritto della libertà religiosa europea ed italiana e nel rimettere in discussione il cammino di concretizzazione del diritto di libertà religiosa così come delineato dal costituzionalismo del secondo dopoguerra.

Lei parla di paradigma cattolico, che cosa intende con questo concetto ‘L’Italia, è una Nazione-Stato più che uno Stato-Nazione’?

La coesione civile è stata affidata più alla condivisione di una cultura – e di una religione – comuni che al ruolo espressamente attribuito alle istituzioni politiche, ai circuiti classici della decisione politica. Si tratta di una realtà che ogni giorno risalta con evidenza. L’essere Nazione-Stato ha i suoi pregi (uno stato tendenzialmente “modesto” e non monopolista del dibattito sociale e delle identità civiche) ma anche i suoi limiti, in particolare quando le sfide del pluralismo esigono proprio dalla politica risposte chiare in ordine alla protezione ed alla concretizzazione dei diritti posti alla base del patto costituzionale. Il modello italiano di libertà religiosa, inoltre, si è costruito in relazione alla Chiesa cattolica e, dunque, confrontandosi con una presenza istituzionale del tutto peculiare. Ora, questo modello, di cui nel libro cerco di illustrare i caratteri di confessionalità, bilateralità e tendenza all’accomodamento gerarchico, deve armonizzarsi con un principio di laicità che, pur nato proprio dall’incontro tra Costituzione e cattolicesimo, viene declinato come principio giuridico quale garanzia di un pluralismo ad ampio spettro. Pluralismo la cui piena e necessaria metabolizzazione richiede coraggio non solo da parte delle pubbliche autorità ma anche della stessa Chiesa cattolica.

Le sfide del futuro. Pluralismo religioso e culturale. Quale libertà religiosa per il XXI secolo per dare compimento ad un percorso interrotto?

Il cammino si riprenderà riattribuendo al diritto di libertà religiosa la centralità che gli è stata assegnata dalla Costituzione e dalla Corte costituzionale nel momento in cui ha individuato proprio nella laicità un principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Si tratta, innanzitutto, di riappropriarsi del significato “autentico” di una laicità costituzionale troppo spesso condizionata dai due “opposti estremi” della laicità “anticlericale” e della cosiddetta sana laicità. Rimettere al centro il diritto di libertà religiosa equivale, in realtà, in un’epoca così drammaticamente condizionata da gravi problematiche economiche, ricordarsi della centralità della persona, con le sue profonde esigenze identitarie che nell’età dei “diritti sostanziali” interpellano con urgenza tutta la società. Si tratta, dunque, di una libertà “costosa”, come tutti i diritti, ma il cui prezzo rappresenta una garanzia basilare di pace e convivenza civile. Continuare a dimenticarlo (quando il parlamento italiano si deciderà a dotare il nostro Paese di una legislazione organica in materia superando quel che resta della normativa sui “culti ammessi” del 1929-1930?) ha, in realtà, costi ancora più alti.

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