Parlare di Dio

Il pastore valdese Paolo Ricca ha scritto un libro dal titolo “Dio. Apologia”. Pubblico l’intervista a cura di Luigi Sandri per la rivista Confronti.

“Nel suo ultimo libro Dio. Apologia il pastore e teologo Paolo Ricca affronta e discute le maggiori obiezioni che nella modernità sono state e continuano a essere mosse alla fede in Dio e alla sua stessa esistenza, per poi esporre i tratti più caratteristici dell’idea cristiana di Dio.

Paolo Ricca è stato consacrato pastore della Chiesa valdese nel 1962, esercitando il ministero pastorale in diverse chiese valdesi in Italia. Ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Facoltà teologica dell’Università di Basilea e, successivamente, la Facoltà di Teologia dell’Università di Heidelberg gli ha conferito la laurea honoris causa. Ha insegnato Storia del Cristianesimo presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma e ha insegnato come professore ospite presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma. Per l’editrice Claudiana dirige la Collana Opere scelte di Martin Lutero, di cui ha curato vari volumi. Tra le sue opere ricordiamo: Le dieci parole di Dio. Le tavole della libertà e dell’amore (Morcelliana, 1998), Dell’aldilà e dall’aldilà. Che cosa accade quando si muore? (Claudiana, 2018) e Ego te absolvo. Colpa e perdono nella Chiesa di ieri e oggi (Claudiana, 2019). Nel suo ultimo libro, Dio. Apologia (Claudiana, 2022) affronta e discute le maggiori obiezioni che nella modernità sono state e continuano a essere mosse alla fede in Dio e alla sua stessa esistenza per poi esporre i tratti più caratteristici dell’idea cristiana di Dio, così come emergono dalle pagine della Bibbia, non rinunciando al dialogo costante con la cultura contemporanea e con le religioni mondiali. Pur avendo scritto diversi e impegnativi libri di carattere teologico, mai nessuno dei tuoi libri è stato dedicato espressamente a parlare di Dio. Perché, adesso, hai dedicato a questo ponderoso tema il tuo volume?
L’ho pensato e scritto adesso perché mi sembra chiaro che la Chiesa, e per Chiesa intendo tutte le Chiese, non parla di Dio: parla dei poveri, dei rifugiati, degli ultimi. Insomma parla delle nostre opere, predica le nostre opere, ma non predica Gesù, non parla di Dio. Naturalmente le opere sono importanti e non ho nulla da obiettare al discorso sulle opere, e all’impegno per l’accoglienza e la cura; del resto, Gesù per tutta la sua vita non ha fatto altro che opere. Egli è un operaio di Dio, tutti i giorni, dalla mattina alla sera, compreso il sabato. Quindi le opere sono costitutive dell’essere cristiano; tuttavia il Cristianesimo non sono le nostre opere, ma l’annuncio di Dio. I leader cristiani presuppongono Dio, ovviamente, come premessa al loro bene operare. Ma Dio non è una premessa; se facciamo così Lo mettiamo già dietro le spalle, e noi non siamo davanti a Dio.
Da qualche decennio in alcuni settori delle Chiese – partendo dalla Chiesa episcopaliana (anglicana) statunitense e lambendo poi quella Cattolica – si è sviluppato un movimento di pensiero, che si definisce “Oltre le religioni” che, tra le altre cose, arriva a oscurare quanto da due millenni proclamano tutte le Chiese, e cioè Gesù Cristo “veramente Dio e veramente uomo”. Ma può esistere il Cristianesimo se si nega questa verità?
L’allergia a Dio si esprime anche così. È un’allergia mondiale e l’Europa, con tutto il primo mondo, è maestra in questo (altro sarebbe il discorso proveniente dal resto del pianeta). A me sembra che non si voglia ammettere che c’è il Dio di Gesù, cioè una realtà diversa dall’umano, dal materiale, dallo storico, dall’evidente, dal visibile: una Realtà verissima, non proiettata e costruita da noi. Dio, che sta in te e di fronte a te, è però altro da te. È un Tu ineffabile, misterioso, lontano e presentissimo. Se lo si elimina, allora lo si elimina anche nella figura di Gesù. Tuttavia vorrei fare una proposta: va bene, prendiamo per buono che Gesù sia solo uomo. Ma quale uomo?
Questa diventa la domanda. Che tipo di umanità? Un tipo di umanità che trascende l’umano e che essa non riesce a spiegare. Questo è il motivo per cui si è parlato di Gesù come presenza divina nell’umanità, nella storia. Se poi parliamo dell’uomo, allora dobbiamo riferirci a quell’uomo, così come ci è stato descritto nelle Scritture. Egli manifesta un tipo di umanità che non riesco a spiegarmi in base a tutte le categorie dell’umano conosciute. Nell’umanità ci sono aspetti bellissimi, e realtà di bene meravigliose. Ma essa, nell’insieme, è un pianto. Anche nel passato vi era questa ambiguità: in tale contesto operò Gesù che non era un uomo religioso, ma semplicemente un uomo. Un uomo credente, anche relativamente praticante, ma la sua caratteristica non era quella di rendere religiosa l’umanità, ma di rivelarne un tipo che l’umanità non conosceva.
Gesù è il punto di aggancio a queste tre realtà, che sono Padre, Figlio e Spirito Santo. Sono nomi, titoli e hanno un valore relativo, ma la loro funzione è di distinguere delle funzioni e dice appunto che nessuno dei tre esaurisce la pienezza di Dio. È soltanto insieme che questa pienezza viene raggiunta, per cui Dio è trinitario. Detto in breve: noi uomini e donne del mondo non abbiamo potuto e, da Adamo ed Eva (e chi per loro!) e fino alla fine del mondo, quando sarà, non possiamo e non potremo mai dire con chiarezza come Dio è fatto. C’è un salto di fede ineliminabile.
Del resto, nella Bibbia c’è il nascondimento di Dio, la nuvola che lo copre, per cui non è mai esplicito, evidente o a disposizione. Ma se parliamo di “relazione” nella Trinità, ci avviciniamo al mistero. Se esistesse una sola creatura umana, essa non avrebbe la parola, non dovendo relazionarsi con un tu. La relazionalità è costitutiva dell’essere umano, ma anche del mondo animale e vegetale. Una stupefacente ricchezza. Se trasferiamo questa sensibilità alla riflessione su Dio, arriviamo, pur alla lontana, ad intuire che Gesù è un appiglio per cercare di pensare a Dio come a una relazione di amore. Egli è, in qualche modo, conoscibile; non è una sfinge.
Possiamo dire, con verità, che Dio è amore, non odio; pace, non guerra; riconciliazione, non violenza. Perché possiamo dirlo? Perché Dio ha parlato attraverso i profeti e la Torah [la legge ebraica], tutto quel grande e straordinario filone che è arrivato molto avanti nella conoscenza del mistero, perché c’è un mistero che, parzialmente, si può conoscere. Io credo che in Gesù, nella Parola fatta carne, fatta uomo, la realtà di Dio è apparsa in una luce che non è stata raggiunta da altri. Questo non vuol dire che non possiamo imparare anche su Dio molte cose, da tante altre voci, piste, emergenti nel mondo. Realtà che non è possibile, né giusto, liquidare come “paganesimo”. Invece è, anch’essa, ricerca di Dio. Ma la mia convinzione profonda è che la rivelazione di Dio in Gesù sia quella più illuminante.
Tuttavia, attenzione: dobbiamo evitare di identificare Dio con la nostra comprensione di Dio; dobbiamo cercarLo, ognuno per la sua strada. Ci possono essere varie piste; per me Gesù non è soltanto una pista, ma la pista. Ma questo è Lui, non sono io, non è il cristiano. Se si fa questa distinzione e non si sovrappone l’essere cristiano all’essere di Gesù allora siamo tutti alla ricerca di Dio e ciascuno nella sua convinzione provvisoria ma anche profonda. L’assoluto è la rivelazione di Dio per noi in Gesù. È Lui la via, la verità, non me stesso o la mia comprensione di Dio e di Gesù; non il mio Cristianesimo.
Formalmente, si diventa cristiani con il battesimo. Questo sacramento serve a lavarci dallo stigma del “peccato originale”?
Il battesimo è il patto di Dio in vista dell’umanità nuova, quella di Gesù, che noi dobbiamo cercare di imitare. Io credo che Egli ci salva con la morte e con la vita. Infine, con la sua risurrezione ci riscatta, perché Dio non permette la nostra dissoluzione totale, ma ci tira fuori dalla tomba e ci dona un’eternità. Ma torniamo al “peccato originale”. Di esso la Bibbia non parla, ed è ignoto alla tradizione ebraica. Nella Chiesa dei primi secoli a poco a poco si è creata questa tradizione, infine a cavallo tra il quarto e quinto secolo sistematizzata da Agostino, vescovo di Ippona (nell’attuale Algeria); essa è stata poi dogmatizzata e il Concilio di Trento, nel 1546, comminava la scomunica a chi negasse che i nostri progenitori peccarono, o negasse che la loro colpa si trasmettesse, per generazione, come una tara indelebile, a ogni creatura umana nascente. Solo il battesimo – si affermava – avrebbe potuto lavarci da tale colpa.
Ma davvero è andata così? Adamo ed Eva si resero subito conto della nostra finitudine: siamo limitati, possiamo ammalarci, e dobbiamo morire. Se poi essi disobbedirono a Dio, è un fatto che non per quello li punì; vissero, infatti, molti anni (lo afferma il libro della Genesi). Ai loro figli e discendenti essi trasmisero dunque la finitudine, ma nessunissimo peccato.
I “padri” della Chiesa confusero indebitamente le due realtà. Trovo dunque bellissimo Il perdono originale, un libro in cui Lytta Bassett, teologa contemporanea della Chiesa riformata di Ginevra, afferma appunto che “in principio” non ci fu nessun peccato originale ma, al contrario, il Signore trattò con misericordia Adamo ed Eva, che dunque non trasmisero ai discendenti alcuna colpa. Ogni persona vivente non parte svantaggiata, con un “handicap spirituale”, ma ricolma della grazia di Dio: poi ognuna sarà giudicata se, liberamente, nella vita avrà scelto il bene o il male.
Nel battesimo, dunque, il Signore stringe un patto con noi, invitandoci ad imitare Gesù. Certo, se guardiamo l’esperienza, constatiamo che facilmente ci appassiona più il male che il bene. Abbiamo una predilezione, un fascino verso il male. Quindi la dottrina del “peccato originale” è stata un tentativo di spiegare questo desolante atteggiamento. Ma noi oggi dobbiamo respingere l’idea del battesimo come lavacro da una colpa trasmessaci da migliaia di generazioni infettate da Adamo ed Eva; per proclamare, invece, che fin “dal principio” Dio ci ricopre con il manto del suo “perdono originale”.
Ritieni opportuno che nel 2025 tutte le Chiese celebrino i millesettecento anni dal Concilio di Nicea? Esso proclamò che Gesù Cristo, figlio di Dio, è uguale (non simile!) al Padre, e dunque “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non fatto. Per la nostra salvezza si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto ed è risorto il terzo giorno”. È tuttora valida la sua proclamazione di fede, oppure è un mito da abbandonare?
Le celebrazioni sono importanti perché ci ricordano che siamo creature storiche e che la storia umana non comincia con noi. Questa mi pare sana, come posizione. Perciò sono per le celebrazioni delle ricorrenze importanti, in generale: e ancor più per le celebrazioni critiche. Infatti, oggi noi abbiamo la distanza sufficiente per vedere i limiti di tutto quello che ci precede, così come i nostri successori vedranno i nostri limiti. Quindi ben venga la commemorazione di Nicea. Rilevo che le singole affermazioni di quel Concilio risentono molto dei dibattiti teologici e politici, di quel tempo, assai accesi e violenti. Però trovo bella la dottrina della Trinità, cioè l’affermazione che l’essere profondo di Dio è un essere relazionale, e non una monade. Dio è unico, ma non solitario.
Dio non vuole essere solo, perché è in Sé questa pluralità di soggetti: una realtà che, ovviamente, sfida la nostra razionalità. Capisco che è una sfida all’intelligenza affermare che Dio non è uniforme, ma pluriforme (un teologo africano mi ha detto che proprio il rifiuto del dogma misterioso del Dio uno e trino, per proclamare invece l’assoluta unità e unicità di Dio, è il motivo per cui molti africani scelgono l’Islam piuttosto che il Cristianesimo).
L’affermazione, anche nelle Chiese, del femminismo, può condurre ad una revisione globale di dottrine su Dio elaborate in sostanza da uomini, e dunque segnate dal maschilismo?
È vero: la riflessione teologica, compiuta nei secoli soprattutto (ma non unicamente!) da uomini, ha un’impronta maschilista. Ma Dio non è sessuato; e non si esce dalla dialettica maschile- femminile anche perché oggi c’è il discorso della fluidità sessuale: siamo tutti un po’ uomini e un po’ donne. Si potrebbe dire che Dio sia tutto al maschile o al femminile, o Crista invece di Cristo, oppure Dea invece di Dio; ma non si esce dalla polarità sessuale. È chiaro che il maschile non è tutta l’umanità, come non lo è il femminile: ognuno è solo una parte. Siamo in una prigione confortevole, ma nella prigione dei sessi. Dunque, è un arricchimento l’arrivo delle teologhe?
Certamente, perché esse ci aiutano a vedere la maternità nella paternità di Dio. Dio è padre ma un padre super materno. Il femminismo, a me che difendo il Padre nostro, offre un grandissimo aiuto a cogliere questa dimensione. Comprendo meglio che Dio manda in frantumi lo schema del maschile con la sua maternità straordinaria. In Gesù il Creatore non è tanto colui che genera, ma colui che cura il passerotto, il giglio del campo, l’uomo malato, l’indemoniato, l’alienato. L’ideale sarebbe se si potesse parlare di Dio in maniera da render conto di questa ampia complessità.
Dobbiamo soltanto sapere che la pienezza del discorso su Dio dovrebbe poter riflettere la pienezza del discorso sull’umano, quindi includere il maschile e il femminile. Sempre tenendo conto del fatto che, anche se si dice che Cristo è donna, lo si ingabbia ugualmente. Così come lo ingabbio se dico che è maschio. Finché siamo in questo mondo e finché ci troviamo ad essere maschio o femmina, con tutte le varianti, non possiamo fare altro che riflettere questa nostra parzialità. Ma se siamo consapevoli di essere, come maschi, parziali, siamo aperti a tutte le integrazioni che possono venire dalle donne. È un formidabile arricchimento perché “in principio maschio e femmina li creò”.

Sulla misericordia

scagli

A breve si inaugurerà il Giubileo della Misericordia. L’altro giorno in una prima mi è stato chiesto che cosa sia. Ho risposto brevemente in classe e rimando a questo link per un’informazione ulteriore. Qui invece mi concentro sul tema della misericordia attraverso questa bell’intervista di Giovanni Ferrò a Enzo Bianchi, tratta dal sito di Credere.

Barba bianca e occhi chiari penetranti, fratel Enzo Bianchi è come ti immagini dovessero essere gli antichi padri della Chiesa. Il suo volto è ormai noto anche al grande pubblico: il fondatore della Comunità di Bose è uno scrittore di successo e ospite richiesto (spesso invano) dalle più importanti trasmissioni televisive. Prima di ogni cosa, però, Enzo è un monaco che, da cinquant’anni, vive la sua scelta radicale di vita cristiana insieme ai fratelli e sorelle di Bose sulla Serra morenica di Ivrea, in Piemonte. A lui Credere ha chiesto di spiegare il senso spirituale dell’anno giubilare ormai alle porte.
Misericordia è un termine che sembrava dimenticato e che ora è tornato familiare. enzo-bianchiQual è il suo significato profondo?
«Letteralmente vuol dire “un cuore per i miseri”. Dunque è il sentimento di vicinanza a chi è in difficoltà, il lasciarsi toccare visceralmente da quelli che sono nella sofferenza. Per questo nella Bibbia la parola misericordia è soprattutto un sentimento materno, quello che la donna prova portando il figlio dentro il suo seno. Non a caso, mentre in latino la parola fa riferimento al cuore, in ebraico fa riferimento alle viscere. Non dimentichiamo, poi, che l’unico nome che Dio ci ha consegnato, fin dai tempi di Mosè, è “il misericordioso, il compassionevole”. Detto questo, però, la misericordia è un sentimento profondamente umano, prima ancora che religioso. Davanti alla sofferenza, ogni uomo e ogni donna sono presi alle viscere, provano una commozione che dice loro: questo non è giusto. E sentono il bisogno di fare qualcosa. Misericordia, dunque, è compassione, tenerezza, amore».
Quali sono, per i cristiani, le conseguenze di questo Dio di misericordia?
«Nel nostro Dio, la misericordia prevale quasi sulla giustizia. Ne è la sostanza. E quando Dio si mette in rapporto con l’uomo, il suo amore diventa misericordia in azione. Noi cristiani siamo coscienti di essere destinatari e beneficiari della misericordia divina. E di conseguenza siamo spinti ancora di più a dare concretezza a questo impulso molto umano che ci abita. Tanto è vero che Gesù ha potuto trasformare il comandamento dell’Antico Testamento “siate santi, perché Io sono santo”, in “siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro che è nei cieli”. Per questo la misericordia è il cuore della nostra fede».
Nel Vangelo, la misericordia di Gesù è anche motivo di scandalo…
«Sì, la misericordia scandalizza. È per questo che Gesù è stato messo in croce, non perché violava la Legge dell’Antico Testamento né la legge romana. Gesù era un ebreo molto osservante della Legge, però i suoi atteggiamenti di misericordia scandalizzavano: si sedeva a tavola con le prostitute e i peccatori, si fermava a dormire a casa loro. Nelle parabole, quando racconta l’amore di Dio, la reazione di molti – soprattutto degli uomini religiosi e di coloro che erano deputati a interpretare le Scritture – era: “Ma così è troppo”. Gesù nei peccatori come l’adultera o la prostituta non vede innanzitutto il peccato, ma la sofferenza e la capacità di amore. Non è la conversione dell’uomo che produce la misericordia di Dio, ma il contrario: la misericordia di Dio provoca la conversione dell’uomo. Questa verità di Gesù, rilanciata dal Papa, è motivo di scandalo e di turbamento ancora oggi. Pure nella Chiesa».
Il semplice cristiano Enzo Bianchi quando ha fatto esperienza di misericordia nella sua vita? C’è un momento che ricorda perché l’ha particolarmente segnata?
«Sì, nel 1985. Ho vissuto un periodo di notte spirituale. A un certo punto, però, ho capito che avrei potuto cantare la misericordia anche all’inferno. Da quel momento la mia vita cristiana ha subito un cambiamento. Prima ero zelante, rigorista e severo con me stesso e con gli altri. Dopo quella notte, ho scoperto il volto misericordioso di Dio, che certo conoscevo teoricamente ma che non avevo mai capito così in profondità».
Nell’Anno della misericordia anche la Chiesa è chiamata a convertirsi e riformarsi? E in cosa?
«Penso che il Papa voglia una Chiesa capace di essere ministra di misericordia. Noi cristiani abbiamo ancora troppo la mentalità di Delitto e castigo: c’è il peccato, il delitto; di conseguenza c’è il castigo, la pena. Solo dopo, se c’è una conversione, arriva il perdono. Questa mentalità, però, non è quella del Vangelo: il perdono di Dio viene offerto subito, viene prima e non dopo la conversione. Perché l’uomo da solo non è capace di conversione. Solo l’amore di Dio la rende possibile. E l’amore di Dio non è meritocratico. Noi dobbiamo solo accoglierlo e accettarlo. Questa è la quintessenza del messaggio cristiano. E per la Chiesa vale la stessa cosa: da qui nasce un bisogno di riforma, di cambiamento: certamente prima di tutto dei cuori, ma poi anche delle strutture e delle istituzioni, se non sono più al servizio degli uomini e del Vangelo».
Tante persone si rivolgono a lei e a Bose per consigli spirituali. Oggi da che cosa è ferita la gente e per cosa cerca misericordia?
«Tante persone vengono anche solo per essere ascoltate. In un mondo in cui nessuno ascolta, noi monaci siamo lì per questo: il servizio dell’ascolto. La vita è diventata un duro mestiere e molti fanno fatica a trovare senso. La gente è smarrita e ci chiede una parola. Ci sono coppie in difficoltà nella lunga vicenda del loro amore; giovani che scoprono degli enigmi, delle zone d’ombra nella loro vita. Poi ci sono i malati, che chiedono il perché della loro sofferenza. Questo sovente è il cammino più difficile. E noi monaci dobbiamo restare muti, non abbiamo una risposta: una mano nella mano, una carezza, un abbraccio è tutto ciò che possiamo fare».
Ha un consiglio per vivere questo Giubileo della misericordia come occasione spirituale?
«Uno solo: prima di accedere a confessione, liturgia, tutto quello che giustamente il Giubileo pone come percorso, ciascuno faccia davvero un esame di coscienza e abbia il coraggio di riconoscere le proprie colpe, andando a chiedere perdono a chi ha offeso con parole o azioni. Gesù ce l’ha detto: Dio ci rimette i peccati, ma se noi concretamente facciamo misericordia. Non bastano confessioni e pratiche liturgiche se prima non c’è la volontà di riconoscersi peccatori. Un padre della Chiesa diceva: chi si riconosce peccatore è più grande di uno che risuscita i morti. Se non c’è questa concretezza di conversione nella vita quotidiana, anche il Giubileo rischia di risolversi in semplici riti formali».

Le 12 tesi di Spong. 12

Pubblico la dodicesima e ultima tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

Tutti gli esseri umani sono fatti a immagine di Dio e devono essere rispettati per quello che sono. (…). Ciò appare ovvio in teoria, ma nella storia cristiana è stato difficile per i credenti viverlo realmente. (…). Come è possibile che l’antisemitismo sia stato il prodotto della religione fondata sull’ebreo Gesù? Che i leader della Chiesa abbiano giustificato guerre chiamate “crociate” per uccidere quegli infedeli dei musulmani che vivevano nella terra che i cristiani definivano santa? Che i cristiani abbiano cercato di mantenere pura e intatta la loro fede bruciando nei roghi chi discordava dall’ortodossia del loro credo? Su che base etica hanno praticato la schiavitù alcuni papi nella storia contro i neri? (…). Quando la schiavitù è stata sostituita dalla segregazione, com’è possibile che coloro che rivendicavano l’identità cristiana si siano opposti al suo superamento resistendo a base di idranti, di cani e di bombe nelle chiese in cui a morire erano bambine? samaritanoCom’è possibile che i leader cristiani abbiano potuto definire la metà femminile dell’umanità come sub-umana, non permettendo alle donne di avere proprietà a loro intestate fino al XIX secolo, né di andare all’università fino al XX, di votare, di esercitare determinate professioni, di essere ordinate, di partecipare alla politica e candidarsi alla presidenza degli Stati Uniti fino alla fine dello stesso XX secolo o all’inizio del XXI? Com’è possibile che la Chiesa abbia continuato a credere che l’omosessualità sia uno stile di vita motivato da una malattia mentale o dalla depravazione morale (…)? (…). Il mandato di Gesù di amare il prossimo come se stessi sembra non sia stato ascoltato dalla Chiesa. La parabola del buon samaritano, che suggerisce si debba amare l’oggetto delle proprie paure e dei propri più profondi pregiudizi, è stata ignorata. (…). Vi sono senza dubbio molte cose nella storia della Chiesa di cui bisogna pentirsi. L’unico cammino che abbiamo davanti è compiere questo atto di penitenza apertamente, con onestà, e chiedere perdono alle nostre vittime. (…). Nel servizio battesimale della mia Chiesa si pone ai candidati al battesimo, ai loro genitori e ai loro padrini la seguente domanda: «Cercherai Cristo in ogni persona, amando il tuo prossimo come te stesso?». Ed essi rispondono: «Lo farò, con l’aiuto di Dio». Questa deve essere la risposta di tutta la Chiesa cristiana se spera di sopravvivere nel futuro.”

Le 12 tesi di Spong. 6

Pubblico la sesta tesi di John Shelby Spong. Qui la cornice di inquadramento del suo lavoro e qui la fonte.

L’interpretazione della croce come sacrificio per i peccati è pura barbarie: è basata su concezioni primitive di Captive_MaidDio e deve essere respinta. Nel libro dell’Esodo si racconta che l’inquietudine del popolo giunse a limiti pericolosi allorché Mosè rimase a lungo assente per ricevere da Dio la Torah e i Dieci Comandamenti. Per calmare la propria ansia, il popolo andò dal sommo sacerdote Aronne, fratello di Mosè, e gli chiese di costruire un idolo, un vitello d’oro, per avere una divinità che tutti potessero vedere. (…). Mosè tornò dal popolo proprio allora, portando, secondo quanto narra la storia biblica, le tavole di pietra in cui erano scritti i Dieci Comandamenti. Dinanzi all’atto di idolatria, ruppe le tavole contro il suolo e si infuriò con il popolo, il quale, secondo il racconto, soffrì l’ira di Dio finché finalmente Mosè decise che sarebbe tornato dal Signore e avrebbe cercato di realizzare un’“espiazione” per il popolo (Es 32,30). In questo antico riferimento notiamo che l’espiazione aveva a che vedere con il perdono. Con un Dio che offre una seconda chance.
Quando lo Yom Kippur – il Giorno dell’Espiazione – venne introdotto nel culto ebraico, era questo, secondo il Levitico, il suo scopo: celebrare il perdono di Dio, non il suo castigo (Lv 23,23ss). (…). Lo Yom Kippur includeva il sacrificio di animali che rappresentavano i sogni umani di perfezione. (…). Quando i gentili conobbero questa pratica, pensarono che gli animali fossero sacrifici richiesti e che dovessero presentarli come offerta a Dio per essere perdonati. Questi animali sarebbero stati il prezzo che Dio reclamava per offrire il suo perdono. (…).
Lo Yom Kippur si riferisce al popolo che torna a unirsi a Dio. Non ha nulla a che vedere con il castigo. Al momento dell’elaborazione dei vangeli, le immagini dello Yom Kippur vennero più volte trasferite nel racconto di Gesù. Fu Paolo a dare il via a questo processo nella prima Lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15,3). Era un chiaro riferimento all’azione liturgica dello Yom Kippur. Più tardi, Marco usò la parola «riscatto» per riferirsi alla morte di Gesù (Mc 10,45). (…). Quando venne scritto il quarto Vangelo, verso la fine del I secolo, il suo autore mise in bocca a Giovanni Battista, la prima volta che vede Gesù, questa interpretazione, con le parole: «Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Tali parole derivano direttamente dalla liturgia dello Yom Kippur. (…).
Le generazioni successive di cristiani gentili, che non erano consapevoli della tradizione ebraica dello Yom Kippur, sottoposero questi simboli a una rozza interpretazione letterale e svilupparono le idee ora associate alla cosiddetta “espiazione di sostituzione”.
Il concetto inizia a svilupparsi a partire dall’idea della depravazione degli esseri umani, caduti nel “peccato originale” a causa della disobbedienza umana alle leggi di Dio. (…). Si pensava che fossero talmente corrotti dal peccato originale che solo Dio potesse riscattarli, per mezzo di un suo intervento. Dal momento che il castigo per il loro peccato era più di quanto qualsiasi essere umano avrebbe potuto sostenere, si sviluppò l’idea che Dio avrebbe messo il suo figlio divino al posto dei peccatori. Cosicché (…) Gesù si trasformò nella vittima dell’ira divina. (…). I cristiani iniziarono a dire: “Gesù ha sofferto per me”. E la frase “Gesù è morto per i miei peccati” diventò il mantra della vita cristiana (…). Siamo così diventati i responsabili della morte di Gesù. Gli assassini di Cristo, pieni di colpa. (…). Con il tempo, questa teologia ha fatto sì che la nostra principale risposta nel culto diventasse quella di presentare suppliche a Dio perché abbia misericordia. (…).
Che razza di Dio è questo di fronte a cui ci vediamo ridotti a mendicanti servili che supplicano misericordia? (…). L’espiazione di sostituzione è sbagliata sotto tutti i punti di vista. Il nostro problema non è quello di essere peccatori caduti da una perfezione originale in qualcosa chiamato “peccato originale”. Il nostro problema è che siamo essere umani incompleti che anelano a essere di più, a raggiungere la pienezza. Non abbiamo bisogno di essere risollevati da una caduta che non abbiamo mai sofferto. Abbiamo bisogno di essere accettati e amati semplicemente per quello che siamo, per arrivare a essere tutto quello che possiamo essere. (…).”

Tra redenzione e libertà

bob

Ci sono canzoni che mettono i brividi. Certo, è soggettivo. Mi sono imbattuto in uno di quei video che girano in rete per un po’ e poi finiscono nel dimenticatoio: più di un anno fa, nell’edizione olandese di The Voice, un concorrente ha proposto “Redemption song” di Bob Marley.

https://www.youtube.com/watch?v=DQ1Oz6K4rOI

E’ una canzone del 1979, molto acustica e folk e poco reggae, passata alla storia come il testamento spirituale di Bob Marley (mentre scrive le canzoni dell’album “Uprising”, il cantante sa già di essere malato di cancro).

https://www.youtube.com/watch?v=OFGgbT_VasI

Si parte con il racconto di una vicenda che ricorda quella di Giuseppe, venduto a dei mercanti dai fratelli gelosi che lo avevano buttato in un pozzo e che poi, negli anni, trova la strada del proprio riscatto grazie a Dio: “Vecchi pirati, sì, mi hanno fregato, venduto alle navi di mercanti, qualche minuto dopo avermi tolto dall’inferno senza fondo. Ma la mia mano venne fortificata dalla mano dell’onnipotente”.
Nel ritornello vengono uniti due concetti: quello di redenzione e quello di libertà. “Tutto quel che ho avuto sono canti di libertà. Vuoi aiutare a cantare questi canti di libertà? Perché tutto quel che ho mai avuto sono canti di redenzione, canti di redenzione”. Il legame tra la liberazione dal peccato e libertà è un tema centrale del racconto biblico e dell’esperienza di fede. Per il popolo ebraico la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto (argomento caro al popolo giamaicano e a tutti i popoli che hanno vissuto l’esperienza dello schiavismo) è alla radice del rinnovato rapporto con Dio, della “Alleanza”.
Bob Marley sposta la sua attenzione sul presente e su nuove schiavitù, prima di tutto quelle mentali, e invita a non restare con le mani in mano, ma a liberarsi dalle paure legate alla terra (l’energia atomica) che sono ben poca cosa in confronto all’eternità (il tempo che non può essere fermato) e a darsi da fare per “adempiere al Libro”: “Emancipatevi dalla schiavitù mentale. Nessun altro all’infuori di noi stessi può liberare le nostre menti. Non temete l’energia atomica poiché nessuno di loro può fermare il tempo. Per quanto ancora uccideranno i nostri profeti mentre noi ce ne stiamo da parte a guardare? Alcuni dicono che è solo una parte del tutto. Siamo noi che dobbiamo adempiere al Libro.”
Qui sotto alcune cover…

Joe Strummer:

https://www.youtube.com/watch?v=jvnHFl2WuEE

Chris Cornell:

La Casa del Vento:

Il paradosso dell’intelligenza

narcisoPeriodo di narcisi… Nel libro “Il principio passione”, Vito Mancuso, riportando il pensiero sul peccato di Origene, si sofferma su quello che per l’alessandrino è il più pericoloso dei peccati, la superbia. E scrive: “Eccoci quindi al paradosso: la libertà della mente nasce dalla capacità di capire la realtà, e quanto più si capisce la realtà tanto più cresce la libertà verso di essa nella capacità di indipendenza e di autodeterminazione; ma da questa libertà frutto dell’intelligenza nasce facilmente la schiavitù dell’intelligenza verso se stessa e la propria immagine, così che la libertà si ritrova prigioniera di se stessa in un circolo autoreferenziale tradizionalmente detto narcisismo”. Viene in mente Siddharta Gautama che, al culmine del percorso induista, alle soglie della morte, dopo anni di sforzi e fatiche, avverte una sottile forma di orgoglio e compiacimento per se stesso e capisce che quella non è la via…

Fuggirò con occhio storto, e griderò

16 LE TINTORET CAIEN ET ABEL.jpgGli studenti di quinta lo sanno: uno dei temi che più mi affascinano è l’uomo davanti al male. Un libro di Paul Ricoeur si intitola “Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia”, sintesi perfetta. Nella Bibbia, uno dei primi testi è l’uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Ne scrive Alessandro Zaccuri su Avvenire, e qui riporto una parte:

“Quanta necessità e, al contrario, quanta intenzione sia presente nel delitto dei delitti è la domanda che si ripete nelle interpretazioni moderne della vicenda. Un’ambiguità che si riverbera, ancora una volta, sulla distinzione, all’improvviso controversa, tra vittima e carnefice. È questo il nucleo attorno al quale si sviluppa il Caino del tedesco Friedrich Koffka, che dopo molti anni torna disponibile per il lettore italiano grazie alla bella edizione curata da Eloisa Perone per Claudiana (pagine 84, euro 9). Nato a Berlino nel 1887 e morto nel 1951 a Londra, dove aveva trovato rifugio alla vigilia della Seconda guerra mondiale, Koffka legò la parte più significativa della sua attività alla stagione sperimentale del teatro espressionista.

Caino fu, anche da questo punto di vista il suo capolavoro. Il testo fu scritto nel 1913, venne pubblicato nel 1917 e andò in scena l’anno seguente a Berlino, attirandosi critiche niente affatto benevole. Lo stile scabro di Koffka fu scambiato per artificioso, la finezza del richiamo scritturistico quasi completamente ignorata a discapito dell’ambientazione in apparenza contemporanea, ma situata in realtà in uno spazio fuori dal tempo. Il dramma, infatti, non si svolge nel giardino dell’Eden, ma nell’interno di una casa di campagna. Adamo ed Eva sono contadini laboriosi e uno dei loro figli, Abele, li aiuta prendendosi cura del bestiame. Caino sembrerebbe lo scansafatiche di famiglia, ma la sua scontentezza non è pigrizia. A tormentarlo è semmai una spasmodica ricerca di purezza, che lo induce a strappare la maschera della perfezione dal volto di Abele. Le intemperanze che vengono imputate al ragazzo troverebbero facilmente perdono nella preghiera, ma Caino sa di essere uno di «quelli cui Dio non permette di pregare». Non potendo essere il «guardiano» del fratello, ne diventa il boia, esegue la sentenza con un colpo di scure e poi si congeda da Eva annunciandole il proprio destino di reietto: «Madre, non verrà per me la morte. Madre, sarò ramingo sulla terra, un malvagio. Madre, fuggirò con occhio storto, e griderò…».

… Che tra i fratelli corra un rapporto più complesso della mera contrapposizione è, del resto, la convinzione di Jorge Luis Borges, che nella brevissima prosa di “Leggenda” (in Elogio dell’ombra, 1969) immagina che i due si incontrino da qualche parte, dopo la morte di Abele, senza più ricordare chi fra loro sia l’ucciso e chi l’uccisore. «Dimenticare è perdonare», ammette Caino, confortato dalla massima con cui Abele conclude l’apologo: «Finché dura il rimorso dura la colpa». Non è un caso che, mentre il teatro indugia sul prodursi della ferita, i romanzi ispirati all’episodio cruciale della Genesi suggeriscono spesso la prospettiva di un possibile risanamento…

Per questo in libri come Abel Sánchez di Miguel de Unamuno (del 1917, stesso anno del Caino di Koffka) e più ancora nella Valle dell’Eden di John Steinbeck (1952) il giudizio rimane sospeso, come se nel narratore subentrasse la consapevolezza che condannare Caino significa, in fondo, condannare noi stessi. Un dubbio che può condurre a una sorta di paralisi morale, ben rappresentata dal Max Gallo di Caino e Abele (2011), ma che in altri casi lascia intravedere lo spiraglio di una pur dolorosa soluzione mistica, come accade nel sorprendente Caino di Paola Capriolo (2012), dove il sangue dell’innocente è misteriosamente assimilato al sangue che Gesù versa sulla Croce.”

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