L’Agenzia di Stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia ha pubblicato questo articolo:
“Il PEW Research Center ha presentato i risultati di un’indagine sulle differenze teologiche in Europa occidentale e Stati Uniti. Dalla ricerca emerge una sostanziale similitudine di visioni fra protestanti e cattolici su molti temi riguardanti la fede, la grazia, la Bibbia, le opere, la Riforma e gli insegnamenti della chiesa. Ne parliamo con Gabriella Lettini, pastora valdese, docente di teologia etica presso la Facoltà Starr King School for the Ministry della Graduate Theological Union di Berkeley (California).
La metodologia di indagine ha visto due diversi approcci in Europa occidentale (dove sono state effettuate interviste telefoniche a 24.599 persone in 15 paesi) e negli Stati Uniti (dove l’indagine è stata condotta online tra 5.198 partecipanti). Poco più della metà dei protestanti statunitensi (52%) afferma che sono necessarie buone azioni e fede in Dio per “entrare in paradiso”, una posizione storicamente cattolica. Il 46% sostiene che sia sufficiente la sola fede per ottenere la salvezza (uno dei quattro principi fondamentali della Riforma: sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide). Anche in Europa emerge la stessa tendenza, e dati simili riguardano chi sostiene che la Bibbia fornisca tutte le istruzioni religiose di cui un cristiano ha bisogno. Il 52% dei protestanti americani intervistati sostiene che i cristiani dovrebbero cercare la guida dagli insegnamenti e dalle tradizioni della chiesa, oltre che dalla Bibbia (una posizione tradizionalmente cattolica). Solo il 30% di tutti i protestanti statunitensi afferma che sono sufficienti la sola Fide e la sola Scriptura. Altro dato significativo, per cattolici e protestanti dell’Europa occidentale: c’è un livello relativamente alto di disaffiliazione (per fare due esempi, il 15% in Italia, fino al 48% in Olanda, sono le percentuali di chi si descrive come ateo, agnostico o “nulla in particolare”; ma, fra i protestanti praticanti olandesi, la percentuale di quelli che pregano quotidianamente (58%) e frequentano la chiesa ogni settimana (43%) è la più alta in Europa. In tutti i paesi europei, sia protestanti sia cattolici dicono di essere disposti ad accettare membri dell’altra tradizione come vicini o familiari.
Dalla ricerca sembrerebbe emergere un certo analfabetismo religioso; può confermarlo?
Penso che in parte questa ignoranza dottrinale sia il fatto che per molte persone il linguaggio dottrinale del passato non sembri più rilevante alla loro fede nel presente. Per molti credenti, poi, essere cristiani non si esprime necessariamente nella fedeltà ad una dottrina, ma nel seguire la chiamata di Cristo nella vita di tutti i giorni, nel modo in cui trattano il prossimo e si fanno promotori di pace e giustizia. L’occidente teologico cristiano ha dato molto valore all’ortodossia, ma per molti credenti, in tante parti del mondo, la fede si esprime soprattutto nell’ortoprassi. Le teologie della liberazione si sono fatte portavoci di questa posizione.
In ambito teologico e dogmatico, quanto sono, ancora, importanti i concetti di sola Scriptura, solus Christus, sola Gratia, sola Fide?
La ricerca PEW ci fa vedere come siano le correnti evangelicali più conservatrici, e non i Protestanti delle chiese storiche, a parlare di sola fede e sola scriptura. Molti di loro stanno offrendo supporto all’ideologia per nulla cristiana del presidente Trump. Personalmente preferisco la creazione di nuovi linguaggi teologici che ci aiutino ad essere più vicini al messaggio di amore e giustizia del vangelo, che alla fedeltà a categorie che non sono necessariamente più così rilevanti o sono magari diventate problematiche.
Secondo lei, c’è qualche problema nelle chiese riformate (ma anche cattoliche) nell’approccio alla fede, alla lettura della Bibbia, all’approfondimento in generale?
Per me credo il problema principale sia il fatto che il Cristianesimo sia spesso stato complice, se non istigatore, di alcune fra le più grandi atrocità della storia del mondo. Solo pensando agli ultimi 500 anni, abbiamo la conquista coloniale e il genocidio nelle Americhe, la tratta degli schiavi africani, l’apartheid e la segregazione razziale, l’anti-semitismo, la giustificazione della discriminazione e della violenza contro le donne e le persone omosessuali e transessuali, lo sviluppo del capitalismo. Com’è stato possibile che le teologie dell’Occidente “Cristiano” non siano riuscite ad offrire un correttivo a queste aberrazioni della fede Cristiana? Forse ci sarebbero dovute essere altre questioni al centro del pensare teologico.”
Il pick-and-roll di Dio
Un libro iniziato il 7 aprile e finito il 9. La storia è quella di un ebreo nato e cresciuto all’interno di una famiglia ebrea ortodossa e che inizia a ribellarsi. Riporto una citazione che fa assaporare la vivacità del testo e che getta sul foglio una ridda di idee suscettibili di molti approfondimenti. “Meglio non provocarLo. Sono stato sulla scacchiera di Dio abbastanza a lungo da sapere che ogni mossa in avanti, ogni piccola buona notizia – Successo! Matrimonio! Figlio! – è soltanto un «trucco divino», una finta, un falso, una trappola. Sembra che io mi stia facendo strada sulla scacchiera, ma in men che non si dica Dio dà scacco matto e la società che mi aveva assunto fallisce, la moglie muore, il figlio neonato soffoca nel sonno. Il «pick-and-roll» di Dio. Il bluff a poker del Signore. «Dio è qui. Dio è lì. Dio è ovunque in ogni dì.»
«Dammi retta» dice il Topo A, «quel cazzo di formaggio è una trappola.»
«Ma la pianti?» mugola il Topo B. «Quanto sei pessim… zac!»”.
(Il lamento del prepuzio, Shalom Auslander)
Ebraismi
In seconda e in terza stiamo iniziando a parlare dell’Ebraismo. Una delle cose che è emersa è la presenza di componenti non solo tradizionaliste. Per chi desidera approfondire la questione questo è un ricchissimo articolo della rivista Confronti che parla proprio di una nuova comunità nata a Roma da pochissimo tempo (questa la loro pagina facebook). L’articolo e le interviste sono di Daniela Mazzarella.
“L’umorismo ebraico ha fama mondiale e la comunità Beth Hillel sembra esserne ricca, con la sua sede in via dei Salumi e il suo rabbino che di cognome fa Di Gesù. Ma invece la nascita di questa nuova realtà rappresenta un evento molto serio e importante per l’ebraismo italiano. Beth Hillel è infatti la prima comunità «progressive» della capitale e il 1° marzo 2014 – 29 Adar 5774 si è presentata al pubblico con una giornata di preghiera, di approfondimento e di festa.
La sua storia ha origine qualche anno fa parallelamente a un crescente disagio di chi si ritrovava sempre meno nelle tesi di fondo della comunità ortodossa romana. Beth Hillel nasce infatti dall’incontro tra un gruppo di preghiera, costituito principalmente da ebrei non appartenenti alla comunità ortodossa che si incontravano nelle loro case, e un gruppo di ebrei iscritti alla comunità di Roma che sentivano però l’esigenza di offrire maggiori opportunità a coloro che non avevano una serena collocazione comunitaria.
Le riunioni dei due gruppi sono state sempre più strutturate e regolari, fino ad arrivare alla decisione di costituire la neonata comunità. Beth Hillel, che è legata alla World Union for Progressive Judaism, si presenta come un’associazione con il suo statuto e un Consiglio direttivo pro tempore che scadrà al momento delle elezioni formali dei suoi organi da parte dell’assemblea dei membri.
Ad oggi Beth Hillel offre servizi religiosi per le festività principali e, in forma solenne per almeno uno Shabbat al mese, ha la presenza di rav Antonio Di Gesù, che giunge da Gerusalemme per seguire la nuova comunità della capitale. Beth Hillel svolgerà anche attività culturali ed educative e vuole cercare di essere una comunità alternativa a quella ortodossa e non in conflitto con essa, nella speranza di creare una realtà ebraica più accogliente e inclusiva.
I membri di Beth Hillel sono convinti infatti che la presenza di una sola comunità con un fondamento ideologico unico possa allontanare chi non si sente coinvolto pienamente, non solo dalle pratiche religiose ma dalla Comunità stessa, e sono spinti dalla speranza che un approccio pluralistico all’ebraismo possa essere un elemento determinante per permettere a tutte le anime ebraiche di affermarsi con serenità.
Perché la comunità Beth Hillel non è fatta da ebrei diversi, ma esprime diversi modi di essere ebrei.
Conciliare tradizione e accoglienza
intervista a Daniela Gean, uno dei membri fondatori della comunità riformata di Roma, Beth Hillel.
Lei è nata in Libia e cresciuta in una famiglia ebrea ortodossa. Come ha vissuto la sua ortodossia?
Sì, sono nata in Libia e vengo da una famiglia ortodossa. Sono stata addirittura molto più religiosa dei miei stessi genitori, dall’età di quattordici anni fino ai venti. Poi ho vissuto per quasi tre anni in Israele e posso dire che proprio lì ho ridimensionato la mia ortodossia. Nel primo periodo sono rimasta sempre osservante, poi piano piano proprio gli amici israeliani mi hanno fatto venire dei dubbi. Penso che l’ebraismo – per la concatenazione di tante azioni che devi fare e per tutti i suoi comandamenti – ha un meccanismo per cui se parti da zero e cominci a essere religioso lo sarai sempre di più, ma nel momento in cui lasci succede la stessa cosa: lasci sempre di più. È un passaggio graduale ma ineluttabile. Per esempio durante Shabbat inizi a viaggiare, poi da lì a poco accendi anche il fuoco e cominci a fare tutta una serie di cose. È così che quando sono tornata in Italia avevo già abbandonato tantissime cose e dopo qualche anno ho lasciato anche la kasherut (regole alimentari della religione ebraica, stabilite dalla Torah, ndr).
Quindi la rigidità dei comandamenti è la principale origine del suo allontanamento dall’ortodossia?
No, questi per me sono più che altro dettagli. Il punto che non mi convinceva più dell’ortodossia era una specie di autismo emotivo, cioè quella cosa per cui anche delle persone dotte, preparate, che ti possono leggere e citare il Talmud alla perfezione, nel momento in cui gli chiedi quell’empatia, quella solidarietà, quella cosa spesso fondamentale nei momenti di sconforto o dolore, si rivelano incapaci di offrirtela. Non dico che non ci sia nessuno, ma sono pochissimi. Forse alla base di questo problema ci può essere anche la riservatezza, ma io penso che più spesso ci sia un’ansia di farsi vedere dotti e preparati che schiaccia la capacità di mostrare un sentimento, cosa che può essere vista proprio come una debolezza o un qualcosa che va a viziare il giudizio che invece deve essere sempre lucido. Ho vissuto dei momenti davvero brutti in cui ho visto persone in difficoltà davanti a rabbini incapaci di avvicinarsi al dolore. Ho visto questa incapacità e mi sono chiesta se sia inevitabile davvero, se ci sia davvero questa impossibilità di conciliare l’erudizione – che è e deve rimanere fondamentale per noi Popolo del Libro – con l’accoglienza.
Come ha conosciuto Beth Hillel e quali sono le ragioni che l’hanno spinta a farne parte?
Ho conosciuto la comunità Beth Hillel per caso. Io la cercavo ma non la conoscevo. Casualmente un’amica me ne ha parlato il giorno di Rosh hashanà e così il giorno dopo ci sono andata. Devo dire che è stato un amore immediato. Entrare e trovare la canzone giusta, cantata tutti insieme, e trovare finalmente gli uomini seduti vicino alle donne. E questa cosa delle donne per me è stata davvero determinante. Qualche mese prima avevo celebrato il Bar mitzvah con mio figlio Simone e l’abbiamo fatto ovviamente in una sinagoga ebraica ortodossa. Mio marito non è credente, quindi non ha accompagnato il figlio e io ho di fatto lasciato questo ragazzo da solo perché non potevo sedermi vicino a lui; mio figlio. Con un padre che per una questione ideologica non ha voluto partecipare attivamente e io che mi trovavo materialmente parlando dietro alle sbarre, questo ragazzo è rimasto da solo. Materialmente e spiritualmente solo. Teoricamente i rabbini avrebbero potuto avvicinarsi a lui, ma non è successo nemmeno quello. Quando vivi queste cose ti chiedi come sia possibile che accadano in una comunità religiosa. Questo ragazzo, questo bambino, ha vissuto un passaggio importantissimo senza nessuno con cui condividerlo; e io, se fossi stata in una sinagoga riformata, mi sarei potuta sedere vicino a lui, avrei potuto leggere insieme a lui, salire al Sefer insieme a lui. Ma questo non mi è stato possibile perché sono donna. Nella mia vita la «questione donna» è stata sempre centrale nel mio rapporto con l’ebraismo. Da sempre. Anche quando ero ortodossa avevo molte perplessità rispetto ad alcune nostre regole e al ruolo dato alla donna.
Per esempio?
C’era una benedizione che non facevo mai. So che gli ortodossi potranno dire che ero io a non capirne il senso profondo, ma a me è sembrata sempre molto chiara. Gli uomini dicono «Ti ringrazio Dio mio che non mi hai fatto donna» e le donne recitano «Ti ringrazio mio Dio che mi hai fatto così come sono». Proprio così, non che «non mi hai fatto uomo», che mi hai fatto «così come sono». Io quella benedizione non l’ho mai detta. Avevo quattordici, quindici, sedici anni, muovevo le labbra, ma non l’ho mai pronunciata. Sì, direi proprio che l’assoluta parità tra uomini e donne che esiste nelle comunità riformate è un elemento fondamentale nella mia adesione a Beth Hillel.
Tra le persone che frequentano regolarmente Beth Hillel ci sono iscritti alla comunità ortodossa di Roma?
Tutti quelli che sono nati ortodossi sono iscritti alla comunità ortodossa e non hanno intenzione di lasciarla. Noi speriamo di avere un rapporto di collaborazione, incontro e dialogo con la comunità ortodossa di Roma e siamo fiduciosi. Conoscendo rav Riccardo Di Segni, crediamo di poter trovare in lui disponibilità e desiderio di confronto.
In questo periodo avete avuto contatti con l’Unione delle comunità ebraiche? E, se sì, cosa chiedete all’Ucei?
Noi desideriamo avere anche con l’Ucei un rapporto costruttivo, tanto che nel nostro statuto abbiamo proprio scritto di aspirare a entrare nell’Unione. Siamo nati da poco e ancora i nostri rapporti verso l’esterno sono tutti da costruire. Di certo però non ci mancano energie e passione.
Riavvicinare gli ebrei all’ebraismo
intervista a Federico D’Agostino, tra i membri fondatori della comunità, uno dei protagonisti del gruppo di preghiera che ha preceduto la nascita di Beth Hillel.
Lei nasce in una famiglia non ebrea; come è arrivato alla scelta di avvicinarsi all’ebraismo?
Non si è trattato di una scelta, che presuppone confronti fra alternative: qui non c’era nulla da decidere, solo accettare un dato di fatto. Nel momento in cui ho messo per la prima volta piede in Israele, da semplice turista, ho percepito di essere a casa. Tutto mi sembrava familiare, comprese le cose fastidiose o irritanti. Tornato in Italia, mi sono iscritto a un corso di ebraico, e ho scoperto che lo imparavo molto in fretta. Le nuove cose che apprendevo mi parevano disseppellite dai recessi della memoria. Ne ho parlato con il mio compagno di vita e di viaggio: ce la sentiamo di rinunciare a salumi e crostacei? Abbiamo scritto a un rabbino, rav Cipriani. Ci ha detto «no». Per più di un anno sempre «no». Poi «nì». Alla fine ha acconsentito a prenderci come studenti.
Da quali aspetti di questa religione è stato particolarmente colpito e perché la scelta di una comunità «progressive»?
Un passaggio della Ghemarà (assieme alla Mishnà forma il Talmud, la raccolta di insegnamenti dei Maestri dell’ebraismo, ndr) mi ha sempre colpito: «lo studio della Torah vale tutti i precetti», e cioè lo studio è il primo dovere religioso di ogni ebreo. E vorrei aggiungere, di ogni ebrea. Non te lo aspetteresti da una religione così concentrata sulle azioni rituali, che come una ragnatela avvolgono l’intera giornata dell’ebreo osservante. Eppure senza lo studio creativo dei Testi sacri – e per estensione di tutto lo scibile – non faremmo nemmeno la metà del nostro dovere. Questa combinazione originale di obbedienza a un codice di comportamento minuziosamente dettagliato e forte incentivo al rischio dell’interpretazione creativa e personale, è per me il genio dell’ebraismo. Certo, sui modi di interpretare e sul margine di innovazione consentito ci dividiamo. Per l’ortodossia una famiglia composta da due uomini è difficile, se non impossibile, da digerire. Può essere accettata, persino discretamente integrata nella comunità, se sei nato ebreo, ma non si può pretendere che un tribunale ortodosso converta una famiglia omosessuale, come nel nostro caso. Per fortuna, non esiste solo l’ortodossia. Anzi, nel mondo gli ortodossi sono una minoranza.
Immagino che tra i soci fondatori di Beth Hillel ci siano profonde differenze; mi può dire invece qual è, secondo lei, l’elemento più aggregante?
Ci sono differenze – e profonde – fra religiosi e laici, fra liberali e tradizionalisti, fra destra e sinistra: come in ogni comunità, direi. Per non far impazzire la maionese occorre disponibilità al compromesso da parte di tutti, e la volontà di mettere fra parentesi le questioni più controverse, almeno fin quando non saremo più saldamente strutturati. Ci uniscono la stima reciproca e la convinzione di essere tutti in perfetta buonafede in questa impresa storica: costruire una casa ebraica per tutti quegli ebrei che per varie ragioni sono (o si sono) esclusi dalla comunità ortodossa. Credo che questa serenità e apertura si percepisca molto chiaramente nei nostri incontri e sia la cosa che più affascina la gente.
Che futuro vede per questa comunità e quali gli ostacoli maggiori da superare?
Di ostacoli ne vedo parecchi, per lo più di ordine politico, ma me ne interessa uno in particolare, che non è politico ma culturale, ed è comune a noi e agli ortodossi: l’estraniazione degli ebrei romani. Solo una piccola percentuale di loro frequenta la comunità e ancora meno la sinagoga: in altre parole, si stanno assimilando. Se Beth Hillel riuscirà a ricondurre una parte di loro in seno all’ebraismo – sia pure un ebraismo un po’ diverso – avremo avuto successo. Altrimenti, ci avremo provato.”
Quale ortodossia?
Prendo dal Corriere.
Minuta, graziosa e ancora frastornata per il successo inaspettato. Hadas Yaron, 22enne di Tel Aviv, ha vinto la Coppa Volpi all’ultima mostra di Venezia e ora arriva a Roma per accompagnare l’uscita del film-sorpresa che ha convinto giuria, pubblico e critica della Laguna: «La sposa promessa» di Rama Buhrstein (attualmente nelle sale, distribuito dalla Lucky Red). Una pellicola che racconta, in maniera semplice e oggettiva, i principi della comunità ebrea ultra ortodossa chassidica di cui fa parte la stessa regista. Una comunità chiusa a a qualsiasi forma di modernità, niente tv, niente cinema. E anche le donne, immerse in una cultura così patriarcale, vivono secondo rigidi precetti di separazione dei sessi e i loro matrimoni spesso vengono combinati. «Anche Shira, la protagonista del film, fa parte di questo mondo e il suo futuro sarà scelto dalla famiglia. E per me, da laica, era difficile entrare in questa prospettiva. Ho chiesto alla regista di darmi i compiti a casa, di indicarmi dei libri da studiare. Lei però mi ha detto solo di leggere attentamente la sceneggiatura e di non riempirmi la testa di queste cose. Dovevo solo leggere la sceneggiatura e cercare di provare le stesse sensazioni di Shira».
Shira ha 18 anni ed è promessa sposa ad un giovane della sua stessa età: un matrimonio combinato che però le fa battere il cuore. Il suo sogno d’amore, però, va in frantumi quando durante la festa del Purim la sorella maggiore Esther, muore di parto mettendo al mondo il suo primogenito. Poco dopo a Yochay, il marito di Esther, viene proposto di unirsi ad una vedova belga. Per evitare che l’uomo lasci Tel Aviv e porti con sé il suo unico nipote, la mamma propone un’unione tra la giovane Shira e Yochay. Shira dovrà dunque scegliere se ascoltare il suo cuore o seguire la volontà della famiglia. «Shira è una ragazzina che durante il film diventa donna. In questo senso mi sento anche io molto vicina perché sono in un’età di passaggio- racconta Hadas – Tra noi, però, c’è una grande differenza: quello che Shira vive nel film, le emozioni travolgenti, la storia d’amore e il matrimonio sono tutte cose che lei vede e sperimenta per la prima volta. Un esempio banale: lei non ha mai visto nemmeno un film d’amore e non sa cosa voglia dire innamorarsi. Io ho visto la mia prima commedia a nove anni… ».
La forza straordinaria del film è che a prima vista sembra non contestare in alcun modo i precetti religiosi, anche quando impongono a una ragazzina di sacrificare il suo futuro e i suoi sentimenti. Eppure, dietro questo sguardo di accettazione, i silenzi, le esitazioni e i comportamenti dei protagonisti compongono un ritratto meno schematico e semplicistico. Insinuano dubbi, insomma, su ciò che sia veramente giusto. E questo è merito della regista – nata a New York e diventata molto religiosa solo dopo il diploma – che usa il cinema proprio per far conoscere la comunità ultra ortodossa al mondo. «Conoscere Rama è stato conoscere l’intera comunità – dice Hadas – Tutti i venerdì sera durante la lavorazione del film andavamo a cena a casa sua, abbiamo assistito di persona a tutte le cerimonie che si vedono nel film: un matrimonio, una circoncisione e abbiamo parlato con un importante rabbino di Gerusalemme. Tutto quello che si vede nel film noi lo abbiamo vissuto per cercare di calarci nei nostri personaggi e nella storia».
Ma lei Hadas, giovane e laica, cosa ne pensa di questo mondo di femmine remissive in una società che non tiene conto dell’evolvere dei tempi?
«Chi guarda da fuori la comunità chassidica pensa che le donne siano messe in un angolo, che non abbiano diritto di parola. Ma quello che ho imparato dalla regista Rama e dalle altre ortodosse che ho conosciuto sul set è che queste donne sono molto forti, prendono decisioni e scelgono».
In effetti le donne hanno un ruolo predominante come madri (quindi anche trasmettitrici dell’ortodossia) e consigliere. Ma, va ricordato, il matrimonio è quasi un obbligo e spesso è combinato dalla famiglia. Inoltre, le donne non possono studiare la Torah nelle yeshivah (scuole religiose) e dall’infanzia fino all’età adulta, vivono completamente separate dagli uomini proprio perché è vietato ogni contatto fisico prima delle nozze. «Grazie a questo film ho scoperto che esiste una grande comunità di ultra ortodossi a Tel Aviv di cui io non sapevo quasi nulla – ammette la protagonista – Vivono in centro, in una zona molto frequentata, piena zeppa di centri commerciali, negozi e locali. Dopo le riprese, un giorno stavo passeggiando per la strada principale con indosso i vestiti di tutti i giorni e ho incontrato la figlia della regista, una ragazzina molto bella che fa parte della comunità. Lei mi aveva conosciuto solo con gli abiti di scena, simili a quelli che portava lei. Ci siamo salutate, ma l’incontro è stato davvero strano e interessante. Adesso che so dell’esistenza di questa comunità ci farò molto più caso e la guarderò con occhi diversi».
La cronaca di questi giorni impone una riflessione più ampia. Il film racconta una minoranza ma è anche un esempio di convivenza, sottolinea principi e valori che a prima vista si contraddicono e poi trovano una sintesi. E’ questa la chiave del dialogo tra Israele e Palestina? «Non so, mi piacerebbe poter avere la risposta. Quello che è accaduto sul set è che persone diverse, laiche e religiose, hanno lavorato insieme e si sono rispettate a vicenda. Nessuno ha cercato di indottrinare gli altri. Abbiamo capito che ci trovavamo di fronte esseri umani come noi e c’è stato un dialogo profondo» ricorda Hadas. «Forse è questo il segreto: riuscire a dialogare e a rispettare gli altri, a guardarli sempre come semplici esseri umani, al di là della loro religione o in altri casi la fazione politica o il paese d’origine. Se questo succedesse ovunque, se noi guardassimo il prossimo come un essere umano degno del nostro rispetto, forse riusciremo cambiare le cose per davvero. Almeno è quello che spero».
Ortodossia
“La preoccupazione di fondo del mondo cristiano è l’ortodossia, cioè la coincidenza di quello che dico e quello che dice l’autorità e non la coincidenza fra quello che dico e quello che vivo. E allora il cristianesimo si è trasformato. Visto che non si poteva rinnegare il messaggio delle origini lo abbiamo trasformato in un grande sistema di parole che stanno a sé, sospese sul reale” (padre Ernesto Balducci).
Vite da donne ultraortodosse
Ho trovato su Jesus questo articolo di Barbara Schiavulli con la collaborazione di Cristiano Bendinelli. E’ molto interessante e descrive, soprattutto da un punto di vista prettamente femminile, il mondo dell’ortodossia ebraica, dell’ultraordossia, di quel mondo che sembra distante centinaia d’anni dalla nostra realtà. Buona lettura!
“Sono voci difficile da ascoltare. Storie nascoste anche se non così lontane. L’ultimo Festival del cinema di Venezia, ha aperto uno spiraglio. Hadas Yaron ha vinto il titolo di miglior attrice, nel film israeliano Fill the void che racconta la storia di una famiglia ebrea ultraortodossa di Tel Aviv. Ci si immerge in quel mondo dove ogni decisione viene presa in base alle regole religiose. Una ragazza e la convinzione dei genitori che debba sposare il marito della sorella morta durante il parto. «Che cosa ha di speciale questo mondo? Questa mistura di gioia, dolore e tristezza che sa tenere assieme, senza scomporsi», spiega la regista Rama Burshtein. Uno spioncino su un mondo difficile da penetrare perché le donne ultraortodosse vivono separate. Lontano da sguardi indiscreti. A distanza dal rischio di poter essere anche solo sfiorate per sbaglio da un uomo. È questo il posto delle donne. In fondo agli autobus ben separate dai maschi. E anche se ancora guadagnano il 40 per cento in meno di un uomo, lavorano per mantenere la famiglia perché un buon marito possa passare la vita a studiare. Devono fare più figli possibile perché, per quanti interessi possano avere, le donne si realizzano solo procreando. Non devono parlare in pubblico, non devono cantare di fronte agli uomini. Non devono indossare jeans o abiti succinti, meglio non far uso di trucco. Non è bene che si facciano fotografare, non è bello vedere l’immagine di una donna su una pubblicità, e uomini e donne dovrebbero avere marciapiedi diversi su cui passeggiare. Devono essere sempre e soprattutto modeste. Non devono guardare gli uomini negli occhi, devono ubbidire al marito, al quale spetta l’ultima decisione. O al padre che, con la madre e l’aiuto di un rabbino specializzato combinano il loro matrimonio. Devono studiare, ma quanto basta per poter trovare un lavoro. Ragazzi e ragazze non possono leggere libri non autorizzati, non possono guardare la tv e neppure sfogliare riviste di musica.
Potrebbe sembrare il profondo Afghanistan o l’Arabia Saudita, invece è l’anima nascosta di Israele. Nel Paese dove le differenze tra uomini e donne sono bandite per legge, dove le ragazze fanno il militare, scalano le vette politiche e professionali, una parte della società – circa un milione di persone tra ortodosse e ultraortodosse – vive imprigionata dalle regole, dalla paura di integrarsi, dal desiderio di chiudersi nella propria comunità e non lasciar trapassare niente che possa scuotere le fondamenta del proprio dogmatismo. Sono gli haredim, «coloro che tremano», i «timorati di Dio». In contrasto con lo Stato che spesso non riconoscono, ma completamente dipendenti da esso per sopravvivere. Un mondo frammentato, diverso a seconda dell’opinione di chi interpreta le regole, che cambiano rispetto al quartiere o al gruppo, o alla scuola a cui si appartiene. In questo milione di persone ci sono gli ortodossi, gli ultraortodossi e gli estremisti. Ci sono quelli che non si curano di nulla se non della propria famiglia e quelli che vorrebbero che tutto quello che li circonda fosse come desiderano loro. E la visione non è sempre edificante per le donne. «Indossa una gonna lunga fino alle caviglie, una maglia con le maniche lunghe e il collo abbastanza alto, altrimenti nessuno ti parlerà. Ricordati: niente deve essere scoperto al di sotto del collo, del gomito e al di sopra del ginocchio. E fai molta attenzione, sono abbastanza aggressivi con gli estranei», mi dice il rabbino quando parcheggiamo nel cuore di Mea Shearim, un quartiere di ebrei ultraortodossi a Gerusalemme. Un cartello sovrasta un palazzone decrepito. I caratteri grandi sono in nero e in rosso: «Gli stranieri non sono i benvenuti». E poi un altro: «Le donne devono vestirsi modestamente».
Dieci anni fa Gerusalemme era una città ben divisa: la città vecchia e quella nuova, da una parte gli arabi e dall’altra gli ebrei. All’interno di quest’ultima, i confini tra israeliani moderni e gli ortodossi erano distinti. Nessuno oltrepassava le linee. Ora non è più così. Con una media di due e tre figli per i moderni, e 8 o 9 per i religiosi, questi ultimi stanno crescendo notevolmente. E si stanno allargando oltre ai confini delle loro zone. Ora non è insolito camminare per la lunga Jaffa Street e vedere turisti in canotta e pantaloncini traboccanti di sacchetti di souvenir e madri ortodosse che trascinano nugoli di bambini vestite come 300 anni fa nell’Est dell’Europa. Nessuno si guarda. Nessuno si dice niente. È come se due mondi paralleli si sfiorassero senza incontrarsi mai. Da una parte le donne che vogliono fare la differenza, e dall’altra quelle che sono contente e realizzate nel ruolo di madre e di moglie. E alcune sembrano davvero felici. Felici nel loro mondo strutturato. Molte vengono dal Canada e dagli Stati Uniti, sono figlie di immigrati o si sono sposate e hanno affrontato una nuova vita credendoci. Ma chi non riesce a inserirsi non ha scampo. «Sicuramente ci sono delle situazioni estreme, e ci sono delle persone malvagie, ma non ci sentiamo segregate, non ci sentiamo bisognose di aiuto e salvezza. Io per prima preferisco salire in fondo all’autobus perché non voglio neanche per sbaglio essere toccata da un uomo che non sia mio marito. È questione di comodità e sicurezza, mi sento più a mio agio tra donne. Potrebbero anche essere gli uomini a stare dietro e noi davanti, ma poi ci guarderebbero e neanche quello mi piacerebbe, siamo donne modeste», ci racconta Rivka Segal, 46 anni, sei figli, insegnante giunta da Baltimora sette anni fa. Ma la modestia è un modo di vestirsi o un modo di comportarsi? «Un modo di comportarsi naturalmente, ma gli uomini sono deboli e non devono essere tentati. Qui per noi la vita è molto più facile rispetto all’America, abbiamo centri sanitari per noi, negozi, luoghi di ritrovo, la gente sa come ci si deve comportare. So che ci sono stati atti di estremismo, ma non è una caratteristica della nostra comunità. Sfortunatamente veniamo giudicati dalle azioni di queste persone che hanno problemi che riguardano la polizia, non la religione». Rivka allude a quegli uomini ortodossi che solo qualche settimana prima hanno insultato e sputato addosso a una bambina religiosa di otto anni mentre andava a scuola nella cittadina di Beit Shemesh, colpevole di aver la gonna della divisa scolastica, secondo loro, troppo corta. O quei due ragazzini arrestati perché pagati da un ragazzo più grande ultraortodosso per urlare con un megafono davanti a una delle porte della città vecchia di Gerusalemme che le donne devono sedersi in fondo. O quella ragazza che in un supermercato ortodosso è andata in jeans ed è stata costretta a scappare per gli insulti. O quell’altra religiosa, trasferitasi con due bambini nel quartiere di Mahane che ha ricevuto una lettera minatoria che le intimava di andarsene perché indossava dei pantaloni, considerati immodesti, firmata dai «Guardiani della Modestia», un gruppo di facinorosi che non disdegna la violenza quando vuole ottenere qualcosa. O le decine di telefonate che arrivano ai centri antiviolenza, che spesso possono solo ascoltare, perché anche se le strade non hanno cancelli, raramente si riesce a penetrare la comunità ultraortodossa per aiutare chi lo chiede. «Noi amiamo il nostro modo di vivere, pensiamo sia il percorso giusto», dice Rivka con convinzione e con uno sguardo affascinante che neanche il suo vestito largo e l’assenza di trucco, può cancellare. «Pensiamo di dover trasmettere questo ai nostri figli, e anche se a volte le tensioni sono fortissime, noi crediamo in Dio e la sua è l’ultima parola». È americana ma sembra venire da un altro mondo. Non ha la televisione, anche se usa internet, è ragionevole e disposta a discutere, ma è ferma sulle sue idee. Le risposte alle sue domande sono nella Torah, le altre non sembrano contare.
«Il nostro stile di vita si basa sulla Torah (i primi cinque libri della Bibbia, ndr) e sulle leggi e regole ebraiche che ne discendono», ci spiega Joseph Friedman, un ricco uomo di affari ortodosso. «L’uomo comanda sulle donne, ma non è una maledizione, deve comportarsi bene e fare del suo meglio. Sfortunatamente, i movimenti di liberazione delle donne stanno creando problemi che non ci sono stati per secoli. Ora le donne lavorano, studiano, e va bene, si chiede loro solo ubbidienza. E le donne lo sanno, lo vogliono. Gli ortodossi stanno aumentando perché la gente ha bisogno di dare un significato più religioso alla vita. La religione è certezza, la logica no».
Il quartiere di Mea Shearim è molto povero. Le case sono fatiscenti, i fili elettrici sono scoperti e rincorrono le mura degli edifici. Le donne sono guardinghe ma curiose, teste coperte spuntano dalle porte, osservano gli sconosciuti, si sentono mormorii. Alcune non parlano neanche l’ebraico, ma l’antico Yiddish. Altre – quelle più giovani, spesso incinte – lo hanno imparato a scuola. Generalmente sono più istruite degli uomini, che si dedicano solo agli studi religiosi. Sarah ha 40 anni, cinque figli, un fisico minuto che si perde in un brutto vestito pesante, nonostante nell’aria ci siano non meno di 35 gradi. Indossa dei collant spessi nel suo negozio di cose per la casa. «Lavoro, bado alla casa, tiro su i miei figli, mentre mio marito studia tutto il giorno. È sua l’ultima parola per qualsiasi questione, ma discutiamo». La strada verso casa sua è un labirinto, chiama il marito che acconsente ad avere ospiti, cammina in fretta per non dare nell’occhio. Il marito Avram Rassad è gentile, quasi contento di avere degli «alieni» in casa sua, saluta la moglie con uno sguardo. Sarah ha voglia di raccontare: «Ballo, canto, esco, faccio tutto quello che fai tu, solo con le donne: non è bene che uomini e donne stiano insieme. Il mio sogno? Che i miei figli siano persone perbene. Non voglio più di quello che ho. Non ho bisogno della tv o della lavatrice. Sono soddisfatta della mia vita, è piena dei sorrisi dei miei bambini».
Non lontano c’è una libreria, sulla vetrina ci sono ancora i segni della vernice che i vandali gli hanno tirato perché vendevano anche libri di autori non religiosi, scrittori stranieri, classici vietati. Moshe Heimlich è un vicino di Sarah, vuole che conosciamo la sua famiglia che sta per andare al mare a Tel Aviv in una spiaggia rigorosamente per donne e separata da tutti gli altri. Ha cinque figli e due occhi vivaci. Ha visto sua moglie una volta sola prima di sposarla, ma si ritiene moderno perché sua figlia ha già incontrato tre volte il suo futuro marito. La loro casa è modesta, camere da letto con letti separati, pochi mobili tranne per una credenza che contiene tutti gli oggetti che servono per le varie ricorrenze e i libri rigorosamente religiosi. Nella stanza delle figlie c’è un tocco di rosa, ma niente che fa pensare al nido di ragazze adolescenti.
«A Beit Shemesh non scendere neanche dall’auto, non far vedere che avete una macchina fotografica», suggerisce il rabbino che ci accompagna. A un’ora e mezzo da Gerusalemme, tra le colline, in un paesaggio che sembra lontanissimo dalla brulicante Città Santa, sorge una cittadina moderna di più o meno 70 mila abitanti, oggi per lo più ortodossi. C’è un intollerabile silenzio. Perfino i bambini che tornano da scuola sono quieti. «Sono andata in un nuovo supermercato che si diceva avesse ottimi prezzi», racconta Sonia, una residente di Beit Shemesh. «Quando sono arrivata un dipendente mi ha passato una gonna lunga e uno scialle chiedendomi di indossarli perché avevo i pantaloni. Mi sono rifiutata». Poi ha visto un’insegna che diceva che le donne dovevano vestirsi modestamente, mentre facevano la spesa. Qui hanno aggredito una bambina di otto anni e chiesto alle donne di andare su un marciapiede diverso da quello dei maschi. Chi non è religioso in questa città è esasperato. Chi lo è, si barcamena tra il voler essere lasciato in pace e la brutta immagine che provocano gli estremisti.
Non poco tempo fa a Gerusalemme durante un congresso di ginecologia, alle donne medico non è stato consentito di parlare in pubblico. Alcuni medici per protesta hanno abbandonato l’incontro, ma il congresso è andato avanti. Aumentano le occasioni in cui donne e uomini sono divisi, ma l’hadarat nashim, la segregazione femminile, non preoccupa le religiose, anzi le stimola. Il dibattito esiste. E quelle che lavorano hanno una buona carta in mano. Non sembrano così indifese e organizzano convegni e fiere per sole donne. L’ultimo, solo qualche settimana fa, dove le donne ortodosse imprenditrici si sono incontrate e conosciute in modo da potersi aiutare nel mondo del lavoro. C’erano traduttrici, artiste, donne d’affari. La maggior parte lavora da casa, anche perché sarebbe impossibile gestire tutti i figli. «Io ne ho 16», mi dice un’orgogliosa signora sulla sessantina con una bella parrucca importante. Le donne sposate non devono mostrare i capelli ad altri uomini che non siano i rispettivi mariti. Il business delle parrucche è fiorente più che mai. «Ci sono parrucche che vanno dai 10 dollari ai 2.000, dalle sintetiche a quelle con i capelli veri, ci sono per ogni occasione», ci spiega Aline Smadja. «Di solito se ne ha una per ogni giorno e una per gli eventi». Leah Eharoni ha una ditta di traduzioni, 36 anni, sei figli: «Io lavoro a casa, mio marito lavora fuori, e penso che non siamo diversi dalle altre famiglie, vogliamo tutti la stessa cosa, stare bene, solo che per noi significa seguire un’autostrada che porta verso Dio. Ci sono tante ramificazioni, tanti percorsi, ma alla fine tutti vogliono arrivare nello stesso posto. Non vogliamo essere liberate. E c’è una gran confusione in giro. Per quel che mi riguarda, devo essere molto organizzata, tra lavoro, famiglia e me stessa, ma ce la faccio. Per molti la carriera è importante, ma prova a pensare, quando sarai vecchia che cosa ti riempirà di più: le soddisfazioni che ti ha dato la carriera o quelle dei tuoi figli?».
Leah ha le idee chiare, le hanno tutte quelle che vivono questa vita, forse è rassicurante non avere dubbi e avere tante regole. Ha vissuto in Russia, in America, ma Israele è la sua casa, perché qui nessuno la giudica. «Abbiamo bisogno di muri alti per proteggerci», pensa Leah. Come anche Marci Rapp, che ha 4 bambini che cerca di proteggere dalle influenze esterne. Produce costumi da bagno «modesti», delle specie di mute da indossare al mare. «Mio marito è un compagno, e il matrimonio è un laboratorio per sviluppare una famiglia». Ma non tutte sono felici, soddisfatte e realizzate. E per queste non c’è scampo, i muri che costruiscono per difendersi dall’esterno sono invalicabili per chi non ce la fa a stare dentro.
Elisheva (non è il suo vero nome), ha 37 anni e cinque figli. Lavora come commessa in una gioielleria e sogna di fuggire dal marito dal giorno che l’ha sposato. È bellissima con i suoi grandi occhi azzurri, la parrucca alla moda e una gonna jeans che arriva poco sotto al ginocchio. «Credevo di aver sposato un principe, invece è un incubo. Mi alzo ogni giorno alle 5, vado a lavorare alle 6.30 e lui mi perseguita, mi segue, mi controlla, dice che sono una stupida, è geloso da morire e ha mandato i miei figli a una scuola ultrareligiosa, tanto che un giorno hanno mandato a casa la mia bimba di 3 anni perché aveva le maniche corte d’estate. È orribile. Ma non posso andarmene, come manterrei da sola 5 figli? Lasciarli col padre e scappare? Non potrei mai».”