In quarta abbiamo parlato e stiamo ancora parlando di felicità, per ora delle piccole nostre felicità… Contemporaneamente abbiamo iniziato a trattare di induismo e buddhismo. E come primo argomento dell’anno avevamo affrontato morte e aldilà. Tentiamo ora di mettere insieme tre testi. Il primo è inedito con me, non lo abbiamo mai letto in classe, ma è legato agli altri due che invece abbiamo conosciuto e già accostato fra loro. Partiamo da “Le fantasticherie del passeggiatore solitario. Quinta passeggiata” di Jean-Jacques Rousseau:
“Tutto sulla terra è in un flusso continuo. Nulla mantiene una forma costante e fissa, e i nostri sentimenti per le cose esteriori passano e cambiano necessariamente come loro. Costantemente, prima o dopo di noi, esse ricordano il passato che non è più o anticipano il futuro che spesso non deve affatto essere: non vi è là nulla di solido a cui il cuore si possa attaccare. Così non abbiamo quaggiù nient’altro che piacere che passa; in quanto alla felicità che dura, dubito che la si conosca. A malapena si trova nei nostri più vivi piaceri un istante in cui il cuore possa veramente dire: Vorrei che questo istante durasse per sempre; come possiamo allora chiamare felicità uno stato fuggevole che ci lascia poi il cuore inquieto e vuoto, che ci fa rimpiangere qualcosa che era, o desiderare qualcosa che sarà?
Ma se esiste uno stato in cui l’animo trova un equilibrio abbastanza stabile per riposarvisi completamente e raccogliere là tutto il suo essere, senza aver bisogno di ricordare il passato né di sconfinare nel futuro, in cui il tempo non conti e il presente duri sempre, senza però lasciar traccia del suo durare né del succedersi, senza nessun altro sentimento di privazione né di godimento, di piacere né di pena, di desiderio né di timore, se non quello della nostra esistenza che, da solo, possa soddisfare completamente l’animo; fin tanto che questo stato dura, colui che vi si trova può chiamarsi felice, non di una felicità imperfetta, povera e relativa, come quella che si trova nei vari piaceri della vita, ma di una felicità bastevole, perfetta e piena, che non lascia nell’animo alcun vuoto che sia necessario colmare. Questo è lo stato in cui spesso mi sono trovato all’isola di Saint-Pierre durante le mie fantasticherie solitarie, ora sdraiato sulla barca che lasciavo andare alla deriva, in balía delle onde, ora seduto sulle rive del lago agitato, ora altrove, sulla sponda di un bel fiume o di un ruscello mormorante tra i ciottoli.
Di cosa si gioisce in una simile situazione? Di nulla di esteriore a sé, di niente se non di sé stessi e della propria esistenza; fin tanto che dura questo stato si è sufficienti a sé stessi come lo è Dio. Il sentimento dell’esistenza spogliato di ogni altro affetto è di per sé un sentimento prezioso di contentezza e di pace che sarebbe sufficiente da solo a rendere questa esistenza cara e dolce a chi fosse in grado di allontanare da sé tutte le impressioni sensuali e terrestri che vengono continuamente a distrarci e a turbarne, quaggiù, la dolcezza. Ma la maggior parte degli uomini, agitati da continue passioni, poco conosce questo stato d’animo, ed avendolo sperimentato soltanto imperfettamente, per pochi istanti, ne conserva appena un’idea oscura e confusa che non permette di percepirne il fascino.”
Il secondo è di Friedrich Nietzsche, tratto da “Sull’utilità e il danno della storia”:
“Osserva il gregge che pascola dinnanzi a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi; salta intorno, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere e con la sua pena al piuolo, per così dire, dell’attimo, e perciò né triste né annoiato. Vedere tutto ciò è molto triste per l’uomo poiché egli si vanta, di fronte all’animale, della sua umanità e tuttavia guarda con invidia la felicità di quello – giacché egli vuole soltanto vivere come l’animale né tediato né addolorato, ma lo vuole invano, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: Perché mi guardi soltanto, senza parlarmi della tua felicità? L’animale voleva rispondere e dire: La ragione di ciò è che dimentico subito quello che volevo dire – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò”.
L’ultimo è un passo di Giacomo Leopardi, dal “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:
“O greggia mia che posi, oh te beata,
che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d’affanno
quasi libera vai;
ch’ogni stento, ogni danno,
ogni estremo timor subito scordi;
ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe,
tu se’ queta e contenta;
e gran parte dell’anno
senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
e un fastidio m’ingombra
la mente, ed uno spron quasi mi punge
sí che, sedendo, piú che mai son lunge
da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
e non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
o greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
se tu parlar sapessi, io chiederei:
– Dimmi: perché giacendo
a bell’agio, ozioso,
s’appaga ogni animale;
me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale? –
Forse s’avess’io l’ale
da volar su le nubi,
e noverar le stelle ad una ad una,
o come il tuono errar di giogo in giogo,
piú felice sarei, dolce mia greggia,
piú felice sarei, candida luna.”
Li riprenderemo in classe quando tireremo le fila del tema della felicità.
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