“La mia gemma è composta di due parti diverse. Prima un video legato ai fatti di Parigi: mi ha colpito la consapevolezza del bimbo che ci siano persone cattive, benché il papà lo rassicuri dicendogli che basta poco per potersi proteggere. Rispondere con la guerra non penso sia il modo giusto.
La seconda parte invece è una cosa personale: un mese fa ho visto una foto, ci sono stata male, poi una persona mi ha mandato un messaggio inaspettato che mi ha colpito molto per l’amicizia dimostratami.” Questa è stata la duplice gemma di M. (classe quinta).
Non mi sento di commentare un video come quello del bambino che racconta la sua paura. Ricordo che alcuni anni fa ho letto un libro sui bambini nelle guerre e sul tentativo di raccontarsi attraverso dei disegni. Non ho parole.
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Gemme n° 344
“Quello che voglio mostrare non è un video dal valore particolare per me, ma ha a che fare con l’attualità. Al di là degli aspetti politici e di attualità, mi piace la frase in cui si dice che ci accorgiamo dei problemi solo quando è troppo tardi e ne siamo investiti; la cosa mi riguarda anche per la vita di tutti i giorni sui miei comportamenti personali.” Questa la gemma di A. (classe terza).
Non è un esercizio facile quello di mantenere l’attenzione su quanto succede nel mondo ed essere sensibili alle sorti degli altri. Vestire i loro panni, calzare le loro scarpe, immedesimarsi in una loro giornata, almeno provare ad assumere il loro punto di vista per capire il sapore che ci resta in bocca…
“Chuang-Tzu e Huizi stavano passeggiando lungo la diga delle cascate Hao quando Chuang-Tzu disse, “Vedi come i pesciolini escono dall’acqua e saltano dove gli pare! Questo è quello che davvero piace ai pesci!”
Huizi disse, “Tu non sei un pesce – come fai a sapere quello che piace ai pesci?”
Chuang-Tzu disse, “Tu non sei me, quindi come fai a sapere che io non so quello che piace ai pesci?”
Huizi disse, “Io non sono te, quindi di sicuro non so quello che tu sai. D’altro canto, tu di sicuro non sei un pesce – quindi questo continua a provare che non sai cosa piace ai pesci!”
Chuang-Tzu disse, “Torniamo alla nostra domanda originale, per favore. Tu mi hai chiesto come faccio a sapere cosa piace ai pesci – quindi tu già sapevi che io lo sapevo quando mi hai posto la domanda. Lo so stando qui accanto alle cascate Hao”.”
La gente ballava, sorrideva, era felice
Max è un sacerdote passionista che ho conosciuto sul web. Poche ore fa sul suo profilo fb ha scritto: “Domenica scorsa all’omelia ho parlato di questa intervista, la testimonianza della band che suonava al Bataclan di Parigi la sera della strage. Per far capire cosa vuol dire “responsabilità”, sentirsi chiamati a rispondere ai bisogni degli altri, ad agire immediatamente per il bene di tutti. Ragazzi che hanno preferito rimanere con i loro amici feriti anziché scappare e salvarsi la vita, facendo da scudo con i loro corpi, andando incontro alla morte. La testimonianza è drammatica. Bisognerebbe farla vedere nei licei, nelle scuole.” Ho allora deciso di dare voce al suo desiderio: ecco l’articolo di Paolo Vites da Il Sussidiario e il video tratto da Youtube.
“Vorrei mettermi in ginocchio davanti ai genitori dei ragazzi morti quella notte” dice tra le lacrime Josh Homme, uno dei fondatori degli Eagles of Death Metal che quella sera della strage al Bataclan non era andato a Parigi con il suo gruppo. “Vorrei dire loro sono a vostra disposizione per qualunque cosa, perché davanti a quello che è successo che cosa puoi dire a chi ha perso i propri figli, la moglie, i fratelli? Non ci sono parole e forse è giusto che non ci siano” aggiunge Homme. Gli Eagles of Death Metal dopo un comunicato ufficiale hanno rilasciato adesso la prima testimonianza al sito americano Vice, una lunga video intervista di circa mezz’ora in cui raccontano quello che hanno vissuto quella notte. Visibilmente ancora scioccati, spesso scoppiano in lacrime, si tengono stretti fra loro, posano il capo sulle spalle dell’altro mentre raccontano l’orrore che hanno vissuto. Uno di loro ad esempio si era nascosto in un camerino insieme a molti membri del pubblico. Una ragazza, dice, era ferita gravemente e perdeva molto sangue. In due cercavano di fermare l’emorragia mentre un altro ragazzo aveva trovato nel frigo una bottiglia di champagne che doveva servire per i festeggiamenti del dopo concerto e la brandiva in mano, l’unica arma che avessero per difendersi, mentre sentivano i colpi d’arma da fuoco nel corridoio fuori della porta. Il chitarrista della band commenta: “Voglio dire a chi ama la musica rock e a chi non la ama: stiamo insieme. Io sono qui, sono sopravvissuto e stasera potrò tornare a casa da mio figlio. La musica rock mi ha dato un lavoro, una casa, una famiglia. Ma adesso non posso più far finta di niente, voglio che tutti sappiano che la vita è una cosa meravigliosa. Essere vivi”. Vogliamo tornare a Parigi, aggiunge, ed essere i primi a suonare al Bataclan quando riaprirà. Diversi giornali italiani all’indomani della strage avevano detto che i musicisti erano fuggiti ai primi spari abbandonando i loro fan: questo video dimostra che non è vero. Raccontano nei dettagli quei momenti insieme al pubblico, cercando vie d’uscita, soccorrendosi gli uni con gli altri, facendosi forza. Qualcuno in certa area cattolica ha anche detto che questo è un gruppo satanista che stava invocando il diavolo quando sono arrivati i terroristi, a causa del brano che stavano suonando, Kiss the Devil. Gli EODM sono un gruppo invece che fa la parodia proprio di quel genere di gruppi, li prende in giro: “Quella sera la gente ballava, sorrideva, era felice” racconta uno di loro. Proprio come succede con la vera musica rock. Satana non piange. Gli EODM in questo video invece piangono a lungo. Consigliamo a certi personaggi di guardarselo con attenzione. “Ci siamo dentro tutti in questa cosa, portiamo nel nostro cuore tutti i nostri amici francesi, vogliamo loro bene, e senza di loro non saremmo sopravvissuti” concludono.”
Gemme n° 338
“Ho scelto come gemma la lettera scritta da uomo francese che ha perso la moglie e scrive per lei e per il figlio. Penso regali la speranza”. Questa la gemma di J. (classe quinta).
E’ stata una delle prime cose che ho letto dopo gli attentati di Parigi e che ho deciso di pubblicare qui sul blog. L’ho fatto perché non tira in ballo posizioni politiche o punti di vista. Parla di interiorità e della singola reazione di quest’uomo che non vuole cedere all’odio. L’immensa Alda Merini scriveva “La verità è sempre quella, la cattiveria degli uomini che ti abbassa e ti costruisce un santuario di odio dietro la porta socchiusa”. Decidere di non abbandonarsi all’odio è una fatica e un esercizio nei quali credo profondamente, anche se costa sguardi di commiserazione e cenni di presa in giro.
Libero e felice
«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.
L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».
Antoine Leiris (questa la fonte)
Parola… Parola. Parola? Parola!
La potenza e l’importanza della parola è un tema che spesso ho affrontato anche in classe, magari con riferimento alla magia (l’abracadabra che fa avvenire l’incantesimo) o alle religioni (“E dio disse” del racconto cosmogonico della Genesi o “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” del prologo del vangelo giovanneo). Nell’articolo che pubblico il ricercatore in Filosofia morale Giovanni Grandi lo affronta in maniera mirabile in merito agli eventi parigini.
“«Chi ziga forte ga sempre ragiòn» (chi urla forte ha sempre ragione). È un detto popolare delle mie parti, probabilmente simile in chissà quanti altri posti, e fotografa la dinamica piccola delle nostre liti: se non riusciamo a ricomporre presto le diversità di vedute il tono della voce si accende, ci si allontana anche fisicamente – gli automobilisti/piloti sono un esempio plastico nel lancio delle reciproche invettive – e ci si sgola, nel tentativo di sovrastare la voce dell’altro dinnanzi al pubblico improvvisato che inevitabilmente si sarà destato e sarà accorso. Alla fine ha ragione, cioè riesce a rimanere più impresso nell’uditorio, chi ha urlato più forte. Nei talk show non va diversamente rispetto al mercato. Il giorno dopo le grandi manifestazioni per Charlie Hebdo riflettevo sul fatto che nell’immaginario degli attentatori, in qualche modo, hanno potuto più le vignette (urlanti?) di una prima pagina che non la pratica (silenziosa, senza punti di domanda) di accoglienza, di tolleranza e di integrazione che certo non manca in un Paese come la Francia.
La parola – sussurrata, urlata, scritta, rappresentata… –, ce ne rendiamo conto ancora una volta e drammaticamente, è uno strumento potentissimo.
C’è la parola che consola, e tutti sappiamo quale balsamo possa essere nelle nostre solitudini, nei momenti in cui tutto sembra collassare.
C’è la parola che incoraggia, altrettanto efficace. Non parlo della proverbiale pacca sulla spalla. C’è qualcosa di molto più reale. Quando accompagni qualcuno nel superare un passaggio difficile in montagna capisci che c’è una grande differenza tra l’illustrare a secco come affrontare la roccia e l’essere lì accanto, parlando alla persona mentre esegue una manovra. Senza quella presenza che si fa parola molti attraversamenti rimarrebbero invalicabili. Qualcosa di simile accade anche nei processi di riabilitazione: la presenza di un terapista che accompagna la movimentazione con le mani e insieme con la spiegazione e l’incoraggiamento è notoriamente la più efficace.
C’è la parola che denuncia, che attira l’attenzione con la sua forza e che conquista – sia pur in modo diverso – offesi e offensori. Facilmente gli offesi, perché dà voce alla loro attesa di giustizia. In modo meno appariscente ma altrettanto efficace gli offensori, perché quando una parola ci mette a nudo di fronte a noi stessi, di fatto ci conquista, ci tocca. E ce ne rendiamo conto, perché se non vogliamo registrarla in noi stessi non possiamo far altro che ricorrere dentro (e fuori) di noi allo stratagemma del «chi zìga forte»: per sovrastare un richiamo giusto che interpella bisogna alzare il volume delle proprie ragioni. Oppure, in qualche misura, arrendersi e rivedere qualcosa di sé.
C’è però anche la parola che ferisce. Alle volte lo sappiamo che sarà così, perché colpire ferendo è nelle nostre intenzioni, magari come “coda” di un diverbio simili a quelli dei mercati di memoria popolare. Alle volte però dipingiamo la lama che esce dall’anima come se fosse semplicemente una parola che denuncia, quasi meravigliandoci degli effetti collaterali che la stoccata ha generato.
Il punto è che – a conti fatti – non possiamo essere noi parlanti da soli a stimare fino in fondo dove stia il confine tra denuncia e ferita. Ce lo rivela solo la risposta di chi riceve le nostre parole.
Stabilire il limite tra il richiamo giusto e lo sberleffo che mortifica e umilia è una tra le più grandi imprese cooperative nello scambio delle parole difficili. Questo limite esige una grandissima capacità di ascolto delle reazioni dell’altro, per ritarare continuamente il peso della parola, in modo da raggiungere i punti dolenti senza recidere, in modo da mettere a nudo ma senza togliere la dignità. Che, alle volte, è una questione sottile come il telo verde che copre un paziente in sala operatoria.
Una società dai molti volti e dalle molte culture deve fare i conti continuamente con il potere della parola. E non può ignorare che la parola forte, di denuncia, ha sempre dinanzi a sé due possibilità: quella di consentire a tutti di fare un passo avanti insieme o, viceversa, quella di ferire scavando un solco maggiore tra chi – magari su una questione sola – coltiva visioni diverse.
Non possiamo non essere indignati e concordi nella denuncia della violenza che ha colpito Charlie Hebdo: non c’è giustificazione – religiosa o laica che sia – per l’attentato alla vita altrui. Allo stesso tempo non possiamo neanche avere la faccia stupita di chi non conosce la potenza della parola. Non nella società della comunicazione e dell’advertising.
Scendere in così tanti in piazza può non essere una «lavatrice della coscienza» – per usare qui una espressione dai risvolti ambigui di Marine Le Pen – se tutto questo si tradurrà anche in una maggiore attenzione per le parole severe che tutti ci scambiamo e che, certo, in una società libera dobbiamo poter continuare a scambiarci. Perché ha ragione non «chi ziga forte», ma chi sa trovare (ed accogliere) parole decise tanto quanto amiche negli attraversamenti più delicati, tenendo continuamente in primo piano quel che la sensibilità dell’altro restituisce.”
Su Parigi 2
Pubblico in pdf ancora alcuni articoli che ho trovato navigando in rete in questi giorni: sono molto vari, spesso in contraddizione tra loro (basta vederne la provenienza). Il tutto per continuare ad alimentare e approfondire la discussione affrontata in classe.
Le colpe dell’Islam e le nostre – La Stampa
La globalità del nuovo islamismo – La Stampa
Io non sono Charlie – La Stampa
Pensiero critico per andare contro gli estremismi – La Stampa
La vera satira non può limitarsi – La Stampa
Ma c’è un confine che va rispettato La Stampa
Come evitare lo scontro di civiltà dopo la strage di Parigi -Limes
Ma Islam vuol dire pace _ Vito Mancuso
La deriva violenta della umma coranica nel mondo – Il Foglio
Un calcio all’estremismo – Il Sole 24 ORE
Ecco come Al-Qaeda ha addestrato e globalizzato la jihad dallo Yemen – Il Sole 24 ORE
Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi – L’Espresso
Io sono Charlie (e stupida). Ho sbagliato_ è scontro di civiltà – Il Giornale
Da al Qaida allo Stato Islamico, ovvero_ il jihad dall’élite al popolo – Limes
Su Parigi
Pubblico in pdf alcuni articoli che ho trovato navigando in rete stamattina, tenendomi ben lontano dalle dichiarazioni degli esponenti politici e dagli scontri di social network e talkshow.
Attacco di Parigi, colpita la libertà di espressione – Avvenire
Condanna senza remore dagli islamici moderati – Avvenire
Il cuore dell’occidente – Repubblica
L’anima e la ragione – Il Sole 24 ORE
Noi Europei – L’Espresso
Noi musulmani dobbiamo reagire – Corriere
Non siamo come loro, è la nostra forza – La Stampa
Quelle voci lasciate sole anche da noi
Un attacco allo stile di vita fondato sulla tolleranza – Il Sole 24 ORE
Appello Organizzazioni Musulmane francesi – Internazionale
Una Guerra ai nostri Valori – La Stampa
Gemme n° 105
“Quello che sta finendo è stato un brutto anno. Ho portato un ricordo del momento più bello che ho vissuto: le due fantastiche settimane del viaggio a New York, che rivivrei immediatamente.” Questa è stata la gemma di C. (classe terza).
Scrive Baricco in Novecento:
“Viaggiava, lui. E ogni volta finiva in un posto diverso: nel centro di Londra, su un treno in mezzo alla campagna, su una montagna così alta che la neve ti arrivava alla pancia, nella chiesa più grande del mondo, a contare le colonne e a guardare in faccia i crocefissi. Viaggiava. Era difficile capire cosa mai potesse saperne lui di chiese, e di neve, e di tigri e… voglio dire, non c’era mai sceso, da quella nave, proprio mai, non era una palla, era tutto vero. Mai sceso. Eppure, era come se le avesse viste, tutte quelle cose. Novecento era uno che se gli dicevi “Una volta son stato a Parigi”, lui ti chiedeva se avevi visto i giardini tal dei tali, e se avevi mangiato in quel dato posto, sapeva tutto, ti diceva “Quello che a me piace, laggiù, è aspettare il tramonto andando avanti e indietro sul Pont Neuf, e quando passano le chiatte, fermarmi e guardarle da sopra, e salutare con la mano”.
“Novecento, ci sei mai stato a Parigi, tu?”
“No.”
“E allora?”
“Cioé… si.”
“Si cosa?”
“Parigi”
Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c’é in Bertham Street, d’estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che lui in Bertham Street, lui, non c’é mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell’aria, l’ha respirata davvero. Il mondo, magari, non l’aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima.
In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia… Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava… Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all’altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.”
La testimonianza di Madeleine
A cinquant’anni dalla sua morte, Gerolamo Fazzini, su Vatican Insider, fa conoscere in questo breve articolo la figura di Madeleine Delbrêl.
“È passato esattamente mezzo secolo dalla sua morte, avvenuta il 13 ottobre 1964. Eppure, anche a distanza di tanti anni, l’eredità spirituale di Madeleine Delbrêl – laica francese, attivista sociale, scrittrice e mistica – non si è affatto spenta. Anzi. Promotrice di un’esperienza originale di fraternità missionaria nella periferia operaia di Parigi, tra le prime assistenti sociali del Paese, la Delbrêl è stata senza dubbio protagonista della vita ecclesiale francese del ‘900 e tuttora continua ad esercitare un fascino che non si affievolisce.
In Francia i suoi libri continuano ad essere letti con successo; è in corso la pubblicazione dell’opera omnia giunta al XIV volume. Alcuni testi – “Noi delle strade”, “La gioia di credere” e “Comunità secondo il Vangelo”, apparsi fra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta – sono ormai dei classici della spiritualità del XX secolo. Ma anche in Italia – dove i suoi testi sono noti grazie a Gribaudi – la Delbrêl conta su un pubblico di affezionati lettori (in qualche libreria cattolica esiste pure uno scaffale a lei dedicato). Non smettono, inoltre, di uscire tesi di laurea e pubblicazioni specialistiche a lei dedicate. L’ultima biografia è in arrivo da Edb: scritta da Bernard Pitaud e Gilles Francois, si intitola “Madeleine Delbrêl. Biografia di una mistica tra poesia e impegno sociale”: un titolo che la dice lunga sulla complessità della Delbrel.
[…]
Approdata alla fede dopo un’autentica conversione, passando da un ateismo convinto all’adesione altrettanto totale al Vangelo, la Delbrêl ha individuato una strada originale, che ha nella centralità del protagonismo laicale, della dignità battesimale e della vocazione universale alla missione i suoi fulcri.
Basti leggere come la stessa Delbrêl presentava la sua fraternità: «Il nostro gruppo non è legato ad alcuna organizzazione. Non prevede voti né promesse ufficiali. È la vita comune, molto intensa, a segnarne nettamente la nascita e a rendere in qualche maniera “pubblico” il suo impegno. Coloro che ne fanno parte praticano i tre consigli evangelici. (…) Lo scopo è unirsi il più possibile a Cristo in pieno mondo, imitare la sua vita, obbedire al suo Vangelo e trasmetterlo».
Teatro dell’azione della Delbrêl fu Ivry, nei pressi di Parigi, per la quale la coraggiosa Madeleine e le sue compagne partono il 15 ottobre 1933. «La festa di santa Teresa d’Avila – ha commentato un biografo – è stata scelta appositamente, perché è un monastero nuovo quello che vanno a fondare: è una vita contemplativa nuova quella che le attende». Ivry, per Madeleine, è una terra dove «regna Satana», come scrive a due mesi dal suo arrivo. Ma col tempo proprio lì avvierà un’esperienza di testimonianza della fede di straordinario spessore evangelico, così come genuino e fecondo sarà il di dialogo con i non credenti – tra cui molti esponenti del Partito comunista – che la Delbrêl e le compagne riusciranno a tessere nel corso degli anni.
Un’esperienza del passato che, come detto, non ha esaurito la sua spinta propulsiva, non foss’altro per il contributo da lei dato alla causa genuinamente “femminista” nella Chiesa. «La Nave della Chiesa non ha finito il suo viaggio – ha lasciato scritto in una lettera -. Agli uomini il ponte, lo scafo, gli alberi…, ma per le vele, non c’è modo di fare a meno di noi».
Alcune compagne di Madeleine sono ancora presenti a Parigi e ad Amiens. Un comitato di Amici di Madeleine Delbrêl raccoglie un gruppo di oltre cinquecento persone e, in Francia ma non solo, continua a diffondere la sua spiritualità e a tener desta la memoria di questa donna eccezionale, di cui nel 1996 è stato avviato il processo di beatificazione.”