Gemme n° 8

La prima gemma di oggi è quella proposta da S. (classe quarta). E’ una sequenza tratta da “La tigre e la neve”. E’ una scena che la emoziona, che le fa pensare alla bellezza, alla poesia. “E’ come dice Benigni: Per trasmettere la felicità, bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici”.

Allego semplicemente la trascrizione del monologo; penso possa essere utile soffermarcisi sopra con un po’ di calma:

Su, su, svelti, veloci, piano, con calma, non vi affrettate.
Non scrivete subito poesie d’amore che sono le più difficili, aspettate almeno un’ottantina di anni. Scrivete su un altro argomento, che ne so… sul mare, vento, un termosifone, un tram in ritardo. Non esiste una cosa più poetica di un’altra. La poesia non è fuori, è dentro.
Cos’è la poesia? Non chiedermelo più, guardati allo specchio, la poesia sei tu.
Vestitele bene le poesie. Cercate bene le parole, dovete sceglierle. A volte ci vogliono otto mesi per trovare una parola. Scegliete, perché la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere, da Adamo ed Eva. Lo sapete quanto c’ha messo Eva prima di scegliere la foglia di fico giusta? Ha sfogliato tutti i fichi del paradiso terrestre.
Innamoratevi. Se non vi innamorate è tutto morto. Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto. Dilapidate la gioia, sperperate l’allegria. Siate tristi e taciturni con l’esuberanza. Fate soffiare in faccia alla gente la felicità.
Per trasmettere la felicità, bisogna essere felici e per trasmettere il dolore bisogna essere felici.
Siate felici. Dovete patire, stare male, soffrire. Non abbiate paura a soffrire. Tutto il mondo soffre.
E se non vi riesce, non avete i mezzi, non vi preoccupate, tanto per fare poesia una sola cosa è necessaria: tutto.
E non cercate la novità. La novità è la cosa più vecchia che ci sia.
E se il verso non vi viene da questa posizione, da questa, da così, buttatevi in terra, mettetevi così.
E’ da distesi che si vede il cielo. Guarda che bellezza, perché non mi ci sono messo prima?!
Cosa guardate? I poeti non guardano, vedono.
Fatevi obbedire dalle parole.
Se la parola è “muro” e “muro” non vi dà retta, non usatela più per otto anni, così impara!
Questa è la bellezza come quei versi là che voglio che rimangano scritti lì per sempre..
Forza, cancellate tutto!”

Radici del legno

volto del croc

Penso che Alda Merini abbia una profondità che non sia stata ancora percepita e valorizzata. Penso anche che le sue parole siano in grado di trasmettere delle emozioni al di là del fatto che una persona sia credente o meno in qualcosa o qualcuno. Ad esempio, queste parole sono prese dal suo “Poema della croce” e mi fanno venire i brividi ogni volta che le leggo:

Quel volto così sudato,
così battuto,
così vilipeso.
Quel volto che ha detto al mondo
tutto quello che aveva da dire
e per cui
anche se non ci fosse stata la croce
non poteva dire più nulla.
Quel volto senza cammino
che mangiava le pietre dei persecutori,
quelle pietre più fresche del suo sangue,
che lui invocava
per poter dormire in pace
i giorni della sua natività.
Era nato sopra la pietra
e sulla pietra voleva morire.
Invece doveva morire su un palco,
su un teatro di derisione,
su un legno che dimostrava che lui,
figlio di un falegname,
non poteva essere Dio.
Ma quel legno era l’albero delle profondità del male,
quel legno ha messo radici in tutto il mondo
e nessuno ha capito e sentito
il peso e il calore di quelle radici,
che sono entrate
nella mani delle donne.

Orizzonte

Corsica_727 copia fb

ORIZZONTE

Mare anteriore a noi, le tue paure
avevano corallo e spiagge e alberete.
Sbendate la notte e la caligine,
le tormente passate e il mistero,
si apriva in fiore la Lontananza, e il Sud siderale
splendeva sulle navi dell’iniziazione.

Linea severa della riva remota:
quando la nave si approssima, s’alza la costa
in alberi ove la lontananza nulla aveva;
più vicino, s’apre la terra in suoni e colori:
e, allo sbarco, ci sono uccelli, fiori,
ove era solo, di lontano, l’astratta linea.

Il sogno è vedere le forme invisibili
della distanza imprecisa, e, con sensibili
movimenti della speranza e della volontà,
cercare sulla linea fredda dell’orizzonte
l’albero, la spiaggia, il fiore, l’uccello, la fonte:
i baci meritati della Verità.

(Fernando Pessoa)

Felicità, Poesia, Amore

In quarta guardiamo assieme questa sequenza

Guardarla ora sarà diverso, per me. Inoltre, ero al liceo, in seconda, quando la nostra prof. di italiano ci ha accompagnati al cinema a vedere, nel pomeriggio, “L’attimo fuggente”. Inevitabile, la mattina dopo, farci trovare sui banchi con lei che diceva “Che scemi che siete!”. E mi torna anche alla mente il film che mi ha fatto scoprire Robin Williams: “Good morning, Vietnam”.
Good-Morning-VietnamStamattina Veronica, una mia ex studentessa, ha scritto così su fb: “Solitamente sono refrattaria a simili annunci, eppure non posso fare a meno di richiamare alla mente le mille e più volte in cui ho riso, pianto, sorriso, riflettuto e apprezzato maggiormente la vita grazie all’intensità e alla misura di Robin Williams, attore a tutto tondo che come pochi ha saputo suscitare in me riflessioni di cui non posso che essere eternamente grata. Che sia soltanto questione di sceneggiatura o opportunità, poco importa; sono intimamente convinta che trasmettere un messaggio sia possibile soltanto se si crede davvero nel suo contenuto: le parole non trapassano silentemente e facilmente lo schermo, a meno che non siano di notevole rilevanza concettuale…eppure il professor John Keating e il dottor Sean McGuire hanno travalicato ogni mia riserva mentale, raggiungendo il più profondo del cuore, lì dove covano sentimenti, passioni, emozioni, pulsioni latenti. Fra dialoghi di straordinaria potenza espressiva e interpretazioni autenticamente sentite, ho compreso sin da bambina insegnamenti che difficilmente ho sentito espressi ma che fortunatamente ho assimilato e racchiuso nell’Es del mio essere, per portare un po’ di ordine e pace laggiù, dove scalfire l’impalpabile è quasi sempre un’impresa…quasi. Il linguaggio del cinema, universale per definizione, non è rimasto inascoltato, e anzi è riuscito spesso e volentieri a entrare in zone inesplorate, suonando le mie corde più dolci e al contempo quelle dal suono più screziato, grazie a perle dell’arte visiva come “L’attimo fuggente” e “Good Will Hunting”… Ho appreso che la vita va guardata adottando angolazioni differenti, che un uomo senza libertà è soltanto una sincope, che l’autoconsapevolezza dei propri desideri e delle proprie emozioni è la chiave per il raggiungimento della Felicità, che la Poesia non è semplicemente questione di metrica e figure retoriche, che l’intelligenza scolastica e/o accademica nulla ha a che vedere con l’esperienza esistenziale e con la capacità sensoriale, che l’empatia (ciò che più si avvicina alla saggezza umana) non si impara sui libri, che il talento non può giacere a lungo sottaciuto da convenzioni e imperativi sociali (prima o poi si sprigionerà con tutta la sua forza con effetti più o meno desiderati e desiderabili), che l’Amore rende sublime e grande anche l’uomo più comune…
Un piccolo omaggio a una delle persone che più fra tutte mi ha saputa emozionare, permettendomi di veder lontano e, così facendo, tracciando una via nel firmamento…”

Grazie a Veronica e a tutte le anime che si lasciano interrogare e a chi, quegli interrogativi, pone.

Siamo tutti scheggiati e feriti

Ennesimo bel pezzo di Roberto Cotroneo

Continuo mutamento

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Lo scorso 26 gennaio se n’è andato il poeta messicano José Emilio Pacheco, che ha saputo regalare al mondo chicche come questa:
“Eppure amo questo continuo mutamento,
questo variare istante dopo istante:
senza di esso ciò che chiamiamo vita
sarebbe di pietra.”

Ogni inizio è solo un seguito

porte girevoliIn prima stiamo parlando di amicizia e amore, e sono emersi pareri differenti sul colpo di fulmine. Ecco una bella poesia di Wislawa Szymborska dal titolo “Amore a prima vista” dalla raccolta del 1993 “La fine e l’inizio”.

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E’ bella una tale certezza
ma l’incertezza è più bella.

Non conoscendosi, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?

Vorrei chiedere loro
se non ricordano –
una volta un faccia a faccia
in qualche porta girevole?
uno “scusi” nella ressa?
un “ha sbagliato numero” nella cornetta?
– ma conosco la risposta.
No, non ricordano.

Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio tempo
il caso giocava con loro.

Non ancora pronto del tutto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando una risata
con un salto si scansava.

Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o lo scorso martedì
una fogliolina volò via
da una spalla a un’altra?
Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, forse già la palla
tra i cespugli dell’infanzia?

Vi furono maniglie e campanelli
su cui anzitempo
un tocco si posava su un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Il segreto nell’oscurità

lama[La poesia] è la lama di luce che permette di scorgere per un breve istante il segreto che si cela nell’oscurità. È in questo che il poeta è simile al profeta, nel disperato tentativo di rivelare al mondo la verità. (Uno, doje, tre e quattro)

Cerchiamo sottigliezze

Zinaida Gippius si definiva la “Nonna del decadentismo russo”; nacque a Belev nel 1869. Lei e il marito D.S. Merezkovskij erano entrambi antibolscevichi, ed emigrarono a Parigi agli inizi degli anni ’20, dove diedero vita a un vivace salotto letterario. Scrisse opere di narrativa, di poesia e di saggistica. Morì a Parigi nel 1945. Questo è uno dei testi (traduzione di Angelo Maria Ripellino) che mi hanno maggiormente colpito, un elogio della semplicità, oltre le sottigliezze, oltre i nodi ingarbugliati, oltre i retropensieri… “l’anima sottile è semplice come questo filo”

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Attraverso un sentiero del bosco, in un comodo cantuccio,

un elastico e lindo filo di ragno,

asperso di allegria solare e di ombra,

è sospeso nei cieli; e con tremito impercettibile

il vento lo fa vibrare, tentando invano di strapparlo;

il filo è saldo, sottile, diafano e semplice.

È tagliata la viva cavità dei cieli

da una linea sfavillante, da una corda policroma.

Noi siamo avvezzi a stimare solo ciò che è confuso.

Con falsa passione nei nodi ingarbugliati

cerchiamo sottigliezze, ritenendo impossibile

congiungere nell’anima semplicità e grandezza.

Ma sono meschine, ruvide e smorte le cose complesse;

e l’anima sottile è semplice come questo filo.

Versi come pallottole

Giovanni Ruggiero su Avvenire recensisce un libro e racconta la storia del suo autore, il poeta albanese Visar Zhiti.

“Un verso era la pallottola con cui il poeta sceglieva di suicidarsi. Così nell’Albania tetra di visar.jpgEnver Hoxha e dei suoi gulag dove morirono per i loro versi i giovani poeti insieme a tanti altri artisti e intellettuali. Inventarono con l’Articolo 55, famigerato, il reato di «Agitazione e propaganda contro il potere popolare» che portava diritto al carcere o davanti al plotone di esecuzione: il sacerdote poeta Vinçenc Prenushi morì in prigione con tanti altri, il grande Lasgush Poradeci condannato al silenzio, Trifon Xhagjika fucilato e tanti, ancora tanti dolori. Ma poteva soltanto per questo un poeta non cantare? Visar Zhiti non rinunciò al canto. Consapevole anche che la metafora non lo metteva al riparo: «Terrificante la sfinge crine di crepuscolo / nel deserto troneggia tetra». I versi furono portati in tribunale e letti dall’accusa come allegoria del tiranno. Il giovane Zhiti finirà in carcere dove continuò ad aggrapparsi alla poesia, la prostituta che mi denunciò ai poliziotti. Il poeta che patirà in miniere e in campi di lavoro per dieci anni fino al 1987, quando ottenne la libertà, è considerato in patria e all’estero, la voce più alta di tutta la moderna poesia albanese. Appena nel regime si aprirono le prime crepe, Visar Zhiti fuggì via da questo passato di dolore come fecero tanti giovani albanesi con le traversate disperate dell’Adriatico verso l’Occidente. Approdato in Italia collaborò nel 1992 ad Avvenire facendosi testimone della sofferenza del suo Paese per la dittatura atea che era stata imposta. Ma preferì poi tornare nella sua terra, quasi per un obbligo: quello di far sentire da qui la sua voce di poeta.

Questa voce la raccoglie adesso Confessione senza altari (Diana Edizioni, pagine 268, euro 10,00) che presenta per la prima volta anche la poesia composta da Zhiti in carcere in modo del tutto originale: non avendo carta su cui appuntare il canto, i versi venivano imparati a memoria dagli altri carcerati perché potessero tramandarli, se il poeta non fosse sopravvissuto. Sono versi forti, amari e dolenti ma senza nessuna vena d’odio. Il poeta non chiede vendetta: «La vita non basta per l’amore…/ terribile allora trovare tempo per l’odio». Con i suoi versi, Visar Zhiti attraversa tutte le fasi storiche dell’Albania contemporanea che hanno determinato vari generi letterari. C’è la «poesia del cassetto» che non poteva vedere la luce, pena il carcere o l’impiccagione; c’è la «poesia dal carcere», quella composta nella sofferenza e nella pena della restrizione fisica e morale e, infine, la «poesia sul carcere» scritta quando finalmente si è potuto assaporare la libertà. La raccolta proposta dall’editore napoletano in albanese e in italiano (con coraggio in un mercato che non legge poesia) presenta queste tre poetiche che si confondono perché sono identiche nell’essenza: tenere e dolenti. E resta unico Visar Zhiti. È il poeta tradito dalla poesia che non si duole mai per se stesso, ma per l’uomo che ha sofferto e per il suo simile che gli ha inferto la sofferenza. Non c’è nella sua poesia lo scontro tra un regime tiranno e il poeta. È qualcosa più terribile: è l’uomo contro l’uomo. Uno scontro che non si è mai sopito, antico come il mondo: «Aiuto chiedemmo al mondo: soldati, / pane, carri armati, medicine, libri. / Giunsero per salvarci, / da noi stessi». E ancora: «L’uomo / ben poco trovo nell’uomo. / Perciò mi rivolgo agli alberi, / imparo dal silenzio pieno di frutti». Oppure: «Uomini, / di nuovo potete andare. / Potete incontrare chiunque, / mai voi stessi».

Sposando il supplizio e le pene dell’altro, ma versando lacrime proprie, il messaggio poetico di Zhiti si universalizza e oltrepassa i confini geografici del dolore albanese. Il poeta è testimone della sofferenza dell’umanità, perché è questa che lo fa dolere più della sua vicenda personale. Consapevole di essere voce di altri che hanno subito mortificazioni analoghe, scrive: «Mi hanno condannato le divinità / a sentire il dolore dell’altro / perché molto di più…» L’uomo che ha paura dell’uomo che nel carcere non gli fu d’aiuto. Meno del cavallo, il solo che nel carcere si fece avanti al condannato «e salì in cima alla tragedia / e cadde in ginocchio davanti all’ucciso».

È quella di Zhiti una confessione laica (senza altari, come recita il titolo), ma i suoi versi – fa notare Elio Miracco che ha curato la traduzione – «sono attraversati da un inquieto sentimento di fede che trova nel simbolo della Croce il martirio di redenzione e si rivela in Cristo e in Madre Teresa». I chiodi della Croce nei suoi versi sono stelle, allegoria del cristiano. Zhiti non si presenta come l’ultimo condannato dolente di quel regime, ma come un cireneo dei giorni nostri che prende su di sé la croce di tutti.”

Fogli bianchi

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I fogli bianchi sono la dismisura dell’anima

e io su questo sapore agrodolce

vorrò un giorno morire,

perché il foglio bianco è violento.

Violento come una bandiera,

una voragine di fuoco,

e così io mi compongo

lettera su lettera all’infinito

affinché uno mi legga

ma nessuno impari nulla

perché la vita è sorso, e sorso

di vita i fogli bianchi

dismisura dell’anima.

(Alda Merini)

Un vincitore eternamente infelice

In prima abbiamo parlato, o stiamo parlando, della solitudine, nei suoi aspetti positivi e negativi, e delle relazioni. Abbiamo anche detto che nel vivere le relazioni è da mettere in conto la possibilità di prendere qualche “travata” sui denti, di vivere qualche delusione che a volte ci porta a dire “basta, non ne voglio più sapere degli altri, mi chiudo in me stesso”. Questa chiusura, simile a quella del signor Gustavson, protagonista del racconto letto in classe, ci mette al riparo da alcune delusioni possibili, ma non ci permette di sperimentare alcune cose: il brivido di una persona che ci dice “ti voglio bene”, il silenzio di un segreto condiviso, il calore di un abbraccio, l’emozione di un ritrovarsi… Il poeta messicano Eduardo Lizalde ha scritto una poesia, dal titolo Amore, in cui paragona il rapporto d’amore a un incontro di pugilato e ci dà la sua strategia per uscirne vincenti ma tremendamente infelici.

La regola è questa:NAMA_Akrotiri_2.jpg

dare solo l’essenziale,

ottenere il massimo,

non abbassare la guardia,

mettere i colpi a tempo,

non arrendersi,

e non combattere corpo a corpo,

non scoprirsi in alcuna circostanza

né scambiare colpi con il sopracciglio ferito;

non dire mai “ti amo”, sul serio,

all’avversario.

È la migliore strategia

per essere eternamente infelice

e vincitore

senza rischi apparenti.

E’ possibile che non ci sia altra strategia? Altra possibilità? Che sia solo questa la possibilità per far funzionare le cose? Calcolare al millimetro i pro e i contro? Non sprecare energie? Ottenere senza dare? Stare sulla difensiva? Non fare mai un passo indietro? Scrive Bertrand Russell: “Temere l’amore è temere la vita, e chi teme la vita è già morto per tre quarti”.

(spunto della riflessione il blog Il canto delle sirene)

Potete camminare su di noi

Un piccolo ricordo a tre anni dalla scomparsa.

 

A tutti i giovani raccomando:poesia.jpg

aprite i libri con religione,

non guardateli superficialmente,

perché in essi è racchiuso

il coraggio dei nostri padri.

E richiudeteli con dignità

quando dovete occuparvi di altre cose.

Ma soprattutto amate i poeti.

Essi hanno vangato per voi la terra

per tanti anni, non per costruivi tombe,

o simulacri, ma altari.

Pensate che potete camminare su di noi

come su dei grandi tappeti

e volare oltre questa triste realtà

quotidiana.

(Alda Merini, da “La vita facile”)

Le più belle poesie

C’è stato un periodo della mia vita, tra i 17 e i 21 anni più o meno, in cui scrivevo molto in versi, ed erano spesso parole nate dalla sofferenza, soprattutto interiore, per i momenti di solitudine, per i mancati amori, per la difficoltà a scorgere una buona strada da percorrere, per i litigi con Dio. Scrive Alda Merini

Le più belle poesieImmag179.jpg

si scrivono sopra le pietre,

coi ginocchi piagati

e le menti aguzzate dal mistero.

Le più belle poesie

si scrivono davanti

a un altare vuoto,

accerchiati da agenti

della divina follia.

Così, pazzo criminale qual sei,

tu detti versi all’umanità,

i versi della riscossa.

Sono belle le cose

Sono belle le cose, belli i contorni degli occhi

e i contorni del rosso

gli accenti sulle a, lacrime di pagliacci

le ciglia delle dive, le bolle di sapone,

il cerchio del mondo è bello

l’ossigeno delle stelle e la poesia dei ritorni,

di emigranti e isole,

cercando l’invisibile: l’appartenenza

E’ bello il fuoco

e il sonno

e il buio petulante gola dei fantasmi

e il brodo primordiale padre nostro

che cola in questi nomi.

(Sono belle le cose, Gianmaria Testa)