Il valore dell’imprevedibile

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

I colloqui con i genitori di allieve e allievi di quinta si concentrano spesso sul dopo-liceo, sulle prospettive future: frequentemente raccolgo la preoccupazione di chi non ha ancora deciso, di chi è perplesso, di chi teme la scelta di una strada “sbagliata”. Allora mi capita di raccontare il mio anno e mezzo di scienze geologiche prima di comprendere quale fosse il mio cammino; racconto anche quanto in realtà la strada “giusta” fosse ben delineata dentro di me, nascosta però da mille rovi e arbusti che, nel tempo, l’avevano coperta. Forse sarebbe stato comodo incontrare quel personaggio di cui Alessandro D’Avenia parla spesso quando affronta l’Odissea: un Mentore che mi sapesse consigliare, che mi aiutasse a leggere meglio dentro di me quella risposta di cui andavo cercando. D’altra parte riconosco che quello che talvolta io stesso ho considerato un anno e mezzo buttato via, è stato forse uno dei periodi più fecondi della mia esistenza, perché mi ha aiutato a vedere tutto ciò che non volevo diventare. Intuire chi si vuole diventare, ascoltare una vocazione, accogliere la risposta che noi stessi ci diamo, dare una direzione all’imprevedibile che si palesa: sono tutti verbi declinati all’infinito che richiedono però un risposta che trovi una concretezza finita nell’esistenza.

Lascio allora spazio a un articolo della pedagogista Paola Bignardi, scritto la scorsa settimana su Avvenire.

“Una riflessione dedicata al rapporto dei giovani con il tempo potrebbe avere per titolo semplicemente “I giovani e il futuro”; questa è infatti l’unica dimensione temporale che essi percepiscono: il tempo che hanno davanti a sé. D’altra parte, quello che hanno alle loro spalle è troppo breve per poter costituire una memoria significativa. E il presente? In esso sono immersi, e lo vivono – forse al pari di molti adulti – come una realtà così scontata da non rendersi conto di essa. Se ne rendono conto quando è troppo disordinato, arruffato; in quelle situazioni allora appare che la libertà di occupare il tempo secondo il desiderio del momento o i propri capricci non è per niente appagante. Anche l’istante nel quale sono immersi ha bisogno di ordine, di ritmo, per diventare veramente esperienza di serenità e di crescita. La necessità di una disciplina per la propria vita è difficile da proporre alle nuove generazioni, al di fuori di un contesto che mostri di essa l’utilità e il valore come stile di vita che può restituire tranquillità e armonia alle proprie giornate.
Il tempo verso cui la tensione dei giovani è protesa è il futuro; questa è la dimensione attesa, desiderata. Il futuro è la vita in cui ha inizio l’autonomia, la realizzazione dei propri progetti, dei propri desideri. Non ci sono ancora delusioni e quindi ci si può orientare verso il domani caricandolo di aspettative e di idealità. Anche i ragazzi e le ragazze di oggi guardano al futuro con il desiderio di realizzazione personale e aspirano a una vita piena, serena, in cui poter concretizzare i propri sogni: trovare un lavoro soddisfacente, costruire relazioni autentiche e durature, e “diventare qualcuno” senza perdere la propria autenticità. Per alcuni, l’università rappresenta un passaggio decisivo, ma è anche fonte di incertezza: non sempre le idee sul percorso da intraprendere sono chiare, e prevalgono talvolta la confusione o la paura di sbagliare; ne è riprova il numero di ragazzi e ragazze che dopo il primo anno di università si accorgono di aver intrapreso una strada che non fa per loro e cambiano facoltà, oppure si trascinano lentamente in un percorso culturale che non li soddisfa. Accanto a questo slancio positivo vi è nei giovani uno sguardo preoccupato. Il tema del futuro è più facilmente comprensibile alla luce delle considerazioni svolte qualche settimana fa in queste pagine sul dolore dei giovani. In una ricerca realizzata dall’Osservatorio dell’Istituto Toniolo nel 2013 risultava un dato inquietante: il 67% dei giovani interpellati nell’ambito dell’indagine dichiarava di pensare il proprio futuro come pieno di rischi e di minacce. Si tratta di una percentuale che si è mantenuta stabile nel corso degli anni, con un peggioramento nel periodo della pandemia, quando la fiducia nel futuro si è abbassata significativamente, mostrando nella popolazione femminile la componente più fragile e più sensibile alle ragioni della paura. In una ricerca attualmente in corso sul territorio delle diocesi di Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto la situazione sembra essere ancor più severa. I giovani che hanno dichiarato di guardare al futuro con preoccupazione e incertezza sono il 71%, cioè quasi tre quarti degli interpellati.
La pandemia, le crisi economiche, le guerre e il cambiamento climatico incidono profondamente sulle nuove generazioni. «Ho ansia e paura per il futuro – dice un giovane diciottenne –, il mondo è a rotoli». La sottile sfiducia verso gli adulti e soprattutto verso le istituzioni accentua il senso di precarietà e l’incertezza della realizzazione dei propri progetti e obiettivi. Le cause sociali e strutturali si riflettono sul piano individuale e danno forma a un interrogativo sulla propria persona, sulla propria identità. Dice un giovane ventiduenne: «Che futuro avrò? Che persona sarò? Chi sarò tra 5-10 anni, domani? Troverò una svolta nella mia vita?». Al tempo stesso vi è nelle ragazze e nei ragazzi di oggi la consapevolezza del delicato valore della loro età e della loro condizione. Dice una giovane: «Attraverso l’adolescenza so che da una bozza di ciò che sono ora può uscire un capolavoro». È come sentirsi un prezioso vaso di cristallo che prende forma a poco a poco nelle mani di un artigiano che, per quanto esperto, corre sempre il rischio di spezzarlo. Ragioni esterne e interiori si intrecciano; per qualcuno troppo fragile questa situazione diventa una sfida insostenibile; per molti, motivo per approfondire le proprie ragioni, il proprio atteggiamento di fronte alla vita, per rendere più mature le proprie scelte. Dietro la paura del futuro c’è spesso una domanda spirituale implicita: «Perché vale la pena vivere, impegnarsi, sperare?». Anche nell’inquietudine rispetto al futuro molti giovani esprimono la loro domanda di senso, la loro inquietudine spirituale, che spesso non approda alle forme religiose tradizionali ma che rivela tratti di una nuova ricerca: di relazioni autentiche, di cura del sé, di connessione con la natura, di armonia interiore, di giustizia sociale. Pensare a un futuro pieno di rischi e di incognite non significa restare di fronte a esso passivi e rassegnati, ma piuttosto consapevoli. I giovani oggi sanno che il futuro non verrà loro incontro in maniera scontata, ma richiederà loro impegno, intelligenza, determinazione. La complessità del futuro spaventa meno quei giovani che possono far conto su una famiglia accogliente, presente, capace di dialogo; questi si sentono meno soli davanti all’ignoto e alla loro paura di fallimento. In contesti familiari fragili, soprattutto dal punto di vista relazionale, l’incertezza del futuro rischia di essere vissuta come minaccia concreta, più che come sfida potenziale.
Accanto alla famiglia, il sostegno per guardare al futuro con fiducia sono gli amici. Nella ricerca citata, che riguarda un migliaio di adolescenti, gli amici vengono continuamente riferiti come la principale fonte di sostegno emotivo, più della famiglia e spesso più delle istituzioni scolastiche o religiose. Il futuro smette di essere un nemico quando lo si affronta “insieme”. I rapporti amicali 1possono aiutare perché costituiscono la grande risorsa del mondo giovanile. L’amicizia è una delle forme principali di spiritualità vissuta: è un luogo di fiducia, di presenza, di dono reciproco. Molti giovani che si dichiarano “non religiosi” trovano proprio nell’amicizia quell’esperienza del bene gratuito che un tempo veniva mediata da contesti religiosi o comunitari. L’amicizia diventa così un luogo del bene gratuito, una via relazionale alla fiducia, in cui il futuro non appare più come una minaccia ma come un cammino condiviso. Anche attraverso l’amicizia l’inquietudine verso il domani rappresenta la porta che apre a un’esperienza spirituale. «La serenità in famiglia e il sostegno dei miei amici – dice un ragazzo – costituiscono l’aiuto più concreto per affrontare il futuro». In una società dove le istituzioni tradizionali – famiglia, scuola, religione – faticano a offrire orizzonti stabili, gli amici diventano il luogo in cui si impara che il futuro non si affronta da soli, ma si può affrontare insieme. L’orizzonte di senso dei giovani non è individualista ma relazionale. L’incertezza del futuro non è eliminabile, ma è abitabile se è possibile viverla nel sostegno reciproco. In questa prospettiva, ciò che potrebbe aiutare i giovani ad affrontare il futuro in modo più positivo non è tanto una – improbabile – promessa di stabilità, quanto la possibilità di radicarsi in legami significativi e in una visione di sé che dia direzione e valore all’imprevedibile e ne trasformi il potenziale distruttivo in una risorsa per crescere.”

La tempesta

LA TEMPESTA (Angelo Branduardi, Senza spina)
Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà
per noi che allora cantavamo con voci così chiare.
Non c’è più tempo per noi vento non ci sarà
per noi che abbiamo navigato quel mare così nero.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Non c’è più vento per noi tempo non ci sarà
per noi che stelle cercavamo sotto quel cielo scuro.
Si alzerà il vento per noi tempo per noi sarà
il nostro viaggio, la guida, la mano del destino.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà
Un vento poi soffierà dentro le nostre vele
qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa
Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele
è perché la rotta giusta solo il Signore la sa.
Non c’è più vento per noi tempo non è per noi
che nella notte senza luce misuravamo il mare.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Un vento poi soffierà dentro le nostre vele
qual è la rotta giusta solo il Signore lo sa
Un vento poi si alzerà dentro le nostre vele
perché la rotta giusta solo il Signore la sa.
Ma se la vita è tempesta, tempesta allora sarà.
Branduardi dedica questo brano “a tutti coloro che hanno affrontato la tempesta, rischiando di perdere la rotta, ed hanno saputo attendere che il vento buono gonfiasse le loro vele ed hanno ripreso le vie del mare, verso nuove tempeste”. Quindi, una prima cosa da notare è che la tempesta va affrontata e non evitata: siamo lontani dal protagonista dell’epitaffio dell’“Antologia di Spoon River” di cui si legge:
Una barca con vele ammainate, in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita.
Perché, l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta e io ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Dare un senso alla vita può condurre a follia,
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio;
è una barca che anela al mare eppure lo teme.”
(E. L. Masters, Antologia di Spoon River)
Questa, semmai, è la situazione cantata all’inizio da Branduardi, quella di coloro per i quali non c’è più né vento né tempo; la differenza è che, per i protagonisti di questo brano, la navigazione c’è stata e ha riguardato un mare buio, “nero”, che loro hanno tentato di scrutare col canto di voci “chiare”. Oltre al mare nero c’era anche un “cielo scuro” dove cercavano di intravvedere le stelle che potevano dar loro la rotta. Ne “La linea d’ombra” canta Jovanotti: “è dolce stare in mare quando son gli altri a fare la direzione, senza preoccupazione, soltanto fare ciò che c’è da fare, e cullati dall’onda notturna sognare la mamma, il mare”.
Infine, c’è un’altra cosa che facevano i marinai descritti nella canzone con il “noi”: nella notte buia e senza luce misuravano il mare. Già misurare il mare è impresa ardua se non impossibile vista la vastità, farlo senza alcuna luna o stella presente in cielo è del tutto inutile. Calcolare l’infinito non ha senso, non tutto può essere calcolato dall’uomo. Ma ecco che il vento si alza a segnare la possibilità del viaggio: con la bonaccia non si naviga, serve il vento che soffi dentro alle vele e le gonfi (come fa un cristiano a non pensare allo Spirito?).
A questo punto dobbiamo però introdurre due elementi importanti: la tempesta e la guida del viaggio. Branduardi non ha paura della tempesta, non la fugge, sa che sarebbe inutile. Viene in mente un personaggio biblico che, in fuga da Dio, si imbarca a bordo di una nave e durante una tempesta si rifugia nel ripostiglio più remoto e si addormenta profondamente. In questo caso Dio non è colui che salva dalla tempesta, ma colui che l’ha mandata per suscitare una reazione nel suo profeta, cosa che effettivamente accade. Giona spiega ai marinai della nave che la tempesta è causa sua perché egli è in rotta con Dio e li invita a gettarlo in mare, dimostrando pentimento per la sua fuga e anche la volontà di gettarsi a corpo nudo nella tempesta tra le braccia di Dio.
E poi c’è la guida: “la rotta giusta solo il Signore la sa” canta Branduardi. Tre immagini mi si formano davanti agli occhi:
1. Marco 4, 35-41: «In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: “Passiamo all’altra riva”. E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”.»
Gesù non evita che la tempesta si costituisca e che le onde riempiano di acqua la barca; averlo dalla propria parte, averlo a bordo, non è garanzia di pace e tranquillità, di assenza di difficoltà. Gesù, mentre sulla barca possiamo immaginare il lavorio frenetico dei pescatori per cercare di governarla e di buttare in mare l’acqua, dorme (come Giona)! Egli, poi, addirittura rimprovera i suoi compagni per averlo costretto a riportare la calma. La tempesta con la fede si può affrontare, ma forse la fede dei discepoli non è ancora abbastanza salda.
2. Matteo 14, 22-33: «Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra sponda, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: “È un fantasma” e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: “Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Pietro allora gli rispose: “Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque”. Ed egli disse: “Vieni!”. Pietro, scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?”. Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: “Davvero tu sei Figlio di Dio!”.»
La tempesta diventa il luogo dove la fede è necessaria, il luogo dove l’uomo sperimenta che non ha più mezzi utili per uscire dalla situazione in cui è finito se non l’affidarsi a colui che salva.
3. Infine un frammento di “Novecento”, il film di Giuseppe Tornatore tratto dall’omonimo libro di Alessandro Baricco
«Quella notte, nel bel mezzo della burrasca, con quell’aria da signore in vacanza, mi trovò là, perso in un corridoio qualunque, con la faccia di un morto, mi guardò, sorrise, e mi disse: “Vieni”.
Ora, se uno che su una nave suona la tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice “Vieni”, quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Gli andai dietro. Camminava, lui. Io… era un po’ diverso, non avevo quella compostezza, ma comunque… arrivammo nella sala da ballo, e poi rimbalzando di qua e di là, io ovviamente, perché lui sembrava avesse i binari sotto i piedi, arrivammo vicino al pianoforte. Non c’era nessuno in giro. Quasi buio, solo qualche lucina, qua e là. Novecento mi indicò le zampe del pianoforte.
Togli i fermi,” disse. La nave ballava che era un piacere, facevi fatica a stare in piedi, era una cosa senza senso sbloccare quelle rotelle.
Se ti fidi di me, toglili.”
Questo è matto, pensai. E li tolsi.
E adesso vieni a sederti qua, mi disse allora Novecento.
Non lo capivo dove voleva arrivare, proprio non lo capivo. Stavo lì a tenere fermo quel pianoforte che incominciava a scivolare come un enorme sapone nero… Era una situazione di merda, giuro, dentro alla burrasca fino al collo e in più quel matto, seduto sul suo seggiolino – un altro bel sapone e le mani sulla tastiera, ferme.
Se non sali adesso, non sali più,” disse il matto sorridendo.
Okay. Mandiamo tutto in merda, okay? tanto cosa c’è da perdere ci salgo, d’accordo, ecco, sul tuo stupido seggiolino, ci son salito, e adesso?”
E adesso, non aver paura.”
E si mise a suonare.
Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l’Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.»

https://www.youtube.com/watch?v=DGCrx4y-bkw

Finire il liceo a 18 anni?

scuola (1)Oggi è il 1° settembre. Per gli insegnanti questa data significa un’unica cosa: inizio del nuovo anno scolastico. Nella maggior parte delle scuole si svolge il Collegio Docenti; così è stato anche nella mia. Tra i vari temi toccati dalla Dirigente c’è stato anche quello della possibile futura riduzione da 13 a 12 anni del percorso scolastico. Negli anni si sono ipotizzati anticipi della scuola primaria, tagli della scuola secondaria di primo grado, taglio del quinto anno di quella di secondo grado… Personalmente non sono un sostenitore convinto al 100% della necessità di terminare gli studi a 18 anni piuttosto che a 19. Semplicemente mi interrogo sulla questione. “Tutta l’Europa termina a 18 anni, ci dobbiamo adeguare”. Non è vero e non sempre, in quei paesi, i risultati sono lusinghieri. Alla fine del liceo scientifico mi sono iscritto a scienze geologiche e mi ci sono voluti due anni per capire che quella non era la strada fatta per me e che dovevo cambiare rotta. Di conseguenza, l’ingresso nel mondo del lavoro è avvenuto, per me, con due anni di ritardo (in realtà ho recuperato dopo, ma questo è un altro paio di maniche). Non mi sento tuttavia così penalizzato rispetto ad altri. Questo mi fa pensare che una delle cose più importanti per una scuola dovrebbe essere l’orientamento, non nel senso di una serie di attività da organizzare, ma nel senso precipuo di una scuola orientante, che permetta ai suoi studenti, attraverso tutta la sua offerta formativa, di capire quale sia la strada da percorrere. Ciò chiederebbe molta flessibilità e di conseguenza una diversa organizzazione: questa la riterrei una vera riforma. E in tal senso un anno non farebbe proprio la differenza: vi sono esperienze talmente significative e formanti che non hanno bisogno di periodi così lunghi e altre che invece richiedono esperienze pluriennali, proprio nel senso di una qualità della scuola.

E ai miei dubbi aggiungo le domande che Nicoletta Viglione scrive su IR di maggio-giugno: “Sono le finalità della scuola che vanno riviste: è più importante puntare sulla professionalizzazione oppure privilegiare una buona preparazione di base come spazio di educazione civile? E’ opportuno anticipare le scelte prevedendo un doppio binario che consenta, a chi non ha interesse per gli studi, di iniziare al più presto percorsi di avviamento al lavoro? Come garantire il reale assolvimento dell’obbligo e diminuire la dispersione scolastica?”.

Il peso del futuro… e dello spreco…

Difficilmente scrivo dei post per il gusto di fare polemica. Ora, sono 5 giorni che aspetto di scrivere questo post. Nel nostro liceo, come nelle altre scuole superiori, sta arrivando il libercolo “Vie al futuro” prodotto (e deduco finanziato) dalla nostra Regione (o quantomeno pagato da un altro ente pubblico). Lo sconcerto nasce dalla grammatura della carta: sono anni che non mi capita di sentire uno spessore del genere all’interno di un libro! L’ho anche messo sul dorsetto: sta in piedi da solo… In un periodo come questo è necessario? Essendo diretto a ragazzi di quinta, che su internet ci navigano come Giovanni Soldini sul mare, si potrebbero iniziare a immaginare dei canali informativi che utilizzino tali strumenti… a tutto vantaggio di toner e carta risparmiati. Mi scuso per lo sfogo, ma era una cosa a cui tenevo.

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