L’anniversario dei 500 anni della Riforma protestante affrontato con il sorriso e l’umorismo è quello raccontato in questo articolo di Roberto Davide Papini.
“Un Martin Lutero “Playmobil” che batte tutti i record, confezioni di minestre con l’effige dei grandi riformatori, “95 crêpes” al posto delle “95 tesi”, fumetti, cartoon: per i 500 anni dall’inizio della Riforma da Lutero (il 31 ottobre 1517 con le “95 tesi” contro il commercio sulle indulgenze) le chiese cristiane protestanti affiancano alle riflessioni teologiche umorismo e autoironia. Una scelta che non deve sorprendere, ripensando ai tanti spunti umoristici che ci sono nella Bibbia e alle parole di Karl Barth, uno dei grandi teologi protestanti del Novecento: «Un cristiano fa della buona teologia quando, in fondo, è sempre lieto, sì, quando si accosta alle cose con umorismo». Un monito preso sul serio in questo anniversario, con tante sfumature “pop” accanto alla riproposizione dell’attualità del messaggio della Riforma e dei suoi principi tra i quali la salvezza per fede attraverso la grazia (“Sola gratia” e “Sola Fide”), il ruolo esclusivo della Bibbia come fonte normativa (“Sola scriptura”), la centralità di Cristo e non della Chiesa (“Solus Christus”). Così, proprio alcuni di questi principi finiscono per campeggiare sulle confezioni della “Minestra della Riforma” insieme alle immagini dei riformatori (Lutero, Calvino, Zwingli) per iniziativa di due pastori protestanti svizzeri, Heinz Wulf e Karolina Wuber, perché «la Riforma si è diffusa nel 16esimo secolo insieme con l’odore della minestra». Le sfumature pop continuano con un bel fumetto sulla vita di Martin Lutero che esce in Francia per Glenat (disegnato dal senese Filippo Cenni), poi con l’umorismo della pagina Facebook ufficiale della Chiesa protestante unita di Francia, che il 2 febbraio ha trasformato il volto di Lutero in una crêpe (tradizionale ghiottoneria francese per la Candelora), quindi con un musical in tour in tutta la Germania e ancora con un divertente cartone animato che in due minuti spiega la Riforma protestante (sul sito http://riformaprotestante2017.org). Un grande protagonista di questo appuntamento è il figurino di Martin Lutero della Playmobil che ha polverizzato tutti i record di vendita della famosa ditta di giocattoli: al suo lancio ben 34mila esemplari venduti in 72 ore, mentre alla fine del 2016 aveva abbondamente superato quota 500mila. Rispetto alle immagini austere e severe dell’iconografia relativa a Lutero (che non rendono giustizia alla personalità del riformatore), questo pupazzetto di plastica è sorridente e simpatico, con una penna in una mano e la Bibbia nell’altra: un bel modo per rappresentare l’anniversario dell’evento in modo gioioso. Così come gioioso sarà il grande “Happening protestante 2017” a Milano dal 1° al 4 giugno organizzato dalle chiese luterana, battista, metodista e valdese (con la presenza di altre denominazioni protestanti e spazi di dialogo ecumenico) tra animazioni, momenti musicali, cortei e, ovviamente, momenti di culto ed evangelizzazione. In effetti, il messaggio centrale della Riforma, quello della“salvezza per grazia” per ogni donna e ogni uomo, non può che essere gioioso e gioiosamente rappresentato anche per non dimenticare l’ulteriore monito di Barth: «Bisogna guardarsi dai teologi di cattivo umore! Guai ai teologi noiosi!». Così, tra pupazzetti, happening e cartoon questo anniversario della Riforma promette davvero di non essere noioso.”
Interessante iniziativa di avvicinamento tra cattolici e protestanti in Austria per questo inizio di Quaresima. Ne scrive su Vatican Insider Maria Teresa Pontara Pederiva.
“L’ecumenismo «in cammino» indicato da Papa Francesco comincia a produrre i suoi frutti anche nella pastorale ordinaria. I tanti incontri con cui Bergoglio ha sorpreso la sua Chiesa e il mondo – la visita all’amico protestante a Caserta, l’incontro di Cuba con il patriarca Kirill, la visita a Lund in Svezia, fino all’ultima nella chiesa anglicana di All Saints a Roma con l’ipotesi di un viaggio in Sud Sudan insieme al primate Welby – non rappresentano solo gesti riservati ai leader delle chiese, ma un esempio da seguire nel quotidiano. «Non si può fare il dialogo ecumenico stando fermi» perché «le cose teologiche si discutono in cammino» e allora le comunità sono chiamate a mettersi in marcia insieme a partire dalle diverse attività feriali. Un ecumenismo, che potremmo anche definire semplice o spicciolo, ma che nelle intenzioni del Pontefice rappresenta una modalità ineludibile per testimoniare l’unico Vangelo di Cristo: un aiuto reciproco, secondo le necessità. E un esempio arriva fresco dall’Austria dove, in nome della collegialità episcopale col Vescovo di Roma, l’arcivescovo di Salisburgo ha raccolto la sfida e nelle scorse settimane ha proposto al sovrintendente evangelico di stendere insieme la tradizionale Lettera di Quaresima che verrà presentata alle rispettive comunità domenica 5 marzo. Franz Lackner, 60 anni, già provinciale dei Frati Minori austriaci e un passato nelle fila dei caschi blu dell’Onu, dal 2014 alla guida dell’antica diocesi di Salisburgo (eretta nel 798), ha inteso in tal modo unire con questo gesto due ricorrenze significative: l’anniversario dei 500 anni dalla Riforma di Lutero e la Giornata della Bibbia che in Austria si celebra la prima domenica di marzo. «L’uomo non vive di solo pane» non è allora solo una Lettera pastorale di Quaresima (28 pagine), ma rappresenta soprattutto uno stile. Una modalità, forse per alcuni inedita, che parla da sola perché porta l’ecumenismo fra la gente: non si tratta di annullare le differenze, che restano ambito del dialogo teologico, ma di rimarcare l’unico Vangelo di Cristo a partire dalle comunità di vita delle persone: cattolici e protestanti sono i destinatari di un unico testo e questa è già la prima riflessione. «Dio è il nostro fondamento», scrive Lackner nell’introduzione richiamando la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani celebrata a gennaio e in particolare alcune espressioni del Vangelo di Giovanni «Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,5) e ancora «Io sono la luce del mondo» (Gv 8,12), «Io sono la porta» (Gv 10, 9) o «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). La vite è una pianta caratterizzata da una grande adattabilità anche a terreni aridi perché le sue radici possono estendersi anche a 20 metri di profondità per raggiungere l’acqua: l’immagine della vite è significativa e rappresenta il desiderio di vita da parte dell’uomo, un anelito che la Parola di Dio può colmare. «L’Occidente cristiano ha una lunga storia alle spalle, una storia di salvezza, ma anche di tanti disastri, guerre e ingiustizia e il nostro cammino non può dirsi mai concluso, come ci ricorda Paolo. Una parte del Paese e dell’Europa intera non trova nella fede la propria guida e la partecipazione alla vita della comunità cristiana è in calo, le città sono prese a ostaggio dalla minaccia del terrorismo e la sicurezza che credevamo acquisita da decenni si è trasformata in paura, ma questo non significa che nella nostra società non esista il bene». Con il ricordo di una recente esercitazione di soccorso alpino in condizioni atmosferiche proibitive cui ha assistito, Lackner indica tutto il mondo del volontariato sociale, i gesti di condivisione e accoglienza ai nuovi arrivati e l’azione della Caritas lasciando al giudizio della storia se l’Occidente sarà ritenuto all’altezza di superare la sfida di oggi. Per questo è importante il camminare insieme anche all’interno di un dialogo ecumenico che deve farsi ogni giorno più serrato: il germoglio dal tronco di Jesse è diventato un ceppo di vite che continuerà a dare frutti. «La condivisione della Scrittura è una modalità ormai collaudata», aggiunge il sovrintendente Olivier Dantine con riferimento al Vaticano II. Nonostante le differenze di selezione dei testi e la disposizione dei Libri, la Bibbia resta il fondamento comune che lega tutte le chiese cristiane alla radice. La lettura della Parola ha giocato un ruolo fondamentale nella fede della Riforma: la traduzione di Lutero trovava posto in ogni casa e ogni discussione, anche su temi sociali, faceva riferimento ultimo alla Scrittura, spesso con il rischio di interpretazioni di parte. Con il Concilio la sua importanza è stata rimarcata anche da parte cattolica e da 50 anni si può procedere sulla medesima strada. Ecco allora che la Lettera si fa ancora più originale e le pagine che seguono costituiscono un invito alla lettura: in coppia, in famiglia, in gruppi la condivisione della Parola è un modo per accostarsi a ciò che chiede il Vangelo, una via di conversione per questa Quaresima 2017. L’invito è quello di formare Gruppi della Parola (i «Bibelteilens») in ogni comunità parrocchiale per andare alle fonti della propria fede, per individuare insieme la strada e testimoniare Gesù Cristo nel proprio ambiente di lavoro, nella società intera. Non si tratta di quello che conosciamo più propriamente come Lectio Divina, ma qualcosa forse di più accessibile, già sperimentato in diverse sedi, specialmente giovanili: un momento di preghiera anche in forma di canto, una lettura a voce alta dove ciascuno può rimarcare un versetto o approfondire con una riflessione personale, un momento di silenzio per interiorizzare e quindi una condivisione per giungere a ciò che la Parola chiede per la propria vita, la famiglia, il lavoro, la comunità civile per concludere poi con una preghiera o un canto finale. Citando una celebre espressione dello scrittore americano Mark Twain («Molte persone sono preoccupate di non capire la Bibbia. Io sono più preoccupato di ciò che ho capito») il testo fa seguire alcuni esempi di lettura e comprensione biblica firmati da Matthias Hohla e Eduard Baumann. Mentre venerdì 3 marzo, a Salisburgo, verrà presentata la Nuova traduzione interconfessionale della Bibbia cui ha lavorato da parte cattolica anche l’arcivescovo emerito Alois Kothgasser a fianco della pastora Jutta Henner della Società Biblica d’Austria.”
In un unico post due articoli a commento della visita del papa a Lund. Il primo è di taglio più teologico ed è a firma di Stefania Falasca per Avvenire:
“La memoria guarita, il passaggio dal conflitto alla comunione, il riconoscimento della dipendenza dalla grazia di Cristo nella vita cristiana, la gratitudine a Dio, guardare insieme al futuro e dire no alla strumentalizzazione della religione per fini politici. È quello che descrive oggi l’incontro tra cattolici e luterani nell’antica cattedrale di Lund e la dichiarazione comune che unitamente hanno sottoscritto al termine della preghiera condivisa. La Chiesa cattolica e la Chiesa luterana hanno compiuto il significativo gesto di firmare davanti al mondo la dichiarazione della commemorazione comune della Riforma. Dopo cinquecento anni, cattolici e luterani si ritrovano oggi concordi su una visione congiunta del passato e su imperativi comuni per il prossimo futuro. Si esprime la gioia per ciò che unisce, il pentimento per il danno creato dalla discordia e la ferma intenzione di testimoniare insieme al mondo la misericordia di Dio, operando per la riconciliazione, la pace e la giustizia per l’intero creato. Si compie così la storia con un nuovo passo importante per il cammino verso una più grande unità visibile della Chiesa. Articolata in cinque brevi paragrafi la “carta comune” della guarigione e della riconciliazione riassume il viaggio che ha portato a questo passo. «Cinquanta anni di dialogo ecumenico intenso e proficuo tra cattolici e luterani hanno aiutato a superare molte differenze, hanno approfondito la nostra comprensione e la fiducia reciproca – è scritto nel primo paragrafo della dichiarazione – allo stesso tempo, ci siamo avvicinati gli uni agli altri attraverso il servizio comune al nostro prossimo, spesso in circostanze di sofferenza e persecuzione. Attraverso il dialogo e la comune testimonianza noi non siamo più estranei. Piuttosto, abbiamo imparato che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide». Nel secondo paragrafo dal titolo: Passando dal conflitto alla comunione, cattolici e luterani unitamente confessano e chiedono perdono per aver «ferito l’unità visibile della Chiesa». Riconoscono che «differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti», soprattutto si riconosce ciò che è importante anche per non commettere gli errori del passato nelle contingenze attuali, e cioè che nella storia che ha portato alla divisione «la religione è stata strumentalizzata per fini politici». Così mentre il passato non può essere cambiato, viene però ricordato che la sua memoria può essere trasformata. Pertanto si afferma che si deve «con forza respingere l’odio e la violenza, passati e presenti, in particolare quella espressa nel nome della religione». «Oggi – è scritto – sentiamo il comando di Dio di mettere da parte tutti i conflitti. La nostra fede comune in Gesù Cristo e il nostro comune battesimo richiedono sempre una conversione quotidiana, con cui intrecciare le divergenze storiche e i conflitti che possono impedire la riconciliazione. Ci rendiamo conto che essendo liberati dalla grazia, questo spinge a muoversi verso la comunione a cui Dio ci chiama continuamente». La dichiarazione prospetta poi con chiarezza l’impegno per una testimonianza comune: «Ci impegniamo a testimoniare insieme la grazia misericordiosa di Dio, reso visibile in Cristo crocifisso e risorto. Consapevoli che il modo di relazionarsi tra noi forma la nostra testimonianza evangelica, noi ci impegniamo a un’ulteriore crescita nella comunione radicata nel battesimo, mentre cerchiamo di rimuovere i rimanenti ostacoli che ci impediscono di raggiungere la piena unità conforme al volere di Cristo che desidera che siamo una cosa sola, perché il mondo creda (cfr Gv 17,21)». Da qui la preghiera a Dio affinché si possa compiere insieme il servizio, in particolare ai poveri, difendere la dignità umana, lavorare per la giustizia rifiutando di ogni forma di violenza. «Dio ci chiama ad essere vicino a tutti coloro che desiderano la giustizia, la pace e la riconciliazione. Oggi, in particolare, per la fine della violenza e l’estremismo che colpiscono così tanti paesi e comunità e innumerevoli fratelli e sorelle in Cristo esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere lo straniero, per venire in aiuto di chi è costretto a fuggire a causa di guerre e persecuzioni, per difendere i diritti dei rifugiati e di coloro che cercano asilo». Se atteggiamenti passati di antiecumenismo e di autocompiacimento riemergeranno nelle comunità di fede, la commemorazione comune del 31 ottobre, ricorderà tuttavia con forza che non c’è altro cammino per andare avanti di quello della guarigione della memoria, di un ecumenismo dell’amicizia e di un servizio comune verso un mondo che chiede ad alta voce speranza, pace giusta e riconciliazione.”
Il secondo articolo è di taglio più geopolitico: è di Piero Schiavazzi, pubblicato su L’Huffington Post:
“A mezzo millennio da Martin Lutero e a mezzo secolo da Ingmar Bergman, la cattedrale di Lund è ancora una volta il “posto delle fragole”. Dove l’asprezza dei ricordi evolve, si converte in dolcezza dei gesti. E dove un dialogo acerbo matura e sperimenta il sapore del Verbo: “Con gratitudine riconosciamo che la Riforma ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa…Chiediamo al Signore che la sua Parola ci mantenga uniti.” Come nel film del regista svedese, le mura millenarie, con il loro magnetismo, catturano la scena di una metamorfosi. Una catarsi che solo il tempo sa operare nei protagonisti, aggiustando l’inquadratura e illuminando la zona d’ombra. Sicché la primavera giunge d’autunno, anche a una latitudine già invernale. Occasione da non perdere per Bergoglio, papa cinefilo, amante dei maestri degli anni ’50: “Con questo nuovo sguardo al passato non pretendiamo di realizzare una inattuabile correzione di quanto è accaduto, ma raccontare questa storia in modo diverso”, ha spiegato all’arrivo, dopo l’appello rivolto in volo ai giornalisti: “Aiutateci a far capire”. Così, con un anno di anticipo sul quinto centenario, Francesco ha trasformato la “protesta” di Lutero in festa cattolica, nonché canonica. O poco ci è mancato. E ha inaugurato le danze, schiodando le tesi del monaco ribelle dai battenti di Wittenberg, dove furono affisse nel 1517, per iscriverle d’ufficio sulla porta del Giubileo e registrarle nel libro dei romani pontefici: “…profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma”, recita la dichiarazione comune, sottoscritta con il palestinese Munib Yunan, presidente della Federazione Luterana Mondiale. Gli storici lo chiameranno ecumenismo del tango: un transfert dalle atmosfere creole a quelle scandinave, un allungo dal Baltico al Rio de la Plata. Rinunciando ai giri di valzer dei teologi, che la prendono alla larga, e avanzando barre a dritta in uno spazio stretto, come nelle milonghe di Buenos Aires. Buttandosi avanti e sapendo di non poter tornare indietro, in ossequio alle regole del ballo: “…abbiamo una nuova opportunità… Non possiamo rassegnarci alla divisione e alla distanza che la separazione ha prodotto tra noi”. Con il suo paso doble, Bergoglio si spinge verso traguardi che a Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sarebbero preclusi, scontando il peccato originale di un pregiudizio etnico – geografico: degli ortodossi russi all’indirizzo del papa polacco e dei protestanti tedeschi nei confronti del pontefice bavarese. Due derby, uno tra slavi e l’altro fra teutonici, nei quali le difese hanno avuto buon gioco in interdizione, stoppando le geometrie di Ratzinger, l’austero, e le acrobazie di Wojtyla, il condottiero. Ma non le fantasie palla a terra di Francesco, il manovriero. Realista e concreto quanto basta per puntare al risultato e portarlo a casa, prima del novantesimo, che stavolta coincide con la duplice chiusura, il 20 novembre, di Anno Santo e anno liturgico, nella domenica di Cristo Re: giorno in cui stilerà bilanci e tirerà somme. Disposto a scoprirsi, a cedere terreno e a prendere gol persino, ma determinato, infine, a metterne a segno uno in più: come in febbraio a Cuba, quando pur d’incontrare Kirill, il patriarca russo, ha siglato con lui una sorta di “Yalta religiosa”. Un accordo di desistenza che impegna le due chiese a non arruolare proseliti e a non evangelizzare, de facto, nelle altrui zone di influenza, dove Giovanni Paolo II aveva posizionato, a presidio, i propri vescovi, con la consegna di marcare a uomo. E come oggi a Lund, quando non si è limitato a riabilitare Lutero, ma lo ha celebrato e addirittura è sembrato che stesse per annoverarlo tra i beati, con tempismo perfetto e significativo, nella vigilia della solennità di Ognissanti. Un passo che Benedetto XVI non avrebbe mai compiuto, vedendo nella riforma protestante, notoriamente, il primo ciak e l’incipit della deriva relativista del pensiero moderno. Valutazioni che Bergoglio condivide sul piano scientifico, come dimostrano i suoi scritti argentini, ma che sbiadiscono e svaniscono in un quadro geopolitico, da quando è asceso al soglio petrino. Paradosso in virtù del quale il primo Papa della Compagnia di Gesù, nata segnatamente allo scopo di contrastare il protestantesimo, trova nel nemico di sempre un alleato, impensato più che insperato. Come nei film dei supereroi, quando i protagonisti depongono antiche, anacronistiche rivalità per fronteggiare un gigante tecnologico, partorito dalla scienza e intenzionato a scalzare la loro primazia, elevando il relativismo a dogma di fede. Oppure, ipotesi ancora più terrificante, un Jurassic World delle religioni, dove i vecchi dinosauri del cattolicesimo, del luteranesimo e dell’ortodossia smettono di combattersi a vicenda per scongiurare una temibile mutazione genetica: una nuova specie aggressiva, uscita dal crogiuolo della storia e in grado di travolgerle, anzi di stravolgerle, deformandone mission e vision. Oggi, esattamente come cinquecento anni fa, l’Europa è infatti teatro dello scontro tra due cristianesimi. Con una differenza di fondo, però, che attiene al DNA, poiché la disputa, questa volta, non verte sul conflitto tra coscienza e autorità, quanto piuttosto tra uguaglianza e identità. Da un lato un cristianesimo identitario: che dopo essere stato liberato dai muri ne costruisce di nuovi, alzando il vessillo e vestendo la corazza di una fede anabolizzata e gonfia di proclami, fuori, ma sterilizzata e vuota di linfa evangelica, dentro. Dall’altro il cristianesimo egalitario, che riconosce in Bergoglio la sua bandiera e lo segue tra l’esultanza dei fedeli e la riluttanza dei governi, preoccupati di dover pagare un prezzo politico. Una tenzone che non risparmia, in prospettiva, neppure le rive della Svezia felix, dove il partito xenofobo lambisce il 15 per cento. Fenomeno che ha indotto socialisti e moderati a correre ai ripari, congelando il patto di unità nazionale fino al 2022: una scadenza inconcepibile al sole del Mediterraneo, dove le maggioranze si sciolgono in un baleno.
“Esortiamo luterani e cattolici a lavorare insieme per accogliere chi è straniero e a difendere i diritti dei rifugiati e di quanti cercano asilo”. Profughi e i migranti, agli occhi del Pontefice, compongono dunque il banco di prova e la frontiera, mobile, del movimento ecumenico, dove si attesta il cammino comune e si testano i cromosomi, la fisionomia delle chiese cristiane.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. La misericordia divina, tormento di Lutero, che in sede speculativa divise in due la cristianità del secondo millennio, diviene, alle soglie del terzo, strumento di rinnovata unità operativa: “Senza questo servizio al mondo e nel mondo, la fede cristiana è incompleta”. Sul set bergmaniano del posto delle fragole, Bergoglio raccoglie i frutti del lavoro avviato cinquant’anni orsono e chiude, al tempo stesso, un ciclo produttivo, trasferendo la pianta dell’ecumenismo dalla serra protetta della teologia, dove tutto appare chiaro e incontaminato, alla selva oscura del mondo globalizzato. In un groviglio a crescita continua che rende arduo discernere il grano dalla zizzania. Nelle latitudini del grande Nord, il Papa del profondo Sud, in definitiva, è venuto a cercare d’autunno la primavera. E a invertire le stagioni della storia. Consapevole, in un’ottica gesuitica e cinematografica, “che il passato non si può cambiare, ma che la memoria, e il modo di fare memoria, possono essere trasformati”.”
Intervista piuttosto lunga, ma utile per capire lo spirito con cui oggi il papa si reca in Svezia. E’ ad opera di Ulf Jonsson ed è pubblicata su La Civiltà Cattolica.
“Durante un incontro dei direttori delle riviste culturali europee della Compagnia di Gesù, a metà giugno, ho espresso a p. Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, un desiderio che avevo nel cuore da tempo: intervistare papa Francesco alla vigilia del suo viaggio apostolico in Svezia, 31 ottobre 2016, per partecipare alla commemorazione ecumenica dei 500 anni della Riforma luterana. Pensavo che un’intervista fosse il modo migliore per preparare il Paese al messaggio che il Pontefice avrebbe indirizzato alla gente durante la sua visita. In quanto direttore della rivista culturale dei gesuiti svedesi Signum, ho pensato che questo obiettivo entrasse a pieno titolo nella nostra missione. L’ecumenismo — così come il dialogo tra le religioni e anche con i non credenti — sta molto a cuore al Papa. Lo ha fatto comprendere in molti modi. Ma soprattutto egli stesso è un uomo di riconciliazione. Francesco è profondamente convinto che gli uomini debbano superare barriere e steccati, di qualunque genere essi siano. Crede in quella che definisce la «cultura dell’incontro». E questo perché tutti possano cooperare al bene comune dell’umanità. Volevo che questa visione di Francesco potesse toccare la mente e il cuore di molti prima dell’arrivo del Papa in Svezia: l’intervista sarebbe stata il mezzo migliore per raggiungere tale obiettivo. Questo ho detto a p. Spadaro, col quale ho proseguito la riflessione fino ad agosto, quando insieme siamo arrivati alla conclusione che era davvero opportuno presentare al Pontefice questa richiesta in modo che potesse decidere se realizzarla o meno. Il Papa ha preso del tempo per riflettere sulla sua opportunità. Alla fine la risposta è stata positiva e ci ha dato un appuntamento a Santa Marta, sabato 24 settembre scorso, nel tardo pomeriggio. Era un giorno davvero gradevole per la temperatura e la luminosità del cielo. Attraversando il traffico di Roma in macchina con p. Spadaro, mi sentivo ansioso, ma contento. Siamo arrivati a Santa Marta 15 minuti prima del previsto. Pensavamo di attendere, e invece siamo stati subito invitati a salire al piano dove il Papa ha la sua stanza. Quando l’ascensore si è aperto, ho visto una guardia svizzera che ci ha salutati con cortesia. Sentivo la voce del Papa parlare cordialmente con altre persone in lingua spagnola, ma non lo vedevo. A un certo punto è apparso con due persone, dialogando amabilmente. Ha salutato me e p. Spadaro con un sorriso, indicandoci di entrare nella sua camera: lui sarebbe arrivato a momenti. Sono rimasto colpito da questa semplice e calda familiarità nell’accoglienza. Ci era stato detto in portineria che il Papa aveva avuto una giornata senza sosta e, dunque, pensavo che fosse stanco a fine giornata. E invece mi ha molto colpito vederlo così pieno di energia e rilassato. Il Papa è entrato nella sua camera e ci ha invitato a sederci dove preferivamo. Io mi sono seduto su una poltrona, e così anche p. Spadaro si è seduto di fronte a me. Il Papa si è seduto sul divano in mezzo alle due poltrone. Ho voluto presentarmi nel mio italiano non ricco, ma sufficiente per capire e per dialogare con semplicità. Dopo qualche battuta del Papa abbiamo acceso i registratori e iniziato la conversazione. P. Spadaro aveva tradotto dall’inglese alcune domande che volevo fare al Papa e che quindi avevo preparato, ma poi la conversazione tra noi tre è fluita naturalmente, in un’atmosfera amichevole e senza distanze artificiose. Soprattutto è stata schietta e diretta, senza giri di parole e senza quell’atmosfera tipica degli incontri con grandi leader o persone di riguardo. Non ho più alcun dubbio sul fatto che papa Francesco ami la conversazione, comunicare con gli altri. Qualche volta prende tempo per riflettere prima di rispondere, e le sue risposte trasmettono sempre un senso di coinvolgimento serio, ma non pesante o triste. Anzi, durante la nostra visita ha dato più volte segni del suo umorismo. Santo Padre, il 31 ottobre Lei visiterà Lund e Malmö per partecipare alla Commemorazione ecumenica dei 500 anni della Riforma, organizzata dalla Federazione Luterana Mondiale e dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Quali sono le sue speranze e le sue attese per questo storico evento? A me viene da dire una sola parola: avvicinarmi. La mia speranza e la mia attesa sono quelle di avvicinarmi di più ai miei fratelli e alle mie sorelle. La vicinanza fa bene a tutti. La distanza invece ci fa ammalare. Quando ci allontaniamo, ci chiudiamo dentro noi stessi e diventiamo monadi, incapaci di incontrarci. Ci facciamo prendere dalle paure. Bisogna imparare a trascendersi per incontrare gli altri. Se non lo facciamo, anche noi cristiani ci ammaliamo di divisione. La mia attesa è quella di riuscire a fare un passo di vicinanza, a essere più vicino ai miei fratelli e alle mie sorelle che vivono in Svezia. In Argentina i luterani compongono una comunità piuttosto ristretta. Lei ha avuto modo di avere contatti diretti con loro nel passato?
Anders Ruuth
Sì, abbastanza. Ricordo la prima volta che sono andato in una chiesa luterana: è stato proprio nella loro sede principale in Argentina, nella calle Esmeralda, a Buenos Aires. Avevo 17 anni. Mi ricordo bene quel giorno. Si sposava un mio compagno di lavoro, Axel Bachmann. Lui era lo zio della teologa luterana Mercedes García Bachmann. E anche la mamma di Mercedes, Ingrid, lavorava nel laboratorio dove lavoravo io. Quella era la prima volta che assistevo a una celebrazione luterana. La seconda volta è stata un’esperienza più forte. Noi gesuiti abbiamo la Facoltà di Teologia a San Miguel, dove io insegnavo. Lì vicino, a meno di 10 km di distanza, c’era la Facoltà di Teologia luterana. Il rettore era un ungherese, Leskó Béla, davvero un brav’uomo. Con lui avevo rapporti molto cordiali. Io ero professore e avevo la cattedra di Teologia spirituale. Ho invitato il professore di Teologia spirituale di quella Facoltà, uno svedese, Anders Ruuth, a tenere insieme a me lezioni di spiritualità. Ricordo che quello era un momento davvero difficile per la mia anima. Io ho avuto molta fiducia in lui e gli ho aperto il mio cuore. Lui mi ha molto aiutato in quel momento. Poi è stato inviato in Brasile — conosceva bene anche il portoghese — e quindi è tornato in Svezia. Lì ha pubblicato la sua tesi di abilitazione sulla «Chiesa universale del Regno di Dio», che era sorta in Brasile alla fine degli anni Settanta. Era una tesi critica. L’aveva scritta in svedese, ma aveva un capitolo in inglese. Me la inviò e io lessi quel capitolo in inglese: era un gioiello. Poi è passato del tempo… Nel frattempo sono diventato vescovo ausiliare di Buenos Aires. Un giorno venne a farmi visita in episcopio l’allora arcivescovo primate di Uppsala. Il card. Quarracino non c’era. Lui mi ha invitato alla loro Messa nella calle Azopardo, nella Iglesia Nórdica di Buenos Aires, che prima era chiamata «Chiesa svedese». A lui ho parlato di Anders Ruuth, il quale poi è tornato ancora una volta in Argentina per celebrare un matrimonio. In quella occasione ci siamo rivisti, ma fu l’ultima: uno dei suoi due figli, il musicista — l’altro era medico —, un giorno mi chiamò per dirmi che era morto. Un altro capitolo dei miei rapporti con i luterani riguarda la Chiesa di Danimarca. Ho avuto un bel rapporto col pastore di allora, Albert Andersen, che adesso è negli Stati Uniti. Lui mi ha invitato due volte a fare una predica. La prima era in un contesto liturgico. In quella occasione fu molto delicato: per evitare di creare imbarazzo circa la partecipazione alla comunione, quel giorno non ha celebrato la Messa, ma un battesimo. Successivamente mi ha invitato a tenere una conferenza ai loro giovani. Ricordo che con lui ho avuto una discussione molto forte a distanza, quando lui era già negli Stati Uniti. Il pastore mi ha rimproverato tanto a causa di quel che avevo detto circa una legge che riguardava problemi religiosi in Argentina. Ma devo dire che mi ha rimproverato con onestà e sincerità, come un vero amico. Quando è tornato a Buenos Aires, sono andato a chiedergli scusa perché in effetti il modo in cui mi ero espresso in quel caso era stato un po’ offensivo. Poi ho avuto anche una grande vicinanza col pastore David Calvo, argentino, della Iglesia Evangélica Luterana Unida. Anche lui era una brava persona. Ricordo inoltre che per il «Giorno della Bibbia», che a Buenos Aires si celebrava a fine settembre, sono tornato nella prima chiesa in cui ero stato da giovane, in calle Esmeralda. E lì ho incontrato Mercedes García Bachmann. Abbiamo tenuto una conversazione. Quello è stato l’ultimo incontro istituzionale che ho avuto con i luterani quando ero arcivescovo di Buenos Aires. Poi invece ho continuato ad avere rapporti con singoli amici luterani a livello personale. Ma l’uomo che ha fatto tanto bene alla mia vita è stato Anders Ruuth: lo penso con tanto affetto e riconoscenza. Quando qui è venuta a trovarmi l’arcivescova primate della Chiesa di Svezia, abbiamo fatto un riferimento a quella amicizia tra noi due. Ricordo bene quando l’arcivescova Antje Jackelén è venuta qui in Vaticano nel maggio 2015 in visita ufficiale: ha fatto un gran bel discorso. L’ho incontrata successivamente anche in occasione della canonizzazione di Maria Elisabeth Hesselblad. Allora ho potuto salutare anche il marito: sono persone davvero amabili. Poi da papa sono andato a predicare nella Chiesa luterana di Roma. Mi hanno molto colpito le domande che mi sono state fatte allora: quella del bambino e quella di una signora sulla intercomunione. Domande belle e profonde. E il pastore di quella chiesa è proprio bravo! Nei dialoghi ecumenici le differenti comunità dovrebbero provare ad arricchirsi reciprocamente con il meglio delle loro tradizioni. Che cosa la Chiesa cattolica potrebbe imparare dalla tradizione luterana? Mi vengono in mente due parole: «riforma» e «Scrittura». Cerco di spiegarmi. La prima è la parola «riforma». All’inizio quello di Lutero era un gesto di riforma in un momento difficile per la Chiesa. Lutero voleva porre un rimedio a una situazione complessa. Poi questo gesto — anche a causa di situazioni politiche, pensiamo anche al cuius regio eius religio — è diventato uno «stato» di separazione, e non un «processo» di riforma di tutta la Chiesa, che invece è fondamentale, perché la Chiesa è semper reformanda. La seconda parola è «Scrittura», la Parola di Dio. Lutero ha fatto un grande passo per mettere la Parola di Dio nelle mani del popolo. Riforma e Scrittura sono le due cose fondamentali che possiamo approfondire guardando alla tradizione luterana. Mi vengono in mente adesso le Congregazioni Generali prima del Conclave e quanto la richiesta di una riforma sia stata viva e presente nelle nostre discussioni. Solo una volta prima di Lei un papa ha visitato la Svezia, Giovanni Paolo II nel 1989. Quello era un tempo di entusiasmo ecumenico e di profondo desiderio di unità tra cattolici e luterani. Da allora il movimento ecumenico sembra avere perso vigore e nuovi ostacoli sono sorti. Come dovrebbero essere gestiti questi ostacoli? Quali sono, a suo giudizio, i mezzi migliori per promuovere l’unità dei cristiani? Chiaramente spetta ai teologi continuare a dialogare e a studiare i problemi: su questo non vi è alcun dubbio. Il dialogo teologico deve proseguire, perché è una strada da percorrere. Penso ai risultati che su questa strada sono stati raggiunti con il grande documento ecumenico sulla giustificazione: è stato un grande passo avanti. Certo, dopo questo passo immagino che non sarà facile andare avanti a causa delle diverse capacità di comprendere alcune questioni teologiche. Ho domandato al patriarca Bartolomeo se era vero quel che si racconta del patriarca Atenagora, cioè che avrebbe detto a Paolo VI: «Andiamo avanti noi e mettiamo i teologi a discutere tra loro su un’isola». Mi ha detto che è una battuta vera. Ma sì, si deve continuare il dialogo teologico, anche se non sarà facile. Personalmente credo anche che si debba spostare l’entusiasmo verso la preghiera comune e le opere di misericordia, cioè il lavoro fatto insieme nell’aiuto agli ammalati, ai poveri, ai carcerati. Fare qualcosa insieme è una forma alta ed efficace di dialogo. Penso anche all’educazione. È importante lavorare insieme e non settariamente. Un criterio dovremmo averlo molto chiaro in ogni caso: fare proselitismo nel campo ecclesiale è peccato. Benedetto XVI ci ha detto che la Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione. Il proselitismo è un atteggiamento peccaminoso. Sarebbe come trasformare la Chiesa in una organizzazione. Parlare, pregare, lavorare insieme: questo è il cammino che dobbiamo fare. Vedi, nell’unità quello che non sbaglia mai è il nemico, il demonio. Quando i cristiani sono perseguitati e uccisi, lo sono perché sono cristiani e non perché sono luterani, calvinisti, anglicani, cattolici o ortodossi. Esiste un ecumenismo del sangue. Ricordo un episodio che ho vissuto con il parroco della parrocchia di Sankt Joseph a Wandsbek, Amburgo. Lui portava avanti la causa dei martiri ghigliottinati da Hitler perché insegnavano il catechismo. Sono stati ghigliottinati uno dietro l’altro. Dopo i primi due, che erano cattolici, fu ucciso un pastore luterano condannato per lo stesso motivo. Il sangue dei tre si è mischiato. Il parroco mi disse che per lui era impossibile continuare la causa di beatificazione dei due cattolici senza inserire il luterano: il loro sangue si era mischiato! Ma ricordo anche l’omelia di Paolo VI in Uganda nel 1964, che menzionava insieme, uniti, i martiri cattolici e anglicani. Ho avuto questo pensiero quando anch’io ho visitato la terra d’Uganda. Questo succede anche ai nostri giorni: gli ortodossi, i martiri copti uccisi Libia… È l’ecumenismo del sangue. Quindi: pregare insieme, lavorare insieme e comprendere l’ecumenismo del sangue. Una delle cause maggiori di inquietudine del nostro tempo è la diffusione del terrorismo rivestito di termini religiosi. L’incontro di Assisi ha posto l’accento anche sull’importanza del dialogo interreligioso. Come l’ha vissuto? C’erano tutte le religioni che hanno contatto con Sant’Egidio. Ho incontrato coloro che Sant’Egidio ha contattato: non ho scelto io chi incontrare. Ma erano in tanti, e l’incontro è stato molto rispettoso e senza sincretismo. Tutti insieme abbiamo parlato della pace e abbiamo chiesto la pace. Abbiamo detto insieme parole forti per la pace, che le religioni davvero vogliono. Non si può fare la guerra in nome della religione, di Dio: è una bestemmia, è satanico. Oggi ho ricevuto circa 400 persone che erano a Nizza e ho salutato le vittime, i feriti, gente che ha perso mogli o mariti o figli. Quel pazzo che ha commesso quella strage lo ha fatto credendo di farlo in nome di Dio. Pover’uomo, era uno squilibrato! Con carità possiamo dire che era uno squilibrato che ha cercato di usare una giustificazione nel nome di Dio. Per questo l’incontro di Assisi è molto importante. Ma Lei ha recentemente parlato anche di un’altra forma di terrorismo, quello delle chiacchiere. In che senso e come si fa a vincerlo? Sì, c’è un terrorismo interno e sotterraneo che è un vizio difficile da estirpare. Descrivo il vizio delle mormorazioni e delle chiacchiere come una forma di terrorismo: è una forma di violenza profonda che tutti abbiamo a disposizione nell’anima e che richiede una conversione profonda. Il problema di questo terrorismo è che tutti possiamo metterlo in atto. Ogni persona è capace di diventare terrorista anche semplicemente usando la lingua. Non parlo delle liti che si fanno apertamente, come le guerre. Parlo di un terrorismo subdolo, nascosto, che si fa buttando parole come «bombe», e che fa molto male. La radice di questo terrorismo è nel peccato originale, ed è una forma di criminalità. È un modo per guadagnare spazio per sé distruggendo l’altro. È necessaria, dunque, una profonda conversione del cuore per vincere questa tentazione, e bisogna molto esaminarsi su questo punto. La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua, dice l’apostolo Giacomo nel terzo capitolo della sua Lettera. La lingua è un membro piccolo, ma può sviluppare un fuoco di male e incendiare tutta la nostra vita. La lingua si può riempire di veleno mortale. Questo terrorismo è difficile da domare. La religione può essere una benedizione, ma anche una maledizione. I media spesso riportano notizie di conflitti tra gruppi religiosi nel mondo. Alcuni affermano che il mondo sarebbe più pacifico se la religione non ci fosse. Che cosa risponde a questa critica? Le idolatrie che sono alla base di una religione, non la religione! Ci sono idolatrie legate alla religione: l’idolatria dei soldi, delle inimicizie, dello spazio superiore al tempo, la cupidigia della territorialità dello spazio. C’è una idolatria della conquista dello spazio, del dominio, che attacca le religioni come un virus maligno. E l’idolatria è una finta di religione, è una religiosità sbagliata. Io la chiamo «una trascendenza immanente», cioè una contraddizione. Invece le religioni vere sono lo sviluppo della capacità che ha l’uomo di trascendersi verso l’assoluto. Il fenomeno religioso è trascendente e ha a che fare con la verità, la bellezza, la bontà e l’unità. Se non c’è questa apertura, non c’è trascendenza, non c’è vera religione, c’è idolatria. L’apertura alla trascendenza dunque non può assolutamente essere causa di terrorismo, perché questa apertura è sempre unita alla ricerca della verità, della bellezza, della bontà e dell’unità. Lei ha spesso parlato in termini molto chiari della terribile situazione dei cristiani in alcune aree del Medio Oriente. C’è ancora speranza per uno sviluppo più pacifico e umano per i cristiani in quell’area? Io credo che il Signore non lascerà il suo popolo a se stesso, non lo abbandonerà. Quando leggiamo delle dure prove del popolo di Israele nella Bibbia o facciamo memoria delle prove dei martiri, constatiamo come il Signore sia sempre venuto in aiuto del suo popolo. Ricordiamo nell’Antico Testamento l’uccisione dei sette figli con la loro madre nel libro dei Maccabei. O il martirio di Eleazaro. Certamente il martirio è una delle forme della vita cristiana. Ricordiamo san Policarpo e la lettera alla Chiesa di Smirne che ci dà il racconto delle circostanze del suo arresto e della sua morte. Sì, in questo momento il Medio Oriente è terra di martiri. Possiamo senza dubbio parlare di una Siria martire e martoriata. Voglio citare un ricordo personale che mi è rimasto nel cuore: a Lesbo ho incontrato un papà con due bambini. Lui mi ha detto che era tanto innamorato di sua moglie. Lui è musulmano e lei era cristiana. Quando sono venuti i terroristi, hanno voluto che lei si togliesse la croce, ma lei non ha voluto e loro l’hanno sgozzata davanti a suo marito e ai suoi figli. E lui mi continuava a dire: «Io l’amo tanto, l’amo tanto». Sì, lei è una martire. Ma il cristiano sa che c’è speranza. Il sangue dei martiri è il seme dei cristiani: lo sappiamo da sempre. Lei è il primo papa non europeo da più di 1.200 anni a questa parte, e spesso ha messo in rilievo la vita della Chiesa in regioni considerate «periferiche» del mondo. Dove, secondo Lei, la Chiesa cattolica avrà le sue comunità più vive nei prossimi 20 anni? E in che modo le Chiese d’Europa potranno contribuire al cattolicesimo del futuro? Questa è una domanda legata allo spazio, alla geografia. Io ho allergia a parlare di spazi, ma dico sempre che dalle periferie si vedono le cose meglio che dal centro. La vivacità delle comunità ecclesiali non dipende dallo spazio, dalla geografia, ma dallo spirito. È vero che le Chiese giovani hanno uno spirito più fresco e, d’altra parte, ci sono Chiese invecchiate, Chiese un po’ addormentate, che sembrano essere interessate solamente a conservare il loro spazio. In questi casi non dico che manchi lo spirito: c’è, sì, ma è chiuso in una struttura, in un modo rigido, timoroso di perdere spazio. Nelle Chiese di alcuni Paesi si vede proprio che manca freschezza. In questo senso la freschezza delle periferie dà più posto allo spirito. Bisogna evitare gli effetti di un cattivo invecchiamento delle Chiese. Fa bene rileggere il capitolo terzo del profeta Gioele, lì dove dice che gli anziani faranno sogni e che i giovani avranno visioni. Nei sogni degli anziani c’è la possibilità che i nostri giovani abbiano nuove visioni, abbiano nuovamente un futuro. Invece le Chiese a volte sono chiuse nei programmi, nelle programmazioni. Lo ammetto: so che sono necessari, ma io faccio molta fatica a porre molta speranza negli organigrammi. Lo spirito è pronto a spingerci, ad andare avanti. E lo spirito si trova nella capacità di sognare e nella capacità di profetizzare. Questa per me è una sfida per tutta la Chiesa. E l’unione tra anziani e giovani è per me la sfida del momento per la Chiesa, la sfida alla sua capacità di freschezza. Per questo a Cracovia, durante la Giornata Mondiale della Gioventù, ho raccomandato ai giovani di parlare con i nonni. La Chiesa giovane ringiovanisce di più quando i giovani parlano con gli anziani e quando gli anziani sanno sognare cose grandi, perché questo fa sì che i giovani profetizzino. Se i giovani non profetizzano, alla Chiesa manca l’aria. La sua visita in Svezia toccherà uno dei Paesi più secolarizzati al mondo. Una buona parte della sua popolazione non crede in Dio, e la religione gioca un ruolo abbastanza modesto nella vita pubblica e nella società. Secondo Lei, che cosa si perde una persona che non crede in Dio? Non si tratta di perdere qualcosa. Si tratta di non sviluppare adeguatamente una capacità di trascendenza. La strada della trascendenza dà posto a Dio, e in questo sono importanti anche i piccoli passi, persino quello da essere ateo ad essere agnostico. Il problema per me è quando si è chiusi e si considera la propria vita perfetta in se stessa, e dunque chiusa in se stessa senza bisogno di una radicale trascendenza. Ma per aprire gli altri alla trascendenza non c’è bisogno di fare tante parole e discorsi. Chi vive la trascendenza è visibile: è una testimonianza vivente. Nel pranzo che ho avuto a Cracovia con alcuni giovani, uno di loro mi ha chiesto: «Che cosa devo dire a un mio amico che non crede in Dio? Come faccio a convertirlo?». Io gli ho risposto: «L’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa. Agisci! Vivi! Poi davanti alla tua vita, alla tua testimonianza, l’altro forse ti chiederà perché vivi così». Io sono convinto che chi non crede o non cerca Dio forse non ha sentito l’inquietudine di una testimonianza. E questo è molto legato al benessere. L’inquietudine si trova difficilmente nel benessere. Per questo credo che contro l’ateismo, cioè contro la chiusura alla trascendenza, valgano davvero solamente la preghiera e la testimonianza. I cattolici in Svezia sono una piccola minoranza, e per lo più composta da immigranti da varie nazioni del mondo. Lei incontrerà alcuni di loro celebrando la Messa a Malmö il 1° novembre. Come vede il ruolo dei cattolici in una cultura come quella svedese? Vedo una sana convivenza, dove ognuno può vivere la propria fede ed esprimere la propria testimonianza vivendo uno spirito aperto ed ecumenico. Non si può essere cattolici e settari. Bisogna tendere a stare insieme agli altri. «Cattolico» e «settario» sono due parole in contraddizione. Per questo all’inizio non prevedevo di celebrare una Messa per i cattolici in questo viaggio: volevo insistere su una testimonianza ecumenica. Poi ho riflettuto bene sul mio ruolo di pastore di un gregge cattolico che arriverà anche da altri Paesi vicini, come la Norvegia e la Danimarca. Allora, rispondendo alla fervida richiesta della comunità cattolica, ho deciso di celebrare una Messa, allungando il viaggio di un giorno. Infatti volevo che la Messa fosse celebrata non nello stesso giorno e non nello stesso luogo dell’incontro ecumenico per evitare di confondere i piani. L’incontro ecumenico va preservato nel suo significato profondo secondo uno spirito di unità, che è il mio. Questo ha creato problemi organizzativi, lo so, perché sarò in Svezia anche nel giorno dei Santi, che qui a Roma è importante. Ma pur di evitare fraintendimenti, ho voluto che fosse così. Lei è un gesuita. Sin dal 1879 i gesuiti hanno svolto le loro attività in Svezia con parrocchie, esercizi spirituali, la rivista «Signum» e, negli ultimi 15 anni, grazie all’Istituto universitario «Newman». Quali impegni e quali valori dovrebbero caratterizzare l’apostolato dei gesuiti oggi in questo Paese? Credo che il primo compito dei gesuiti in Svezia sia quello di favorire in ogni modo il dialogo con coloro che vivono nella società secolarizzata e con i non credenti: parlare, condividere, comprendere, stare accanto. Poi chiaramente occorre favorire il dialogo ecumenico. Il modello per i gesuiti svedesi deve essere san Pietro Favre, che era sempre in cammino e che era guidato da uno spirito buono, aperto. I gesuiti non abbiano una struttura quieta. Bisogna avere il cuore inquieto e avere strutture, sì, ma inquiete. Chi è Gesù per Jorge Mario Bergoglio? Gesù per me è Colui che mi ha guardato con misericordia e mi ha salvato. Il mio rapporto con Lui ha sempre questo principio e fondamento. Gesù ha dato senso alla mia vita di qui sulla terra, e speranza per la vita futura. Con la misericordia mi ha guardato, mi ha preso, mi ha messo in strada… E mi ha dato una grazia importante: la grazia della vergogna. La mia vita spirituale è tutta scritta nel capitolo 16 di Ezechiele. Specialmente nei versetti finali, quando il Signore rivela che avrebbe stabilito la sua alleanza con Israele dicendogli: «Tu saprai che io sono il Signore, perché te ne ricordi e ti vergogni e, nella tua confusione, tu non apra più bocca, quando ti avrò perdonato quello che hai fatto». La vergogna è positiva: ti fa agire, ma ti fa capire qual è il tuo posto, chi tu sei, impedendo ogni superbia e vanagloria. Una parola finale, Santo Padre, su questo viaggio in Svezia… Quello che mi viene spontaneo da aggiungere adesso è semplice: andare, camminare insieme! Non restare chiusi in prospettive rigide, perché in queste non c’è possibilità di riforma. * * * Il Papa, p. Spadaro ed io abbiamo trascorso insieme in conversazione circa un’ora e mezzo. Alla fine Francesco ci ha accompagnati all’ascensore. Ci ha raccomandato di pregare per lui. Le porte si sono chiuse mentre lui ci salutava con la mano e con un sorriso radioso che mai dimenticherò. Fuori era già buio. La cupola di San Pietro, illuminata, rivelava il suo splendore mentre salivamo in macchina per tornare in tempo per la cena nella comunità di Civiltà Cattolica”.
Il 31 ottobre il papa si recherà in Svezia, a Lund, per la commemorazione ecumenica congiunta luterano-cattolica del 500esimo anniversario della Riforma. Ne parla Alberto Melloni in questo articolo pubblicato su La Repubblica.
“Il vento è una grande figura biblica. È il Soffio che accarezza il mondo vuoto, la Voce dell’impalpabile silenzio che parla ai profeti, l’irruento Respiro che divide il mare della liberazione. Ed è un vento di questa caratura biblica quello che percorrerà l’Europa e porterà il Papa di Roma a Lund,in Svezia, luogo di fondazione, della federazione mondiale delle Chiese evangeliche — quelle che il gergo chiama protestanti o luterane. Francesco infatti parteciperà ad un giubileo non suo: quello che prepara il 500° anniversario dell’inizio della riforma di Lutero (quando, si racconta, vennero affisse le 95 tesi alla porta del duomo di Wittenberg), con cui egli manifestava cos’è la sete cristiana di salvezza e l’insofferenza per l’abuso nella chiesa. Quello di Francesco sarà «un gesto senza precedenti», ripeteranno enfaticamente tutti. Pur sapendo che vedere un Papa fare qualcosa di mai fatto prima, non sorprende ormai nessuno. E anzi, volendo andare di fino, si potrebbe dire che anche questa usuale ricerca dell’inusuale potrebbe apparire come una scivolosa analogia col registro della politica e della sua fame di exploit, e potrebbe far correre al magistero il rischio di venir ascoltato quando fa cose strane e di venir ignorato — come ad esempio accade davanti alla tragedia di Aleppo o di Mosul — quando annuncia il vangelo della pace. In realtà ciò che c’è di storico nel gesto di Lund non consiste nel fare a favore di telecamera qualcosa di “nuovo”: ma nel dimostrare che alla fine del mondo latinoamericano, dove la teologia europea ha spesso visto dilettantismi e pericoli, una chiesa aveva custodito i grandi semi del Concilio e del Novecento, vivi e vitali. E fra quei semi c’è l’ecumenismo. Un movimento che in Occidente s’è talmente rinsecchito fra cortesie di capi e negoziati fra teologi che il termine ha finito per essere utilizzato da non pochi cialtroni per indicare il rapporto fra cristianesimo e religioni. Però il seme ecumenico che Francesco riporta al centro della scena era ed è altro: non compromessi tessuti all’ombra dei rapporti di forza, ma il desiderio di sperimentare che anche la Chiesa può vivere una unità come tensione che continuamente la riforma e la aduna. Per i cattolici era stata una gigantesca conversione dall’utopia del “ritorno” dei fratelli separati alla chiesa del papa alla ricerca. Nella quale la maggiore o minore prossimità rituale e dottrinale costituiva un banco di prova: Roma si sarebbe fermata al dialogo apparentemente più “facile” con l’ortodossia o avrebbe cercato l’unità anche con le Chiese della e dopo la riforma? Questa domanda ha segnato la primavera ecumenica del cattolicesimo romano: e ha avuto un grande peso nel dialogo cattolico- luterano. Il centenario della nascita di Lutero nel 1983 fu l’occasione per un primo grande passo: grazie a un lavoro storico intenso l’intensità cristiana di Lutero ricominciava a parlare ad entrambe le chiese. Liberava Lutero dai miti e dagli anti-miti e consegnava a tutte le Chiese la passione di un un uomo che dopo un secolo in cui la riforma da tutti attesa era stata rinviata, la imboccava a proprio rischio e pericolo, ritenendo ogni compromesso impossibile in vista della salvezza. Questa testimonianza luminosa e irruenta, non portò però a passi di comunione fra le Chiese: neppure il fondamentale accordo sulla dottrina della giustificazione del 1999, che riconosceva come le due dottrine sulle quali i cristiani si erano divisi e uccisi erano compatibili e convergenti, veniva seguito da gesti di comunione effettiva. Fornendo argomenti non piccoli a chi riteneva che l’ecumenismo fosse giunto al capolinea: o perché aveva conseguito l’enorme risultato di disarmare cristiani che si erano odiati e che imparavano a stimarsi; o perché aveva fallito l’unità dell’altare, celebrando ancora e sempre eucarestie divise. A Lund, dunque, il papato di Francesco riprende il filo di quella ricerca: a partire da una dimensione del Corpo di Cristo, che è il Corpo del povero. Là dove era stata massima per Roma l’asimmetria fra il rapporto con l’Oriente e il rapporto coi Protestanti, Francesco reinventa un ecumenismo nel corpo del povero e del rifugiato. Questo, che sarà uno dei contenuti della dichiarazione di Lund siglata dal Papa di Roma e dal presidente della Federazione Luterana mondiale può avere due significati: trovare ancora una volta un modo per evitare il problema di fondo — e cioè quanta unità dottrinale serve per poter celebrare la stessa eucarestia; o un modo per aprire quel capitolo a partire da un corpo nel quale c’è una presenza reale del Cristo. In attesa che da quella sottomissione alla verità cristiana spiri un altro Vento che darà alla Chiesa quella unità che non serve ad avanzare pretese più violente, ma a mostrare al mondo che è il soffio del perdono che ne impedisce il crollo sotto il peso della crudeltà e della indifferenza umane.”
Da un bel po’ di anni non mi capitava di prendermi l’influenza… Alla fine è arrivata. Ieri la febbre non mi ha dato tregua e quindi via pc, via libri, un filo di tv in sottofondo e tanto sonnecchiare. Oggi le cose vanno un po’ meglio e desidero condividere, soprattutto con le classi quinte, questa intervista di Michele Turrisi a Emanuele Angeleri, pubblicata lo scorso settembre su Kasparhauser. Come si può leggere sullo stesso sito, Emanuele Angeleri (1932), dottore in fisica, è stato ricercatore industriale nel settore dell’energia nucleare e delle telecomunicazioni (25 anni) e poi professore associato alla cattedra di Teoria della Informazione e della Trasmissione presso l’Università degli Studi di Milano (20 anni).
“Professore: Lei è uno studioso di scienze fisiche e un tecnico; eppure si interessa di religione e legge la Bibbia in ebraico. A cosa deve tanta familiarità col Testo Sacro? Per rispondere a questa domanda non posso evitare di ricorrere a un ricordo autobiografico. Ho davanti agli occhi la cucina di casa mia di quando ero un bimbetto di sei anni, ormai tanti anni fa. Il tavolone dove si era cenato veniva sparecchiato e tutta la famiglia vi sedeva attorno, alle 8.30 di sera: mio padre, mia madre e noi quattro fratelli, ciascuno con la sua Bibbia davanti. Cominciava mio padre con un versetto, poi veniva mia madre col successivo, seguiva mio fratello maggiore, poi mia sorella, poi il fratello subito più grande di me e per ultimo io, in braccio alla mamma che mi aiutava nella mia traballante lettura. Il giro si ripeteva finché si era letto un capitolo, che mio padre di volta in volta sceglieva secondo un suo criterio. Finita la lettura c’era una breve discussione in cui si facevano delle domande alle quali rispondevano mio padre e mia madre. Alle volte si cantava anche un inno della raccolta della nostra assemblea. Oggi, dopo un’infinità di anni, la sera, prima di addormentarmi, in quei momenti indistinti fra la veglia e il sonno sopravveniente, risento quel coro famigliare, risento con vivezza nelle orecchie la bella voce melodiosa di mia madre… Quelle sere erano un’occasione di incontro famigliare che ricordo con acuta nostalgia, se penso che delle sei persone sedute attorno a quel tavolo intente a leggere la Bibbia, ne sono rimaste soltanto due: mio fratello maggiore ed io, il più piccolo. Si può calcolare che se si procede con un capitolo per sera è possibile leggere tutta la Bibbia in cinque anni. In realtà a causa dei vari inconvenienti che la vita presenta il tempo che si impiega mediamente si aggira sui sette anni. A diciotto-diciannove anni se tutto va bene la Bibbia l’hai letta due volte. Questo era il programma. Ma ci fu la guerra, il rituale fu interrotto, la famiglia in parte si disperse e il programma non fu portato a termine come previsto. Ho fatto in tempo a leggere la Bibbia in quel modo una volta e un po’! La Bibbia fa parte del mio imprinting personale: è stata una componente essenziale della mia vita e tale rimarrà per sempre. Allo studio dell’ebraico sono stato avviato ancora giovinetto da un mio zio, un fratello di mia madre. In quel periodo ho imparato alcuni salmi in ebraico a memoria e alcune benedizioni rituali che posso recitare ancora. Ho continuato a leggere la Bibbia nell’originale ebraico nel corso di tutta la mia vita. Mio zio alla morte mi ha lasciato la sua ricca biblioteca di ebraico (consistente in numerose edizioni critiche del testo biblico, vocabolari, grammatiche e un’ampia letteratura sull’argomento), che conservo gelosamente e spesso consulto. Un salto nella mia conoscenza dell’ebraico è avvenuto in età matura a seguito dell’incontro con un rabbino dal quale ho imparato molte cose e dell’amicizia con un collega ebreo, col quale mantengo strette relazioni tuttora. Questo amico mi ha convinto anni fa a fare un lungo giro in Israele, assieme alle nostre mogli. Su di una macchina a nolo siamo stati quasi dappertutto. Alloggiati in un Qibbùtz, mi sono reso conto di come la mia conoscenza dell’ebraico biblico fosse sufficiente a permettermi qualche semplice scambio per le necessità di tutti i giorni. Tornato a casa mi sono dedicato all’aggiornamento sull’ebraico moderno che continua tuttora, cosa che ho la gioia di condividere anche con mia moglie. (Nel frattempo la biblioteca di mio zio si è arricchita di altri volumi). Ma forse sto divagando troppo. In ogni modo, circostanze fortuite (ma cosa significa esattamente fortuito?) mi hanno legato strettamente alla Bibbia e alla sua lingua facendomela diventare un compagno fedele dal quale non mi separerei mai. Tra i fisici sono in buona compagnia: Isaac Newton, profondo studioso e conoscitore delle Scritture, era convinto che nella Bibbia ci fosse un tesoro nascosto di verità preziose non dogmatiche e assolute, ma dotate della eccezionale particolarità di svolgersi e avverarsi nel tempo. Sta all’uomo leggerla in ogni epoca e scoprire in essa le verità annunziate per quel tempo. Sono pienamente d’accordo con R. Popkin il quale arditamente capovolge la domanda che si sente correntemente porre da chi per la prima volta scopre gli interessi biblico-teologici del grande scienziato: «Come mai uno scienziato del suo calibro ha perso tempo con assurdi problemi teologici?» chiedendosi invece provocatoriamente: «Come mai uno dei più grandi teologi del ‘600 ha perso tempo a scrivere opere scientifiche?». Lei si dichiara agnostico. A che punto della sua vita e perché ha realizzato di non potersi più dire credente? Non c’è un punto preciso della mia vita in cui mi sono ‘convertito’ all’agnosticismo. È una convinzione che è maturata progressivamente nel tempo, quando diventato adulto ho cominciato a riflettere seriamente sul problema della vita, della morte e sul significato del Tutto. Un ruolo importante in questa mia presa di posizione l’ha avuto Kant, sulla cui filosofia ho riflettuto nel corso della mia vita. (Dopo lo studio al liceo mi era rimasta la persuasione che valesse la pena approfondirne la conoscenza). C’è una sua proposizione che recita testualmente: «Il concetto di Dio è un concetto originale, che non appartiene alla fisica, e cioè non alla ragione speculativa, ma alla morale» (Critica della ragion pratica, 252). Con la ragione non si può dimostrare né l’esistenza né la non-esistenza di Dio. Di questo mi sono convinto e pertanto, se devo darmi un’etichetta, mi dichiaro un “agnostico, non insensibile a quell’importante componente dell’esperienza umana indicata come religiosità”. Ma c’è un’altra osservazione di Kant che completa e rafforza la mia posizione agnostica: «Il reggitore del mondo ci lascia soltanto congetturare e non scorgere o dimostrare chiaramente la sua esistenza e maestà … perché ove la sua esistenza potesse essere logicamente dimostrata… Dio e l’eternità, nella loro tremenda maestà, ci starebbero continuamente davanti agli occhi… e … la condotta dell’uomo, rimanendo la sua natura quale è adesso, sarebbe dunque mutata in un semplice meccanismo in cui, come nel teatro delle marionette, il tutto gesticolerebbe bene ma nelle figure non si troverebbe vita alcuna» (ibidem, 265-266). Circa l’origine del mondo e di tutte le cose in esso, da fisico Lei ritiene che l’ipotesi di lavoro “Dio” sia ammissibile o piuttosto una divagazione inutile? Bisogna intendersi sul significato che vogliamo dare alla parola ‘Dio’. Se con questo termine si intende il Dio provvidente e misericordioso predicato da tutte le grandi religioni monoteistiche, cercare questo Dio nella fisica è sicuramente operazione inutile. Parole come ‘Dio’, ‘anima’, ‘spirito’ non fanno parte della fisica e non sono argomento di studio dei fisici, i quali — com’è noto — usano come criterio di verità la verifica sperimentale. Però chi si occupa di fisica seriamente si trova in continuazione a confrontarsi con la raffinatissima intelligenza della Natura, con il Deus sive Natura di Spinoza, descritto meravigliosamente da Einstein con queste bellissime parole: «[Lo studio della fisica produce in me] un’ammirazione estatica delle leggi della Natura, rivelandomi una mente così superiore che tutta l’intelligenza, messa dagli uomini nei loro pensieri, non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo… »; e ancora: «[Questa sensazione si manifesta in me] come una sorta di ebbrezza gioiosa e di meraviglia al cospetto della bellezza e della grandiosità del mondo, di cui l’uomo può costruirsi solo una vaga idea. Questa gioia è il sentimento dal quale l’autentica ricerca scientifica trae il proprio nutrimento spirituale, ma che sembra anche trovare espressione nel canto degli uccelli» (Religione e scienza, 1930). Il problema sta nel far coincidere il Dio provvidente e misericordioso delle religioni tradizionali con il Dio di Spinoza, per il quale si dovrebbe concepire l’amor Dei intellectualis proposto dal filosofo, che è una ben misera consolazione a fronte della inestinguibile sete di amore e protezione che l’uomo cerca in Dio. Spinoza considerò il suo Dio inconciliabile con il Dio della tradizione biblica e sia gli ebrei che i cristiani del suo tempo concordarono con lui, a tal segno che fu considerato ‘eretico’ da entrambe le religioni. Che cos’è per Lei la fede? Credenza, fiducia, certezza? Mi scuso, ma citerò ancora Kant, il quale afferma che «la speranza comincia soltanto con la religione» (Critica della ragion pratica, 235). Ed io, concordando con il filosofo, affermo conseguentemente che per me fede significa speranza. È mia precisa convinzione che il termine fede abbia perso il significato originario assumendo nel tempo un significato dogmatico con una connotazione di certezza che esso non ha. Il termine è quello arrivatoci attraverso il cristianesimo con la parola greca πίστις (pístis) che è stata tradotta in latino con fides, da cui deriva il corrispondente italiano fede. Il vocabolo greco e quello latino, rimontando entrambi a radice indoeuropea, sono parenti stretti sul piano etimologico, in quanto connessi alla radice greca πείϑειν (= persuadere, convincere), e si corrispondono quasi perfettamente. In realtà il greco pístis significa semplicemente “credenza, convinzione, fiducia [in qualcuno o qualcosa], attendibilità” — tutti concetti che rimandano a incertezza, più o meno marcata, una incertezza che si può risolvere soltanto con un atto personale soggettivo. Viceversa nel mondo cristiano per la parola fede si è andato consolidando un significato di “certezza irrefutabile”, al segno che in tempi per fortuna ormai lontani asserire di avere dei dubbi sulla fede poteva essere la base per l’accusa di eresia che poteva addirittura costare la vita! Questo spostamento di significato del termine è chiaramente rilevabile nelle varie traduzioni del famoso passo di Ebrei 11,1 dove della fede si dà una definizione che nella versione Riveduta suona così: «Ora la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono». Quello che l’orecchio italiano non rileva è che alla parola πίστις/fede — il cui significato originario rimanda, come dicevamo, a incertezze soggettive, del tipo plausibilità, attendibilità, credenza — viene attribuito un significato di certezza oggettiva relativamente a un concetto carico di dubbio quale la speranza o a realtà aleatorie quali le cose che non si vedono. Consultando le versioni più importanti a partire dalla Vulgata fino alle varie versioni moderne, l’ossimoro “incertezza/certezza” viene mantenuto. L’unica versione che si sforza di aderire al significato originario della parola πίστις è quella di Lutero. Il riformatore ha reso correttamente la parola greca con Glaube (= credenza), dopodiché l’ossimoro della definizione non poteva non essere rilevato. Lutero ha conseguentemente fornito una traduzione decisamente diversa da tutte le altre che conosco. Riportando in italiano la versione di Lutero si legge: «Ora la credenza [πίστις/Glaube] è fiducia certa in ciò che si spera e un non dubitare di ciò che non si vede». Come salta subito agli occhi, la traduzione di Lutero cerca di attenersi rigorosamente all’originale. La fede diventa una speranza, ovvero un’aspettazione fiduciosa («fiducia certa»), e uno sforzo teso a «non dubitare» delle cose invisibili. Dunque un cambiamento interpretativo non da poco, che associa al concetto di fede quello di dubbio. Mi vengono alla mente le parole di Hermann Hesse: «Dubbio e fede si corrispondono reciprocamente e si contrappongono in forma complementare. Chi non ha mai dubitato non ha nemmeno rettamente creduto». Così intesa, la fede è un dono che non ci separa dagli altri. Qual è la sua idea di laicità? Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventiamo membra di Cristo; siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione» (n. 1213; corsivo nostro). In parole semplici, il battesimo (ricordiamolo: impartito agli infanti) trasforma ipso facto in cristiani. Ogni dubbio o diversa opinione su punti definiti “materia di fede” colloca l’individuo nella categoria degli ‘eretici’. Da speranza soggettiva, che il credente con un suo percorso personale si deve sforzare di convertire in fiducia senza incertezze, la fede viene trasformata in un fatto oggettivo, trascendente e irrefutabile. L’umanità viene inevitabilmente divisa fra coloro che accettano dichiarandosi credenti senza dubbi (o comunque tenuti per sé) e coloro che invece manifestano dei dubbi e che pertanto devono pentirsi ed essere recuperati alla fede, se battezzati, oppure convertiti e battezzati. Penso che la fede non possa neppure essere indicata come un ‘dono’, ma deve piuttosto essere intesa come una conquista quotidiana da realizzare in ogni momento della vita. Tutta la nostra vita è fondata sull’incertezza, si dubita di tutto in un senso o nell’altro: il credente cede alla tentazione del non credere e il miscredente si lascia vincere dal desiderio di certezze. Siamo “fratelli nel dubbio”; e in questo stato di debolezza ci dobbiamo amare e rispettare. L’interpretazione dogmatica della fede storicamente si è combinata con la creazione di una struttura regale-sacerdotale articolata in ciò che viene definito “clero” e nel conseguente “potere clericale”. Il primo seme di laicità lo ha gettato Lutero evidenziando come l’annuncio evangelico implichi la fine di ogni sacerdozio. Siamo stati fatti «sacerdoti e re» a Dio. Che grande e rivoluzionaria scoperta: tutti sacerdoti, tutti re, nessuno sacerdote, nessuno re! Da qui il “libero esame” e la rivalutazione dell’uomo come attore unico e come unico responsabile della sua vita, delle sue idee e delle sue azioni, in perfetta autonomia decisionale rispetto a qualunque condizionamento ideologico morale o religioso di poteri costituiti. Il mio modo di intendere la laicità sta in queste poche parole. La religione resta come fatto squisitamente personale e la chiesa diventa puramente e semplicemente il luogo dove alcune persone che hanno sensibilità religiosa affine si riuniscono nel nome di Cristo, o nel nome di JHWH, o nel nome di Allah… Originariamente filosofia e fisica non erano due discipline distinte. La grande discriminante in età moderna sarà, come sappiamo, il concetto di verifica sperimentale. C’è interdipendenza tra le due discipline? Lei parla di conseguenze filosofiche di alcune sconvolgenti evidenze sperimentali inerenti alla fisica novecentesca. Ci aiuti a capire di cosa si tratta. È vero, fisica e filosofia (e aggiungerei teologia) nell’antichità non erano distinte né distinguibili. Quando l’uomo ha cominciato a riflettere sulla realtà in cui si trova immerso e sul significato della sua presenza in essa, si è posto domande sulle esperienze che più lo inquietavano sollevando problemi che successivamente sono stati inquadrati ed esaminati in grandi aree di ricerca. La fisica (si pensi all’antica designazione come philosophia naturalis) non è che una costola distaccatasi dal corpo della filosofia (così anche la teologia). Gli elementi distintivi della fisica rispetto alla filosofia sono sintetizzabili nei due seguenti punti: 1) la verifica sperimentale nello studio dei fenomeni naturali, come criterio ultimo di verità; 2) il potenziamento della logica con il metodo matematico. La fisica, concentrandosi sullo studio della natura, ha subito un inevitabile processo che potremmo dire di ‘specializzazione’. Com’è noto, l’introduzione del metodo sperimentale e l’uso della matematica ha consentito alla fisica progressi inimmaginabili sul piano concreto della manipolazione della natura, riuscendo a imporsi all’attenzione generale, grande pubblico compreso, con la scoperta dell’energia nucleare e la terrificante realizzazione della bomba atomica. Questa circostanza ha generato in una parte del mondo dei fisici un atteggiamento presuntuoso nei riguardi della filosofia, considerata da alcuni come un esercizio mentale astratto e improduttivo. Per contro la fisica è una scienza volta a descrivere ciò che esiste — la realtà — e l’esperienza non è altro che un semplice criterio che ci permette di discriminare fra enunciati veri ed enunciati falsi relativamente a questa realtà. Agli inizi del ’900 l’osservazione di alcuni fatti sperimentali (che non esito a qualificare come ‘sconvolgenti’) per i quali i fisici non riuscivano a trovare spiegazione nell’ambito della fisica classica, portò alla fondazione di una nuova fisica — denominata in seguito meccanica quantistica — che costrinse a rivedere i fondamenti della fisica classica stessa. Riassumerei così tre punti fondamentali per la fondazione della nuova fisica: a) Principio di sovrapposizione degli stati. Nel mondo microscopico, stati differenti e inconciliabili, come essere un oggetto ben localizzato e dotato di massa (per es. un elettrone) o essere un’onda non ben localizzata e diffusa nello spazio, possono coesistere. b) Principio di separabilità. La fisica classica si attiene a questo principio che si enuncia nella forma seguente: L’influenza che due oggetti fisici contigui possono reciprocamente esercitare l’uno sull’altro è decisamente superiore a quella che si manifesta fra due oggetti fisici a distanza remota. Esso è decisamente violato da un fenomeno fisico che si osserva fra particelle elementari noto con il nome di entanglement (= intreccio, correlazione). Due particelle legate in questo particolare stato, portate anche a distanza grandissima “restano in contatto”. Una misura fatta sull’una è immediatamente “sentita” dall’altra. I fisici si sono trovati nella necessità di esaminare seriamente la possibilità che la realtà possa essere immaginata come un Tutto Inseparabile. D’Espagnat, eminente fisico teorico francese, ha avanzato l’ipotesi che la separazione spaziale degli oggetti sia in parte anch’essa un modo della nostra sensibilità, al pari del tempo e dello spazio. c) Sperimentazione o partecipazione. La fisica moderna parla di partecipatore piuttosto che di sperimentatore. Lo sperimentatore, che interviene sulla realtà modificandola suo malgrado, come quando fa collassare mediante una misura uno stato in sovrapposizione in uno dei suoi stati stabili (per es. la sovrapposizione onda/particella in onda o in particella), partecipa attivamente al processo di collasso e quindi assume la figura di partecipatore piuttosto che quella di sperimentatore. Ne segue la necessità di definire gli oggetti fisici studiati dalla meccanica quantistica più appropriatamente come “essibili” (ingl. beable) piuttosto che come “osservabili” (ingl. observable). I fatti ‘sconvolgenti’ sopra menzionati hanno aperto la strada a un altro modo di intendere la fisica. D’Espagnat definisce la fisica come la scienza dell’esperienza umana comunicabile relativa a un certo suo dominio. Possiamo dire che la nuova fisica rivaluta l’antica ipotesi filosofica nota come idealismo. Si sono aperti nuovi spazi per un’efficace e feconda collaborazione tra le due discipline. L’apparizione di più vasti orizzonti lascia sperare in interessanti e stimolanti risultati. La fede, il dubbio e la loro «parte migliore» (Lc 10,42) Il primo libro della Bibbia, la Genesi, comincia con la seconda lettera dell’alfabeto ebraico, la Beth, il cui geroglifico è “la casa”. La Genesi con il racconto della creazione ci parla della nascita della Natura, la nostra “grande casa”, che per essere sotto il segno della Beth, del numero 2, è regno della divisione, dei contrasti e della contrapposizione di opposti. L’uomo, inserito in questa realtà contraddittoria, è ossessionato dalla inconciliabilità dei contrari: bianco/nero, grande/piccolo, giusto/ingiusto, vita/morte… e più in generale tesi/antitesi. La contraddizione più lacerante si riassume nella coppia dubbio/certezza. L’uomo drammaticamente vive nell’incertezza su tutto e aspira a cancellare ogni forma di dubbio per ottenere certezza. Ogni opera d’uomo che ci circonda, caratteristica della nostra civiltà, è destinata a surrogare quelle certezze che non abbiamo: la casa, la famiglia, il lavoro, le assicurazioni, le previdenze, la ricerca scientifica… La fede è uno dei concetti elaborati per risolvere il binomio dubbio/certezza. Sul piano della pura logica aristotelica, gli opposti sono inconciliabili: tertium non datur. Sul piano razionale non esiste composizione di opposti. Su ciò si fonda il mio agnosticismo. La contrapposizione dialettica tesi/antitesi insolubile logicamente, si può risolvere soltanto con una sintesi, elaborando un Oberbegriff, ossia un concetto sovraordinato che a un più alto livello riesca a coniugare e conciliare i due concetti contrapposti. La sintesi deve realizzare il miracolo di non essere nessuno dei due concetti antitetici e al tempo stesso di poter essere entrambi. Nel nostro caso nella sintesi non ci deve essere né dubbio, né certezza, ma al tempo stesso dubbio e certezza devono poterci essere e coesistere. Il concetto di aspettazione fiduciosa sembra realizzare la sintesi desiderata. La fiducia certa di cui parla Lutero nella sua traduzione non è altro che aspettazione fiduciosa, che non è certezza e non è dubbio, ma tenta di realizzare uno stato a livello superiore che si esplica in un’attesa speranzosa in cui possono residuare dubbi che solo la speranza può tacitare. L’apostolo Paolo parla di salvezza in speranza, ossia della possibilità di salvarsi dalla disperazione del dubbio sperando: «Poiché siamo stati salvati in speranza» (Rm 8,24). La parte peggiore della pístis sta nello scambiarla per uno dei suoi poli dialettici: la certezza, da un lato, che porta al dogmatismo e il dubbio, dall’altro, che porta alla disperazione (= mancanza di speranza). La parte migliore della pístis sta nella conquista di una fiduciosa attesa, dove dubbio e certezza residuano ancora ma perdono il carattere di drammaticità che caratterizza ogni contrapposizione. Occorre saper prendere le distanze dal mondo della Beth, dal dualismo della realtà in cui siamo immersi, dalle innumerevoli contraddizioni della quotidianità (come ha saputo fare Maria in Lc 10,38-42). Nello stato di fiduciosa attesa il dubbio non scompare, ma si sublima in uno stato d’animo che si colloca in un livello più elevato di comprensione. Il dubbio ha infatti una sua valenza positiva troppo spesso e troppo facilmente trascurata. Esso stimola un continuo processo di revisione dinamica delle proprie convinzioni, aprendo l’individuo a una maggiore e più ampia tolleranza nei confronti di posizioni differenti. Dubitare è un buon antidoto contro il pericolo di assumere posizioni statiche e improduttive, sbilanciate verso atteggiamenti dogmatici e settari.”
“La memoria. Sacca piena di cianfrusaglie che rotolano fuori per caso e finiscono col meravigliarti, come se non fossi stato tu a raccoglierle, a trasformarle in oggetti preziosi”. Capita di andare in libreria e di comprare un libro perché è in offerta e perché sono tanti mesi che lo vedi sui bancali e ha quel titolo enigmatico che non lascia trasparire nulla dell’argomento: “Q”. E’ stato una piacevolissima sorpresa per due motivi. Il contenuto: un giro per l’Europa della riforma, dal 1517 al 1555 tra Germania, Paesi Bassi e Italia, tra protestanti, cattolici, anabattisti ed ebrei, tra quei personaggi che fino ad ora ho solo studiato e che qui popolano le vicende di questo romanzo storico. Lo stile: molto vario e diversificato con capitoli breve e tecniche di scrittura sorprendenti. Pensando al fatto che il nome dell’autore nasconde un collettivo artistico, si aggiunge del pepe al condimento. Lo consiglio ai miei studenti: tenete conto che vi troverete davanti a un linguaggio colorito, figlio però di un periodo storico, quello di ambientazione, altrettanto colorito.
Alexander Görlach è fondatore e direttore della rivista di opinione e dibattiti The European. Ha lavorato per diverse testate tedesche, sia televisive che cartacee. Ha due dottorati, in linguistica e in teologia. Scrive su Linkiesta:
“Nei libri di storia Benedetto XVI sarà ricordato come il Papa tedesco ad interim. Con le sue dimissioni la stella che guida la Chiesa Cattolica, il papato, si è affievolita. Ma il passo fatto da Joseph Ratzinger l’11 di febbraio nell’anno del Signore 2013 darà un nuovo indirizzo ai futuri pontefici. Ora nuove domande svelano l’instabilità della più alta istituzione ecclesiastica: avrà il Papa accesso a una guardia del corpo, a un ufficio personale, a un autista? Quando morirà, sarà sepolto con tutti gli onori papali? La Chiesa suonerà campane in tutto il mondo in sua memoria? Aiuterà Benedetto XVI a eleggere il suo successore? Sovrintenderà alle elezioni e darà il suo voto? Come sarà nominato in futuro? “Sua santità in pensione”?
Le dimissioni di Benedetto aprono la porta a ulteriori riforme della Chiesa Cattolica e confutano le critiche che lo vedevano troppo rigido. Quando si parla di riformare la Chiesa Cattolica, le argomentazioni più frequenti sono di questo tenore: «Certo, possiamo cambiare questa cosa o quell’altra. Ma chi oserà mettere in discussione tradizioni che sono sopravvissute per millenni?». Motivazioni ora improvvisamente diventate meno persuasive. Il Papa ha posto fine con le sue sole forze a una delle tradizioni della Chiesa: la venerazione quasi divina per il papato. Una sola dichiarazione ha smontato il lavoro di tutti i papi dal tempo di Bonifacio VIII nel 1300: l’estensione dei poteri papali – non la leadership spirituale, ma quella reale, mondana, esecutiva. Per secoli i papi hanno cementificato il loro potere. Nel 1870 il dogma dell’infallibilità in materia teologica e di tradizioni ecclesiastiche hanno portato quel processo all’estremo. Oggi, il Pontefice ha potenzialmente l’ultima parola in tutti gli appuntamenti tra vescovi nel mondo. Quando c’è bisogno di discutere una questione teologica, tutti gli occhi si girano verso Roma. Benedetto XVI ha smontato tutto questo, e resta da vedere se è pienamente consapevole delle conseguenze delle sue dimissioni. Molti cattolici sono cresciuti nella convinzione che un Papa non si dimette. È un sovrano incontrastato che segue Cristo fino alla morte. Il color porpora delle tuniche episcopali rimandano al sangue versato dai martiri cristiani nel corso dei secoli: il loro sangue, che un tempo gocciolò sul suolo polveroso del Colosseo a Roma, fu la testimonianza della loro fede nel Messia e nella storia della crocifissione e resurrezione. Giovanni Paolo II fece della scelta di restare in carica fino alla morte il suo martirio personale. Joseph Ratzinger ha ora rifiutato quella logica come qualcosa non più alla moda. Ha cercato la guida non nelle tradizioni della Chiesa Cattolica ma dentro la sua coscienza. La sua dichiarazione è esplosa come una bomba. L’idea che la più alta autorità cristiana ragioni secondo la sua propria coscienza non appartiene più solo ai circoli luterani ma è stata abbracciata anche dalla Chiesa Cattolica. Non dimentichiamo che una delle controversie che hanno scatenato la Riforma si concentravano sulla relazione tra la coscienza personale e i doveri delle cariche clericali. «Mi fermo qui, non posso fare di più. Dio mi aiuterà. Amen». Così Martin Lutero concluse il suo discorso alla Dieta di Worms nel 1521. Il Papa ha messo sulla stessa bilancia coscienza e tradizioni, e ha scelto la coscienza. Una scelta enorme. Allo stesso tempo, Benedetto sapeva fin dal principio del suo pontificato che non sarebbe stato capace di seguire le orme del suo predecessore. Una delle dichiarazioni più intense del suo primo discorso da Pontefice, resta questa: «Sono un semplice, umile operaio nella vigna del Signore». Ma spesso si dimentica la frase precedente: «Dopo il grande Giovanni Paolo, i signori cardinali hanno eletto me». Quando Giovanni Paolo II era ancora vivo, periodicamente giravano voci secondo cui il Papa polacco si sarebbe dimesso. Solo una osservazione di Joseph Ratzinger, priva di tatto ma corretta, alimentò la discussione. L’allora cardinale ricordò ai colleghi che la legge ecclesiastica permetteva le dimissioni papali. Sapeva ciò di cui stava parlando. Ma ci furono anche voci secondo cui Ratzinger pianse a causa di quell’appunto un po’ ruvido quando incontrò subito dopo Giovanni Paolo II. I dibattiti pubblici distorsero le sue parole. Alla fine sembrò che il cardinale tedesco avesse suggerito le dimissioni papali. Chiaramente, Ratzinger era un uomo sensibile.
Cosa accadrà alla Chiesa ora che Benedetto XVI ha posto fine al dominio del papato? Se non è il Papa che guida la Chiesa cattolica, chi lo può fare? Nel 21esimo secolo, la Chiesa Cattolica sarà una chiesa a più velocità. Alcune parti del mondo potrebbero permettere ai preti di sposarsi, mentre altre regioni resteranno rigidamente opposte ai matrimoni tra preti, ma saranno tutti chiamati Cattolici. Il Concilio diventerà un’altra volta il primo comitato guida della Chiesa. Il papa lo presiederà e modererà le discussioni. Diventerà primus inter pares, il primo tra i suoi fratelli. Non da meno ma nemmeno da più. È tempo di opportunità straordinarie, e molti dentro le gerarchie ecclesiastiche le guarderanno con sospetto come fossero una minaccia. Dietro le porte chiuse, temono per le proprie cariche e poteri, e si chiedono se la Chiesa continuerà a percorrere il suo sentiero celebrato nei secoli. I cambiamenti generano paura. Anche molti fedeli si sentiranno smarriti, e non solo i veri devoti. Una dimissione papale è davvero una cosa nuova. Chi può raccogliere questo senso di incertezza e trasformarlo in fiducia? Se l’errante uomo di preghiera della Galilea davvero tiene alla sua Chiesa, questo sarebbe un buon momento per farlo sapere. «Non avere paura» fu del resto, secondo il Nuovo Testamento, uno dei detti preferiti di Gesù. Chi sarà il nuovo Papa? Come cambierà la vita di Benedetto XVI quando tornerà di nuovo Joseph Ratzinger il primo di marzo? Possiamo immaginare un conclave mentre il vecchio papa è ancora in vita? Nessuno avrebbe mai pensato che questo Papa ci avrebbe stupiti. Ma lo ha fatto, e ci ha lasciato senza parole.”