Professore, professoressa, professora… Prof!

Alunne e alunni, alunne/i, alunnə, alunn*…
Professore, professoressa, professora… Prof! E non ci pensiamo più!
E’ un tema che a volte infiamma, a volte lascia indifferenti (mi è andata di lusso! va bene sia al maschile che al femminile). C’è chi lo vive come una missione, una battaglia da portare avanti ad ogni costo, e chi lo vive come una moda. C’è anche chi non lo vive proprio, non comprende il senso della diatriba. Mi sono imbattuto in un articolo molto interessante di Edoardo Lombardi Vallauri, insegnante di linguistica all’Università Roma Tre. L’ha scritto il 4 febbraio per La Rivista Il Mulino con il titolo “Sovraesteso”? Sul presunto sessismo del maschile non marcato.

“Nel 1987 Alma Sabatini pubblicava Il sessismo nella lingua italiana (Libreria dello Stato), sotto l’egida di una Commissione per le pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Da allora molti aspetti dell’italiano vengono guardati come sessisti. Alcuni lo sono, altri no (inoltre, sulla scia del testo di Sabatini, sono usciti A. Cardinaletti e G. Giusti, Il sessismo nella lingua italiana. Riflessioni sui lavori di Alma Sabatini, “Rassegna Italiana di Linguistica Applicata”, vol. 23, 1991; e C. Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Comitato Pari Opportunità, 2012).
Tanto per cominciare, chi parla di queste cose raramente ha chiaro che cosa intenda con “italiano”. Infatti una cosa è la struttura della lingua, altra cosa è come le persone la usano. Se i femminili di nomi di ruolo e mestiere come avvocata, ministra, sindaca e membra (del Consiglio direttivo) sono meno in uso dei maschili, questo non si deve alla lingua italiana, che li mette perfettamente a disposizione, ma si deve alle abitudini delle persone, che a loro volta dipendono da fatti di frequenza nella realtà. Linguisticamente non c’è niente di male o di difficile a usare questi femminili, e infatti con l’aumentare delle donne in quei ruoli le relative parole suonano sempre meno strane.
Che i femminili di presidente, studente e professore si formino con il suffisso -essa è invece una differenza di trattamento fra i sessi da parte della struttura della lingua, perché il femminile è tratto dal maschile mediante un’aggiunta che lo può far percepire come secondario. Una specie di derivazione di Eva dalla costola di Adamo. Ma certo l’italiano non impedisce di dire la studente, la presidente e anche la professora (come si sono sempre usati cacciatora o pescatora, sebbene non riferiti a persone, e pastora). Anche qui, non è la lingua a opporsi, ma le abitudini dei più.
Diverso è il fatto che per i plurali di genere misto le forme sono uguali a quelle del maschile: Anna e Marco sono andati in città, con la stessa desinenza che se fossero due maschi (andate si usa solo se sono tutte femmine); oppure: il bonus spetta a tutti i dipendenti (intendendo sia gli uomini sia le donne). Simile è l’uso delle forme maschili al singolare quando non si specifica il genere: qualcuno ha suonato il campanello, chi si ferma è perduto. Qui è proprio la lingua, e non una nostra preferenza dovuta all’abitudine, che ci obbliga a usare le stesse desinenze del maschile.

Persone poco competenti (se in buona fede) hanno diffuso per questa caratteristica dell’italiano l’etichetta di “maschile sovraesteso”, che lo connota negativamente, perché fa pensare che il maschile invada proprio il campo del femminile, estendendosi a designare quello. “Sovraesteso” infatti significa “esteso anche dove sarebbe corretto l’altro”: amico a nessuno sovraestende a nella funzione di di, mentre ci dobbiamo dare 20 euro sovraestende ci al posto di gli; altri esempi sono era interessato nella politica italiana, facete, prenduto, ho andato. Insomma, un vero maschile sovraesteso sarebbe Flavia è bravo. Nella realtà, l’unico maschile sovraesteso che conosco era una pubblicità della Esso (“Metti un tigre nel motore” ndr).
Invece la lingua non tratta come maschili le femmine (non dice Anna ed Alma sono andati, e nemmeno Flavia è simpatico), ma ricicla le forme del maschile solo per la neutralizzazione del genere, cioè per i casi in cui non viene espresso né il maschile né il femminile. Così evita di tenere in piedi una ulteriore serie di desinenze apposta per il genere misto (che in altre lingue è il neutro). Tecnicamente, si dice che in italiano le desinenze del maschile sono quelle “non marcate”, perché, oltre a fungere come marche del maschile, servono anche per i casi visti sopra in cui non viene marcato, cioè non viene espresso, il genere. E oltre a questi, anche in casi ancora meno connessi a individui sessuati, come i seguenti: il sole ha asciugato le panche; ha nevicato; piove: questo non ci voleva.
Ebbene: perché una lingua che ha il maschile e il femminile (cosa non scontata: il 55% delle lingue del mondo non hanno il genere) usa le forme di uno dei due come non marcate per non esprimere il genere, anziché crearsi una terza serie di desinenze? Per economia. Allo stesso modo, il presente è il tempo non marcato, che si usa quando non si vuole esprimere nessun tempo in particolare: la salita è più faticosa della discesa, anche se la forma del verbo è quella del presente, non esprime l’idea che la cosa sia vera solo in questo momento: le forme del presente servono anche per non esprimere alcun tempo, cioè (che è lo stesso) per esprimere insieme passato, presente e futuro: proprio come le forme del maschile plurale designano contemporaneamente maschi, femmine e ogni altro genere, senza alcuna distinzione. Questo, si badi bene, non determina nelle nostre menti una maggiore importanza o una preferenza per ciò che accade nel presente. Il presente è solo il concetto più semplice: un evento al presente è solo quell’evento, mentre per pensarlo al passato o al futuro dobbiamo immaginargli una caratteristica aggiuntiva. Quindi le forme del presente, poiché a differenza di quelle del passato o del futuro non aggiungono caratteristiche peculiari, sono le più adatte per non esprimere un tempo in particolare.
Lo stesso vale nella dimensione del numero, dove il singolare (e non il plurale) è il non marcato, cioè quello che si usa quando non si esprime il numero: carne di maiale, legno di castagno, hanno fatto gli esercizi. Questo perché il plurale ha una caratteristica che il singolare non ha: l’esserci più individui. Il plurale contiene il singolare (è fatto di elementi singolari), mentre il singolare non contiene il plurale (non è fatto di elementi plurali). Quindi le forme che designano il singolare sono quelle di senso più generale, quelle che descrivono qualcosa che si trova sia nel singolare sia nel plurale; mentre quelle del plurale includono un elemento che è specifico ed esclusivo del plurale. Per questo le forme più adatte a esprimere entrambi sono quelle del singolare.
Possiamo chiederci: perché fra maschile e femminile il più adatto a esprimerli entrambi è il maschile? La risposta che dà chi vede sessismo nella lingua è che questo rifletterebbe una maggiore importanza dei maschi nella società. Ma nelle lingue che per designare oggetti inanimati hanno il neutro, è proprio il neutro il genere che si usa per i plurali misti. E nelle lingue che hanno come generi l’animato e l’inanimato, il non marcato è l’inanimato. Con il ragionamento che si fa per l’italiano, nelle civiltà di chi parla queste lingue gli oggetti inanimati dovrebbero essere percepiti come più importanti delle persone. E ovviamente non è così.
Una possibile ragione per cui in italiano il non marcato è il maschile potrebbe essere meramente quantitativa: poiché sia i maschili sia i neutri del latino hanno dato nomi in -o in italiano, questi sono più numerosi di quelli in -a. Quindi verrebbero sentiti come i nomi più tipici, e perciò più adatti a stare per entrambi i generi.
Ma più interessante è l’ipotesi che il genere si comporti come il numero e il tempo, e diverse altre categorie della lingua di cui non possiamo parlare qui per mancanza di spazio: il più adatto a stare per entrambi è quello che non ha qualcosa di speciale, qualcosa in più, di peculiare ed esclusivo. Ebbene, fra inanimati e animati, chi ha qualcosa che è suo esclusivo? Gli animati. Sia gli uni (le pietre, gli oggetti) sia gli altri (gli animali e gli umani) hanno peso, estensione, colore, forma; ma solo gli animati hanno la vita. Quindi per evocarli tutti indistintamente è meglio l’inanimato, che designa le proprietà comuni a tutti, e non l’animato che ci aggiunge la vita, che è solo di alcuni.
E fra maschi e femmine, chi ha qualcosa di più? Mettiamoci nella mente degli uomini primitivi che hanno instaurato questi aspetti delle nostre lingue: sia maschi sia femmine hanno corpo, linguaggio, movimento, volontà… ma solo le femmine hanno una caratteristica importante e decisiva in più: possono fare figli. Quindi dei due generi grammaticali il più generico, quello più adatto a stare per entrambi i sessi perché non aggiunge una caratteristica decisiva che appartiene a uno solo dei due, è il maschile. Insomma, il maschile sarebbe usato per riferirsi a gruppi misti non per una maggiore importanza data ai maschi, bensì perché i maschi non hanno quella importante cosa in più che hanno solo le femmine.
Questo per la genesi del maschile non marcato. Ma a dispetto di questa origine innocente, esso finisce oggi per discriminare le donne? Notiamo anzitutto che esso non genera sensazioni di diversa importanza fra gli oggetti o fra gli animali: dire la pinza e il cacciavite sono caduti, la meringata e il bollito sono buoni o la gatta e il gatto sono eleganti non ci porta a percepire la pinza come meno importante del cacciavite, la meringata da meno del bollito o la gatta inferiore al gatto. Guarda caso, l’idea che il maschile linguistico sia discriminante sorge solo per le persone, cioè solo dove la discriminazione c’è già nella realtà. La professoressa sembra, ad alcuni, meno importante del professore; e dire Flavia e Luigi sono arrivati o i laureandi devono essere in regola con le tasse darebbe l’impressione che i maschi siano più importanti delle femmine. Ma se la discriminazione fosse nella lingua, non dovrebbe sentirsi dappertutto, almeno un po’ anche per gli animali e per le cose? Non sarà che invece la discriminazione della donna sta nella realtà e non sta nella lingua, anche se sostenere che sia nella lingua permette di esibirsi in “battaglie” etiche ad assai più basso costo personale di quelle che occorre combattere nella realtà?
Passando dalla struttura della lingua al modo in cui viene usata, chi vuole vedere discriminazione nel maschile non marcato sostiene cose così:
Il cosiddetto uso generico del maschile influenza le rappresentazioni di genere in modo discriminatorio nei confronti delle donne. Ciò è particolarmente vero poiché i giornali continuano a pubblicare alcuni annunci di lavoro nella forma maschile, suggerendo quindi, a nostro avviso, che le donne non siano candidate idonee (P. Gygax, U. Gabriel, O. Sarrasin, J. Oakhill, A. Garnham, Generically intended, but specifically interpreted: When beauticians, musicians and mechanics are all men, “Language And Cognitive Processes”, vol. 23, 2008, trad. nostra).
Questo tipo di ragionamento ignora metà delle cose: ammettendo che le forme del maschile (si cercano automuniti disposti viaggiare) facciano venire in mente più gli uomini che le donne, questo funziona in direzioni diverse a seconda di ciò di cui si parla e di ciò che si dice. Ci serve un medico potrà rafforzare lo stereotipo che i medici siano più maschi che femmine, ma allora per occuparsi dei bambini e della casa bisogna essere bravi e generosi indebolirà lo stereotipo che a casa stiano solo le donne. Proprio come fa, contro un altro stereotipo, il maschile non marcato in questa pubblicità di Tigotà.

E quando si dicono cose come queste:
– il nostro Paese è preda dei mafiosi e dei politici corrotti;
– occorrono leggi efficaci contro quelli che non pagano le tasse;
– trovate il colpevole e assicuratelo alla giustizia. L’autore di questi crimini odiosi deve essere punito;
non sarebbero certo le donne a subire discriminazione linguistica, ma gli uomini.
Insomma, abbiamo visto che l’uso di uno dei due generi come non marcato nasce da esigenze strutturali di economia e non da mentalità sessista, parallelamente a quanto accade per l’uso di un tempo non marcato (il presente) e di un numero non marcato (il singolare). Inoltre, le ragioni per cui fra maschile e femminile il non marcato è il maschile non sono probabilmente discriminatorie, proprio come nelle lingue che hanno il neutro o l’inanimato l’uso di questo genere come non marcato non riflette una discriminazione a favore degli oggetti e a danno delle persone.  Poi, se a discriminare fosse la struttura della lingua, dovrebbe farlo almeno un po’ anche per tutto ciò che ha genere (compresi animali e oggetti), non solo per ciò su cui già percepiamo una discriminazione nella realtà sociale. Infine, ben poco conta la struttura astratta della lingua rispetto ai significati che si trasmettono; e siccome si usano le forme del maschile per non esprimere il genere sia dicendo cose positive sia denigrando, l’impressione che si parli più dei maschi che delle femmine si tradurrebbe in un trattamento pari. Oppure se, come è probabile, si parla più spesso male che bene delle persone, la discriminazione linguistica sarebbe a danno dei maschi.
Concludendo con un assaggio di realtà geolinguistica: se il maschile non marcato sostiene una mentalità sessista, le lingue che non hanno il genere dovrebbero favorire civiltà non discriminanti. Lingue senza genere sono ad esempio il cinese, il farsi (la lingua dell’Iran e dell’Afghanistan), il finlandese, il giapponese, l’inglese, il turco, l’ungherese.”

Gemma n° 2589

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“Quest’anno come gemma ho deciso di portare il viaggio studio che ho fatto quest’estate in Irlanda. Era la prima volta che facevo un’esperienza simile, in un paese dove non ero mai stata, dove la lingua non era la mia e dove non conoscevo nessuno, perciò sono partita con Francesca, una compagna di classe che ho conosciuto l’anno scorso e alla quale tengo molto. 
La nostra esperienza è iniziata il 4 agosto quando siamo partite da Udine con altri 20 ragazzi e due accompagnatori, siamo arrivati all’aeroporto di Venezia dove, dopo aver lasciato le valigie e aver fatto i controlli, siamo partiti per Dublino. Dopo due ore di volo siamo atterrati in Irlanda e sembrava di essere tornati a ottobre, infatti quando siamo scesi dall’aereo pioveva e faceva freddo, dopo aver ripreso i bagagli abbiamo viaggiato altre cinque ore in bus per arrivare a Cahersiveen: un paese sulla costa occidentale dell’Irlanda dove avremmo vissuto per due settimane. Appena arrivati, siamo stati divisi in famiglie, io e Francesca eravamo insieme a una  ragazza spagnola ed eravamo ospitate da una coppia della zona. Le nostre giornate erano impegnative: la mattina avevamo corsi di inglese e il pomeriggio facevamo diverse attività nel territorio e sulle coste irlandesi. Abbiamo avuto la possibilità di conoscere ragazzi provenienti dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Polonia e fare amicizia con loro; l’ultimo giorno quando siamo partiti per tornare a casa eravamo tutti tristi che il viaggio fosse finito, ma allo stesso tempo contenti di aver vissuto un’esperienza così bella. Questa vacanza mi è piaciuta moltissimo e mi ha dato l’opportunità di conoscere un paese nuovo ed entrare nella cultura del suo popolo, ma anche di incontrare ragazzi da tutta Europa e migliorare l’inglese. Spero di ripetere questa esperienza anche in altri paesi” (V. classe seconda).

Gemma n° 1942

“Ho portato questa collana che rappresenta la bandiera dell’Albania, l’aquila a due teste perché sono nata in Italia ma ho origini albanesi e mi sento più albanese che italiana. Come la maggior parte delle persone che hanno origini diverse da quelle italiane, c’è sempre stato qualcuno che scherzava o prendeva in giro per queste origini, ma non mi sono mai vergognata per questo motivo, anzi. Quando vado in Albania, quasi ogni estate, mi sento proprio bene, spensierata e allegra, anche perché là ci sono tutti i nonni e due delle mie zie: là ci ritroviamo con la maggior parte dei miei cugini e ogni anno impariamo a conoscerci meglio, ad apprezzare i cibi, le abitudini, le tradizioni. Anche la lingua, sin da piccola, sono sempre stata io a volerla imparare: sentivo i miei genitori parlarla ed ero molto curiosa di capire e conoscere. Questo è come il mio portafortuna”.

Sento le parole di G. (classe seconda) e provo a interiorizzarle. Quello che sento è qualcosa che mi lega ad una terra, all’infanzia, alle esperienze vissute, alle lingue parlate, alle tradizioni che hanno segnato la mia vita e che mi fanno pensare al Friuli e all’Italia. Prima al Friuli, poi all’Italia. Prima o poi troverò il tempo di analizzare tutto questo.

La lingua batte tra Russia e Ucraina

firma-putin-Ancora qualche contributo sulla questione ucraino-russa.
Il primo articolo che ho già proposto stamattina in due quinte è di particolare interesse per il liceo linguistico perché riguarda proprio la questione linguistica: un bilinguismo di fatto si contrappone a una volontà politica monolinguistica che vede proprio nell’idioma un simbolo dell’identità nazionalistica. L’articolo è tratto da Il Manifesto di oggi: questione-linguistica-uno-strumento-di-incomprensione-politica
Il secondo è tratto da Rainews24 e riguarda un possibile allargamento dello scontro: la Moldavia con le due regioni della Gagauzia e della Transnistria: Accanto all’Ucraina, la Moldavia_ tra incudine e martello – Rai News