Il linguaggio simbolico di Benedetto e Francesco (e Leone)

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Negli ultimi anni si è parlato molto dell’utilizzo di simboli religiosi all’interno del linguaggio politico. Ovviamente si tratta di un uso spesso opportunistico, ma non mi aspetto molto di diverso da un personaggio politico di questo periodo storico. Ma se provassimo a dare un’occhiata ai simboli religiosi in ambito religioso? In particolare a quelli, gesti simbolici compresi, utilizzati dagli ultimi pontefici? Un approfondito articolo di Martina Marradi, pubblicato su Pandora Rivista, affronta proprio questo aspetto. Buona lettura.

“Tutte le religioni si esprimono attraverso un repertorio simbolico composto da gesti, immagini e oggetti capaci di evocare significati profondi e condivisi all’interno di una comunità (cfr. Clifford Geertz, Interpretation Of Cultures, Basic Books, New York 1973, pp. 99, 104, 112-11). In ambito sacro, il simbolo non è mai neutro: come sottolineato da Jung, esso racchiude un contenuto che trascende la parola, rivelando un senso che rinvia all’invisibile e all’inconscio collettivo (cfr. Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionnaire des symboles: Mythes, rêves, coutumes, gestes, formes, figures, couleurs, nombres, Robert Laffont, Parigi 1982, pp. XVII-XVIII). I simboli religiosi operano su un doppio registro: da un lato sono profondamente evocativi, dall’altro lato sono intrinsecamente arbitrari. La loro capacità di trasmettere significati spirituali e valori condivisi non risiede in una qualità oggettiva delle forme o dei materiali che li compongono, ma nel significato culturale che viene attribuito loro. Un esempio emblematico è la croce: due semplici pezzi di legno disposti in forma perpendicolare non assumono un valore simbolico universale, ma acquisiscono significato solo per chi riconosce in quella forma il riferimento alla crocifissione del Cristo. Ne consegue che la sacralità di un oggetto può risultare del tutto irrilevante, o persino impercettibile, per chi non condivide lo stesso orizzonte simbolico.
Tuttavia, questa arbitrarietà non nega il valore esperienziale dei simboli, che è legato indissolubilmente alla loro materialità. I simboli religiosi sono sempre incarnati in oggetti, gesti, immagini o spazi che coinvolgono i sensi e il corpo. È attraverso la loro tangibilità che riescono a suscitare emozioni, a radicarsi nella memoria collettiva e a favorire un senso di appartenenza. L’icona della Vergine Maria venerata in una chiesa ortodossa, la statua del Cristo portata in processione in una città mediterranea o il rosario che scorre tra le dita di un fedele sono tutti esempi di come la religione si esprima e si trasmetta attraverso forme materiali. La fede stessa, pur riferendosi a una realtà trascendente e invisibile, trova nella concretezza dei simboli un mezzo privilegiato per essere vissuta, comunicata e interiorizzata. Il segno della croce, tracciato sul proprio corpo, non è solo un gesto identitario: è una forma di preghiera che richiama la Passione di Cristo. Analogamente, la mano del sacerdote che si posa sul capo dei cresimandi non è soltanto un gesto rituale, ma un veicolo di riconoscimento comunitario. In questo senso, la religione ha bisogno di oggetti, immagini e azioni per rendere visibile l’invisibile, per mediare la relazione tra l’umano e il divino, tra la carne e lo spirito (cfr. Ugo Fabietti, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015).
In questo contesto, il modo in cui il Papa, in quanto massima autorità religiosa riconosciuta nella Chiesa cattolica, utilizza i simboli diventa un indicatore significativo del suo orientamento spirituale, teologico e pastorale. E proprio analizzando i pontificati di Benedetto XVI e di Francesco emergono due visioni profondamente diverse ma altrettanto efficaci del potere simbolico della Chiesa; mentre segnali ancora diversi provengono dalle prime scelte compiute da Leone XIV.

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Rinnovamento nella tradizione: la performatività dei gesti e delle scelte di Benedetto XVI
Durante il suo pontificato, Benedetto XVI intraprende un’opera di rinnovamento ecclesiale radicata nella tradizione, facendo leva sul potere evocativo della simbologia: unendo la spiritualità con la fisicità cerca di rivitalizzare il cattolicesimo attraverso il recupero dei riti e dei simboli ormai in disuso (cfr. Giacomo Galeazzi, Ratzinger. Il Papa sceso dal trono, Rubbettino, Soveria Mannelli 2023). Tale orientamento, pur mosso da una profonda motivazione spirituale, «La cosa importante è che la fede duri oggi. Io vedo questo come il compito centrale» (Benedetto XVI, Last testament in his own words in Peter Seewald (a cura di), Bloomsbury Continuum, Londra 2017), riflette un’oculata strategia. Nella società dell’immagine anche la Chiesa è consapevole di quanto siano rilevanti i simboli, poiché è da essi che un credo può rinascere, e se la scelta benedettina viene etichettata come conservatrice, il Pontefice ritiene che la Chiesa non debba adattarsi ai costumi del tempo, poiché essa «può essere moderna proprio essendo antimoderna», non allineandosi con l’opinione dominante (Cfr. Joseph Ratzinger, Salt of the Earth. Christianity and the Catholic Church at the End of the Millennium, in Peter Seewald (a cura di), traduzione di Adrian Walker, Ignatius Press, San Francisco 1997).
La strategia adottata si inserisce in un quadro analitico coerente con le osservazioni del sociologo Berger, secondo cui i movimenti religiosi caratterizzati da un’impostazione conservatrice e soprannaturalista sono quelli che mostrano maggiore vitalità di fronte alla secolarizzazione: il successo di tali gruppi risiederebbe proprio nella loro capacità di offrire certezze simboliche in un mondo frammentato e relativista, soddisfacendo un bisogno crescente di identità e radicamento spirituale. Benedetto è consapevole della percezione di anacronismo che grava sulla Chiesa, ma è convinto che solo difendendo la propria identità senza scendere a compromessi sarà possibile riportare in auge il cattolicesimo (Cfr. Peter Seewald, Benedetto XVI. Una vita, Garzanti, Milano 2020). In questa prospettiva, nella roccaforte europea il cattolicesimo necessiterà di riaffermare la propria alterità dottrinale, entrando in dialogo, anche conflittuale, con le nuove identità religiose che si affermano nel continente. Tale riaffermazione richiede, a suo avviso, una rinnovata unità del cristianesimo, condizione necessaria per rendere la fede cristiana la possibile «religione civile dell’Europa» (Silvio Ferrari, Europa cristiana? L’eredità di Giovanni Paolo II, fra luci e ombre, «Limes», 20 maggio 2005).
Dal giorno della sua elezione, Benedetto indossa paramenti di tipo tradizionale con l’obiettivo di rivitalizzare la Chiesa, preservare la sacralità del culto ed evitare l’erosione dei valori cristiani in Occidente: «È chiaro […] che la scristianizzazione dell’Europa progredisce, che l’elemento cristiano scompare sempre più dal tessuto della società. Di conseguenza la Chiesa deve trovare una nuova forma di presenza, deve cambiare il suo modo di presentarsi» (Benedetto XVI, a cura di Peter Seewald, Ultime conversazioni, Garzanti, Milano 2016). Il significato simbolico delle sue scelte è duplice. Da un lato, egli vuole dare valore a ogni elemento della liturgia, nel senso spirituale del termine: «Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo lì “in persona di un Altro”. […] [Ciò significa] “rivestirsi di Cristo”, parlare ed agire in persona Christi» (Benedetto XVI, Santa Messa del crisma. Omelia di Sua Santità Benedetto XVI, Vatican.va, 5 aprile 2007). Dall’altro lato, il richiamo alla tradizione favorisce un’identificazione ecumenica, poiché il recupero di forme rituali condivise, come l’abbigliamento liturgico, crea continuità simbolica con altre Chiese cristiane, in particolare quella ortodossa.
Coerentemente con tale logica, il Pontefice promuove anche il recupero del latino come lingua liturgica. Per esprimere l’unità della Chiesa, ne raccomanda l’utilizzo durante le grandi celebrazioni, nella recita delle preghiere più comuni e nel canto gregoriano, esortando i seminaristi a conoscerlo, a celebrarne l’uso e a trasmetterne il significato ai fedeli. Per recuperare il senso della liturgia ripristina la somministrazione della Comunione in bocca e in ginocchio nella liturgia papale e per motivazioni di carattere pastorale e teologico invita i sacerdoti a celebrare la liturgia ad orientem, ossia dinanzi all’altare, rivolti nella stessa direzione dei fedeli. Anche l’altare e il trono papale vengono ricollocati al centro della scena liturgica, al fine di sottolinearne la centralità simbolica.

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Missione ad gentes: la performatività dei gesti e delle scelte di Francesco
Il pontificato di Francesco, al contrario, si distingue per una forte carica simbolica che riflette uno stile pastorale ostinatamente sobrio. Per ciò che concerne l’abbigliamento, nonostante erediti l’intero guardaroba papale dei predecessori, egli sceglie quasi sempre di indossare una semplice talare bianca e le sue scarpe ortopediche nere, evidenziando così la sua volontà di presentarsi come servus servorum Dei. Dopo l’elezione utilizza il pulmino dei Cardinali per tornare in albergo, paga di persona il conto lasciato in sospeso lì dove ha alloggiato durante il Conclave, si rifiuta di sedersi sul trono per ricevere l’obbedienza dei Cardinali e decide di risiedere a Santa Marta, piuttosto che nella residenza papale a lui dedicata. Gesti come il rifiuto di avere un assistente personale o un portaborse incaricato di aprirgli lo sportello dell’automobile costituiscono segnali performativi di un preciso stile pontificale, veicolando il messaggio secondo cui il potere non si esprime nel dominio, bensì nel servizio agli altri (cfr. Dario Edoardo Viganò, La predicazione di papa Francesco, in Andrea Riccardi (a cura di), Il cristianesimo al tempo di papa Francesco, Laterza, Roma-Bari 2022).
È anche estremamente simbolica la scelta di celebrare la messa in luoghi non convenzionali per evidenziare come la Chiesa sia protesa verso gli emarginati. Nel primo viaggio al di fuori dei confini vaticani, Francesco si reca a Lampedusa e lì celebra la messa dinanzi a un altare ricavato da un’imbarcazione impiegata da alcuni migranti per raggiungere l’isola. Nel 2016, invece, officia la messa a Ciudad Juárez, una città di frontiera messicana al confine con gli Stati Uniti nota per la sua violenza e per la concentrazione di migliaia di migranti latinoamericani.
Nel ravvivare i momenti di fede attraverso l’introduzione o il potenziamento di rituali, Bergoglio non privilegia l’aspetto dottrinale, ma orienta la spiritualità cristiana verso le sfide contemporanee: così facendo cerca di trascendere la comunità dei cristiani per rivolgersi anche ai non credenti e mostra come la Chiesa sia capace di adattarsi ai problemi del nostro secolo (cfr. Marco Politi, Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione, Laterza, Roma-Bari 2014). Emblematiche sono in tal senso le Giornate mondiali istituite durante il suo pontificato: nel 2014 istituisce la Giornata mondiale dei movimenti popolari e la Giornata mondiale dei poveri, nel 2015 la Giornata mondiale della preghiera per la cura del Creato e la Giornata internazionale di preghiera e sensibilizzazione contro la tratta di esseri umani, nel 2021 la Giornata mondiale dei nonni e degli anziani e nel 2024 la Giornata mondiale dei bambini. Questi eventi non hanno solo lo scopo di coinvolgere i fedeli, ma anche quello di mobilitarli. In genere, le Giornate mondiali della Chiesa cattolica includono iniziative di sensibilizzazione e di beneficenza – per esempio, durante la Giornata mondiale dei poveri molte parrocchie organizzano raccolte di cibo e denaro da destinare ai senza dimora – e ottengono un’importante copertura mediatica: usualmente le agenzie di stampa come Associated Press e Reuters coprono il discorso del Pontefice, mentre altri media evidenziano le citazioni che affrontano questioni sociali o politiche di rilevanza e le integrano con analisi approfondite.
Particolarmente significativa è la benedizione Urbi et Orbi del 2020 e la Via Crucis al Colosseo del 2022: anche in queste occasioni il Pontefice unisce un tradizionale rito cristiano con un momento di riflessione sulle questioni contemporanee. Il 27 marzo 2020, egli decide di tenere una benedizione apostolica in una Piazza San Pietro completamente vuota a causa delle restrizioni dovute alla pandemia da Covid-19. Le fotografie che lo ritraggono da solo durante questa cerimonia religiosa diventano celebri in tutto il mondo e l’evento, trasmesso sia in diretta televisiva sia in diretta streaming, è seguito solo in Italia da oltre undici milioni di persone. Simboliche sono anche le scelte che vengono fatte durante la celebrazione: il Pontefice non raggiunge il leggio da dentro San Pietro, ma dall’esterno, come un normale visitatore, e non si protegge dalla pioggia durante il suo percorso. La vasta copertura mediatica è attribuibile non solo alla straordinarietà dell’evento, ma anche alla forza simbolica con cui il Papa riafferma la leadership morale della Chiesa nei momenti di crisi. Il 15 aprile 2022, invece, egli ripristina la Via Crucis dopo la pandemia. Per l’occasione modifica una parte del testo della cerimonia per adattarlo agli eventi della contemporaneità, fa portare la croce a una donna ucraina e a una russa e si fa accompagnare dalle famiglie, discutendo ad ogni stazione della processione i problemi che esse devono affrontare nella vita di tutti i giorni.

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Tra sobrietà e tradizione: i primi gesti simbolici di Papa Leone XIV
Nonostante il pontificato di Papa Leone XIV sia iniziato da poco tempo, si possono già cogliere alcuni segnali simbolici significativi nel suo stile pontificale, che suggeriscono la direzione che intende imprimere alla Chiesa. Per esempio, la scelta del nome pontificale richiama immediatamente la figura di Papa Leone XIII, Pontefice noto per il suo impegno sociale, di cui l’enciclica Rerum Novarum, da lui emanata, è l’emblema principale. In tal senso, il nome scelto da Prevost potrebbe indicare l’intenzione di proseguire lungo la linea del dialogo tra Chiesa e società, con particolare attenzione alle questioni sociali e ai diritti dei lavoratori.
Sin dalle sue prime apparizioni pubbliche, inoltre, l’attuale Papa opta per un abbigliamento sobrio, ma tradizionale: la scelta di indossare la mozzetta rossa, assente nel pontificato francescano, ma presente in quello benedettino, potrebbero segnalare un desiderio di equilibrio tra semplicità e solennità. L’uso di una croce pettorale non eccessivamente elaborata, seppur ricca nei dettagli, sembra voler indicare una Chiesa che mantiene la sua dignità istituzionale senza rinunciare alla prossimità al popolo. In definitiva, i primi gesti simbolici di Papa Leone XIV sembrano voler inaugurare un pontificato all’insegna del dialogo, della sobrietà e della continuità con alcune delle grandi eredità del passato, in particolare nel campo dell’impegno sociale. Ma saranno i prossimi passi a confermare se questo equilibrio tra tradizione e rinnovamento diventerà il tratto distintivo del suo magistero petrino.

Tornando a Papa Benedetto XVI e Papa Francesco, entrambi attraverso scelte simboliche profondamente divergenti ma ugualmente intenzionali, mostrano due vie complementari per rendere visibile l’invisibile: il primo attraverso il recupero della tradizione liturgica, il secondo mediante gesti di rottura e prossimità. In entrambi i casi, il simbolo si conferma strumento centrale di comunicazione spirituale e politica della Chiesa. Come Pontefice, Ratzinger restituisce modernità alla tradizione. Per lottare contro il relativismo dei valori e rilanciare la religione cattolica, decide di dare forza ai simboli e ai riti: l’impiego di paramenti liturgici di tipo tradizionale, la celebrazione della messa in latino, la valorizzazione del canto gregoriano sono alcuni dei fattori caratteristici del suo ministero che fanno emergere l’obiettivo di evitare che la secolarizzazione possa provocare un’emorragia inarrestabile di fedeli. Benedetto si impegna per l’unità del cristianesimo europeo nella convinzione che l’ecumenismo sia essenziale per la preservazione della fede. Francesco, invece, presenta uno stile pastorale sobrio, evidente in numerosi gesti simbolici che compie all’inizio del suo pontificato. Per lottare contro il relativismo dei valori e rilanciare la religione cattolica, egli decide di rivitalizzare i momenti di fede mediante l’introduzione o il rafforzamento di alcuni rituali, non ponendo attenzione alla dimensione dottrinale, bensì mettendo in luce i problemi mondiali e le sfide contemporanee da affrontare. Per il Pontefice l’obiettivo più urgente consiste nel ricreare un tessuto spirituale nella società che possa permettere alle religioni di riottenere un peso specifico nella vita pubblica e politica.”

Contrastare l’odiocrazia con l’umanità

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Torno sul tema delle polarizzazioni o della logica binaria a cui ci stiamo purtroppo abituando, con un articolo comparso su Avvenire due giorni fa. La firma è quella di Chiara Giaccardi, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Sociologia e Antropologia dei media e dirige la rivista «Comunicazioni Sociali». Lo ripubblico perché ho trovato molte affinità col mio modo di vedere e anche di insegnare (quella citazione di Blake parla a tante/i ex allieve/i…).

“Il tema scelto da papa Leone XIV per la 60esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali – “Custodire voci e volti umani” – tocca il cuore di una questione che definisce il nostro tempo: come mantenere l’umanità al centro quando la tecnologia pervade ogni aspetto della nostra esistenza, e il confine tra macchine ed esseri umani sembra assottigliarsi sempre più.
Per Platone, e altri dopo di lui, la tecnica è un “farmaco”: da una parte ci cura e potenzia le nostre capacità, ma dall’altra ci intossica. E queste due dimensioni, con buona pace di apocalittici e integrati, sono inevitabili e inseparabili. Quello che possiamo tentare è una “farmacologia positiva”, che limiti gli effetti tossici e valorizzi quelli curativi. L’intelligenza artificiale offre certo possibilità straordinarie – dalla diagnosi medica precoce alla risoluzione di problemi complessi, dall’efficienza comunicativa all’accessibilità dell’informazione. Tuttavia, il Papa ci avverte che la stessa tecnologia può generare «contenuti accattivanti ma fuorvianti, manipolatori e dannosi», replicare pregiudizi e amplificare disinformazione.
Il linguaggio digitale traduce tutto nella logica binaria dello 0/1. Questa semplificazione sta contagiando sempre più il nostro pensiero e i nostri rapporti umani: on/off, bianco/nero, pro/contro, amico/nemico. Stiamo perdendo la capacità di abitare le sfumature, di tollerare l’ambiguità, di convivere con la complessità.
Il digitale favorisce la polarizzazione anche perché gli algoritmi amplificano i contenuti che generano ingaggio, e nulla genera più ingaggio della rabbia e dell’indignazione. Si crea così un circolo vizioso dove la moderazione viene punita e l’estremismo premiato. Questo meccanismo può portare a forme di identità e di politica basate sulla identificazione del nemico da annientare: una vera e propria “odiocrazia”.
Come proteggersi da tutto ciò? Innanzitutto, rinunciando alla comodità di delegare il pensiero alla macchina: come infatti l’industrializzazione ha privato le persone del loro “saper fare”, così oggi il digitale rischia di compromettere il nostro “saper pensare”. Lo scriveva già Bernanos a metà del secolo scorso: «Il pericolo non si trova nella moltiplicazione delle macchine, ma nel numero sempre crescente di uomini abituati, fin dall’infanzia, a non desiderare altro che ciò che le macchine possono dare».
Dal digitale, comunque, non si può più uscire: è diventato l’aria che respiriamo, l’ecosistema in cui viviamo. Non possiamo tornare a un’era pre-digitale, né sarebbe auspicabile farlo. La questione diventa: dove appoggiamo la nostra critica? Su cosa fondiamo la nostra resistenza alla colonizzazione totale del digitale?

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Il Papa suggerisce una strada: mantenere «l’umanità come agente guida». La critica deve radicarsi in ciò che il digitale non può catturare, che non è “datificabile” né automatizzabile: l’esperienza vissuta, l’interiorità, la capacità di contemplazione, il silenzio fecondo, l’intuizione che precede la razionalizzazione. Non tutto può essere tradotto in algoritmi. L’amore, la sofferenza autentica, la creatività genuina, l’esperienza del sacro, la bellezza che commuove, la giustizia che indigna mantengono una dimensione di mistero e imprevedibilità che sfugge al codice binario e alla manipolazione algoritmica. La persona umana porta in sé una dimensione di infinito che nessun sistema finito può contenere completamente. E la bussola per non smarrire la strada non sono principi astratti, ma il volto concreto dell’altro. Potremmo rileggere la celebre formulazione kantiana “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” come “il cielo stellato sopra di me e il volto dell’altro davanti a me”. Entrambi rappresentano l’irriducibile singolarità: ogni stella unica nel firmamento, ogni volto unico nell’umanità. L’infinito e il finito che si abbracciano e formano una unità indissolubile e irriducibile. Il volto dell’altro, come insegnava Emmanuel Lévinas, è epifania dell’infinito nel finito, appello etico che precede ogni computazione. È nel riconoscimento di questa singolarità che possiamo fondare la resistenza alla riduzione dell’umano a profilo digitale. Ma la cultura individualista di cui siamo imbevuti ci porta a vedere nell’altro una minaccia, o al massimo uno strumento per la propria realizzazione. E il digitale, coniugandosi con l’individualismo contemporaneo, ci trasforma in profili isolati, ingranaggi di una megamacchina che ci connette tecnicamente ma ci separa umanamente. Profili statistici piuttosto che persone con un nome e una storia.
La proposta di papa Leone di introdurre nei sistemi educativi l’alfabetizzazione mediatica e sull’intelligenza artificiale è fondamentale, ma non basta. Serve un’educazione più profonda: quella a riconoscere che, come scriveva papa Francesco e come le scienze ci dicono da tempo, «tutto è connesso». E che, quindi, l’individualismo radicale è un’astrazione, una ideologia che ci disumanizza e ci rende oltretutto più vulnerabili alla potenza del digitale. Serve un’educazione alla contemplazione, al silenzio, alla lentezza, alla capacità di sostare con le domande senza precipitarsi verso risposte algoritmiche immediate quanto riduttive. Serve uno spirito “poetico”, dato che la poesia è la lingua delle connessioni dell’uno e del molteplice, che ci fa vedere «il mondo in un granello di sabbia e l’eternità in un’ora», per parafrasare Blake.
Lo spirito non è qualcosa di astratto ma una forza di trasformazione, che pervade tutte le dimensioni non quantificabili, come l’arte. E come scriveva Rilke: «Essere artisti vuol dire non calcolare e contare». La sfida è mantenere viva questa dimensione umana nell’ecosistema digitale, non come nostalgia del passato ma come profezia del futuro. Un futuro dove le macchine saranno davvero «strumenti al servizio e al collegamento della vita umana», e non padroni che decidono per noi cosa pensare, desiderare, temere o amare.”

Hinton: IA, i limiti vanno messi ora

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Domani 12 settembre si apre a Roma il World Meeting on Fraternity: per due giorni riunisce persone provenienti da tutto il mondo per focalizzare l’attenzione sulla domanda essenziale: che cosa ci rende veramente umani? Promosso dalla Basilica di San Pietro, dalla Fondazione Fratelli Tutti e dall’associazione Be Human, l’incontro ospita un gruppo di lavoro dedicato all’intelligenza artificiale. Di esso fa parte Geoffrey Hinton, considerato uno dei padri dell’IA. Nei giorni scorsi è stato intervistato da Riccardo Luna per il Corriere della Sera: i toni sono preoccupati e accorati, vale la pena conoscere quanto dice.

“«La maggior parte dei principali ricercatori di intelligenza artificiale ritiene che molto probabilmente creeremo esseri molto più intelligenti di noi entro i prossimi 20 anni. La mia più grande preoccupazione è che questi esseri digitali superintelligenti semplicemente ci sostituiranno. Non avranno bisogno di noi. E poiché sono digitali, saranno anche immortali: voglio dire che sarà possibile far risorgere una certa intelligenza artificiale con tutte le sue credenze e ricordi. Al momento siamo ancora in grado di controllare quello che accade ma se ci sarà mai una competizione evolutiva tra intelligenze artificiali, penso che la specie umana sarà solo un ricordo del passato». Geoffrey Hinton è nella sua casa di Toronto. Alle sue spalle c’è una grande libreria a parete e lui — come al solito — è in piedi. Per via di un fastidioso problema alla schiena lo chiamano «l’uomo che non si siede mai» (ma in realtà, per brevi periodi e con alcuni accorgimenti, può farlo). Indossa una camicia blu che assieme ai capelli incanutiti e al sorriso dolce lo fanno assomigliare a quei personaggi che nei libri o nei film ci vengono a salvare da una minaccia terribile. Dicono che sia uno dei tre padri dell’intelligenza artificiale, ma visto che gli altri due (Yoshua Bengio e Yann LeCun) sono stati, in modi diversi, dei suoi allievi, se ci fosse un Olimpo dell’intelligenza artificiale Geoff Hinton sarebbe Giove. E infatti lo scorso anno ha vinto il premio Nobel per la Fisica (con John Hopfield) «per scoperte e invenzioni fondamentali che consentono l’apprendimento automatico con reti neurali artificiali». Per semplificare: senza di lui, non avremmo Chat GPT.
Quando l’ho invitato a far parte del gruppo di esperti di intelligenza artificiale che il 12 settembre incontrerà papa Leone XIV mi ha risposto: «Sono un ateo, sicuro che mi vogliano?». Poi però ha accettato perché evidentemente spera che il pontefice voglia giocare la partita della scienza: «Avrebbe una grande influenza». Molto più degli appelli e delle petizioni della comunità scientifica che in due anni si sono succeduti con lo scopo di rallentare lo sviluppo tecnologico in attesa di capirne meglio i rischi e della ragionevole certezza che la cosa non ci scappi di mano. Il primo a dare l’allarme è stato proprio Hinton alla fine di aprile del 2023 quando improvvisamente lasciò Google, l’azienda per cui aveva lavorato gli ultimi dieci anni, per poter parlare liberamente dei rischi dell’intelligenza artificiale. L’ultimo è stato sempre lui, un paio di mesi fa, quando ha firmato un appello, assieme al collega premio Nobel Giorgio Parisi, per chiedere a Open AI, l’azienda che ha sviluppato Chat GPT, maggior trasparenza («Stanno decidendo il nostro futuro a porte chiuse»). Partiamo da qui.
Avete avuto una certa risonanza e raccolto tremila firme autorevoli ma non penso che il vero scopo fosse solo quello.
«La questione è complicata dal fatto che c’è una causa legale tra Musk e Altman. Il motivo per cui Musk lo fa mentre allo stesso tempo sviluppa Grok è la competizione. Musk vuole avere meno concorrenza da OpenAI. Questo è ciò che credo, non ne ho la certezza, ma secondo me la sua motivazione nel voler mantenere OpenAI come “public benefit corporation” non è la stessa che abbiamo noi. La nostra motivazione è che OpenAI era stata creata per sviluppare l’IA in modo etico e invece sta cercando di sottrarsi a quell’impegno. Molti ricercatori, come Ilya Sutskever, se ne sono andati; credo che l’abbiano fatto perché non si dava abbastanza importanza alla sicurezza. L’obiettivo dell’appello era insomma fare pressione sul procuratore generale della California che può decidere se permettere o meno a OpenAI di diventare una società a scopo di lucro».
Quindi non vi aspettavate davvero una risposta da Sam Altman.
«No, certo che no».
Direi che la vera risposta all’appello è arrivata pochi giorni fa, alla Casa Bianca, quando il presidente degli Stati Uniti ha convocato tutti i ceo delle Big Tech, compresi OpenAI, Meta e Google…
«Il presidente ha cercato di impedire che per dieci anni negli Stati Uniti ci fossero regole per l’IA, ma ha fallito; i singoli Stati possono continuare a legiferare».
Che effetto le ha fatto vedere i leader delle grandi aziende tecnologiche così ossequiosi verso il potere politico? Forse è la prima volta nella storia che assistiamo a una concentrazione assoluta del potere.
«La mia reazione è stata di tristezza: vedere i leader di queste aziende non disposti a prendere nessuna posizione morale su nulla».
Quando arrivò la rivoluzione digitale, i sogni erano altri: un mondo più giusto, più equo, migliore per tutti.
«Non sono sicuro che fosse il sogno di tutti. Credo che per la maggior parte delle persone coinvolte, il sogno fosse diventare ricchi. Ma potevano convincersi che sì, si sarebbero arricchiti, ma allo stesso tempo avrebbero aiutato tutti. E in larga misura è stato così per il web: se mettiamo da parte le conseguenze sociali, guardando solo alla vita quotidiana, il web ha davvero aiutato le persone».
Prendiamo Tim Berners Lee: non è diventato ricco e ha dato i protocolli del web gratuitamente a tutti. Poi qualcosa è andato storto. Direi: il capitalismo.
«Io non sono totalmente contro il capitalismo: è stato molto efficace nel produrre nuove tecnologie, spesso con l’aiuto gratuito dei governi per la ricerca di base. Credo che, se ben regolato, il capitalismo vada bene. È accettabile che la gente cerchi di arricchirsi purché, arricchendosi, si aiutino anche gli altri. Il problema è quando la ricchezza e il potere vengono usati per eliminare le regole, così da fare profitti che danneggiano le persone».
È quello che sta accadendo adesso?
«Sì. La cosa che sembra importare loro di più è non pagare le tasse. E sostengono Trump perché abbassa le tasse: questa è la loro spinta primaria. Ma vogliono anche eliminare le regole che proteggono le persone per rendere più facile fare affari. Per questo assecondano Trump».
Come valuta quello che sta facendo l’Unione europea? Si dice che pensi troppo alla regolamentazione e troppo poco all’innovazione. Così restiamo indietro nella corsa all’intelligenza artificiale. Come sa, l’Unione europea ha approvato una legge importante, l’AI Act. Secondo lei è un buon punto di partenza o solo un ostacolo all’innovazione?
«Credo sia un punto di partenza accettabile ma ci sono parti che non mi piacciono: ad esempio, c’è una clausola che dice che nessuna di queste regole si applica agli usi militari dell’IA. Questo perché diversi Paesi europei sono grandi produttori di armi e vogliono sviluppare sistemi letali e autonomi. Inoltre, per come l’ho capita io, la normativa europea è partita con un’enfasi particolare su discriminazione e bias, preoccupandosi più di questi aspetti che di altre minacce. Perciò mette molto l’accento sulla privacy. La privacy è importante, ma ci sono minacce più gravi».
Ha toccato un punto molto delicato. Le aziende della Silicon Valley erano nate con l’idea di non collaborare con il potere militare. Quando DeepMind fu venduta a Google, una delle condizioni era che l’IA non sarebbe stata usata per scopi militari. Ma lo scorso gennaio quella condizione è stata rimossa. Ora tutte le aziende di intelligenza artificiale forniscono tecnologia al dipartimento della Difesa americano. E pochi giorni fa Google ha firmato un accordo importante con Israele per fornire sistemi di intelligenza artificiale alle forze armate. Che ne pensa?
«C’è una regola semplice che usano gli scienziati politici: non guardare a ciò che la gente dice, ma a ciò che fa. Sono rimasto molto dispiaciuto quando Google ha eliminato l’impegno a non usare l’IA per scopi militari. È stata una delusione. E lo stesso quando hanno cancellato le politiche di inclusione solo perché era arrivato Trump».
E arriviamo a papa Leone XIV: appena insediato, ha detto di volersi occupare di intelligenza artificiale. Che ruolo pensa possa avere in questo dibattito?
«Beh, come saprà, ha circa un miliardo di fedeli. Se lui dicesse che è importante regolare l’IA, sarebbe un contrappeso alla narrativa dei leader delle Big Tech che ringraziano il presidente per non aver imposto regole. Io credo che il Papa abbia un’influenza politica reale, anche al di fuori del cattolicesimo. Molti leader religiosi, come il Dalai Lama, lo vedono come una voce morale. Non tutti i Papi sono stati così, ma questo sì, e anche il suo predecessore. Per molti non cattolici, le sue opinioni morali sono sensate, non infallibili, ma ascoltate. Se dirà che regolare l’IA è essenziale, avrà un impatto».
Cosa vorrebbe far sapere al Papa sui rischi dell’intelligenza artificiale?
«Credo che per il Pontefice sia inutile porre l’accento sui cosiddetti rischi esistenziali, come la sparizione della specie umana nel lungo periodo; e sia meglio concentrarsi sui rischi attuali. Non serve credere che l’IA sia un “essere” per capire che può portare disoccupazione di massa, corruzione delle democrazie, cyber-attacchi più facili ed efficaci, creazione di virus letali accessibili a chiunque. Sta già accadendo. Quindi su questi rischi a breve termine, quelli che chiamo “rischi dovuti a cattivi attori”, possiamo trovare un accordo. Questi sono rischi che qualunque leader religioso o politico può capire, senza dover entrare nella questione metafisica se l’IA sia o meno un “essere”».
A volte sembra che i governi non capiscano fino in fondo la posta in gioco, che si fidino troppo di queste aziende.
«È proprio così. Spesso i governi non hanno abbastanza esperti interni e si affidano a consulenti che vengono… indovini da dove? Proprio dalle Big Tech. Così finiscono per sentire solo la voce delle aziende. È come se i regolatori di Wall Street fossero tutti ex banchieri che ancora pensano come banchieri».
È considerato un apocalittico. Lei come si sente? Ottimista o pessimista?
«Realista. Vedo entrambi i lati. Ma la storia ci dice che, senza regole, si abusa del potere. Perciò credo che, se non regoliamo, finirà male».
Crede che ci sia una lezione particolare che dovremmo ricordare ora?
«Sì. Pensiamo all’energia nucleare. Quando gli scienziati capirono che le loro scoperte potevano portare all’atomica, molti di loro provarono ad avvertire i governi. Ma alla fine furono i militari a decidere come usarla. Non fu la comunità scientifica a stabilire i limiti. Lo stesso rischio lo vedo oggi: se lasciamo che siano solo i governi o le aziende a decidere, l’IA sarà usata in modi molto pericolosi».
È davvero un momento unico nella storia dell’umanità o solo un ennesimo progresso?
«È un punto di svolta. Per la prima volta stiamo creando entità che possono essere più intelligenti di noi. Non è mai successo prima. Abbiamo creato macchine più forti, più veloci, ma mai più intelligenti. Questo cambia tutto».
Quindi cosa possiamo fare?
«Serve un movimento globale, non solo poche voci isolate. Dobbiamo creare un consenso ampio nella comunità scientifica, altrimenti i politici ci ignoreranno».Dopo 90 minuti l’intervista è finita (questa è una versione molto condensata ma approvata dal professore). Resta il tempo per una domanda personale. Geoffrey Hinton viene da una famiglia eccezionale. L’Everest si chiama così per via di un suo prozio cartografo (e anche il suo secondo nome è Everest); e un altro è il padre della logica booleana (la base matematica su cui si basano i computer e i sistemi digitali). Come se non bastasse, il padre gli ha sempre tenuto l’asticella altissima. Gli diceva: «Se lavori il doppio di me, quando avrai il doppio della mia età, forse sarai bravo la metà».
Gli chiedo: ce l’ha fatta a realizzare l’obiettivo che le ha dato suo padre? Sorride: «No. Sicuramente almeno la metà».”

Riconoscere il bene nel tempo che fugge tra memoria, attenzione e attesa

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Sulle pagine di Avvenire, senza dichiararlo esplicitamente, la prof.ssa Paola Muller ritorna su alcuni concetti che sono stati al centro delle risposte di Leone XIV ai giovani nella veglia di sabato 2 agosto a Tor Vergata: Agostino, l’utilizzo del tempo, le scelte, il bene, il futuro.“

«Che cos’è dunque il tempo?». È una delle domande più celebri – e più disarmanti – della storia del pensiero. Agostino la pone all’inizio dell’undicesimo libro delle Confessioni, dopo aver raccontato la propria conversione e aver meditato sulla creazione del mondo: In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma che cosa significa “principio”? Si tratta di un istante? Di un inizio cronologico? Oppure di qualcosa che sfugge alla nostra immaginazione? Nel riflettere sul tempo, Agostino non costruisce una teoria astratta. Parte piuttosto da un’esperienza che tocca ogni essere umano: il tempo ci accompagna in ogni istante, ma sfugge appena tentiamo di definirlo. “Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so” (Confessioni XI, 14.17).
Per Agostino, il tempo è un paradosso vissuto. Parliamo continuamente di passato, presente e futuro, eppure – se ci pensiamo bene – il passato non è più, il futuro non è ancora, e il presente, se lo si prova a misurare, non ha estensione. Appena lo afferriamo, è già trascorso.
Eppure, ricordiamo, attendiamo, calcoliamo durate. Com’è possibile? Dove si dà il tempo, se non ha consistenza né stabilità? Agostino propone una risposta radicale: il tempo non è qualcosa di esterno, ma è nell’anima. Non è una cosa, né un flusso oggettivo di eventi: è una modalità del vivere, una tensione interiore. Il tempo – per l’uomo – è vissuto prima che misurato. La chiave per capire questa visione è un’espressione centrale nella riflessione agostiniana: distensio animi (Confessioni XI, 26.33). L’anima, dice Agostino, è “distesa” tra ciò che ricorda e ciò che attende. Non vive in un eterno presente puntiforme, ma in una continua tensione tra passato e futuro, raccolta nell’attenzione al presente.
Questa idea ha un’enorme forza antropologica. Per Agostino, l’uomo non è semplicemente un essere che “passa nel tempo”, ma una creatura capace di tenere insieme ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà. La memoria, l’attenzione e l’attesa sono le tre forme con cui l’anima si misura col tempo. Non misuriamo il tempo perché lo possediamo fuori di noi, ma perché lo custodiamo in noi. Esso è un tratto costitutivo della nostra coscienza. Agostino ricorre a un’immagine musicale per descrivere questa esperienza: l’anima è come un cantore che conosce il brano che sta per eseguire (Confessioni, XI, 28.38). All’inizio, tutto è attesa. Mentre canta, una parte del canto è passata, un’altra è ancora da eseguire. Solo nel presente l’anima tiene insieme ciò che ha già cantato e ciò che deve ancora cantare.
Così avviene anche nella vita: la nostra coscienza non è mai pura immediatezza, ma è sempre memoria di ciò che è stato, attenzione a ciò che accade e anticipazione di ciò che verrà. In ogni istante, l’uomo è un essere narrativo, che tiene unito il proprio passato e il proprio futuro. La memoria è una delle grandi scoperte agostiniane. Non è un deposito passivo di ricordi, ma un atto vitale dell’anima, capace di dare senso al tempo vissuto. Nel De Trinitate (XV, 21.40), Agostino paragona la memoria al grembo in cui viene concepita la coscienza. Senza memoria, il tempo sarebbe un susseguirsi indistinto di frammenti. È la memoria che ci dà identità, che rende possibile la continuità del sé.
Questa riflessione è quanto mai attuale. In un’epoca che tende a vivere nel presente perenne dell’istante, nella dispersione delle notifiche, nel consumo compulsivo di stimoli, nella rincorsa al “prossimo evento”. Ma se il tempo è una distensione dell’anima, come suggerisce Agostino, allora ogni accelerazione impone una domanda: dove sono io, in questo tempo che corre? Il tempo autentico non è solo quello che scorre, ma quello che raccoglie, che trasforma, che custodisce il senso. Agostino ci ricorda che la profondità della vita dipende dalla nostra capacità di fare memoria. Una società che dimentica non solo la storia, ma il proprio vissuto interiore, è una società che si disgrega nel tempo. Il cuore teologico della riflessione agostiniana sul tempo si gioca nel confronto con l’eternità. Dio non è nel tempo: è il Creatore del tempo. In Lui non c’è successione, ma solo presenza piena, totale, senza mutamento. L’eternità, scrive Agostino, è il “sempre ora”: non una durata infinita, ma una totalità senza inizio né fine.
Questa differenza è decisiva: mentre l’uomo vive nella distensione, Dio vive nella pienezza. Mentre il tempo umano è instabile e fragile, Dio è stabile e immutabile. Ma proprio questa distanza non allontana, bensì chiama. Il tempo è la forma del nostro desiderio: viviamo nel tempo perché siamo fatti per l’eternità. Questa tensione si rivela nel cuore stesso della fede: se Dio ha creato il tempo, è perché vi vuole abitare. Se il Verbo si è fatto carne, è perché l’eternità ha voluto entrare nella storia. Il tempo, allora, non è un carcere da cui fuggire, ma il luogo in cui si compie il cammino della redenzione.
Agostino sa che il tempo può disperdere, ma anche redimere. Il passato non è solo nostalgia, ma memoria trasfigurata; il futuro non è solo incognita, ma promessa. Il presente – spesso vissuto come un attimo fugace – diventa il luogo della decisione: è nel presente che si gioca la conversione, cioè il ritorno a Dio. Il passato può essere redento, il futuro può essere affidato, il presente può essere abitato. La conversione – nel linguaggio di Agostino – è un atto del presente, ma nasce dalla memoria e guarda alla speranza. È il momento in cui l’anima si riallinea alla verità, ritrova il ritmo dell’eterno. Per questo, nel pensiero agostiniano, il tempo ha anche un valore spirituale. Non è solo ciò che passa, ma ciò che può cambiare. È lo spazio della libertà, in cui l’uomo può voltarsi indietro per rileggere la propria vita e alzare lo sguardo per rivolgersi a un bene più alto. La preghiera, ad esempio, è un atto profondamente temporale: è memoria della promessa di Dio, attenzione alla sua presenza, attesa del compimento. Pregare è vivere il tempo non come qualcosa da subire, ma da offrire.
Nei Salmi, che Agostino commenta a lungo, il tempo è spesso protagonista. Il tempo del lamento, del silenzio, della supplica, ma anche quello della lode. Il tempo della prova non è mai tempo perso, se diventa invocazione. E il presente – fragile e fugace – diventa il luogo dove la grazia può visitare l’anima. La distensio animi, allora, non è solo una struttura psicologica, ma una disposizione morale. È la condizione per vivere il tempo non come condanna, ma come occasione.
Viviamo in un tempo inquieto, frammentato, contraddittorio. Siamo bombardati da stimoli, compressi tra nostalgia e ansia. Ma se, come dice Agostino, il tempo è nell’anima, allora l’unico tempo che ci salva è quello che ci riconduce a noi stessi. Il tempo abitato, pensato, offerto. Il tempo che diventa sapienza. Agostino non offre una soluzione tecnica, né una ricetta psicologica. Prospetta un cammino. Un cammino fatto di memoria, di presenza, di attesa. Ci offre una direzione: imparare a vivere il tempo come apertura all’eterno. Non si tratta di misurare meglio il tempo, ma di misurarlo su ciò che conta. E ciò che conta – per Agostino come per noi – è imparare a riconoscere la presenza del bene anche nel tempo che fugge. È lì che inizia la sapienza. Un tempo umano, perché fatto di desiderio. Un tempo cristiano, perché attraversato da una promessa”.