Torno sul tema delle polarizzazioni o della logica binaria a cui ci stiamo purtroppo abituando, con un articolo comparso su Avvenire due giorni fa. La firma è quella di Chiara Giaccardi, professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Sociologia e Antropologia dei media e dirige la rivista «Comunicazioni Sociali». Lo ripubblico perché ho trovato molte affinità col mio modo di vedere e anche di insegnare (quella citazione di Blake parla a tante/i ex allieve/i…).
“Il tema scelto da papa Leone XIV per la 60esima Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali – “Custodire voci e volti umani” – tocca il cuore di una questione che definisce il nostro tempo: come mantenere l’umanità al centro quando la tecnologia pervade ogni aspetto della nostra esistenza, e il confine tra macchine ed esseri umani sembra assottigliarsi sempre più. Per Platone, e altri dopo di lui, la tecnica è un “farmaco”: da una parte ci cura e potenzia le nostre capacità, ma dall’altra ci intossica. E queste due dimensioni, con buona pace di apocalittici e integrati, sono inevitabili e inseparabili. Quello che possiamo tentare è una “farmacologia positiva”, che limiti gli effetti tossici e valorizzi quelli curativi. L’intelligenza artificiale offre certo possibilità straordinarie – dalla diagnosi medica precoce alla risoluzione di problemi complessi, dall’efficienza comunicativa all’accessibilità dell’informazione. Tuttavia, il Papa ci avverte che la stessa tecnologia può generare «contenuti accattivanti ma fuorvianti, manipolatori e dannosi», replicare pregiudizi e amplificare disinformazione. Il linguaggio digitale traduce tutto nella logica binaria dello 0/1. Questa semplificazione sta contagiando sempre più il nostro pensiero e i nostri rapporti umani: on/off, bianco/nero, pro/contro, amico/nemico. Stiamo perdendo la capacità di abitare le sfumature, di tollerare l’ambiguità, di convivere con la complessità. Il digitale favorisce la polarizzazione anche perché gli algoritmi amplificano i contenuti che generano ingaggio, e nulla genera più ingaggio della rabbia e dell’indignazione. Si crea così un circolo vizioso dove la moderazione viene punita e l’estremismo premiato. Questo meccanismo può portare a forme di identità e di politica basate sulla identificazione del nemico da annientare: una vera e propria “odiocrazia”. Come proteggersi da tutto ciò? Innanzitutto, rinunciando alla comodità di delegare il pensiero alla macchina: come infatti l’industrializzazione ha privato le persone del loro “saper fare”, così oggi il digitale rischia di compromettere il nostro “saper pensare”. Lo scriveva già Bernanos a metà del secolo scorso: «Il pericolo non si trova nella moltiplicazione delle macchine, ma nel numero sempre crescente di uomini abituati, fin dall’infanzia, a non desiderare altro che ciò che le macchine possono dare». Dal digitale, comunque, non si può più uscire: è diventato l’aria che respiriamo, l’ecosistema in cui viviamo. Non possiamo tornare a un’era pre-digitale, né sarebbe auspicabile farlo. La questione diventa: dove appoggiamo la nostra critica? Su cosa fondiamo la nostra resistenza alla colonizzazione totale del digitale?
Immagine creata con ChatGPT®
Il Papa suggerisce una strada: mantenere «l’umanità come agente guida». La critica deve radicarsi in ciò che il digitale non può catturare, che non è “datificabile” né automatizzabile: l’esperienza vissuta, l’interiorità, la capacità di contemplazione, il silenzio fecondo, l’intuizione che precede la razionalizzazione. Non tutto può essere tradotto in algoritmi. L’amore, la sofferenza autentica, la creatività genuina, l’esperienza del sacro, la bellezza che commuove, la giustizia che indigna mantengono una dimensione di mistero e imprevedibilità che sfugge al codice binario e alla manipolazione algoritmica. La persona umana porta in sé una dimensione di infinito che nessun sistema finito può contenere completamente. E la bussola per non smarrire la strada non sono principi astratti, ma il volto concreto dell’altro. Potremmo rileggere la celebre formulazione kantiana “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” come “il cielo stellato sopra di me e il volto dell’altro davanti a me”. Entrambi rappresentano l’irriducibile singolarità: ogni stella unica nel firmamento, ogni volto unico nell’umanità. L’infinito e il finito che si abbracciano e formano una unità indissolubile e irriducibile. Il volto dell’altro, come insegnava Emmanuel Lévinas, è epifania dell’infinito nel finito, appello etico che precede ogni computazione. È nel riconoscimento di questa singolarità che possiamo fondare la resistenza alla riduzione dell’umano a profilo digitale. Ma la cultura individualista di cui siamo imbevuti ci porta a vedere nell’altro una minaccia, o al massimo uno strumento per la propria realizzazione. E il digitale, coniugandosi con l’individualismo contemporaneo, ci trasforma in profili isolati, ingranaggi di una megamacchina che ci connette tecnicamente ma ci separa umanamente. Profili statistici piuttosto che persone con un nome e una storia. La proposta di papa Leone di introdurre nei sistemi educativi l’alfabetizzazione mediatica e sull’intelligenza artificiale è fondamentale, ma non basta. Serve un’educazione più profonda: quella a riconoscere che, come scriveva papa Francesco e come le scienze ci dicono da tempo, «tutto è connesso». E che, quindi, l’individualismo radicale è un’astrazione, una ideologia che ci disumanizza e ci rende oltretutto più vulnerabili alla potenza del digitale. Serve un’educazione alla contemplazione, al silenzio, alla lentezza, alla capacità di sostare con le domande senza precipitarsi verso risposte algoritmiche immediate quanto riduttive. Serve uno spirito “poetico”, dato che la poesia è la lingua delle connessioni dell’uno e del molteplice, che ci fa vedere «il mondo in un granello di sabbia e l’eternità in un’ora», per parafrasare Blake. Lo spirito non è qualcosa di astratto ma una forza di trasformazione, che pervade tutte le dimensioni non quantificabili, come l’arte. E come scriveva Rilke: «Essere artisti vuol dire non calcolare e contare». La sfida è mantenere viva questa dimensione umana nell’ecosistema digitale, non come nostalgia del passato ma come profezia del futuro. Un futuro dove le macchine saranno davvero «strumenti al servizio e al collegamento della vita umana», e non padroni che decidono per noi cosa pensare, desiderare, temere o amare.”
Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE
Ho tenuto per ultimo l’articolo più corposo e meno recente. Non è una lettura leggera, ma la ritengo interessante e adatta a concludere questo trittico sulle polarizzazioni. Si tratta di un testo di Diego Fares e Austen Ivereigh, pubblicato sul Quaderno 4047 de La Civiltà Cattolica il 2 febbraio 2019. E’ importante sapere la data perché vi sono alcune cose che vanno contestualizzate. “Comunicare in una società polarizzata, essere promotori di unione, di incontro, di riconciliazione, di corrispondenza nella diversità: qual è l’atteggiamento, la forma mentis necessaria per essere buoni comunicatori in un contesto in cui la polarizzazione vuole imporre la propria legge a ogni discorso pubblico o privato? La polarizzazione è un fenomeno antico quanto l’uomo, ma che oggi tende a incrementarsi esponenzialmente di fronte a cambiamenti e incertezze su vasta scala. Negli Usa, Paese in cui attualmente quasi la metà degli elettori, sia democratici sia repubblicani, vedono i propri avversari politici come una minaccia al benessere della nazione, la crescente polarizzazione ha dato origine a studi e progetti finalizzati a superarla (Cfr i risultati dell’inchiesta del Pew Research Center, «Partisanship and Political Animosity in 2016», 22 giugno 2016). In questo ambito spicca lo psicologo sociale Jonathan Haidt [noto ultimamente per il best seller “La generazione ansiosa” ndr], che in The Righteous Mind ha sottolineato l’importanza delle «intuizioni morali» e il fatto che le persone cerchino argomenti per difenderle (Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione, Torino, Codice, 2013). Per oltrepassare il fossato che li separa, liberali e conservatori hanno bisogno di apprendere quali sono le intuizioni morali che rispettivamente li motivano. L’organizzazione civica Better Angels cerca di «depolarizzare l’America», attuando progetti pratici nei quali riunisce sostenitori dei democratici e dei repubblicani. Il fondatore, David Blankenhorn, che descrive se stesso come una persona ferita dalle culture wars americane, ha individuato sette «atteggiamenti» per «depolarizzare» il conflitto, deducendoli dalle sette virtù classiche del cristianesimo. Le tre virtù più elevate, secondo Blankenhorn, sono: 1) «criticare da dentro», vale a dire criticare l’altro a partire da un valore che si ha in comune (riconoscendo che le intuizioni morali di solito sono universali); 2) «guardare ai beni in gioco», cioè riconoscere che, mentre alcuni conflitti riguardano il bene in contrasto con il male, la maggior parte di essi avvengono tra beni, e l’incombenza pertanto non consiste tanto nel separare il bene dal male, quanto nel riconoscere e soppesare beni in competizione tra loro; 3) «contare più di due», cioè superare la tendenza a dividere per binomi antagonistici, che conducono a pseudo-contrasti. (Gli altri quattro atteggiamenti riguardano l’importanza di dubitare, di precisare, di sfumare e di mantenere la conversazione. Cfr «The Seven Habits of Highly Depolarizing People», in ; D. Blankenhorn, «Why polarization matters»). Anche nella Chiesa cattolica americana possiamo riscontrare tentativi di superare le acute divisioni intraecclesiali tra praticanti «progressisti» e «conservatori». Nel giugno del 2018, per esempio, la Georgetown University ha patrocinato un incontro di 80 autorevoli esponenti cattolici con lo scopo di superare la polarizzazione sulla base della dottrina sociale della Chiesa e dell’insegnamento di papa Francesco. Uno dei relatori, il cardinale e arcivescovo di Chicago Blase Joseph Cupich, ha fatto notare la distinzione tra «parteggiare» e «polarizzarsi». Il primo atteggiamento comporta divisione o disaccordo, e tuttavia consente di lavorare assieme per raggiungere finalità condivise; invece, nel secondo caso, l’isolamento e la sfiducia degli uni verso gli altri rende impossibile la cooperazione. Cupich ha fatto riferimento a san Giovanni Paolo II e alla sua equiparazione della polarizzazione a un peccato, perché suscita ostacoli che paiono insuperabili rispetto all’attuazione del piano di Dio per l’umanità.
La posizione di papa Francesco nei confronti della polarizzazione Papa Francesco ha osservato che «ci capita di attraversare un tempo in cui risorgono epidemicamente, nelle nostre società, la polarizzazione e l’esclusione come unico modo possibile per risolvere i conflitti» (Omelia nel Concistoro, 19 novembre 2016). Nel suo ultimo messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali ha affermato: «Nei social web troppe volte l’identità si fonda sulla contrapposizione nei confronti dell’altro, dell’estraneo al gruppo: ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)» («Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Dalle «community» alle comunità. Messaggio per la 53a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2019). Il Papa ha riflettuto sull’essere membra gli uni degli altri come la motivazione più profonda del dovere di custodire la verità, la quale infatti si rivela nella comunione. E ha descritto la Chiesa come «una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui like, ma sulla verità, sull’amen, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri». Uno dei discorsi più importanti pronunciati da papa Francesco al riguardo è stato quello al Congresso degli Stati Uniti: «Ma c’è un’altra tentazione da cui dobbiamo guardarci: il semplicistico riduzionismo che vede solo bene o male, o, se preferite, giusti e peccatori. Il mondo contemporaneo, con le sue ferite aperte che toccano tanti dei nostri fratelli e sorelle, richiede che affrontiamo ogni forma di polarizzazione che potrebbe dividerlo tra questi due campi». Il Papa proseguiva esponendo un possibile paradosso: «Nel tentativo di essere liberati dal nemico esterno, possiamo essere tentati di alimentare il nemico interno. Imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini è il modo migliore di prendere il loro posto. Questo è qualcosa che voi, come popolo, rifiutate» (Discorso all’ Assemblea plenaria del Congresso degli Stati Uniti d’America, 24 settembre 2015. In un’altra occasione il Papa ha anche detto: «Il virus della polarizzazione e dell’inimicizia permea i nostri modi di pensare, di sentire e di agire. Non siamo immuni da questo e dobbiamo stare attenti perché tale atteggiamento non occupi il nostro cuore, perché andrebbe contro la ricchezza e l’universalità della Chiesa» (Francesco, Omelia nel Concistoro, cit.). Sotto il profilo cristiano, questo rifiuto, questa resistenza è un «criterio di sanità e ortodossia cristiana [che] non sta tanto nel modo di agire quanto nel modo di resistere». Una resistenza personale, che riconosce che la polarizzazione nasce anzitutto nel cuore umano, per essere successivamente alimentata dai media e dalla politica. Nel Messaggio per la 50a Giornata mondiale delle comunicazioni sociali il Papa ha precisato che il cattivo uso dei mezzi di comunicazione può «condurre a un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo. Messaggio per la 50a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 24 gennaio 2016). Allo stesso modo, una politica è malsana se prospera in funzione dei conflitti, accentuandoli per accrescere il potere o l’influenza del politico «intermediario», diversamente da una politica sana, che si sforza di conciliare le persone per il bene comune e nella quale il politico «mediatore» sacrifica se stesso a favore del popolo (J. M. Bergoglio, trascrizione della lezione inaugurale del Corso di formazione e riflessione politica, Cefas, 1 giugno 2004). Già nel 1974, quando era stato da poco nominato provinciale dei gesuiti, Bergoglio metteva in risalto che negli Esercizi Spirituali il peccato è «fondamento disgregatore della nostra appartenenza al Signore e alla nostra santa madre, la Chiesa» (Nel cuore di ogni padre. Alle radici della mia spiritualità, Milano, Rizzoli, 2014, 139). Il peccato disintegra anche la nostra appartenenza all’umanità. Inoltre affermava che «l’unico nemico reale è il nemico del piano di Dio», perché, come dice Paolo, «tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E concludeva: «È questa l’ermeneutica per discernere ciò che è principale da ciò che è accessorio, ciò che è autentico da ciò che è falso», le «contraddizioni del momento» dal tempo di Dio, che è «più grande delle nostre contraddizioni».
Una «forma mentis» depolarizzatrice Analizzeremo ora quattro atteggiamenti di papa Francesco che possono aiutarci a configurare la forma mentis necessaria per discernere come comunicare bene in una società polarizzata. Si tratta di due «no» e di due «sì». Innanzitutto, non discutere con chi cerca di polarizzare, e non lasciarsi confondere da false contraddizioni. Poi, dire di sì, più con le opere che a parole, alla misericordia come paradigma ultimo, e dirlo in quel dialetto materno che raggiunge il cuore di ogni persona nella sua specifica cultura. Consideriamo innanzitutto alcune situazioni in cui il Papa, con poche parole (a volte gli sono bastati un gesto, una pausa o un silenzio significativo), ha comunicato bene in un contesto di polarizzazione. Nell’incontro che si è tenuto all’Augustinianum sul dialogo intergenerazionale, in occasione della presentazione del libro La saggezza del tempo (Francesco, La saggezza del tempo. In dialogo con papa Francesco sulle grandi questioni della vita, Milano, Rizzoli, 2018), papa Francesco ha dialogato con una coppia di nonni che gli esprimevano la necessità di essere aiutati per riuscire a parlare bene con i loro figli. Gli dicevano: «Nonostante i nostri sforzi, come genitori, di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro?». Il Papa ha fatto una brevissima pausa, e poi ha risposto con fermezza: «C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa» (Dialogo intergenerazionale, Incontro con i giovani e anziani all’Augustinianum, Roma, 23 ottobre 2018). Poi ha aggiunto: «Mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono». La forza di quel breve dialogo tra il Papa e la coppia di genitori-nonni contiene un nucleo comunicativo che disarma chi, intenzionalmente o involontariamente, polarizza. Si tratta di adottare questi due atteggiamenti: dare testimonianza in dialetto e non discutere. Non discutere presuppone che si faccia un discernimento: dire «no» a una falsa polarizzazione e dire «sì» a un paradigma che la supera, quello della misericordia. Questi atteggiamenti affiorano in altri due episodi del pontificato di Francesco. Il primo durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Irlanda. Una giornalista gli fece una domanda a proposito delle accuse di copertura lanciate quella mattina dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò (Conferenza stampa durante il volo di ritorno dall’Irlanda, 26 agosto 2018). La domanda sollecitava il Papa a dichiarare se quelle accuse (sulla vicenda di abusi sessuali in cui era coinvolto l’ex cardinale McCarrick) fossero effettivamente vere. Anziché rispondere secondo i termini tratteggiati da Viganò, Francesco replicò che per il momento non avrebbe detto nemmeno una parola: invitava piuttosto i giornalisti a indagare in prima persona sulla verità delle accuse. Il suo silenzio è stata interpretato in vario modo, più o meno favorevolmente; ma l’importante è stato il fatto che il Papa abbia scelto di mantenere il silenzio. Su questo torneremo più avanti. L’altro episodio ha avuto luogo nel volo di ritorno dal viaggio apostolico in Myanmar e Bangladesh (Saluto ai giornalisti durante il volo di ritorno dal Bangladesh, 2 dicembre 2017). Durante la visita si era creata una polarizzazione rispetto all’eventualità di pronunciare il termine rohingya, un’etnia che le autorità militari del Myanmar non riconoscono. Il Papa aveva evitato di usare quel termine in Myanmar ma, una volta giunto in Bangladesh, ha avuto un commovente incontro con 16 rifugiati di quella etnia, nel quale ha detto che «la presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya» (A. Tornielli, «Il Papa: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”», in Vatican Insider, 1 dicembre 2017). Nella conferenza stampa a bordo dell’aereo, il Papa ha spiegato che usare quel termine nei suoi discorsi ufficiali sarebbe equivalso a sbattere la porta in faccia all’interlocutore, e «simili atti di aggressività chiudono il dialogo, chiudono la porta, e il messaggio non arriva». Piuttosto, nei suoi discorsi in Myanmar aveva parlato dell’importanza di includere tutti, dei diritti e della cittadinanza, e questo successivamente, nei suoi incontri privati, gli aveva consentito di «andare oltre». Poi, nell’incontro interreligioso di Dacca, quel termine gli era sfuggito spontaneamente quando aveva salutato i rifugiati. Riferisce il Papa: «Io cominciai a sentire qualcosa dentro: “Ma io non posso lasciarli andare senza dire una parola”, e ho chiesto il microfono. E ho incominciato a parlare… Non ricordo cosa ho detto. So che a un certo punto ho chiesto perdono. […] Io piangevo. Facevo in modo che non si vedesse. Loro piangevano pure». Francesco ha completato così la sua riflessione: «E, visto tutto il trascorso, tutto il cammino, io ho sentito che il messaggio era arrivato». Egli aveva un messaggio da comunicare, un messaggio incentrato sulla misericordia e sull’inclusione e, per comunicarlo, era stato capace di superare le polarizzazioni.
Non discutere con chi accusa La testimonianza e il consiglio di Francesco sono di non discutere in un contesto polarizzato, sia che si tratti di un contesto familiare, con la raccomandazione rivolta ai genitori quando i figli cercano di trascinarli in una discussione, sia che si tratti di discussioni pubbliche, in cui si lanciano accuse cariche di aggressività mediatica, come quelle del caso Viganò. Il contesto familiare nel quale il Papa ha messo in luce il criterio di «non discutere» ci mostra come il «virus della polarizzazione» si annidi perfino tra coloro che si amano. Questo stesso fatto aiuta a comprendere il tranello in cui solitamente cadiamo quando ci lasciamo trasportare dallo spirito di discussione. Con coloro che ci amano, il non discutere si congiunge con il parlare loro «in dialetto», sapendo che essi comprenderanno questo linguaggio d’amore. Con coloro che non ci amano e ci attaccano, il non discutere si accompagna, invece, al fare silenzio e, come si comportava il Signore quando non rispondeva alle provocazioni degli scribi e dei farisei, a lasciarli «cuocere nel loro brodo». Afferma il Papa: «Con le persone che non hanno buona volontà, con le persone che cercano soltanto lo scandalo, che cercano soltanto la divisione, che cercano soltanto la distruzione, anche nelle famiglie: silenzio. E preghiera» (Francesco, Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Il silenzio evita che si rimanga impigliati nella spirale di accuse e condanne, dietro le quali c’è sempre lo spirito cattivo del «grande Accusatore» (fra il 3 e il 20 settembre 2018, dopo il silenzio mediatico che si era imposto riguardo alle accuse di Viganò, il Papa ha pronunciato otto omelie contro «il grande Accusatore», del quale ha descritto ampiamente l’atteggiamento nel contesto adeguato, quello della predicazione della parola di Dio). Di fronte all’accanimento aggressivo è possibile soltanto un atteggiamento: quello di Gesù. «Il pastore, nei momenti difficili, nei momenti in cui si scatena il diavolo, dove il pastore è accusato, ma accusato dal grande Accusatore tramite tanta gente, tanti potenti, soffre, offre la vita e prega» (Omelia in Santa Marta, 18 settembre 2018). È un silenzio che svela l’unica contraddizione reale: quella che si instaura tra il padre della menzogna e Cristo crocifisso (Satana «vide Gesù così disfatto, stracciato e, come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo, lui è andato lì e ingoiò Gesù […], ma in quel momento ingoiò pure la divinità, perché era l’esca attaccata all’amo col pesce» (ivi, 14 settembre 2018). «In momenti di oscurità e grande tribolazione, quando i “grovigli” e i “nodi” non si possono sciogliere, e neppure le cose chiarirsi, allora bisogna tacere: la mansuetudine del silenzio ci mostrerà ancora più deboli, e allora sarà lo stesso demonio che, facendosi baldanzoso, si manifesterà in piena luce, mostrerà le sue reali intenzioni, non più camuffato da angelo della luce, ma in modo palese» (Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 85-108). Contro il grande Accusatore il criterio è quello del Signore, che non parla di sé, ma lo vince con la parola di Dio (Omelia in Santa Marta, 3 settembre 2018). Questo atteggiamento di «non discutere» non ha nulla a che vedere con la pace quietista e con il falso irenismo che, secondo la logica della polarizzazione, implicherebbero parzialità («chi tace acconsente») o fuga dal conflitto. Niente è più lontano dal pensiero del Papa e dal suo atteggiamento. Non soltanto egli accoglie il conflitto e la tensione come opportunità creative, ma discerne l’azione dello spirito cattivo nel suo tentativo di camuffare la vera contraddizione e di proporre la pace come se fosse un affare e non un lungo cammino. In una meditazione proposta agli studenti del Colegio Máximo, in occasione della fine dell’anno 1980 (J. M. Bergoglio, Natale, Milano, Corriere della Sera, 2014, 107 ss), Bergoglio faceva notare che le tentazioni contro l’unità possono essere molte, ma la principale «si fonda nel rifiuto del modello bellico della vita spirituale; e si può respingerlo o perché si vagheggia un irenismo, o perché ci si affretta dietro al prurito di un raccolto prematuro, accentuando le contraddizioni». E affermava: «L’irenismo delinea una specie d’illusoria “pace a qualsiasi costo”, in ossequio alla quale si negozia ciò che non è negoziabile e si perde la capacità di condannare. […] L’altra tentazione è una caricatura del senso bellico della vita». Allo stesso modo egli in seguito dirà nell’Evangelii gaudium (EG): «Di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (EG 227). Di fronte a un mondo polarizzato, quella di astrarsi o di disinteressarsi non è un’opzione, ma piuttosto una tentazione. Essa è comprensibile, forse, in un contesto mimetico in cui il rischio di restare contaminati è molto grande, e tuttavia il suggerimento di Francesco è di entrare, ma con discernimento. Egli invita ad assumere un atteggiamento chiaramente missionario: l’accusa di se stessi, che ci porta a dialogare con la Misericordia di Dio, invece di entrare nella dinamica del sentirci vittime e di accusare gli altri («Accusare se stesso è il sentimento della mia miseria, di sentirsi miserabili, misero, davanti al Signore. Il sentimento della vergogna. E infatti accusare se stesso non si può fare a parole, bisogna sentirlo nel cuore», Omelia in Santa Marta, 6 settembre 2018), va di pari passo con l’uscita missionaria ad annunciare il Vangelo. Anziché restarsene chiusa nella discussione e operare «contromosse», la Chiesa fa un passo «verso coloro che hanno più bisogno di lei», verso quelli che ancora non hanno ascoltato il Vangelo. La Chiesa, quando venne perseguitata, diventò missionaria.
Non vedere contraddizioni dove ci sono solo contrasti Invece di discutere, bisogna discernere. Infatti, quando è in atto una polarizzazione, non si tratta soltanto di uno scontro di idee, ma anche di spiriti (Cfr J. M. Bergoglio, «La dottrina della tribolazione», in Civ. Catt. 2018 II 214). Lo spirito cattivo, soprattutto in un contesto di tribolazione, cerca di trasformare i dissensi in conflitti. Come dice Gustave Thibon, «uno dei segni fondamentali della mediocrità di spirito è vedere contraddizioni dove ci sono soltanto contrasti». I quattro princìpi di papa Francesco, in particolare due di essi, sono i criteri per tale discernimento. La lucidità che è richiesta per discernere che «l’unità prevale sul conflitto»[39] è una lucidità paziente, che «accetta di sopportare il conflitto» per riuscire a risolverlo, senza rimanerne imprigionati. È richiesta lucidità anche per discernere che «la realtà è più importante dell’idea». È più importante, perché la realtà non è mai contraddittoria. Per Guardini, la contraddizione è qualcosa che si dà soltanto nel pensiero e nel linguaggio, non nella realtà. La realtà – quella che egli chiama il «concreto vivente» – è sempre complessa; tutti i poli vi trovano posto; ogni essere vivente è una trama di relazioni che sono tra loro in contrasto, ma non in contraddizione. Guardini descrive le tensioni tra sopra-dentro, interno-esterno, forma-pienezza, struttura-forza vitale. Una realtà non contraddice quella precedente, ma la assume, la trasforma o se la lascia dietro. Per questo, come scriveva il Papa al popolo cileno, «discernere presuppone imparare ad ascoltare ciò che lo Spirito vuole dirci. E potremo farlo soltanto se siamo capaci di ascoltare la realtà di ciò che accade» (Francesco, Lettera al Popolo di Dio pellegrino in Cile). Nel suo scritto «Alcune riflessioni sull’unione degli animi», pubblicato nel 1990, Bergoglio chiarisce la differenza tra contraddizione e contrapposizione o contrasto: la contraddizione è sempre escludente, non concede spazio alle alternative, è disgiuntiva. La contrapposizione, invece, indicherebbe piuttosto le cose che, apparentemente e/o realmente contrarie, possono accordarsi (J. M. Bergoglio, Non fatevi rubare la speranza, Milano, Mondadori, 2013, 152). Le diversità di idee, di affetti, di immaginazioni e di mozioni che affiorano quando si prega e si discerne possono raggiungere «una nuova unità interiore, continua ma distinta da quella che c’era prima che avesse inizio il processo di discernimento» (il processo avviene nel dialogo interiore, contraddistinto dalla pace. Bergoglio afferma che, «se esaminiamo con attenzione la nostra esperienza interiore, possiamo notare che le tensioni si risolvono su un piano superiore, mantenendo – nella nuova armonia raggiunta – la potenzialità delle diverse particolarità»). La nuova armonia si può sempre «disarmonizzare», e ciò richiede che noi siamo costantemente aperti a nuove sintesi. «Tutto questo processo configura ciò che potremmo definire etimologicamente un “conflitto” («Sant’Ignazio non teme il conflitto. Anzi, si insospettisce quando, negli Esercizi spirituali, luogo privilegiato di discernimento e di lotta di spiriti, non lo riscontra») […]. Questo conflitto interiore, che preferisco chiamare “contrapposizione” piuttosto che “contraddizione”, è il riferimento interiore che abbiamo di unità nella diversità per capire cos’è, nel corpo della Compagnia, l’unità nella diversità» e, per analogia, ciò che è unità nella diversità nella Chiesa e nella società. Per questo il Papa ha potuto riporre fiducia nel processo sinodale, a volte turbolento e conflittuale, che ha dato luogo alla nuova prassi pastorale dell’Amoris laetitia. Attraverso la riflessione, lo scambio di punti di vista, la preghiera e il discernimento «lo spirito buono ha prevalso», nonostante le tentazioni lungo il percorso.
Il «sì» al paradigma della Misericordia Il discernimento che ci rafforza nel dire «no» alla discussione che polarizza ha il suo principio e fondamento in un «sì» più profondo e radicale: il «sì» della Misericordia divina a tutto il creato. La Misericordia incondizionata di Dio, che per noi è divenuta concreta in Gesù, è l’unica realtà capace di risanare e armonizzare ogni falsa contraddizione con la forza dell’amore di Dio che, «per sua natura, è comunicazione» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). La Misericordia «è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio» (GE 105), come afferma efficacemente il Pontefice. È il paradigma ultimo, il più alto, e la nostra missione è annunciarlo con le opere e con le parole. Ne troviamo il modello nella parabola del Buon Samaritano insegnataci da Gesù. Questa non contiene soltanto una rivelazione soprannaturale, ma anche una rivelazione di ciò che è più teneramente umano. Alla pratica delle opere di misericordia cosiddette «corporali», in quanto riguardano la carne del prossimo, è complementare quella delle opere di misericordia «spirituali», che consistono nella buona comunicazione: insegnare a chi non sa, dare un buon consiglio a chi ne ha bisogno, correggere colui che sbaglia, perdonare le offese, consolare chi è afflitto, sopportare pazientemente i difetti degli altri e pregare per tutti. Praticare queste opere di misericordia significa lanciare un messaggio chiaro, che tocca il cuore di chi ne viene a conoscenza. Il Papa fa notare: «Ciò che diciamo e come lo diciamo, ogni parola e ogni gesto dovrebbe poter esprimere la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio per tutti. […] La mite misericordia [di Cristo] è la misura della nostra maniera di annunciare la verità e di condannare l’ingiustizia. È nostro precipuo compito affermare la verità con amore (cfr Ef 4,15). Solo parole pronunciate con amore e accompagnate da mitezza e misericordia toccano i cuori di noi peccatori» (Francesco, Comunicazione e misericordia: un incontro fecondo). Francesco vuole che «lo stile della nostra comunicazione sia tale da superare la logica che separa nettamente i peccatori dai giusti» e che al tempo stesso generi «prossimità […] in un mondo diviso, frammentato, polarizzato». Il criterio di discernimento della buona comunicazione è lo stesso di quello della vita di ogni cristiano, e della vita della Chiesa in generale: è quello di verificare se la misericordia cresce. «Il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia» (GE 105).
Dare testimonianza «in dialetto» Si tratta, dunque, di dire e di fare le cose «nello stile di Gesù», con un spirito buono, come diceva san Pietro Favre. L’espressione che usa Francesco è «dare testimonianza in dialetto». Il contenuto di tale testimonianza è ciò che il Papa chiama «dottrina»: verità sentite, non meramente conosciute. La dottrina forgia l’unità vera, perché «le cose di Dio sommano sempre. Non sottraggono. Radunano» (J. M. Bergoglio, Natale). Ma per la stessa ragione essa genera opposizione e resistenza: «È soltanto quando la Chiesa afferma la dottrina che affiora il vero scisma». Il pensiero e la testimonianza di Francesco offrono, pertanto, un percorso di depolarizzazione che si potrebbe applicare a molti contesti in cui ci sono «partiti» contrapposti: per esempio, tra liberali e conservatori nella Chiesa o, in Inghilterra, tra i sostenitori di Remain e Leave, divisi sulla Brexit. È un cammino che accoglie la tensione e il disaccordo come opportunità per creare qualcosa di superiore in base a una diversità conciliata e al paradigma della misericordia, evitando le trappole mortifere della sterile polarizzazione. È una maniera di dialogare non a partire dai disaccordi, ma ascoltando gli uni i sogni degli altri. Trovare il modo di dare testimonianza dell’amore e della misericordia nel «dialetto materno» è il nucleo di un comportamento che vale sia nell’ambito ristretto del dialogo familiare sia in quello ampio delle discussioni pubbliche. In sostanza, per comunicare bene, il punto decisivo è trovare il filo di quel linguaggio che è alla base della vita, là dove dietro le parole si nasconde la fonte della tenerezza che ha reso possibile la vita in comune di ogni famiglia, di ogni comunità e di ogni popolo. Questa è la sfida: trovare e non perdere il filo di tale linguaggio materno che unisce ogni realtà, per fronteggiare il linguaggio astratto delle ideologie che separano. «Fratelli, le idee si discutono, le situazioni si discernono. Siamo riuniti per discernere, non per discutere» (Francesco, Lettera ai vescovi cileni, 15 maggio 2018).”
Il secondo articolo che propongo sul generale tema delle polarizzazioni è di stampo filosofico-teologico. Su VinoNuovo Riccardo Larini, riprendendo un precedente articolo di Andrea Zhok, si sofferma sulla figura di Henri Bergson.
“[…] Per offrire un approccio critico e alternativo vorrei rifarmi a un pensatore che ritengo andrebbe più che mai riscoperto nell’epoca attuale di tensioni e polarizzazioni, ovverosia Henri Bergson, uomo che seppe leggere le polarizzazioni (o meglio, le dualità) inerenti alle società e alle religioni in maniera feconda, intelligente e costruttiva. Per Bergson ci sono due fonti fondamentali della morale e della religione, che egli definisce “natura” e “spirito”. La prima non è una realtà intrinsecamente buona bensì la fonte di quella che il filosofo parigino definisce una religione “statica”, che viene istituita dagli esseri umani di ogni credo e latitudine quale reazione di difesa contro il potere disgregante dell’intelligenza e del pensiero, che di per sé tenderebbero all’individualismo e al cambiamento. In una certa misura è una realtà che non è mai del tutto eliminabile e che ha una sua funzione, ma che tuttavia viene costantemente superata, dato che ogni cristallizzazione è in ultima istanza molto simile a una morte degli slanci e delle aspirazioni umane, e perciò l’umanità non può mai accettarla a lungo. La seconda fonte, lo spirito, è alla radice di quella che invece Bergson definisce una religione “dinamica”, che segue lo slancio inarrestabile della vita, che produce cambiamento e trasformazione e va ben oltre i nostri limiti e la nostra morte, sia fisica sia spirituale. Quello che è totalmente chiaro, nel pensiero di Bergson, è da un lato che lo spirito trascende costantemente la natura e le è in un certo senso superiore, e dall’altro che ogni realtà religiosa prodotta dagli uomini (compresi i loro sistemi di pensiero e le loro “chiese”) è attraversata da entrambe queste “religioni”. Con Bergson, perciò, vorrei affermare con molta convinzione che sostituire alla polarità tra natura e spirito quella tra chiesa “conservatrice” e società postmoderna (ostile alla religione in quanto incline al cambiamento) mi pare un grande rischio, fondamentalmente sbagliato. La vera questione è come far sì che la religione dinamica fecondi e superi costantemente le barriere (mai del tutto eliminabili) di quella statica, all’interno dello stesso cristianesimo. Perché? Certo, dipende da cosa riteniamo stia al cuore della “rivelazione” cristiana. Se pensiamo che essa consista in un insieme di insegnamenti puntuali e immutabili su come dobbiamo vivere e comportarci, dalla sfera più intima a quella politica – detto altrimenti: se la riteniamo soprattutto un insegnamento di verità al plurale – allora potremmo (forse) riconoscere fondato il ruolo prevalentemente di pura conservazione che Zhok sembra voler riservare alla chiesa. Se però riteniamo che la verità fondamentale sia il mandatum novum, l’invito ad amarci gli uni gli altri come Gesù ci ha amati (dunque senza porre alcuna condizione), allora non dovremo e non potremo mai temere le eventuali nuove direzioni vitali in cui lo spirito può condurre sia chi crede sia chi non crede, mediante il pensiero, la creatività, l’espandersi dei desideri e delle culture umani. Dovremo solo imparare la difficile arte del discernimento, che in termini laici, come ha ricordato con grande profondità Hannah Arendt, è possibile solo laddove ci si esercita a pensare e si accetta costantemente che tutto venga costantemente messo in discussione, dentro di noi e fra di noi. Altrimenti di fronte al nuovo e al positivo rischieremo di opporre dinieghi mortiferi, per noi e per molti altri. Per questo credo sia fondamentale vincere il “complesso dell’assedio” che la chiesa sembra vivere in Italia, a mio avviso in maniera del tutto ingiustificata, probabilmente rafforzato da decenni di palese riduzione della libertà di pensiero al suo interno nonché da una formazione teologica che non mi pare apra più, come invece faceva un tempo, all’esplorazione coraggiosa di nuovi itinerari di riflessione alla luce della fede, ma tenda a ripiegarsi su uno sforzo apologetico peraltro piuttosto striminzito e affatto lungimirante. Perché la vita va avanti, inesorabilmente. Non credo peggiorando (difficile dire che siamo moralmente inferiori a secoli fa), e neppure sistematicamente secondo inesorabili linee di progresso. Ma limitandoci alla pura conservazione, alla staticità, alla chiusura, come cristiani e come chiese rischiamo sicuramente non solo di non saper cogliere i semi di vita e di speranza che sorgono costantemente intorno a noi, ma addirittura di spegnere la capacità di desiderare e di amare quanti sono affidati al nostro ministero. Detto altrimenti, di spegnere lo S/spirito. Invece di promuovere la vita diventiamo tristi annunciatori di un mondo e una società chiusi, spiritualmente morti.”
Mi piace ricordare che il cristianesimo si fa portavoce della buona novella, sostantivo che deriva dal latino novellus, che significa “novità” o “notizia nuova”.
E’ da tanto che purtroppo non fotografo con la reflex, ancora di più da quando non post-produco uno scatto. Ricordo però che una delle cose a cui prestavo più attenzione e che ancora oggi mi fa apprezzare o meno una foto è la saturazione dei colori. Spingerla al minino (arrivando al bianco, nero, grigio) o al massimo significa allontanarsi dalla realtà: non è un male, basta saperlo. Il 14 settembre esprimevo il mio disagio nei confronti di un modo polarizzato e polarizzante di vedere tutto, un approccio che tende a strumentalizzare qualsiasi cosa pur di affermare la propria idea facendo scomparire i colori intermedi, i “dipende”, i “distinguo”, i “capiamo meglio”. Ho allora deciso di pubblicare in rapida successione tre articoli che trattano argomenti diversi ma che possono essere ricondotti a questo tema. Parto da quello più vicino nel tempo: è del 20 settembre, a firma di Fabrizio Mastrofini, e pubblicato su Settimana News, sito in continuità con il Centro editoriale dehoniano. L’articolo, prendendo spunto dall’omicidio di Charlie Kirk, affronta il tema della polarizzazione all’interno della chiesa statunitense e il ruolo di Papa Leone XIV.
“Si approfondisce nel Nord America la polarizzazione politica, con effetti sul ruolo della religione e della Chiesa cattolica, dopo l’uccisione violenta di Charlie Kirk. Prima di passare in rassegna episodi e fatti che ne danno conto, è opportuno ricordare cosa disse Papa Leone XIV agli operatori dei media, all’indomani della sua elezione. «Disarmiamo la comunicazione da ogni pregiudizio, rancore, fanatismo e odio; purifichiamola dall’aggressività. Non serve una comunicazione fragorosa, muscolare, ma piuttosto una comunicazione capace di ascolto, di raccogliere la voce dei deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra. Una comunicazione disarmata e disarmante ci permette di condividere uno sguardo diverso sul mondo e di agire in modo coerente con la nostra dignità umana». Era il 12 maggio, poco più di 4 mesi fa, appena. E la situazione è peggiorata.
L’omicidio di Charlie Kirk ha modificato il panorama. Dice a La Repubblica del 20 settembre lo studioso belga naturalizzato canadese Derrick De Kerckhove, allievo e prosecutore del lavoro di Marshall McLuhan: «Gli americani vengono licenziati a destra, sinistra e centro, solo per le opinioni che esprimono, una mail, un messaggio sui social. È una farsa: l’unica libertà di espressione rimasta è quella di elogiare Trump». «Quanto accade è frutto di una lunga storia nel trascurare la frase “We the people”, con cui comincia la Costituzione. Soprattutto il Partito democratico ha dimenticato il popolo, creando le condizioni per la rabbia che ha favorito l’elezione di Trump nel primo mandato. Lui è stato molto abile a sfruttarla, soprattutto con la comunicazione, attraverso i social. I democratici poi hanno avuto l’occasione di fermarlo con Biden, ma hanno fallito l’obiettivo, accelerando rabbia e risentimento. Lui ha sfruttato molto bene la debolezza degli avversari, ottenendo quello che loro ritenevano impossibile, ossia la rielezione». Sul The New York Times International Edition del 20 settembre, l’analista politica Lydia Polgren rileva «l’ossessione» politica e sociale di vedere una minaccia «transgender» dietro l’omicidio di Charlie Kirk (perché l’assassinio conviveva con una persona transgender). A ciò si aggiunge la politica presidenziale aggressiva verso i media, giornali e TV, percepiti come ostili, sostanziatasi nell’apertura di una causa per danni per 15 miliardi di dollari al The New York Times, bloccata da un giudice federale il 19 settembre perché inconsistente. La religione ha molto a che fare con la politica negli USA, per il sostegno evangelico alla destra repubblicana, per il cattolicesimo esibito dal vicepresidente Vance, per l’avere oggi sul Soglio di Pietro un papa statunitense. Il movimento Turning Point USA fondato da Charlie Kirk ha, tra gli altri, il sostegno di The Post Millennial, sito conservatore canadese, abbastanza ossessionato dalle presenze criminali «transgender» e di Human Events, altro sito conservatore di analisi politica che combatte accanitamente contro i movimenti di sinistra, soprattutto Antifa, dichiarato terrorista da Trump il 18 settembre. Sono siti, i primi due, ascrivibili all’area religiosa dei post-millennials, coloro i quali credono nel ritorno di Gesù alla fine del Millennio in corso, secondo un’interpretazione letterale del capitolo 20 dell’Apocalisse.
Papa Leone XIV entra in questa dinamica, che si svolge sui social media e attraverso i siti citati e gli altri del conservatorismo cattolico, in quanto da lui ci si attende la sconfessione del magistero di Papa Francesco. Avere ricevuto il 1° settembre il gesuita americano James Martin, in prima fila nella pastorale di accoglienza del mondo LGBTQ, è stato visto con sconcerto. A parziale correzione è arrivata l’intervista pubblicata in Perù nel libro biografico su Robert Prevost, in quanto sembra chiudere su una serie di questioni spinose per i conservatori. Sulla questione LGBTQ, ha detto Papa Leone XIV, la Chiesa continua a essere aperta, e ha citato Papa Francesco. Però – ha aggiunto – «trovo altamente improbabile, certamente nel prossimo futuro, che la dottrina della Chiesa, in termini di ciò che insegna sulla sessualità, ciò che la Chiesa insegna sul matrimonio, cambierà». «Ho già parlato di matrimonio, come ha fatto Papa Francesco quando era Papa, di una famiglia composta da un uomo e una donna in un impegno solenne, benedetti nel sacramento del matrimonio. Ma anche solo dirlo, capisco che alcuni lo prenderanno male». Niente spiragli per il diaconato alle donne. «Al momento non ho intenzione di cambiare l’insegnamento della Chiesa sull’argomento», anche perché «ci sono parti del mondo che non hanno mai veramente promosso il diaconato permanente, e questo di per sé è diventato una domanda: perché dovremmo parlare di ordinare donne al diaconato se il diaconato stesso non è ancora adeguatamente compreso, sviluppato e promosso all’interno della Chiesa?».
Una linea che sembra ispirata alla cauta prudenza. Ma non basta per la destra USA, collegando su questi temi in modo trasversale evangelicals e conservatori cattolici. Dopo l’uccisione di Charlie Kirk il mondo evangelico ha ripreso grande visibilità nel chiedere un ritorno ai valori cristiani nella vita pubblica. E i media conservatori cattolici hanno ripreso fiato, hanno intervistato il cardinale Mueller, che ha definito Charlie Kirk un martire di Cristo. Il prelato era già in prima fila tra gli oppositori di Papa Francesco, chiede di tornare alla messa in latino, all’ostracismo verso l’Islam e il mondo LGBTQ. Né mancano le forti spinte affinché Leone XIV sconfessi apertamente il suo predecessore. Come scrive Carol Zimmermann, opinionista del National Catholic Reporter, settimanale progressista USA, «tra le attuali convinzioni fortemente radicate e contestate a sinistra e a destra, spesso sembra che non ci sia davvero spazio per una via di mezzo: si viene etichettati come Democratici o Repubblicani, Conservatori o Liberali senza molto margine di manovra. Anche se questa polarizzazione gioca un ruolo importante nei talk show e nelle proteste di piazza, dobbiamo ancora capire come andare d’accordo con chi ha opinioni diverse e sederci allo stesso tavolo». The Pillar, testata on line notoriamente schierata su posizioni conservatrici, notava il silenzio dei vescovi USA sull’omicidio di Kirk e lo attribuiva al fatto che la Conferenza episcopale «è guidata da un diplomatico di carriera (l’arcivescovo Timothy Broglio – ndr) e da un dirigente (il segretario generale Michael Fuller – ndr) plasmato in modo unico dalla tempesta di polemiche. E le reazioni all’assassinio di Kirk sono state emotivamente intense da entrambe le parti, il che significa che qualsiasi cosa la conferenza episcopale avesse detto a riguardo avrebbe probabilmente portato a ulteriori controversie, esattamente ciò che i suoi attuali dirigenti sembrano intenzionati a evitare sulle questioni pubbliche». In realtà, diversi vescovi cattolici si sono espressi nei giorni successivi al fatto.
Come scrive Stan Chu Ilu sul National Catholic Reporter, «in un’epoca in cui la vita politica sembra dominata dalla paura e dalla rabbia, la testimonianza cattolica di un discorso ragionato, della dignità umana, di un’etica di vita coerente e della nonviolenza evangelica potrebbe rappresentare una delle ultime speranze per l’esperimento americano. I cattolici americani possono applicare ciò che stanno imparando attraverso le pratiche della sinodalità per influenzare il discorso politico, contribuendo a creare uno spazio ampio e stimolante in cui la voce di tutti sia ascoltata con rispetto e in cui le persone possano crescere reciprocamente nella comprensione della verità». Sui social accade di tutto, a dispetto di ogni moderazione. Lo si vede seguendo su X Mike Lewis, fondatore ed editor del sito Where Peter Is o anche il commentatore britannico Austin Ivereigh. Il mondo conservatore cattolico sta moltiplicando gli account che con la scusa di riprendere il pontificato di Leone XIV in realtà danno voce alle richieste di cancellare l’insegnamento di papa Francesco. Altri (niente nomi, no pubblicità) postano messaggi in cui assicurano di «aver ricevuto conferma da fonti attendibili che Papa Leone XIV è disposto a ripensare e rivedere la politica di Francesco». Al centro del dibattito: la sessualità e la messa in latino. E soprattutto il National Catholic Register – testata conservatrice del gruppo EWTN – rilancia in tutti i modi l’appello di una Catholic Coalition affinché papa Leone XIV si impegni contro la «lobby» che vuole sdoganare le unioni tra persone dello stesso sesso. Ma a leggere bene articolo e appello, si scopre che la «coalizione» ha 25 associazioni, senza nomi, ed è collegata al movimento «Tradizione Famiglia Proprietà» del brasiliano Plinio de Correa (qui il sito italiano del movimento). Movimento e fondatore ben noti negli anni Ottanta e Novanta dello scorso Millennio per sostenere l’impegno contro la teologia della liberazione e qualunque forma di impegno collegata alla Dottrina sociale della Chiesa. Dopo 130 giorni di pontificato, dunque, la polarizzazione è in pieno sviluppo”.
Sono anni che non seguo un dibattito in tv, da quando si è smesso di portare avanti la forza di un ragionamento, da quando non sono più ammesse le sfumature, da quando è tutto bianco o tutto nero, da quando la dialettica ha perso strada in favore delle grida, da quando la verità ha perso spazio in favore dell’opinione, da quando uno vale uno, cosa alla quale non credo proprio. Ma, mi si dirà, esistono anche dibattiti ben fatti: vero, però sono pochi e non fanno audience. Preferisco seguire approfondimenti giornalistici o interviste a esperti. La diffusa polarizzazione di idee non mi fa sentire a mio agio. Sto scomodo, ad esempio, nella situazione che si sta vivendo in questi giorni dopo l’uccisione di Charlie Kirk nello Utah. E allora mi indirizzo verso letture che cercano di approfondire, di capire un po’ di più, anche staccandosi dalla notizia dell’omicidio, come questa de Il Post, pubblicata venerdì 12 settembre (questo articolo non ha niente a che vedere con le polemiche di questi giorni). Vi si parla di “dibattito”, non tanto inteso come capacità argomentativa, ma con un significato più affine alla derivazione etimologica del termine dal verbo dibattere, che a sua volta è composto dal prefisso “di-” e da “battere”, indicando l’atto di “battere ripetutamente”.
“Charlie Kirk, l’attivista della destra americana ucciso mercoledì in un attentato nello Utah, era una delle persone non elette più influenti della politica statunitense. Faceva politica senza essere un politico, ma andava molto oltre i contenuti che diffondeva sui social media: usava quell’influenza per organizzare campagne e raccolte fondi, sostenere politici locali e nazionali, costruire relazioni dirette con parlamentari e finanziatori conservatori. Il suo ruolo era per molti aspetti eccezionale perché costruito da giovanissimo e praticamente da zero, e soprattutto nello spazio pubblico che da anni è la sede principale delle “guerre culturali” tra destra e sinistra negli Stati Uniti: i campus universitari. Nel contesto statunitense, per “guerre culturali” si intendono quei dibattiti conflittuali che non riguardano tanto l’economia o la politica estera, bensì questioni più valoriali e identitarie: l’aborto, i diritti LGBTQ+, le armi, il ruolo della religione nella vita pubblica, i programmi scolastici, il razzismo. Kirk si trovava esattamente in questo contesto, quando è stato ucciso: un dibattito pubblico alla Utah Valley University, primo evento del “The American Comeback Tour”, una serie di incontri che teneva abitualmente nelle università. C’erano circa tremila persone di fronte al gazebo da cui stava parlando, poco prima che qualcuno gli sparasse. Come ogni altro suo incontro, anche questo era gestito da Turning Point USA, un’associazione non profit di giovani conservatori fondata da Kirk a 18 anni, che riceve decine di milioni di dollari di donazioni, perlopiù da fondazioni, e ha sedi in oltre 850 università americane. In ciascuna organizza periodicamente dei dibattiti in cui sono invitati a parlare politici, oratori conservatori e altri sostenitori del presidente Donald Trump. Kirk aveva parlato giovanissimo già alla convention dei Repubblicani del 2016, ma è soprattutto negli ultimi anni che era diventato una figura potentissima nel partito, capace di raccogliere fondi e di aiutare carriere importanti come quella del vice presidente JD Vance. La sua capacità di mobilitare migliaia di giovani lo aveva accreditato anche tra gli esponenti più anziani dei Repubblicani, e in occasione delle ultime elezioni aveva aiutato la campagna elettorale negli stati in bilico. Turning Point aveva organizzato a Glendale, in Arizona, l’evento in cui l’ex candidato alle presidenziali e attuale segretario alla Salute Robert Kennedy Jr. aveva annunciato il proprio sostegno a Trump: c’erano circa 20mila persone. Nelle ultime due settimane di campagna elettorale, altre 16mila avevano partecipato a un incontro a Duluth, in Georgia, e 18mila a un altro a Las Vegas, in Nevada, entrambi organizzati da Turning Point. Migliaia di partecipanti, come sempre, erano studenti universitari. Charlie Kirk insomma aveva mostrato ai Repubblicani che le idee conservatrici potevano far presa anche tra i giovani dei college, che quel mondo per loro non era inaccessibile. E poi c’è il come. Kirk era uno dei più conosciuti e abili esponenti di uno stile oratorio di grande successo, sia nelle università americane sia sui social media. Durante i suoi dibattiti nei campus, da un gazebo con la scritta Prove me wrong (“dimostrami che sbaglio”), rispondeva alle domande del pubblico con ostentata spavalderia, spesso cercando di umiliare i suoi interlocutori progressisti, più che ragionare con loro. Spezzoni di quegli incontri che circolano sui social media e sono visti da milioni di persone hanno titoli come «45 minuti di Charlie Kirk che zittisce studenti universitari». Questo tipo di animosità e aggressività verbale è comune sui social media, ma teoricamente meno adatto a un istituto di formazione come le università. Se è stato largamente accolto anche in queste sedi dai giovani conservatori – e da una parte dell’opinione pubblica – è perché da anni la destra e l’estrema destra americana riescono a screditare le università e a rappresentarle come centri di indottrinamento della “cultura woke” e della cancel culture. L’ostilità verso i progressisti nei dibattiti è percepita da molte persone di destra come un meccanismo legittimo e necessario di difesa e di contrasto a una cultura di sinistra storicamente prevalente nelle università americane. Attraverso i suoi eventi Kirk aveva contribuito a introdurre i discorsi dell’estrema destra in contesti universitari in cui era tradizionalmente prevalente la cultura di sinistra, al punto che in più occasioni gli interventi degli oratori conservatori erano stati cancellati dalle istituzioni universitarie in seguito alle proteste anche violente degli studenti. Kirk era molto abile a far contraddire gli interlocutori, a porre domande a cui non riuscivano a rispondere, a zittirli con formulazioni a effetto, ma in nessun momento le conversazioni prevedevano una qualche forma di ascolto reciproco e di riconoscimento delle ragioni altrui. Invece di cercare nelle discussioni uno strumento per convincere chi la pensa diversamente, il formato di dibattiti nei campus che Kirk portava in giro premia la sopraffazione e l’annientamento degli avversari, obiettivo inseguito prevalentemente attraverso furbizie dialettiche e più raramente con la sostanza degli argomenti. È una tendenza strettamente legata alla cultura statunitense dei dibattiti, insegnata fin dalle scuole con corsi e tornei dedicati: tornei ai quali è normale, per esempio, che data una determinata questione divisiva sia scelto casualmente quale squadra debba sostenere la posizione a favore e quale quella contraria. A essere valutata e premiata è insomma la tecnica di argomentazione e la logica dei ragionamenti, a prescindere del merito delle posizioni espresse. I dibattiti pubblici nei campus, in persona o ripubblicati poi online, sono stati un eccezionale veicolo di diffusione di un approccio al confronto di idee in cui prevalgono quelle più estreme e perentorie. Questo, insieme a molte altre cause, ha contribuito alla polarizzazione dei giovani americani su questioni come la libertà di espressione, l’aborto, l’identità di genere, i diritti delle minoranze o l’invasione israeliana a Gaza. Rispetto a ciascuno di questi temi e di altri, di volta in volta, le università sono state sede di scontri ideologici e spesso anche fisici tra studenti, a cui l’amministrazione di Donald Trump ha reagito attuando politiche repressive e reclamando potere di influenza su programmi di studio e di ricerca, criteri di ammissione degli studenti e altre decisioni. In questo contesto molto polarizzato la retorica e lo stile di Kirk, come quelli di altri commentatori apprezzati dalla destra americana, da Jordan Peterson a Ben Shapiro, sono diventati un riferimento ammirato da molti studenti e giovani sostenitori del movimento MAGA (Make America Great Again, lo slogan di Trump). In un certo senso, come scrisse a luglio l’Economist, i dibattiti pubblici di Kirk nelle università davano l’impressione di restituire agli intellettuali conservatori una piattaforma a loro sottratta dai progressisti. Grazie alla sua retorica brillante e alla sua rapidità di ragionamento, Kirk era stato uno degli oratori più abili a trasformare quei dibattiti pubblici in forme di intrattenimento dalle grandi potenzialità virali. A Kirk era ispirato un personaggio della stagione in corso di South Park, protagonista di una sottotrama proprio sui dibattiti nei campus. Tra le altre cose, Kirk di recente era stato il protagonista del primo episodio di una serie molto popolare di dibattiti su YouTube, intitolata Surrounded (“circondato”) e creata dall’azienda di intrattenimento Jubilee Media. I dibattiti durano circa un’ora e mezza, con un tempo limitato per ogni dialogo tra l’ospite e ciascun suo “avversario”: hanno titoli del tipo «un progressista contro venti conservatori di estrema destra» (è l’episodio con il giornalista Mehdi Hasan). L’episodio con Kirk, intitolato «25 studenti universitari progressisti possono superare in astuzia un conservatore?», ha più di trentuno milioni di visualizzazioni (oltre trenta milioni le aveva già da prima dell’attentato). Kirk sostiene l’illegalità dell’aborto, per esempio, mentre alcuni suoi interlocutori non riescono a proseguire il dialogo con lui e alla fine lo disprezzano apertamente. «Spero che tua figlia viva una vita molto felice e che riesca a stare lontana da te», dice una di loro. È un esempio molto chiaro del tipo di dibattito in cui Kirk eccelleva. Come ha scritto di recente il New Yorker a proposito del programma, gli interlocutori più abili sono semplicemente quelli che hanno più esperienza, più abituati a citare dati ed enigmi logici per contraddire le affermazioni dell’avversario il più rapidamente e duramente possibile. «L’obiettivo non è informare o istruire, ascoltare o elaborare, costruire o ragionare, ma vincere, dominare, schiacciare, spaccare il cervello dell’avversario, produrre un argomento di tale devastante perentorietà da poter considerare la questione chiusa, una volta per tutte», ha scritto il New Yorker.”
“La maggior parte degli italiani oggi si confronta, su qualsiasi tema, soprattutto online; in particolare attraverso i social network. Succede in Italia come altrove. Assai meno capita di confrontarsi nei vari luoghi fisici destinati prima, in modo prevalente, a questo scopo: dalle conferenze alle cosiddette “chiacchiere da bar”. Tuttavia la mediazione di hardware e software, di algoritmi e intelligenza artificiale generativa (IA) non cambia soltanto il supporto/luogo in cui ci esprimiamo. Modifica pure il modo con cui affrontiamo questioni spesso impegnative e complesse; ciò influenza l’approccio a quei temi anche fuori dal Web. Sono incluse le discussioni dedicate, in modo più o meno approfondito, al sistema di valori e princìpi morali che guidano, o dovrebbero guidare, il comportamento individuale e sociale; alcune accese diatribe virtuali tracimano grossolanamente persino nell’etica, intesa come riflessione sui fondamenti, i princìpi e le implicazioni dei sistemi morali. Purtroppo sui social anche in campo etico-morale prevale quasi sempre un lessico all’insegna della superficialità e dell’emotività. Ciò è spesso frutto di atteggiamenti mentali e distorsioni cognitive (bias). I bias sono incentivati dagli algoritmi che, per scelta produttiva e commerciale delle big-tech, governano le piazze virtuali. La circostanza favorisce la polarizzazione, fenomeno studiato dalla psicologia sociale anche prima dell’avvento del Web: i membri di un gruppo sono spinti a far proprio il punto di vista più estremo rispetto alla media di quelli adottati nell’àmbito del gruppo stesso. Di certo, il “metabolismo” dei social spinge verso un’accentuazione del fenomeno. Come scrive Maura Coniglione su RizzoliEducation.it: «nei dibattiti online, […] prevale il principio: “O la pensi come me, o sei contro di me, e con te non posso dialogare”. È il motivo per cui, sotto contenuti che trattano temi divisivi, i commenti mostrano opinioni così polarizzate e inconciliabili da impedire una immedesimazione con altri punti di vista, come se l’altro venisse disumanizzato». Lo psicologo sociale Matthieu Vétois precisa che, «a livello di relazioni tra gruppi, la polarizzazione emerge quando le convinzioni e i comportamenti collettivi si radicalizzano opponendo un gruppo all’altro. Sul piano individuale si traduce in una radicalizzazione delle posizioni […], così come nel rifiuto e nella delegittimazione di idee divergenti da quelle del proprio gruppo di appartenenza». Con l’aiuto del sociologo William Davies, possiamo sostenere che «dove […] l’emotività assume un ruolo fondamentale, si manifesta l’improvvisa assenza di un punto di vista autorevole sulla realtà. Nell’era digitale, quel vuoto di informazioni attendibili viene colmato da voci, fantasie e congetture, alcune delle quali immediatamente distorte ed esagerate per adattarle al discorso che si vuole veicolare».
Quando questi atteggiamenti riguardano temi etici o politici (spesso i due piani si intersecano), i contraccolpi non si avvertono solo nella sfera della nostra “quotidianità digitale”; incidono pure sui punti di vista e sulle scelte fatte fuori dal Web, sul rapporto con le istituzioni e sull’atteggiamento in occasione di scadenze elettorali o referendarie, quindi sulla propaganda politica. Ciò induce a riflettere a proposito del concetto, anche lessicale, di “etica pubblica”, una volta che questa viene mediata e talvolta adulterata dai social e da Internet; induce poi a valutare l’impatto del fenomeno sulla cultura di massa. Perché il linguaggio espresso online ha un duplice effetto: da un lato – pur non evitando stress, rabbia o delusione – ci risparmia il contatto diretto, che è stato per millenni un elemento cruciale nell’interazione tra le persone; dall’altro lato, la possibilità di scavalcare questa interazione contribuisce a far aumentare la supponenza, l’aggressività, la sentenziosità, l’emotività, il linguaggio d’odio (hate speech).
Come ha riassunto il disegnatore satirico Francesco Tullio Altan in una vignetta, nel contesto dei social network anche il razzista fascistoide si sente al sicuro; mentre è seduto comodamente davanti al computer, afferma: «Un semplice clic e si può fare un po’ di razzismo comodamente da casa». Tantissimi casi di cronaca, anche recentissimi, legati a “giudizi” agghiaccianti espressi online (si pensi a certi sadici commenti antropocentrici sui femminicidi o agli insulti rivolti contro la 94enne senatrice a vita Liliana Segre, superstite e instancabile testimone della Shoah) ci consentono di verificare quanto la digitalizzazione della riflessione immorale o amorale trasformi le persone più insospettabili in odiatori seriali; questi si esprimono più o meno di getto nell’illusione di poterla fare franca. Insomma, l’ambiente digitale favorisce l’aggressività, la polarizzazione e la propaganda. La discussione su temi complessi – inclusi quelli etici – viene ridotta a slogan; le incubatrici di questo atteggiamento sono soprattutto le cosiddette “echo chamber” digitali: quelle “bolle” dove «idee o credenze più o meno veritiere vengono amplificate da una ripetitiva trasmissione e ritrasmissione all’interno di un àmbito omogeneo e chiuso». È opportuno, dunque, dedicarsi ai riflessi del dibattito social sull’etica pubblica. Questo contesto è esaminato da Rocco D’Ambrosio, presbitero della diocesi di Bari, a Roma professore ordinario di Filosofia politica nella Facoltà di filosofia della Pontificia Università Gregoriana e docente di Etica della pubblica amministrazione. D’Ambrosio se ne occupa, mentre affronta la questione anche su altri fronti, nel recentissimo libro L’etica stanca. Dialoghi sull’etica pubblica (Roma, Studium Edizioni, 2025), dove riporta i contenuti di una riflessione in cui ha coinvolto molti interlocutori provenienti da vari àmbiti (accademico, giuridico, medico, giornalistico, istituzionale ecc). Pur attingendo molto a pensatori classici (come Platone e Aristotele) e moderni (tra gli altri Max Weber, Hannah Arendt, Emmanuel Mounier, e John Rawls), si concentra principalmente sull’analisi dell’etica pubblica nelle società liberal-democratiche, soprattutto quella italiana.La sintesi in quarta di copertina rende l’idea della posta in gioco: Si entra nella sfera pubblica ogni qualvolta usciamo di casa, a piedi, o in auto o con i mezzi pubblici, per raggiungere il luogo di lavoro o di incontro con amici e conoscenti, sedi di istituzioni politiche, amministrative, culturali, di volontariato, comunità di fede religiosa. Entriamo nella sfera pubblica, in maniera del tutto diversa, anche ogni qualvolta usiamo il nostro smartphone o computer per navigare o essere presenti sui social. Tutte queste azioni pubbliche pongono tante questioni e dubbi etici. Il titolo stesso – L’etica stanca – gioca su una duplice interpretazione: la discussione sull’etica può risultare faticosa per chi l’affronta; oppure l’etica stessa può essere “stanca” di orientare e insegnare in un mondo che sembra ignorarla. L’autore sceglie di mantenere aperta questa ambiguità, sottolineando comunque la perdurante necessità dell’etica, intesa come “il nostro modo di stare al mondo”. La riflessione ruota intorno ad alcuni cardini concettuali. Per esempio, per quel che riguarda il confronto tra etica pubblica ed etica privata, D’Ambrosio nega che ci sia una netta separazione. Se la prima è definita come il modo di comportarsi nella sfera pubblica (include politica, economia, lavoro, vita associativa e istituzionale), la seconda, che riguarda le scelte cosiddette “private”, ha inevitabilmente ricadute sulla collettività. E viceversa. Il saggio affronta anche la “privatizzazione del pubblico”: entità non statali, specialmente nel settore tecnologico e mediatico, “privatizzano” lo spazio pubblico e influenzano pesantemente le dinamiche sociali e politiche, spesso a scapito del bene comune. In questo quadro, particolare attenzione è dedicata all’influenza dei social media e dell’intelligenza artificiale generativa. Di fatto, le piattaforme social privilegiano, rispetto alla razionalità, l’emotivismo – con i giudizi etici che diventano espressione di preferenze personali o sentimenti momentanei, facilmente manipolabili – piuttosto che il risultato di una riflessione condivisa: le informazioni con il maggior potenziale di “eccitazione” prevalgono sugli argomenti ponderati, grazie agli algoritmi concepiti dalla big-tech per massimizzare il traffico e il profitto sulle loro piattaforme. Ciò contribuisce a determinare una “crisi delle relazioni”, legata all’individualismo e alla perdita di un linguaggio capace di esprimere profondità. Secondo D’Ambrosio, alla vera “relazione” umana si contrappone la mera “connessione” digitale. In quest’ottica, il rapporto tra responsabilità individuale e collettiva emerge come il tema cardine, inteso come capacità di rispondere delle conseguenze delle proprie azioni e come impegno attivo contro l’indifferenza («Me ne frego»). In sintesi, secondo l’analisi presentata in L’etica stanca, l’ecosistema digitale attuale rappresenta una seria minaccia alla percezione e alla pratica di un’etica pubblica basata su razionalità, verità, empatia, bene comune e dialogo autentico. Scrive l’autore: «Un’etica pubblica, come ogni pensiero etico, è possibile solo se siamo capaci di dare ragione dei nostri giudizi, riconoscendo l’influenza delle emozioni senza però permettere che queste governino del tutto i processi cognitivi o si sostituiscano ad essi». Anche in Italia la digitalizzazione del dibattito pubblico e l’intelligenza artificiale stanno ridefinendo il panorama dell’etica pubblica, presentando sia notevoli opportunità sia sfide complesse. Fattori culturali, come la normalizzazione del “vantaggio personale”, continuano a influenzare la pratica dell’etica pubblica, intrecciata fortemente con quella privata. Bisognerebbe promuovere l’etica dal basso, rafforzando anche il senso della responsabilità civica. Questo processo, lento e complesso, dovrebbe coinvolgere attivamente tutti, forze politiche e sociali e istituzioni incluse (con la scuola in testa), per creare un ambiente in cui le norme etiche democratiche non siano imposte, ma interiorizzate e percepite come intrinsecamente “buone” e “utili” per la collettività. I segnali che vengono, per esempio, dalla disaffezione verso alcuni pilastri della democrazia italiana – come le elezioni e i referendum – non depongono a favore dell’ottimismo. Tuttavia, come suggerisce la lettura del saggio L’etica stanca, sarebbe profondamente immorale, a livello pubblico e individuale, dare per persa questa partita fondamentale.”
Alberto Acerbi è ricercatore nel Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento. Si interessa di evoluzione culturale e antropologia cognitiva. Ha recentemente pubblicato per Einaudi il libroTecnopanico. Media digitali, tra ragionevoli cautele e paure ingiustificate. Si tratta di un libro che vuol mostrare “come possiamo affrontare con intelligenza e consapevolezza le sfide dell’era digitale. Una guida indispensabile per orientarsi tra preoccupazioni giustificate e allarmismi infondati, e affrontare in modo critico e consapevole l’era digitale”. Il 13 marzo ha pubblicato per Il Mulino un articolo molto interessante dal titolo “Rabbit holes are for rabbits. Quante sono le paure collettive legate alle recenti tecnologie di comunicazione digitale?”. Eccolo:
“All’inizio di Alice nel paese delle meraviglie, la protagonista, annoiata, vede un coniglio bianco «con occhi di rubino» che le passa accanto. Non solo: il coniglio parla tra sé e sé lamentandosi di essere in ritardo, ed estrae un orologio dal suo panciotto per controllare l’ora. Alice, incuriosita, lo segue lanciandosi nella buca della conigliera e così iniziano le sue surreali avventure. La «tana del bianconiglio» è divenuta la metafora di un processo in cui, partendo da credenze ordinarie, si diventa via via sempre più coinvolti in credenze meno ordinarie, persi in situazioni che si allontanano sempre di più dalla realtà. Immaginate di essere su YouTube e di voler cercare, per curiosità, un video di un comizio di Donald Trump; o di essere un giovane adolescente (maschio) in cerca di consigli di vita. Questi sono classici punti di partenza, riportati dai media, di «rabbit holes» generati dagli algoritmi dei social media. I video che YouTube vi proporrà diventeranno, lentamente ma costantemente, più estremi. Passerete da Trump all’estrema destra e poi a «Potere bianco» e alla negazione dell’Olocausto. I consigli di vita per giovani maschi vi porteranno a video che suggeriscono che la civiltà occidentale è minacciata dagli immigrati musulmani e dai «marxisti culturali», che le differenze innate di Qi spiegano totalmente le disparità razziali e che il femminismo è un’ideologia pericolosa. Alcuni di voi finiranno per crederci. L’idea di «radicalizzazione algoritmica» ha avuto un successo considerevole: il meccanismo è intuitivamente plausibile e ci permette di dare senso a circostanze spiacevoli. Basterebbe che i social media non proponessero questi contenuti così facilmente ed eviteremmo la diffusione di queste credenze. Purtroppo, quando si è provato a valutare questa ipotesi i risultati non sono stati incoraggianti. Varie ricerche mostrano che l’algoritmo di YouTube, almeno negli ultimi anni, non sembra proporre video dai contenuti politici più estremi di quelli che gli utenti guardano. La maggior parte dei suggerimenti punta ai canali dei media tradizionali, che sono quelli che hanno già più audience. Come nel caso delle news, la stragrande maggioranza delle interazioni con siti di informazione online riguarda media tradizionali e l’algoritmo di YouTube semplicemente rinforza questa tendenza. I canali estremisti hanno, nella maggior parte dei casi, un successo limitato. Quando sentiamo nei media di un canale o di un video «alternativo» che ha avuto molto successo è appunto perché si tratta di un caso raro. Un aspetto interessante è, inoltre, che le visualizzazioni dei video dei canali estremisti o «alternativi» provengono generalmente da utenti che sono già iscritti a quei canali o a canali simili, al contrario di quello che avviene per i canali dei media tradizionali che riescono meglio a catturare nuovi utenti. Non sorprendentemente, le raccomandazioni algoritmiche si allineano agli orientamenti politici degli utenti. Se, di vostra iniziativa, guardate video con tendenze politiche di estrema destra (o di estrema sinistra), YouTube continuerà a proporvi video di quel genere ma senza che diventino necessariamente più estremi. Partendo da video con tendenze politiche di estrema destra, per esempio, vi potrà capitare che vi vengano proposti anche video dai contenuti problematici discussi sopra (antisemitismo, razzismo e simili), ma, come detto, è perché da lì siete partiti. Uno studio recente, ideato da Homa Hosseinmardi e colleghi, e pubblicato nei Proceedings of the National Academy of Sciences degli Stati Uniti, ha tentato di esaminare la questione della radicalizzazione algoritmica e in particolare della causalità sottostante – sono le nostre scelte o sono le raccomandazioni dell’algoritmo? – con una metodologia ingegnosa. I ricercatori hanno creato quelli che chiamano dei «bot controfattuali». Nelle scienze sociali, un’analisi controfattuale esplora cosa sarebbe potuto accadere se certe condizioni fossero state diverse rispetto a quelle effettivamente esistenti. Cosa sarebbe successo se Hitler avesse vinto la Seconda guerra mondiale? Cosa sarebbe successo se i governi avessero adottato politiche energetiche sostenibili vent’anni fa? Più in piccolo, immaginate che qualcuno crei un finto utente YouTube che ha la vostra stessa cronologia di visualizzazioni fino a oggi. Questo è il vostro bot controfattuale. Da domani, il vostro bot seguirà ciecamente le raccomandazioni dell’algoritmo, mentre voi continuerete la vostra attività consueta. In questo modo sarà possibile confrontare cosa sarebbe successo (ecco il controfattuale) se un utente con la storia come la vostra avesse seguito le raccomandazioni algoritmiche (il bot) oppure non necessariamente (voi). Se è l’algoritmo di YouTube a spingere gli utenti verso contenuti estremi ci dovremmo aspettare che il bot visualizzi video più estremi di voi. I risultati mostrano che quello che avviene è esattamente il contrario. Non solo i video proposti ai bot controfattuali non sono più estremi, ma quelli proposti ai bot degli utenti con precedenti visualizzazioni di contenuti più estremi, o faziosi, diventano in breve tempo politicamente moderati. Ancora una volta, quindi, le nostre scelte contano – sembra strano a dirsi, ma molto spesso, quando pensiamo ad algoritmi e social media, tendiamo a dimenticarlo. Altre ricerche rinforzano, da una prospettiva leggermente differente, la stessa congettura. Contro l’idea che sarebbero soprattutto le caratteristiche dei social media a renderci faziosi e polarizzati, queste ricerche mostrano che gli utenti che danno inizio, o partecipano, a discussioni ostili online sono gli stessi che rimangono coinvolti in discussioni ostili faccia a faccia. Sono spesso individui definiti in questi studi con un’alta propensione allo «status-driven risk taking», ossia motivati dal desiderio di essere percepiti come leader o persone di successo, e con l’attitudine a prendere decisioni rischiose al fine di migliorare la loro posizione sociale o ottenere riconoscimento e prestigio all’interno di un gruppo, anche utilizzando intimidazione nel tentativo di dominare gli altri. La diffusione delle tecnologie di comunicazione digitali e online ha conosciuto un’accelerazione incredibile. Social media, algoritmi, smartphone possono potenzialmente cambiare il modo in cui le informazioni circolano, chi ne trae vantaggio, quali contenuti vengono favoriti e quali penalizzati: non c’è bisogno che vi convinca di questo. Le conseguenze sull’economia, sulla società e sulla nostra vita quotidiana sono molteplici e si palesano di fronte a noi in un processo che continua giorno dopo giorno. Eppure, o proprio per questo, è importante considerare questi cambiamenti all’interno di una “lunga prospettiva”: una lunga prospettiva storica (quali lezioni possiamo trarre dalle reazioni a comparabili tecnologie nel passato?) che tiene in considerazione come alcune caratteristiche generali della cognizione umana e dell’evoluzione culturale interagiscono con questo processo. La diffusione delle tecnologie di comunicazione digitale è un processo dinamico, dove le tecnologie creano nuove abitudini e, nello stesso tempo, vengono modificate e adattate alle nostre esigenze: capire e accettare questo processo è il modo migliore per affrontare i rischi connessi e sfruttarne le potenzialità. Individui che ingaggiano in discussione e comportamenti ostili esistono dentro e fuori i social media, come quelli che subiscono l’appeal di «Potere bianco». Per quanto confortante e autoassolutoria possa essere, l’idea che ciò sia dovuto a specifiche caratteristiche degli algoritmi dei social media che frequentiamo non sembra essere molto plausibile. Soprattutto, come per altre ipotesi che vedono nelle tecnologie digitali le cause di problemi sociali, quelli sì, sicuramente reali, il rischio è, ancora una volta, di trovare un comodo capro espiatorio e di non occuparci di altre, più profonde, cause sociali, culturali, ed economiche.”