Il senso

dominustecum

Un articolo di Gian Mario Ricciardi pubblicato su Avvenire: un monastero, il silenzio, la pace, la semplicità per ritrovare l’essenziale e il senso del tempo fuori e dentro.
Li ho visti arrivare, nel ’95, a piedi scalzi come i profughi d’oggi, tra gli arbusti della valle dell’Infernotto a Bagnolo Piemonte, vicino Saluzzo. Due monaci, padre Cesare Falletti e fratel Paolo. Soli, sorridenti, con nella bisaccia la tradizione millenaria dei Cistercensi che tornavano sotto il Monviso. Ora sono sedici e, tra i dirupi di questa strana montagna, in un monastero di pietra e legno, cercano la voce di Dio, ma, contemporaneamente, raccolgono quelle delle vittime della interminabile crisi. Ascoltano e aprono la porta a chi bussa. Tutt’intorno c’è una pace che ti entra dentro. Sveglia alle 3,55. Già nella notte da ogni cella filtra tra gli alberi il canto delle Vigilie e delle lodi. Poi il lavoro. C’è chi s’incammina lungo i sentieri per curare le more che serviranno per le marmellate. Chi costruisce icone, chi studia, chi prepara il pranzo, chi taglia la legna o l’erba.
Nelle stanze degli ospiti, famiglie salite dalla Francia, uomini e donne venuti a cercare uno spazio senza parole. E ognuno vive il proprio con discrezione, in solitudine, passeggiando, fermandosi ad osservare gli alberi, le foglie, le nuvole. Il monastero Dominus Tecum sembra una grande tenda in mezzo alle auto che, poco sotto, sfrecciano con i troppi telefonini incollati all’orecchio, le mail da leggere, le connessioni sempre accese. Eppure la crisi è passata anche di qui. Non ha portato il deserto, anzi. Sono sempre di più quelli che salgono a Pra ’d Mill. Vengono in tanti a bussare perché si sentono soli, abbandonati, traditi dalla vita e dalle persone: vittime del deserto provocato dalla recessione. «C’è un gran numero di persone che vengono qui perché hanno bisogno». Padre Cesare, ora priore emerito perché ha passato la mano a padre Emanuele, ha visto camminare tra queste pietre migliaia di persone. A loro, lui e i monaci non hanno altro da dare che saggezza e preghiera. Hanno abbracciato manager che dovevano fare scelte difficili, persone messe fuori dai cancelli delle fabbriche a cinquant’anni, giovani senza speranza.
La crisi li ha fatti aumentare? «Ha fatto certamente crescere il nostro dover portare il peso della gente, perché la gente soffre in questo momento, e noi la ascoltiamo». E perché vengono a cercarvi? «Credo cerchino Dio, non tanto noi. Questo è un luogo che almeno nella nostra idea c’è sempre stato, in cui tutto è organizzato per stare davanti a Dio, non potevamo tenercelo tutto per noi, solo per noi, ecco… lo offriamo anche ad altri». Ma in questo grande silenzio, soprattutto nelle giornate d’inverno, che cosa c’è? «C’è Dio, ci sono i fratelli». Insomma un pezzo di cielo strappato ai compromessi, agli insulti, alla fretta. Il terreno l’aveva regalato la famiglia dei baroni d’Isola all’abbazia di Lerins, casa madre dalla quale è nato questo incredibile esempio di monastero nato e cresciuto ai tempi del disagio dilagante. Una donazione voluta da Leletta d’Isola. A suggerire l’avventura l’allora cardinale di Torino, Anastasio Ballestrero. A mettere insieme il complesso puzzle, la mano della Provvidenza, l’entusiasmo di un piccolo drappello di uomini di preghiera che alle 10, chiamati dalla campana, raggiungono la chiesa per poi riprendere il lavoro fino alla Messa di mezzogiorno. E la cappella si riempie. Rituale antico, gioie e sofferenze moderne che vengono posate sull’altare, proprio sotto la croce e il campanile, come da tradizione monastica.
Filtrano fasci di luce intensi e calmi allo stesso tempo. La semplicità, la sobrietà: «Non portate vino a tavola – c’è scritto – per rispetto al nostro stile di vita e di accoglienza». Ci sono due suore, ma passano in molti con la disperazione dentro: industriali in grosse difficoltà, giovani in cerca di lavoro e di valori, disoccupati, preti in sofferenza, famiglie raggelate dalla vita. La sfida è un presente che guarda lontano. Saper mettere insieme la fame di soprannaturale e il disagio, spesso molto forte, di chi bussa alla porta. «…se volete lasciare un’offerta… usate la busta che trovate nella mensola». Se volete. Ci sono i libri, insieme ai poveri prodotti della valle – miele, marmellate, estratti di erbe – come in tutti i monasteri. C’è e si sente una grande ricchezza che viene dalla serenità e dalla pace. «Lasciate quello che potete e volete, l’importante è che la mancanza di soldi non vi impedisca di venire a pregare. In caso pensate a chi non può lasciare nulla. Grazie». È vero, come diceva Alfonse de Lamartine, che un grazie non è nulla nel mare dei ricordi ma se resta a galla è qualcosa per sempre. Un uomo, le scarpe consumate, la camicia lisa, posa la sua offerta e poi fissa quel grazie che suggella un patto.
Scende lentamente la sera. Si parla con i monaci. «Inutili in un mondo che vive di corsa? Forse, ma noi cerchiamo di dire altro e di guidare il mondo attraverso la preghiera e la carità fraterna ad avere un altro volto, non violento, non arrogante, non prepotente, non asservito al denaro, un volto umano». Una scritta sul muro: «Tutti gli ospiti che giungono qui siano accolti come Cristo poiché un giorno Nostro Signore ci dirà: Ero forestiero e mi avete ospitato». Gli smarriti della modernità e della crisi, quella che ha distrutto famiglie, svuotato anime, sconvolto vite hanno trovato rifugio qui tra un cantico e una preghiera. ‘I poveri di spirito’, come nel docufilm che Fredo Valla ha girato a Pra ’d Mill possono vedere un uomo che cammina in un immenso campo di neve in montagna, seguire il lavoro quotidiano dei monaci, respirare il ‘Laudato si’’ di papa Francesco nel quieto scorrere sotto la pioggia, i monaci che lavorano nei boschi, in cucina, nelle celle o curano le api e pregano in una chiesa scarna ed essenziale.
Come nel ‘Grande silenzio’ di Phillip Groening, o in ‘Uomini di Dio’ di Xavier Beauvois, il tempo è senza tempo. Eppure, mentre il sole tramonta, ogni cosa qui sembra tutt’altro che slegata dal mondo. Quei ragazzi appena partiti con il pulmino avevano gli occhi raggianti. Ed erano venuti con tutti i loro dubbi sul futuro, il lavoro, l’amore, la famiglia. Forse anche con il rumore del silenzio si possono curare le macerie della crisi. I monaci come fratel Abramo sorridono con gli occhi. Hanno l’espressione di chi ha il cuore dolce e sente di essere tornato alla sorgente della vita. Vita dura, silenzio, tanto silenzio per ritrovare i gesti dell’anima e poi la vita. Le ore per pregare, le ore per coltivare i frutti per le marmellate, tagliare l’erba, mettere a posto la legna. Terra e cielo, anzi tra terra e cielo per ritrovare il sorriso, quello che viene da dentro, per sempre”.

Gemme n° 348

Ho portato degli spezzoni degli ultimi due episodi del mio anime preferito: vengono affrontati discorsi interessanti. I riferimenti religiosi sono numerosi e se dovessi sintetizzare potrei dire che lo scopo finale è il perfezionamento dell’uomo.” Mi sono sentito di riassumere così la gemma di S. (classe quinta). In realtà lei si è soffermata sulla trama, ma temendo di commettere degli errori rimando alla pagina wiki di Evangelion. Le sequenze mostrate sono state poi numerose e io ne ho messo un breve estratto.
La gemma l’ho commentata subito in classe attraverso un racconto di Selma Lagerlöf letto camminando mentre andavo a scuola quella mattina stessa. Lo allego qui (questa la fonte). Il nocciolo? I miei gesti, il mio approccio al mondo, dipingono il mio mondo. Ho trovato delle assonanze.
Notte di natale Lagerlof

Gemme n° 258

Prof, non se la prenda per il testo che ho portato… Vorrei proporre uno stralcio del discorso di Ivan ad Alëša, tratto da “I fratelli Karamazov”. Ivan dichiara di credere in Dio, ma non nel mondo costruito da Dio, a causa delle sofferenze che ci sono. Vi ritrovo molte delle mie idee.” Così, un po’ timorosa, G. (classe quarta) ha presentato alla sua classe la gemma. Non lo sa che in quinta leggeremo proprio una parte dello stesso brano quando affronteremo la tematica del male.
i fratelliPerciò ti dichiaro subito che accetto l’idea di Dio così com’è, puramente e semplicemente…
Sembrerebbe che fossi sulla buona strada, no? Ebbene, figurati che, tirando le somme, questo mondo creato da Dio io non l’accetto, pur sapendo benissimo che esiste, anzi non l’ammetto proprio! Non è che io non accetti Dio, capiscimi bene, ma è questo mondo creato da Lui, che io non accetto e non posso rassegnarmi ad accettare…
Oh, secondo la mia povera intelligenza terrena, euclidea, so soltanto che la sofferenza esiste e che i colpevoli non esistono, che ogni cosa deriva semplicemente e direttamente da un’altra, che tutto scorre e tutto si equilibra; ma queste non sono che sciocchezze euclidee, lo so bene, e non posso accontentarmi di vivere in base a simili sciocchezze! Cosa m’importa che non esistano colpevoli, che ogni cosa derivi semplicemente e direttamente da un’altra, e, che io lo sappia! Hobisogno di un compenso, se no, mi consumo. E di un compenso non nell’infinito, chi sa dove e chi sa quando, ma qui sulla terra, e voglio vederlo coi miei occhi! Io ho creduto, e perciò voglio vedere anch’io, e se allora sarò già morto, mi devono risuscitare, perché se tutto accadesse senza di me, sarebbe una cosa troppo avvilente. Non ho mica sofferto per concimare con le mie colpe e le mie sofferenze un’armonia futura in favore di chi sa chi! Voglio vederlo coi miei occhi, il daino che ruzza accanto al leone, e l’ucciso che si rialza e abbraccia il suo uccisore…
Ascolta: se tutti devono soffrire per comprare con le loro sofferenze un’armonia che duri eternamente, cosa c’entrano però i bambini, dimmi? Non si capisce assolutamente perché debbano soffrire anche loro, e perché debbano pagare quest’arrnonia con le loro sofferenze… No, Alëša, non bestemmio! Io capisco bene come si scuoterà l’universo intero quando tutte le voci, in cielo e sotto terra, si fonderanno in un unico inno di lode, e tutto ciò che vive o ha vissuto griderà: «Tu sei giusto, o Signore, giacché le Tue vie ci sono rivelate!»…
… quel momento sarà davvero l’apoteosi di ogni conoscenza, e allora tutto sarà spiegato. Ma proprio qui sta il busillis, è proprio questo che non posso accettare!
Finché sono in tempo, dunque, corro ai ripari, e perciò mi rifiuto assolutamente di accettare questa armonia eterna. Essa non vale le lacrime nemmeno di quell’unica creaturina che si batteva il petto col piccolo pugno e pregava « il buon Dio » nello stanzino puzzolente. Non le vale, perché quelle lacrime sono rimaste senza riscatto. Esse devono essere riscattate, altrimenti non ci può essere nessuna armonia. Ma che cosa le riscatti, dimmi, con che cosa? Ti sembra possibile riscattarle? Forse perché dopo saranno vendicate? Ma che m’importa la vendetta, che m’importa se c’è l’inferno per i carnefici? A che cosa può rimediare l’inferno, quando i bambini sono già stati tormentati? E poi, che razza di armonia può essere, se c’è l’inferno? Io voglio perdonare, voglio abbracciare tutti; non voglio che qualcuno soffra ancora. E se le sofferenze dei bambini saranno servite a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per pagare la verità, io affermo in anticipo che tutta la verità non vale un prezzo simile. Insomma, non voglio che la madre abbracci l’aguzzino che ha fatto sbranare suo figlio dai cani! Non lo deve perdonare! Se vuole, lo può perdonare per la parte sua, gli può perdonare il suo dolore di madre; ma le sofferenze del suo bambino sbranato lei non ha il diritto di perdonargliele, lei non gliele deve perdonare neanche se il bambino stesso lo perdonasse! E se è così, se non si può perdonare, dove va a finire l’armonia? Esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare, e che abbia il diritto di farlo? Io non voglio nessuna armonia, per amore dell’umanità non la voglio. Preferisco restare con tutte le sofferenze da vendicare. Preferisco tenermi la mia sofferenza invendicata e il mio sdegno insaziato, anche se dovessi aver torto. E poi, l’hanno valutata troppo quell’armonia, l’ingresso è davvero troppo caro per la nostra tasca. Perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso. E se sono un uomo onesto, lo devo restituire al più presto possibile. È appunto quello che faccio. Non è che io non accetti Dio, Alëša; soltanto, gli restituisco rispettosamente il biglietto.
– Questa è ribellione – disse piano Alëša, con gli occhi bassi. Osservò Ivan in tono penetrante: – Si può forse vivere di ribellione? Perciò io voglio vivere! Ora dimmi francamente una cosa, mi appello a te, e tu rispondimi. Immagina di essere tu a costruire l’edificio del destino umano, con lo scopo ultimo di far felici gli uomini, di dare loro, alla fine, pace e tranquillità; ma immagina anche che per arrivare a questo sia necessario e inevitabile far soffrire un solo piccolo essere, per esempio quella bambina che si batteva il petto col minuscolo pugno, e sulle sue lacrime invendicate fondare appunto questo edificio: accetteresti di essere l’architetto, a queste condizioni? Dimmelo, e non mentire!
– No, non accetterei – rispose piano Alëša.
– E puoi ammettere che gli uomini, per i quali tu costruisci l’edificio, acconsentano da parte loro ad accettare una felicità fondata sul sangue innocente di un piccolo martire e ad essere poi felici in eterno?
– No, non lo posso ammettere.”

A commento un’altra suggestione letteraria, presa da “Il diavolo e la signorina Prym” di Paolo Coelho (pagg. 26-27):
“La mia scadenza è di una settimana. Se, entro il termine di sette giorni, qualcuno del paese sarà trovato ucciso – potrebbe essere un vecchio non più produttivo, o un malato incurabile, o un minorato mentale che costituisce solo un’incombenza: la vittima non è importante, quest’oro apparterrà agli abitanti di Viscos, e io trarrò la conclusione che siamo tutti cattivi. Se tu ruberai il lingotto, ma il paese resisterà alla tentazione, o viceversa, concluderò che ci sono buoni e cattivi: il che mi pone un serio problema, perché ciò significa che esiste una lotta sul piano spirituale, una battaglia che può essere vinta da ciascuna delle due parti. Tu credi in Dio, nei piani spirituali, nelle lotte fra angeli e demoni?”
La giovane non disse niente, e questa volta lo straniero capì che aveva rivolto la domanda nel momento sbagliato: c’era il rischio che lei, semplicemente, gli voltasse le spalle e non lo lasciasse finire. Era meglio smetterla di ironizzare, andando direttamente al nocciolo della questione:
“Se, infine, lascerò il paese con i miei undici lingotti d’oro, tutto quello in cui volevo credere si sarà rivelato una menzogna. Preferirei morire con la risposta che non vorrei ricevere: la vita mi sarebbe più sopportabile se ne fossi certo, e se il mondo fosse cattivo.
“Anche se la mia sofferenza sarebbe identica, se tutti soffrono, il dolore risulterebbe più tollerabile. Se, invece, soltanto alcuni sono condannati ad affrontare grandi tragedie, allora c’è qualcosa di veramente sbagliato nella Creazione.”
Gli occhi di Chantal erano pieni di lacrime. Comunque trovò la forza per controllarsi:
“Perché fai questo? Perché proprio al mio paese?”
“Non si tratta né di te né del tuo paese, io sto pensando solo a me: la storia di un uomo è la storia di tutta l’umanità. Voglio sapere se siamo buoni o cattivi. Se siamo buoni, Dio è giusto e mi perdonerà per tutto quello che ho fatto: per il male che ho augurato a coloro che hanno tentato di distruggermi, per le decisioni errate che ho preso nei momenti più difficili e per la proposta che ti sto facendo adesso, giacché è stato Lui a spingermi verso l’oscurità.
“Se siamo cattivi, invece, allora tutto è permesso: non ho mai preso nessuna decisione errata, noi siamo già condannati, e poco importa cosa facciamo in questa vita, poiché la redenzione è al di là dei pensieri o degli atti dell’essere umano.”
Prima che Chantal potesse allontanarsi, l’uomo soggiunse: “Tu puoi decidere di non collaborare. In tal caso, sarò io stesso a dire a tutti che ti ho dato l’opportunità di aiutarli, ma che hai rifiutato; poi farò loro la proposta. Se decideranno di uccidere qualcuno, è molto probabile che la vittima sia tu.””

Il dio di comodo

Attraverso la matita di Zerocalcare, riprendo dal sito di Wired, una delle idee di Dio più diffuse che ci siano: il Dio di comodo, quello che funziona a chiamata, fa da tappabuchi e viene invocato e utilizzato in base alle necessità…

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Idolatri senza dèi

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Riporto parte di un testo che sto leggendo di Salvatore Natoli e che è per me fonte di molte riflessioni.
Un argomento o un personaggi esistono se appaiono nei media. Se escono di scena è come se non fossero mai esistiti. Ci sono personaggi – e molti – ma c’è assenza d’opera. Fantasmi di verità, fantasmi di libertà. Peraltro, la comunicazione di massa vive e si alimenta di scoop, crea icone e devoti; fan impazziti eseguono danze tribali intorno all’idolo del momento. A ciò si accompagna una sorta di superstizione delle cose, la dipendenza – a seconda delle persone – da questo o quell’oggetto, quasi fosse un amuleto della vita quotidiana. […]
Che fine ha fatto l’Illuminismo? […] la nostra contemporaneità … certamente mostra segni di cattiva salute e quello di essere idolatri senza neppure dèi è il più preoccupante. L’esito tragico del titanismo novecentesco ha mostrato come fossero fallaci quegli idoli a cui si erano innalzati altari e sacrificate vittime, ma dalle ceneri dei titani è emersa una miriade di idoli tascabili. Dèi di un giorno, ed è già troppo. Gli dèi minori che oggi popolano la terra hanno poco da spartire con gli antichi dèi, nel cui nome si celebravano i grandi misteri della vita: la generazione, la nascita, la morte. La stessa idea cristiana di salvezza – promessa e mai compiuta – si è spenta. Al suo posto è subentrata quella di benessere, e la felicità, lungi dal coincidere con la realizzazione di sé, è identificata piuttosto con l’efficienza, con l’effetto fitness. Oggi più che un politeismo tollerante ci imbattiamo in un monoteismo perverso: l’Io/Dio.”
(Salvatore Natoli, “Non ti farai idolo né immagine”, Il Mulino)

Cosa siamo noi?

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Che posto abbiamo noi, esseri umani che percepiscono, decidono, ridono e piangono, in questo grande affresco del mondo che offre la fisica contemporanea? Se il mondo è un pullulare di effimeri quanti di spazio e di materia, un immenso gioco di incastri di spazio e di particelle elementari, noi cosa siamo? Siamo fatti anche noi solo di quanti e particelle? Ma allora da dove viene quella sensazione di esistere singolarmente e in prima persone che prova ciascuno di noi? Allora cosa sono i nostri valori, i nostri sogni, le nostre emozioni, il nostro sapere? Cosa siamo noi, in questo mondo sterminato e rutilante?” (Carlo Rovelli, “Sette brevi lezioni di fisica”, pag. 71)

Città o caverna?

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In riferimento alla lezione di stamattina in una quinta. Una verità? Tante verità? Nessuna verità? Assoluta? Relativa?… E per arrivarci? Una strada? Tante strade? La verità sta nel cammino stesso? Niente strada?
Ho trovato proprio oggi questa citazione sul blog di Berlicche:
(…) “Non so se è la verità.” Quindi, “E che cos’è la verità?” disse Pilato scherzando. (…)
Io ci pensai sopra. “Qualche volta penso che la verità sia un luogo. Nella mia mente, è come una città: ci possono essere un centinaio di strade, un migliaio di sentieri, che tutti ti porteranno, alla fine, nello stesso posto. Non importa da dove arrivi. Se cammini verso la verità, la raggiungerai, qualunque percorso tu prenda.”
Calum McInnes abbassò lo sguardo su di me e non disse niente. Quindi, “Ti stai sbagliando. La verità è una caverna nella montagne nere. C’è una strada per arrivarci, e soltanto una, e quella strada è dura e traditrice, e se scegli il percorso sbagliato tu morirai da solo, sul fianco della montagna.”
(Neil Gaiman, “The truth is a cave in the black mountains”)

In principio erano le dee

Attraverso questo articolo di Djénane Kareh Tager, comparso su “Le monde des religions”, n. 28, mars-avril 2008, pp. 24-25 e che ho trovato su Dimensione Speranza, propongo un viaggio nel passato, a circa 15.000 anni fa, alla fine dell’era glaciale. Si scoprono cose molto interessanti…
khiamQuando è uscito dalle grotte per costruire le sue prime case, l’uomo ha sostituito gli spiriti della natura con entità create a propria immagine: gli dei.
Si tratta di 15.000 anni fa: il Vicino Oriente è uno delle prime zone che abbiano beneficiato di quel riscaldamento che mette fine all’era glaciale nella quale era entrato il pianeta 100.000 anni prima. Il clima è umido ma mite, i cereali selvatici abbondano e gli animali feroci sembrano all’uomo meno feroci di quelli che era finora abituato a cacciare in bande. Il nostro antenato esce pian piano dalle grotte del paleolitico per cominciare ad addomesticare una natura che non aveva mai conosciuto così poco nemica. Si apre allora l’era neolitica. L’uomo raccoglie i cereali, impara a macinarli e a immagazzinarli, e ben presto a coltivarli. Nello stesso tempo costruisce le sue prime case – le cui tracce più arcaiche sono state ritrovate a Khiam, un paese sulle rive del Mar morto, che ha dato il suo nome alla civiltà detta khiamiana. Inventa insieme dei nuovi utensili, familiarizza con gli animali, diventa allevatore. Rimane certamente sottoposto ai capricci di una natura di cui non comprende i meccanismi, ma è meno sprovveduto nei suoi confronti. I suoi animali e le sue provviste gli consentono di non conoscere più i tormenti della fame che tanto spesso lo tormentava durante il paleolitico, per poco che il disgelo si facesse attendere, che tempesta o siccità devastassero il paese, dove non c’è altra scelta che cercare di sopravvivere. Egli “esce” in qualche modo da una natura alla quale era completamente integrato, in seno alla quale si considerava come un elemento fra altri. Si sente ormai superiore a essa, poiché è capace di padroneggiarla, di sottomettere alla sua volontà le rocce, le piante, gli animali, costruendo, piantando, allevando. Le sue condizioni di vita cambiano radicalmente e lo sconvolgimento sul piano religioso non è meno importante: ce lo raccontano le pitture, gli affreschi e le sculture, che sono altrettanti libri nei quali si legge la storia dell’umanità.
Torniamo un poco indietro. Trenta o quaranta mila anni prima. Un passato attestato da milioni di pitture scoperte in grotte sparse nei cinque continenti, che il paleologo Emmanuel Anati qualifica come “cattedrali”, nel senso religioso del termine. I nostri lontani antenati dipingevano e disegnavano. Non abbiamo la prova assoluta del significato che davano alle loro opere, ma le somiglianze con le pratiche delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori permettono di affermare che esse erano il modo di comunicazione con gli spiriti: quelli degli alberi, del vento, della tempesta, delle montagne, degli animali. Con quegli spiriti l’uomo aveva stabilito degli scambi, secondo un principio di dare-avere, compensando i prelievi di nutrimento che gli erano necessari con doni di forze vitali – doni da cui derivavano la malattia e la morte. Non si trattava allora di preghiere né di sacrifici, e neppure di una superiorità di un elemento dell’universo sugli altri: la scala del vivente, visibile e invisibile, rimaneva orizzontale, ma ogni entità era dotata delle proprie capacità e competenze.
Ma quando comincia a dominare la natura, l’uomo subito raddrizza questa scala. In questa verticalità tutta nuova è normale, pensa, che la gerarchia si prolunghi al di sopra di lui, che lui stesso a sua volta sia dominato da tutto quello di cui non ha la padronanza. Continua probabilmente a frequentare gli spiriti con cui ha imparato a trattare da millenni, ma essi si rivelano presto insufficienti per rispondere ai suoi bisogni di sacro e a quello che è per lui un nuovo imperativo: conservare l’ordine del mondo, impedirgli di ricadere nel caos. Poiché egli vive ormai al centro dell’universo, la nuova religione di cui costruisce l’ambito si fa a sua immagine: È una religione antropomorfica, in cui gli spiriti cedono il passo a entità che assomigliano all’uomo, che hanno il suo fisico, ma che hanno anche le sue voglie, i suoi desideri, le sue violenze, il suo ego. Sono gli dei.
A dir vero, i primi dei sono delle dee, come è attestato dalle innumerevoli statue ritrovate nel vicino Oriente fino in Anatolia dal IX millennio in poi e nella khiam2valle dell’Indo o nella Creta del III millennio. Dato che vegliano sulla fecondità dei campi, degli uomini e dei greggi, esse sono le probabili eredi delle Veneri rudimentali, vecchie in certi casi di una trentina di migliaia di anni, scoperte in Europa e in Siberia. Ma a differenza di queste, la dea del neolitico, dai tratti sessuali fortemente affermati (poiché è prima di tutto donatrice di vita), è oggetto di un vero culto, preludio del rituale delle prime religioni stabilite, che nascono prima della nostra era, dapprima in Mesopotamia poi in Egitto e nel resto del mondo. Quasi sistematicamente è associata a una figura bovina che incarna la forza maschile, essa “porta in germe tutte le costruzioni ulteriori del pensiero mitico dell’Oriente e del Mediterraneo”, scrive il preistorico Jacques Cauvin (Naissance des divinités, naissance de l’agriculture, Flammarion, 1997).
Ormai la divinità è una risorsa per gli uomini: essi possono supplicarla, pregarla come farebbero con un superiore gerarchico. Possono propiziarla con offerte: fiori, frutti, e ben presto con quello che hanno di più prezioso, un animale preso dal loro gregge. Nelle prime borgate che si costituiscono, la costruzione più ampia, probabilmente anche la più bella, è il tempio, dove si viene in comunità a pregare la dea e a chiederle protezione.
Passano i secoli, le borgate si trasformano in città. Erido, la prima grande città conosciuta, costruita nella bassa Mesopotamia, conta circa quattromila abitanti verso il 4000 a.C. Lo sviluppo delle tecniche agrarie produce i primi guadagni , preludio agli inizi del commercio; si formano classi sociali; si stabiliscono gerarchie; gli uomini gestiscono al vita esteriore, le donne si occupano della casa. Il patriarcato si consolida. Ai maschi che gestiscono la vita della società diviene sempre più difficile adattarsi a divinità che non siano a loro immagine, virile e protettrice. Venere rientra in casa, per istallarsi nel cuore del culto domestico. Nei grandi templi di Erido, Enki l’ha detronizzata per erigersi a protettore della città e dei suoi abitanti. Nelle altre città che fioriscono, altri dei maschi nascono e comandano. Essi sono ricchi e forti. Vi sono individui che si mettono pienamente al loro servizio. Si costituisce una classe di “professionisti del sacro”, che stabilisce i rituali più adatti per compiacere gli dei: sono i primi sacerdoti.”

Kierkegaard: estetica, etica, religione

Un articolo di Matteo Andriola su cui riflettere e meditare. Uno di quei pezzi che ti fanno pensare “Mmm… devo approfondire le cose”… per cui didatticamente interessante 🙂

Søren Kierkegaard, BøgerHo sempre considerato Søren Kierkegaard come un filosofo anomalo, un pensatore illuminato e affascinante, poco propenso a fornire soluzioni e risposte, quanto piuttosto orientato verso la spiegazione e l’analisi di problematiche e situazioni che lo conducono a erigere strutture di pensiero sempre figlie di profonde osservazioni e meticolose elaborazioni. Spesso per tale motivo, a torto, lo si ritiene lontano dalla grandezza di altri filosofi, ma personalmente ho sempre visto in lui un pensatore straordinario, moderno e conservatore al tempo stesso, in grado di fornire continuamente fondamentali argomenti d’indagine. Quello della “scelta” è sicuramente uno di questi.

Partendo dall’assunto che l’esistenza umana si riduca fondamentalmente alla “possibilità”, in Enten-Eller, cui la comune traduzione Aut-Aut non rende completamente giustizia, il filosofo danese presenta la celeberrima contrapposizione tra i due ideali di condotta di vita: quello estetico e quello etico. Nella vita estetica, incarnata dalla figura di Don Giovanni, dominano la fugace ricerca del piacere e dell’estemporanea ebbrezza quali condizioni tese a impedire l’incanalamento dell’esistenza verso finalità concrete e definite, strumenti atti a evitare una qualsivoglia concretizzazione dell’esperienza vitale. L’esteta infatti, di fronte alla possibilità, di fatto rinuncia a scegliere, coltivando esclusivamente l’interessante, subendo passivamente la bellezza anziché dominarla attivamente. È proprio questa vita inconcludente e incompiuta ad appagare l’esteta, che ha nella rinuncia alla scelta in luogo del godimento dell’istante, la propria esaltante vittoria. La non scelta però, teorizza Kierkegaard, violenta se stessa nel momento in cui subentra nell’esteta la consapevolezza che rifiutarsi di scegliere sia in realtà l’innesco di un rovesciamento dell’essenza stessa della possibilità che, proprio in virtù della non scelta, diviene di fatto impossibile e dunque, ciò che in prima istanza appariva appagante, in realtà non risulta tale proprio perché irresoluto e incompiuto. Senza concretizzazione, la possibilità genera quindi angoscia, e la ripetitività dell’incompiutezza vanifica un percorso, quello estetico, che porta l’esteta a “non essere” o, se si preferisce, a “poter essere” in eterno.

Kierkegaard, sulla cui filosofia le personali tribolazioni religiose e sentimentali lasciano un segno molto più netto di quanto si voglia ammettere, sviluppa una teorizzazione che spesso, troppo frettolosamente si crede di aver dominato. Infatti, occorre uno sforzo intellettuale significativo per comprendere come il pensatore danese non cada in contraddizione sostenendo che, contrariamente alla concezione che in origine convince l’esteta della propria assoluta indipendenza, la libertà risieda in definitiva proprio nella scelta che inizialmente rifuggeva, nel poter scegliere in vista di una realizzazione individuale; il soggetto estetico, se vorrà realizzare se stesso e la propria essenza, rinunciando alla condotta estetica, non potrà fare a meno di svoltare in direzione etica. La virata etica non deve ritenersi però la tappa di un naturale e progressivo percorso, quanto piuttosto un cambiamento drastico ed emotivamente violento, una presa di coscienza del nulla insito in sé o, se si preferisce, va inteso come quella scelta che l’individuo, fintanto che si trovava a vivere lo stadio estetico, rifiutava a priori e di cui in realtà era assolutamente incapace. Tra le possibilità che gli si prospettano, l’uomo etico, incarnato dalla figura del marito, diviene tale proprio sgombrando il campo dalle opzioni e decidendo di scegliere una e una sola via, quella che gli permetterà di dare concretezza a se stesso, divenendo ciò che è. Strumento determinante affinché l’esteta possa virare in direzione etica è la disperazione, quel sentimento generato dalla presa di coscienza della propria nullità. La disperazione dunque, nella concezione kierkegaardiana si configura come condizione necessaria e per certi aspetti addirittura positiva, in quanto la sola a permettere all’esteta la piena comprensione del valore della scelta. La scelta etica però, a conti fatti, è a sua volta un palliativo poiché non necessariamente salva l’individuo dall’errore del peccato, in quanto il rispetto delle norme vigenti nella società in cui vive diviene, in seguito alla scelta, una nuda e cruda conformazione alle consuetudini, un moralismo figlio di un senso del dovere scaturente dal fatto che quella determinata società impone “conditio sine qua non” il rispetto aprioristico di determinate norme. L’obbligatorietà dell’allineamento a una norma però non rende necessariamente il suo rispetto un ossequio, quanto piuttosto soltanto un accettabile compromesso, un viatico per poter vivere entro quella società che porta però l’individuo etico a sprofondare nell’abisso dell’universalità, anziché in quello della singolarità come avveniva per l’esteta. Neppure l’ideale etico dunque può considerarsi un traguardo accettabile, e il ripiegamento su Dio diviene, a giudizio di Kierkegaard, inevitabile, anche se certamente non privo di difficoltà. È ancora una volta la disperazione, peraltro consapevole, a generare quell’insoddisfazione necessaria per gettarsi a capofitto nella scelta religiosa. Si tratta della svolta più difficile e coraggiosa in quanto richiede il totale annichilimento della ragione in luogo dell’assurdo, del paradossale e dell’incomprensibile; in altri termini, la scelta religiosa richiede un totale annullamento di sé, paradossalmente funzionale all’affermazione della propria individualità. Nella fede infatti, pur ritrovando la propria individualità, occorre spogliarsi di qualunque residuo di razionalità e lanciarsi nell’abisso dell’incomprensibile, nel profondo e spiazzante abisso di Dio. Secondo Kierkegaard infatti, Dio chiede ossequio incondizionato verso qualcosa che alla ragione non può che apparire assurdo e irragionevole se misurato secondo un criterio razionale, in quanto si sottrae completamente al suo metro di valutazione. Occorre credere a Dio, e per certi versi fidarsi di ciò che chiede senza condizioni accettando l’imperscrutabile e l’incomprensibile. Soffermiamoci infatti sull’episodio del sacrificio di Isacco: cosa ci può essere di razionale nella richiesta avanzata da Dio ad Abramo? Come può la ragione comprendere una richiesta così terribile e razionalmente ingiustificabile? Non la può comprendere, ma la svolta religiosa richiede accettazione e solitudine.”

La natura di Gaudì

Un bell’articolo di Lluís Martínez Sistach su Gaudì pubblicato su Avvenire del 16 gennaio 2015.
gaudi-interior-sagrada-familiaLa Sagrada Família è un inno alla natura, è un canto alla luce e a tutto il creato che, secondo il libro della Genesi, seguì alla creazione della luce. La visione che Gaudí ha della natura e che plasma nella sua opera è molto vicina a quella di san Francesco d’Assisi. Pertanto, a ragione, si è parlato di un’ispirazione francescana nella sua opera, e di uno stile francescano nella sua vita, in particolare quanto a umiltà e povertà.
È ben noto che le strutture geometriche, nella cui creazione e uso Gaudí è geniale, si ispirano alla natura. «Il grande libro – affermava – sempre aperto e che conviene sforzarsi di leggere, è quello della natura. Gli altri libri sono tratti da questo e contengono gli errori e le interpretazioni degli uomini. Ci sono due grandi rivelazioni: una dottrinale, della morale e della religione (col termine “dottrina” Gaudí fa riferimento alla Sacra Scrittura), e l’altra, che ci guida attraverso i fatti, che è quella del grande libro della natura». «Ogni cosa proviene dal grande libro della natura – aggiungeva Gaudí –; le opere degli uomini sono già un libro stampato. Vedete quell’albero vicino al mio laboratorio? Lui è il mio maestro». Raramente in un autore degli inizi del XX secolo si possono trovare affermazioni simili così piene di amore e rispetto verso la natura. Gaudí, nel suo modo di amare e rispettare la natura, fu anche un innovatore.
Fu un vero apostolo dell’ecologia. Non è forse questa una delle caratteristiche che rende alla Sagrada Família un significato veramente universale, sia a oriente, Giappone in particolare, sia a occidente? Dove apprese il nostro architetto questo amore per la natura? Senza dubbio alcuno, dalla sua infanzia. Si è detto che l’infanzia è la patria di ogni persona per tutta la propria vita terrena. Per quanto riguarda Gaudí sappiamo che durante l’infanzia soffrì di reumatismi articolari, ragion per cui si trasferiva spesso a Riudoms, in una masseria di famiglia, in groppa a un asinello, perché il dolore gli impediva di camminare.
Lì, così come confessò a Joan Bergós, nel libro Gaudí, l’home i l’obra, «con i vasi di fiori, circondato da vigneti e uliveti, animato dal chiocciare delle galline, dai canti degli uccelli e dal ronzio degli insetti, e con le montagne di Prades a fare da sfondo, potei cogliere le più pure e gioiose immagini della natura. Questa natura che sempre mi è maestra». Dello spirito di osservazione del Gaudí bambino ci parla questa confessione fatta a Bergós: «A causa della mia malattia, dovetti astenermi spesso dal giocare con i miei compagni, cosa che favorì in me lo spirito di osservazione. Così, quando il maestro spiegò in una lezione che gli uccelli avevano ali per volare, osservai che “le galline della nostra fattoria hanno ali molto grandi e non sanno volare: le utilizzano per correre più velocemente”».
È stato scritto che il tempio da lui ideato costituisce un grande giardino in pietra, nel quale il regno minerale, vegetale e animale, perfino gli esseri più umili, come le tartarughe, danno il loro contributo all’opera e intonano un canto di lode al Creatore. Gaudí asseriva che, nell’edificare l’opera, si proponeva di plasmare con la pietra gli esseri viventi che individuava e ammirava nel prato del terreno su cui doveva sorgere la sua “cattedrale”. È ben nota la sua ammirazione per i colori. Gaudí credeva che la vita si esprimesse nei colori che non dovevano assolutamente mancare nella sua opera, perché sono espressione di vita ed esplosione di gioia. Questa visione gioiosa e riconoscente della natura è un elemento molto valido per il nostro dialogo con gli uomini di oggi e con la cultura attuale, fortemente segnata dall’ecologia. «Il colore è vita».
Come ammirerebbe Gaudí il modo in cui si è diffuso il colore nel mondo attuale! Gaudí era mediterraneo al cento per cento. E sapeva molto bene come la latitudine influisse sul sentimento della bellezza. Secondo Martinell, l’architetto spiegava ai suoi visitatori quanto segue: «Noi abitanti dei Paesi bagnati dal Mediterraneo sentiamo la bellezza con più intensità degli abitanti dei Paesi del Nord, ed essi stessi lo riconoscono. […] Abbiamo l’obbligo di infondere questo sentimento di vita nelle nostre opere, nel cui aspetto deve riflettersi il nostro modo di essere». Gaudí raccontò un aneddoto molto esplicativo del suo amore per la natura, secondo la testimonianza raccolta da Bergós riguardo la costruzione della Casa Vicens: «Quando andai a prendere le misure del terreno, questo era interamente coperto da fiorellini gialli; fiorellini che sono stati ripresi come motivo fondamentale delle piastrelle in ceramica. Trovai anche un esuberante margallón [palma], la cui forma delle foglie, come fuse nel ferro, formano le inferriate e la porta di ingresso».
Come è noto, nel Rosario monumentale della montagna di Montserrat, a Gaudí venne affidata la costruzionegaudì montserrat del primo mistero della Gloria: la risurrezione di Gesù. Anche qui, oltre alla simbologia cristiana, diede prova del suo amore verso gli esseri più umili della natura. Bergós lo racconta in questo modo: «Collocai il mistero della risurrezione in un angolo del percorso, facendo scavare in modo realista la roccia che si vede di fronte alla grotta funeraria, con in mezzo il sepolcro vuoto; alla sinistra del sarcofago, le sante donne ricevono l’annuncio dell’angelo su quanto è accaduto al Maestro. Quando lo spettatore si gira, contempla con emozione che Cristo rifulgente sembra elevarsi sull’alta rupe che vi è accanto. Le sculture collocate all’interno della grotta sono di Reart, e il Cristo, in bronzo dorato, è di Llimona. Adesso manca solo che siano piantati alcuni alberelli e siano coltivati gli ortaggi più umili, per suggerire l’idea dell’orto del buon giardiniere di cui parla il Vangelo e affinché il canto di molti uccelli accompagni la messa della mattina di Pasqua».
Nel suo capolavoro, Gaudí introdusse gli elementi della natura, affinché la creazione convergesse nella lode divina, e allo stesso tempo portò all’esterno della chiesa le pale d’altare, per mettere davanti agli uomini il mistero di Dio rivelato nella nascita, nella passione, nella morte e nella risurrezione di Gesù Cristo. Il nostro architetto fece ciò che possiamo definire uno dei compiti più importanti oggi: «Superare – come affermò Benedetto XVI – la scissione tra coscienza umana e coscienza cristiana, tra esistenza in questo mondo temporale e apertura alla vita eterna, tra la bellezza delle cose e Dio come bellezza. Non realizzò tutto questo con parole, ma con pietre, linee, superfici e vertici. In realtà, la bellezza è la grande necessità dell’uomo; è la radice dalla quale sorgono il tronco della nostra pace e i frutti della nostra speranza. La bellezza è anche rivelatrice di Dio perché, come Lui, l’opera bella è pura gratuità, invita alla libertà e strappa dall’egoismo».”

Tra divinità e matite

Pubblico l’articolo di Matteo Andriola che abbiamo letto in quinta stamattina. Una riflessione molto interessante sfiorando Nietzsche, Kierkegaard e Marx, tra storia e filosofia.

Nessun dio può odiare una matita.

matite_ruota1Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, probabilmente non esagero ritenendo la satira lo specchio della libertà di un Paese. Tristemente attuale, il dibattito relativo agli eventuali limiti che essa dovrebbe imporsi tiene banco in maniera piuttosto vigorosa. La presenza di un limite negherebbe il concetto stesso di satira, questo è vero, ma ciò che spesso, troppo spesso, viene sottovalutato è il fatto che non sia possibile né corretto fare i conti esclusivamente con il livello di tolleranza del proprio Paese o della propria confessione, facendone l’unico termine di paragone. La recente tragedia cui abbiamo assistito impotenti, altro non è se non l’ennesima dimostrazione di quanto la vita sia oramai subordinata ad interessi differenti, un valore non più inalienabile e imprescindibile, quanto piuttosto una merce di scambio da utilizzare in una guerra destinata a concludersi senza vincitori né vinti. Le vittime del terribile attentato al periodico Charlie Hebdo pagano un dazio infinitamente salato, capri espiatori di una situazione di esacerbata intolleranza che li ha visti diventare un subdolo e abietto pretesto nelle mani di un fanatismo sempre più becero e ingiustificabile.

In situazioni come questa, la banalizzazione e la generalizzazione sono i nemici più ostici da fronteggiare, e l’ignoranza induce sempre più di frequente a ritenere che il colpevole di un gesto tanto efferato quanto vigliacco non sia il singolo in quanto tale, ma piuttosto ciò che esso rappresenta.

La Storia è però una maestra troppo autorevole e competente quando si tratta di fornire un insegnamento, e con il consueto rigore didattico ci ricorda come la religione, anche quella cristiana, abbia mietuto vittime con clamorosa regolarità nel corso dei secoli. Gli esempi sono troppi e sarebbe impossibile riportarli tutti in questa sede, ma pescando in un passato neanche troppo lontano, credo che alle popolazioni centroamericane massacrate dai conquistadores, i cattolici Cortes e Pizarro non dovessero apparire molto diversi da come appaiono oggi coloro che si rendono colpevoli di ingiustificabili barbarie in nome di un profeta che non può neppure essere raffigurato. Gli spagnoli tuttavia, e non è un mistero, non avrebbero neppure levato un’ancora se nel nuovo mondo non vi fosse stata l’opportunità di allungare le mani su enormi quantitativi d’oro, né i crociati dal canto loro avrebbero preso la strada di Gerusalemme se a Roma non avessero intravisto in questi pellegrinaggi armati la possibilità di un lauto guadagno. La religione, oggi come allora, a conti fatti, risulta il pretesto più valido e facilmente vendibile, in grado di rendere accettabile anche ciò che razionalmente non potrebbe mai esserlo. Il ricordo dell’attentato alle torri gemelle o le sconvolgenti immagini delle decapitazioni dell’ISIS sono ancora davanti agli occhi di tutti, e per quanto mi sforzi di trovare un senso a tutto ciò che da sempre accade, concludo sempre la mia ricerca a mani vuote. Tutti agiscono in nome di un dio, qualunque sia, caritatevole e misericordioso, ma per soddisfare le sue richieste, travisando e maneggiando ad arte il suo messaggio, ricorrono al contraddittorio strumento della violenza. Il superamento di Dio auspicato da Nietzsche, in questo senso, prescindendo dalla posizione religiosa di ciascuno, responsabilizzerebbe l’individuo, ponendolo di fronte a se stesso senza condizioni, privandolo di uno strumento che, snaturandosi, troppo spesso si tramuta in pretesto. Non è oggetto dell’intervento l’opportunità di credere o meno, ma partendo dal presupposto di scegliere la strada della Fede, qualunque essa sia, non si potrà fare a meno di constatare come nessun dio possa pretendere il sacrificio del sangue, di cui è invece perennemente assetato soltanto l’uomo, capace di perpetrare orribili violenze in nome di un credo, senza voler ammettere che il reale problema risieda in realtà nell’innata inclinazione dell’individuo a non accettare l’altro poiché ritenuto diverso, e di conseguenza inferiore. L’impressionante manifestazione di solidarietà tenutasi a Parigi dovrebbe configurarsi non come una manifestazione anti islamica, quanto piuttosto come una presa di posizione contro una situazione insostenibile in cui sono sempre gli innocenti a fare le spese di un disegno perverso in cui potere e interessi scavalcano con inconcepibile noncuranza il valore di quella vita che ogni uomo dovrebbe amare più di qualunque altra cosa, sia che creda sia che non creda. Come accennato, non mi preme in questa sede entrare in merito alla questione della Fede, poiché credo di non aver titolo se non per sostenere la mia intima posizione al riguardo; quello della Fede è un argomento delicato, la cui verità, come sosteneva Kierkegaard, è un discorso del singolo, suo e soltanto suo. Da qualunque angolazione la si osservi però, la violenza come strumento religioso risulta una contraddizione nei termini, e un mondo che si professa civile e moralmente evoluto, non può fare a meno in nessun caso di poggiare sulle solide fondamenta della tolleranza, in cui il rispetto della vita altrui è e sarà sempre il viatico migliore per raggiungere il rispetto di se stessi. In un Paese laico e democratico, la scelta religiosa rappresenta uno straordinario esempio di libertà che tutti dovrebbero proteggere gelosamente, ma la società ha sprecato troppo spesso l’occasione per riscattarsi e temo se la lascerà sfuggire anche questa volta, calpestando il prossimo e il diritto di espressione, preferendo mantenere in vita una tensione sempre più pericolosa e retrograda. Nel riscontrare il potenziale ottenebrante della religione, Marx colse nel segno definendola “oppio dei popoli”, e mai come oggi tale espressione risulta di sconvolgente attualità. Non mi illudo che la situazione possa cambiare, poiché non riconosco al genere umano la preziosa dote della tolleranza, ma sono certo di non sbagliare sostenendo che nessun dio, qualora dovesse esistere, possa accettare che un suo figlio muoia a causa di un disegno, a causa di una matita. Per quanto io mi possa sforzare, non intravedo nulla di religioso in ciò che sta accadendo, né riuscirò mai a convincermi del fatto che un dio possa pretendere ciò che la Storia ha voluto e vuole farci credere che pretenda.

L’Illuminismo ci ha lasciato in eredità molte teorizzazioni, ma il suo merito più grande è stato quello di rifiutare l’accettazione passiva di convinzioni secolari, e nessun filosofo del tempo potrebbe sentirsi offeso per il fatto che, per l’occasione, io scelga di rispolverare Voltaire, che sarebbe sicuramente sceso in piazza per manifestare la propria solidarietà alle vittime della tragedia parigina e che, senza remore né timori di sorta, avrebbe certamente ripetuto, gridandola a squarciagola, una delle più note affermazioni a lui attribuite: “Non sono d’accordo con te, ma darei la vita per consentirti di esprimere le tue idee”.”

Fonti di energia pulite

cascata

Fonti di energia pulita. E’ uno dei temi forti di molti programmi politici. Lo considero un tema forte del mio approccio alla vita. A volte ho bisogno di fonti di energia pulita per la mia anima. Oggi voglio condividerne una.
L’amore mistico per l’umanità non si dispiega per istinto, non deriva da un’idea; non appartiene né al sensibile né al razionale, ma è implicitamente l’uno e l’altro, ed è effettivamente molto di più. Un simile amore è infatti la radice stessa della sensibilità e della ragione, come di tutte le altre cose.” (H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione).

Tra paura e liberazione

ballo

Nel settimo capitolo di “E l’eco rispose” Khaled Hosseini fa pensare così Adel, uno dei protagonisti: “Intuiva nell’ansia che la gente aveva di compiacere suo padre, il timore e la paura che erano all’origine del rispetto e della deferenza.” Mi è capitato spesso di osservare persone avere questo tipo di ansia legata al timore e alla paura nei confronti del rapporto con la divinità. Sentimenti che esteriormente appaiono come rispetto e deferenza, ma che interiormente si vivono con disagio, tremore, senso di costrizione (e inoltre: Dio vuole o ha bisogno di essere compiaciuto?). Sicuramente può essere legato all’educazione ricevuta, tuttavia penso che poi arrivi il momento in cui quell’educazione deve essere fatta propria accettandone o respingendone alcuni aspetti, nella convinzione che la strada del rapporto possibile o meno con la divinità non è solo una. SchopenhauerUn pensiero forte e provocatorio per concludere questi pensieri sparsi e lasciare spazio ad altre possibili riflessioni: “Le religioni sono necessarie al popolo, e sono per esso un inestimabile beneficio. Quando però esse vogliono opporsi ai progressi dell’umanità nella conoscenza della verità, allora debbono essere messe da parte con la massima deferenza possibile. E pretendere che anche uno spirito grande – uno Shakespeare, un Goethe – faccia entrare nella propria convinzione, implicite, bona fide et sensu proprio, i dogmi di una qualche religione, è come pretendere che un gigante calzi la scarpa di un nano.” (Arthur Schopenhauer, Supplementi al mondo come volontà e rappresentazione, 1844)

Il singolo e Dio

Un interessante post di Matteo Andriola, trovato sul suo blog:
sorenSe l’avessi incontrato ad un evento mondano, probabilmente l’avrei invidiato per la sua aria scanzonata e sovente guascona; l’eleganza mescolata allo snobismo che di consuetudine sciorinava in pubblico faceva di Søren Kierkegaard un perfetto mentitore, un dissimulatore capace di nascondere la propria reale condizione a quella che era solito chiamare “folla bestiale”. Senza remore, oggi posso dire di essermi convinto che fosse un bugiardo, e la sua maschera era senz’altro piuttosto ingannevole se si considera che dietro di essa si celava uno degli individui che non è esagerato annoverare tra i più tormentati dell’intera Danimarca. Nato nel 1813, ricevette una rigida educazione religiosa che personalmente credo l’abbia condizionato più di quanto si voglia credere; nell’arco di circa sette anni perse il padre e cinque fratelli, in quella che interpretò come un’autentica punizione divina per una colpa a noi ignota commessa dal genitore. Sentimentalmente non si può dire che il giovane fosse meno inquieto, se si considera che interruppe il fidanzamento con Regina Olsen, a causa di un mai specificato turbamento interiore che funestava il suo animo senza dargli tregua. Che Kierkegaard fosse un animo profondamente turbato non è in alcun modo opinabile, ma non sono mai riuscito a giudicarlo instabile o illogico, e il frequente ricorso agli pseudonimi fa di lui un filosofo tanto grande quanto sfuggente. La questione degli pseudonimi è in realtà più complessa di quanto si pensi e il ricorso ad essi non è altro che un geniale stratagemma per responsabilizzare il lettore, privandolo di qualunque condizionamento.
Alla luce di quanto accadutogli, Kierkegaard doveva sentirsi decisamente in credito con Dio, eppure, sostenendo la “verità del singolo”,ci fornisce una delle più alte e pure dimostrazioni di fede che la Filosofia ricordi. Secondo lui, è il “singolo” ad elevarsi sulla collettività, anche e soprattutto in materia di fede, e la verità ha come proprio compito l’affermazione assoluta dell’individualità. Attaccando Hegel, Kierkegaard si scaglia contro le ricerche metafisiche indirizzate alla ricerca di verità universali e concetti assoluti ( quali ad esempio la coscienza ) che non possono avere senso a meno che non vengano rigidamente contestualizzati alla soggettività del singolo individuo. Una conoscenza che scavalchi l’individualità è un’assurdità, in quanto tale individualità si concretizza proprio in relazione ad altre singolarità, e non in rapporto all’umanità intesa come entità autonoma dotata di vita propria. Una simile concezione dell’umanità negherebbe in assoluto la singolarità dell’individuo, potendo peraltro perpetrare crimini orrendi, semplicemente celandosi dietro la spersonalizzante maschera della moltitudine; ed infatti, è la folla ad aver ucciso Gesù Cristo, non il singolo. Paradossalmente, in materia religiosa, la conoscenza diviene secondo Kierkegaard uno strumento fuorviante, in quanto essa nulla ha a che vedere con la fede, ma al più con un nozionismo fine a se stesso. Il singolo individuo può e deve ricercare la salvezza, rimanendo però consapevole di poterla raggiungere esclusivamente attraverso la fede, e la conoscenza storica del Cristianesimo, in questo senso, può tranquillamente valere molto meno della totale ignoranza in materia. È in Cristo soltanto che si trova la chiave della salvezza, e non nei proseliti di una Chiesa come quella danese che Kierkegaard non ha remore nel definire “pagana”. Il rapporto con Gesù è intimo e personale e tale intimità rappresenta agli occhi del filosofo l’unica strada possibile per la salvezza; ogni uomo, inteso nella propria individualità, instaura con Cristo un rapporto esclusivo che di fatto costituisce, e non potrebbe essere altrimenti, l’unico viatico possibile per ottenere la salvezza.
A ben vedere, al di fuori di questo privilegiato rapporto, la religione può addirittura risultare contraddittoria nella sua incomprensibilità. Che Dio, a cui sarebbe sufficiente una parola, si faccia uomo e decida di morire per salvare l’umanità, è un controsenso dal quale è impossibile uscire per mezzo della ragione; la storia di Cristo è propedeutica alla fede, ma non indispensabile per la salvezza. Il rapporto dell’uomo con Dio è un mistero che accomuna tutti i singoli, affermandone l’individualità. Ecco perchè, secondo Kierkegaard, la verità può risiedere soltanto nel singolo.”

Pezzi

dalìAvverto che c’è il bisogno di un post di alleggerimento (almeno in apparenza…) con un brevissimo racconto.

«“Una volta il diavolo andò a passeggio con un amico. Videro un uomo davanti a loro che si chinava e raccoglieva qualcosa dalla strada.
Che cos’ha trovato quell’uomo?” chiese l’amico.
Un pezzo di verità” rispose il diavolo.
E non ti dispiace?” chiese l’amico.
No” disse il diavolo. “Gli permetterò di farne un credo religioso.”»
(A. De Mello, “Il canto degli uccelli”)

Le certezze di sfondo di Habermas

Politica, Europa, spinte separatiste, Merkel, religione, filosofia: questi sono, sommariamente, gli argomenti toccati da Jürgen Habermas in questa intervista pubblicata in giugno sulla “Frankfurter Rundschau” in occasione dell’85mo compleanno del filosofo. L’ho trovata su Reset-DoC, pubblicata il 22 luglio. Non è breve e non è da leggere alla leggera. Per appassionati, dritta nella categoria “Pensatoio”.

Juergen Habermas to receive Heinrich Heine prizeM.S. Signor Habermas, la prossima settimana lei compirà 85 anni. Che cosa significa per lei – alla sua età – “vivere il presente”? Quale filo la collega al mondo dei suoi figli e nipoti?

J.H. Sta pensando a una qualche “passione per il presente”? Sì, seguo sempre con passione gli sviluppi della politica. D’altro canto, veder schiacciare sul passato della storia la propria generazione fa un po’ l’effetto di uno “scuoiamento”. Ieri ho ricevuto la prima copia di una mia biografia[1] scritta da Stefan Müller-Doohm. Anche se la persona dell’autore, di cui ho la massima stima, non me ne darebbe motivo, io ho paura ad affrontare questo libro. Quanto ai miei figli, che sono già grandi, ho l’impressione che condividano tutto sommato le idee politiche e intellettuali dei loro genitori. Solo i miei nipoti sembrano già vivere già in un’altra epoca…

M.S. Retrospettivamente parlando, quali sono state le sue esperienze più importanti che la hanno indirizzato sul piano intellettuale e sul piano pratico?

J.H. Le esperienze intellettuali si lasciano facilmente ricondurre a determinati personaggi. Il mio primo filosofo l’ho incontrato nella figura di Karl-Otto Apel, che mi è stato prima mentore e poi amico. Lo straordinario privilegio di lavorare con Adorno mi ha fatto toccare da vicino un modo di pensare che è illuminante e affascinante nello stesso tempo. Anche Wolfgang Abendroth e Hans-Georg Gadamer sono ancora stati – per me – come una sorta di ultimi maestri accademici. Dopo di che ho potuto imparare da un’intera generazione di “peers” al di qua e al di là dell’Atlantico. Ho avuto soprattutto la fortuna d’incontrare sulla mia strada dei collaboratori brillanti, che mi hanno aiutato in tutte le svolte del mio pensiero. Questi sono stati, tutto sommato, i miei stimoli intellettuali. Ma lei chiede anche delle esperienze “sul piano pratico”. Chiunque sia sposato da sessant’anni e abbia figli, sa che ci sono cose ben più importanti degli stimoli intellettuali…

M.S. Lei venne subito famoso con il suo testo di abilitazione: Strukturwandel der Öffentlichkeit (1961)[2]. Il quadro empirico di riferimento è oggi del tutto cambiato. La sfera pubblica è infatti stata radicalmente trasformata dai nuovi mass-media. Come imposterebbe lei oggi questo lavoro? Come potremmo applicare ai rapporti presenti quel concetto enfatico – e normativamente impregnato – di “sfera pubblica” democratica cui lei non ha mai cessato di essere fedele?

J.H. Oggi vediamo come, persino in Occidente, procedure e istituzioni democratiche possano ridursi a vuote facciate se viene loro a mancare una sfera pubblica funzionante. Per converso, il funzionamento delle sfere pubbliche presuppone sempre esigenti condizioni di tipo normativo. Infatti i circuiti comunicativi pubblici non dovrebbero essere tagliati fuori dai processi decisionali effettivi. In Europa, anche la crisi politica degli ultimi anni ci ha insegnato molto su questi due aspetti del problema.

M.S. Internet è un vantaggio o uno svantaggio per la democrazia?

J.H. Né l’una cosa né l’altra. Dopo le invenzioni della scrittura e della stampa la comunicazione digitale rappresenta la terza grande innovazione sul piano dei media. Con la loro introduzione, questi tre media hanno consentito a un sempre maggior numero di persone di accedere, sempre più facilmente, a una massa sempre più grande di informazioni rese sempre più durevoli. Con l’ultimo passo rappresentato da internet abbiamo anche una sorta di “attivazione”: gli stessi lettori diventano autori. Ma questo, di per sé, non crea automaticamente progresso sul piano della sfera pubblica. Nel corso dell’Ottocento – con l’aiuto dei libri e dei giornali di massa – abbiamo visto nascere delle sfere pubbliche nazionali dove l’attenzione di un numero indefinito di persone poteva applicarsi simultaneamente sugli stessi identici problemi. Questo però non dipendeva dal livello tecnico con cui i dati erano moltiplicati, distribuiti, accelerati, resi durevoli. Si tratta, in fondo, degli stessi movimenti centrifughi che avvengono anche oggi nel web. Piuttosto, la sfera pubblica classica nasceva dal fatto che l’attenzione di un anonimo pubblico di cittadini veniva “concentrata” su poche questioni politicamente importanti che si trattava di regolare. Questo è ciò che la rete non sa produrre: anzi la rete, al contrario, distrae e disperde. Pensi per esempio ai mille portali che nascono ogni giorno: per i collezionisti di francobolli, per gli studiosi di diritto costituzionale europeo, per i gruppi di coscienza degli ex-alcolizzati. Nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità comunicative sono come arcipelaghi dispersi: ce ne saranno miliardi. Ciò che manca a questi spazi comunicativi (chiusi in se stessi) è il collante inclusivo, la forza inclusoria di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono davvero importanti. Per creare questa “concentrazione” occorre prima saper scegliere – conoscere e commentare – i temi, i contributi e le informazioni che sono pertinenti. Insomma, anche nel mare magnum dei rumori digitali non dovrebbero andare perse quelle competenze del buon vecchio giornalismo che sono oggi non meno indispensabili di ieri.

M.S. Con Zwischen Faktizität und Geltung (1992)[3] lei ha offerto allo stato liberal-democratico un’imponente base di legittimazione. Cosa direbbe se qualcuno le facesse notare: Grazie a Habermas la democrazia ha vinto sul piano delle idee, resta però il problema di farla vincere nella realtà.

J.H. Direi: uno slogan amichevolmente avvelenato. Io ho soltanto illustrato uno dei possibili modelli di democrazia, e l’ho fatto in un senso puramente ricostruttivo, senza bisogno di suonare le trombe dell’utopia. La mia ricostruzione poggia sui presupposti pragmatici cui i cittadini non possono fare a meno di aderire tutte le volte che a) vanno a votare, b) portano avanti una causa in tribunale, c) si oppongono allo smantellamento dello stato sociale. Quando questi presupposti normativi (di nuovo: che ogni voto abbia nell’urna lo stesso valore, che i giudici siano imparziali, che i governi perseguano i programmi per cui sono stati eletti) vengono sistematicamente violati, allora crollano le pratiche che su di essi poggiano. Oppure tali pratiche vengono svuotate dall’interno ad opera del cinismo dei governanti e/o dalla muta apatia dei cittadini.

M.S. In certe critiche recenti, orientate più a Hannah Arendt che non a Carl Schmitt, si è anche sostenuto che il suo modello deliberativo – canalizzato in senso discorsivo – manca il suo obbiettivo in quanto vorrebbe ricostruire il Politico come un astratto processo scientifico-conoscitivo, laddove esso è piuttosto uno scontro violento per impadronirsi e mantenere il potere. Che cosa risponde a tali critiche?

habermasJ.H. In una società pluralistica la procedura democratica è l’unica fonte per produrre decisioni riconoscibili come legittime. Questa procedura assicura da un lato inclusione (vale a dire partecipazione di tutti i cittadini), dall’altro lato deliberazione (per es. campagne elettorali e dibattiti parlamentari, in base a ciò che elettori e legislatori decidono di scegliere). Proprio per via di questo elemento di pubblico dibattito – un dibattito che deve svolgersi prima di andare a votare – il risultato delle elezioni politiche (la spartizione del potere tra i partiti concorrenti) è qualcosa di diverso dalle semplici inchieste demoscopiche. Ciò non ha tanto a che vedere coi processi della conoscenza scientifica, quanto piuttosto con l’aspettativa che i problemi politici riescano a trovare una soluzione il più possibile razionale. Questa “aspettativa di razionalità” richiede infatti che – nel formulare proposte significative – siano messe pubblicamente sul tavolo informazioni attendibili e buone ragioni. In questo processo le ragioni normative hanno spesso un ruolo più importante degli stessi dati empirici o delle certificazioni degli esperti: e comunque devono sempre essere ragioni in grado di “contare”. Questa dimensione cognitiva della formazione della volontà (sia dei cittadini che dei politici)[4] diventa ancora più importante quando cresce l’orizzonte d’incertezza in cui dobbiamo prendere le decisioni.

M.S. Un grande tema cui lei è appassionato è l’Europa e la sua unificazione democratica. Di recente lei ha a proposto, in un seminario a Princeton[5], di modificare la costituzione europea nel senso di trasformare il Consiglio dei ministri in una rappresentanza dei singoli stati, facendone una seconda “gamba” legislativa accanto al Parlamento UE. Subito si è obbiettato che il progetto europeo vuole superare le vecchie divisioni statali e dunque non dovrebbe fissarne la sopravvivenza in una “casa degli stati” quale organo del potere legislativo. Come risponde a questa critica?

J.H. Questa critica non tiene conto della situazione politica attuale. Anche il conflitto sulla nomina di Juncker ha mostrato dove sta in realtà il problema. I capi di governo hanno oggi in Europa lo stesso ruolo semicostituzionale un tempo svolto dal sovrano del vecchio Reich tedesco. Occorre perciò stabilire quale quota di potere i capi di governo dovrebbero cedere al Parlamento, in maniera da ridurre quel deficit democratico che grida vendetta. Rispetto a una democrazia transnazionale, che faccia a meno di ogni carattere di statualità, il modello federale USA non è quello che dobbiamo imitare. Piuttosto bisognerebbe equiparare al Parlamento un Consiglio inteso come il luogo di rappresentanza degli stati. Per armonizzare queste due istituzioni legislative occorre istituire delle procedure. Lo scontro per insediare il presidente della Commissione dimostra come ancora manchi, a livello europeo, un organico sistema dei partiti, dove questi (nel proporre i loro candidati) possano fin dall’inizio muoversi in accordo con il Consiglio.

M.S. Parliamo ora delle tendenze separatiste in Ucraina, Scozia, Belgio ecc. Come mai lei ha aspramente criticato, in più occasioni, il separatismo? La Cechia e la Slovacchia dimostrano che ci si può anche separare senza troppe difficoltà. Dal punto di vista storico, la secessione è soltanto una forma diversa di nation-building. Perché dobbiamo scomunicarla dal punto di vista normativo?

J.H. La nazione come sacro principio è stata definitivamente superata a Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Invece di promuovere la pace ha fomentato sempre nuovi conflitti. Il motivo è evidente: nessun popolo è etnicamente omogeneo. Tracciare nuovi confini significa semplicemente riprodurre in maniera capovolta i rapporti di maggioranza e minoranza. Quando Genscher ha riconosciuto la Croazia come nuovo stato sovrano, contribuendo così alla disgregazione della vecchia Jugoslavia, non ha fatto altro che aprire la porta ai più feroci massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stesso errore si è ripetuto con il Kosovo. Si tratta dell’ombra lunga che il nazionalismo ottocentesco ha gettato sul secolo ventesimo. E ora vediamo di nuovo risorgere spettri nazionalistici nel cuore dell’Unione europea, la quale non si mostra nemmeno capace di porre freni all’autoritarismo ungherese di un Orban.

M.S. Nel libro dell’anno scorso, Nella spirale della tecnocrazia, lei attaccava duramente la politica europea della signora Merkel. Così, in quel suo testo, si volle vedere un aiuto alla campagna elettorale della SPD. Ora però i socialisti sono entrati nel governo della Merkel, e la politica tedesca verso l’Europa continua sostanzialmente come prima: lei ha cambiato idea? Si sente deluso?

J.H. La SPD si è lasciata trascinare dentro la coalizione. Su questo tema non ha mai voluto contraddire la Merkel. Adesso però sarà costretta a farlo, se non vuole tradire il suo candidato europeo Martin Schulz.

M.S. Nel frattempo molti stati debitori stanno per uscire dall’ombrello di protezione. Forse che la politica della Merkel non è poi stata così cattiva come si è voluto dipingere?

J.H. In realtà, nell’eurozona, gli squilibri strutturali delle economie nazionali continuano a crescere. Né possiamo proseguire in quella politica di “svalutazione interna” che, nei paesi in crisi, è stata pagata sacrificando gli strati più svantaggiati, le giovani generazioni, le prestazioni assistenziali e infrastrutturali. Se lo facessimo, si rafforzerebbe il populismo di destra, si radicalizzerebbero i conflitti tra i popoli, si fomenterebbe l’ostilità antitedesca. La Merkel ha paura di dire questa semplice verità ai suoi elettori, e dà loro vino adulterato. Lo sbaglio di aver fondato una comunità monetaria senza predisporne un controllo politico è stato un errore compiuto “in solido” da tutti gli stati coinvolti. Adesso noi tedeschi vorremmo schermarci dall’obbligo di subirne le conseguenze.

M.S. Che cosa le dà la forza di non reagire in maniera disfattistica a ciò che il suo maestro Adorno chiamava “il cattivo corso del mondo”?

J.H. Contro il cattivo corso del mondo Hegel metteva in campo lo spirito assoluto, laddove Adorno contrastava la disperazione appellandosi – in maniera controfattuale – a una luce messianica. Infatti, solo nel cono di questa illuminazione egli poteva denunciare la negatività dell’esistenza. Io mi sento piuttosto vicino alla posizione di Kant, cui Adorno giustamente attribuiva il motivo intitolato “inconcepibilità della disperazione”.

M.S. Si sente dire che lei stia lavorando a una grande opera di filosofia della religione, della quale già sono usciti i prolegomeni[6]. A che cosa si deve questo suo nuovo interesse per la religione? Si tratta forse dell’irritante esperienza per cui, contro ogni aspettativa, la religione non solo non è stata neutralizzata dalla secolarizzazione della modernità, ma sembra addirittura rinascere in forme nuove e spesso preoccupanti?

J.H. Se poniamo al centro dell’evoluzione della specie l’adozione del linguaggio quale meccanismo di comunicazione, allora diventa verosimile pensare che – per una specie costitutivamente asociale – i processi di socializzazione debbano essere passati attraverso una forte tensione tra spirito e motivazione. Con tutta evidenza fu il “complesso religioso” ciò che tenne insieme e stabilizzò le prime collettività, schermandole dalle tensioni interiori. Fin dall’inizio i classici della sociologia hanno individuato nel rito e nel mito la fonte della coscienza normativa e della solidarietà sociale. A questo interesse dei sociologi io collego ora la constatazione hegeliana secondo cui molti concetti della filosofia pratica, pur avendo nomi di origine greca, sono sostanzialmente il frutto di un secolare processo di assimilazione e di traduzione semantica di concetti nati nella tradizione ebraico-cristiana. Se pensiamo ad autori come Bloch e Benjamin, Buber, Levinas e Derrida, noi vediamo come questa assimilazione non si sia ancora conclusa. Tutto ciò – per un pensiero postmetafisico che si preoccupa delle risorse normative di una società mondiale portata fuori strada dal capitalismo – potrebbe essere l’occasione per intraprendere finalmente un cambio di prospettiva. La filosofia dovrebbe sapersi mettere in rapporto non solo con le scienze ma anche con le tradizioni religiose tuttora vitali. Non vorrei però essere frainteso: non sto affatto proponendo al pensiero postmetafisico di rinunciare alla sua autocomprensione secolare, ma solo di allargare questa sua autocomprensione in una direzione bifocale.

M.S. Che giudizio dà lei sullo stato della filosofia oggi? In Germania va sempre più di moda il filosofo da talk-show, quello che un tempo si chiamava filosofo popolare. Penso a personaggi come Safranski, Sloterdijk, Precht. È una cosa buona oppure cattiva?

J.H. Beh, i nomi che lei cita non sono i veri rappresentanti della filosofia tedesca. La filosofia è oggi una professione accademico-scientifica come tutte le altre. Dalle altre discipline essa si distingue solo per il fatto che – in quanto pensiero non pre-fissabile – non ha un “metodo” e un “oggetto” definibili a priori. Personalmente sono troppo vecchio per pretendere di dare un giudizio complessivo sullo stato attuale della disciplina. Posso però dirle qual è stata la mia esperienza: la mia generazione ha saputo suscitare interesse e trovare riconoscimento, da parte dei colleghi americani, francesi, e talora persino inglesi, solo nella misura in cui – nel trattare i diversi problemi – siamo stati capaci di mostrare la forza della nostra tradizione, attingendo in maniera sistematica e analitica alle fonti di Kant, Hegel e Marx. Oso fare questa raccomandazione sperando di non essere accusabile di provincialismo.

M.S. Lei si è sempre richiamato ai filosofi antichi che andavano nell’agorà ed esercitavano l’uso pubblico della ragione. D’altro canto lei passa anche per un filosofo difficile e i suoi testi sono così complessi da non essere facilmente comprensibili. C’è una contraddizione in tutto ciò?

J.H. Ok, i lettori di questa intervista le daranno subito ragione. Però vede, io non ho mai avuto come obbiettivo quello di raggiungere un vasto pubblico. Non vado nemmeno in televisione. Il mio mondo è quello dell’università. È vero che concedo troppe interviste e scrivo articoli di giornale, ma di queste mie debolezze si dovrebbero incolpare piuttosto i redattori. Ciò cui io miro non è avere tanti lettori, ma far circolare determinate idee.

M.S. Una domanda personale: non le capita mai – come ha scritto Eduard Mörike in Wintermorgens vor Sonnenaufgang – di svegliarsi la mattina e pensare improvvisamente, come in un incubo, che tutto quanto lei ha finora pensato e scritto sia sbagliato? E se una esperienza simile le è davvero capitata, come affronta questa insicurezza esistenziale?

J.H. Es ist ein Augenblick/ Und alles wird verwehen. [“In un istante/ Tutto sembra sparire”]. Come vede, sono andato a cercare poesia e verso cui lei fa riferimento. Ma ahimé devo deluderla: prima dell’ultimo risveglio non scivolo nel mondo incantevole e fatato di cui parla Mörike. Precipito piuttosto nel vortice di pensieri angosciosi. Dunque la mia insicurezza potrebbe essere più profonda. Se però vogliamo dare alla sua domanda un senso meno drammatico, mettendola semplicemente in relazione con i miei lavori accademici, allora le darò una risposta di tipo pragmatico. È naturale che ogni singolo enunciato, da me messo per iscritto, possa rivelarsi sbagliato. Ma lei in realtà dice: “tutto quanto lei ha finora pensato e scritto”. Dunque, si riferisce all’insieme di tutte le certezze-di-sfondo. Come filosofi – infatti – noi pensiamo sempre sullo sfondo di un orizzonte unificante e di un contesto che ci sostiene. Per fortuna questo contesto può sempre rivelarsi sbagliato quando ne esplicitiamo un elemento particolare. Come una fascia detritica di montagna, questo sfondo intuitivamente presente scivola e si sposta con noi tutte le volte che ci correggiamo o attraversiamo processi di apprendimento. Sennonché questo complesso delle certezze-di-sfondo non può mai essere considerato sbagliato, in quanto non può mai – nel suo insieme – essere fatto oggetto di enunciati falsificabili.

Intervista pubblicata sul “Feuilleton” della “Frankfurter Rundschau” del 14/15 giugno 2014. Le domande sono di Markus Schwering. Titolo originale “Nella spirale dei pensieri. Le procedure democratiche sulla rete, in politica, in Europa”[7].

Traduzione italiana di Leonardo Ceppa.

Note

[1][S. Müller-Doohm, Jürgen Habermas. Eine Biografie, Berlin 2014 – uscita a giugno, per l’85esimo compleanno del filosofo, N.d.T.].

[2][Trad.it.. Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 2002, N.d.T.].

[3][Trad.it. Fatti e norme, Milano 1996, nuova edizione Roma-Bari 2013, N.d.T.].

[4][Per Habermas anche le ragioni e le decisioni normative – lungi dall’essere preferenze soggettive e opzioni pregiudiziali – hanno un fondamentale valore cognitivo. N.d.T.].

[5][La conferenza americana di Habermas è stata tradotta, col titolo “Per una democrazia transnazionale”, su Micromega 3/2014, pp. 12-27; sulle reazioni suscitate in America da questa conferenza cfr. il servizio di Patrick Bahners, “Demokratie kommt ohne Völker aus”, Frankfurter Allgemeine Zeitung del 7 maggio 2014. N.d.T.].

[6][Sul grande inedito, cfr. E. Mendieta, Religion in Habermas’s Work, in C. Calhoun, E. Mendieta, J. VanAntwerpen, a cura di, Habermas and Religion, Polity Press, Cambridge UK, pp. 405-406. I prolegomeni cui si fa cenno sono i saggi raccolti nell’ultima grande opera di Habermas, Nachmetaphysisches Denken II, Suhrkamp, Berlin 2012 (in corso di traduzione presso Laterza), N.d.T.].

[7][Allusione al titolo dell’ultimo libro di Habermas: Nella spirale della tecnocrazia, trad.it. Roma-Bari 2014, N.d.T.]

Musulmani d’Italia

Al HudaHo trovato questo interessante articolo di Francesca Bellino su Reset: l’argomento è quello degli italiani convertitisi all’Islam.
Quando si convertono scelgono un nome della tradizione musulmana e lo aggiungono al proprio, ma lo usano soprattutto con “i fratelli e le sorelle di fede”. Da parenti, amici e colleghi d’ufficio continuano a farsi chiamare con il nome della nascita. Sono italiani che hanno scelto l’Islam in età adulta e, per completare il loro ampliamento d’identità, hanno aggiunto anche un nome al loro percorso (se pur la richiesta non sia obbligatoria).
Aver fatto shahada (testimonianza di fede verso Dio e il profeta Muhammad) per la maggior parte di loro è una scelta intima, da non condividere con tutti. Di questi tempi poi, meglio tenere nascosto il proprio credo e quel nome straniero, portatore di fobie, paure e pregiudizi in aumento dopo la nascita dello stato islamico in Iraq e le notizie del reclutamento di jihadisti in Europa e anche in Italia.
Il convertito italiano è, dunque, una figura spesso invisibile, poco conosciuta, incompresa o dipinta dai mass media con un’unica sfumatura, quella violenta ed estremista, usata per parlare di terroristi, tagliagola e indottrinatori. Le molteplici differenze presenti nella religione islamica si riflettono anche nella galassia dei convertiti d’Italia, che è in grande trasformazione rispetto al passato. Ci sono i praticanti e i non praticanti, quelli che seguono le confraternite africane, chi ha “avuto la chiamata”, chi si è convertito per sposarsi, chi per “sfuggire alle contraddizioni della Chiesa” e chi perché ha sentito un bisogno di spiritualità.
Se trenta anni fa erano gli intellettuali e i pensatori a diventare musulmani, oggi si convertono all’Islam soprattutto persone che vivono nelle periferie, spesso ignoranti ed emarginate. Oggi il fenomeno della conversione nasce dal disagio e dall’esclusione sociale, non più da una ricerca spirituale raffinata. In questa fase assistiamo, inoltre, a un gran ridimensionamento delle conversioni rispetto al passato” spiega Gianpiero Ahmad Vincenzo, sociologo e scrittore napoletano, docente all’Università di Catania, convertito nel 1990.
Il numero dei convertiti in Italia è impreciso perché non esiste un albo. “Non tutti frequentano la comunità religiosa in moschee o centri di culto, dunque non tutti si dichiarano o si registrano”, sottolinea Alessandro Ahmad Paolantoni, segretario nazionale dell’UCOII (Unione delle comunità islamiche d’Italia), convertito dal 2001. “Si può dire che i musulmani italiani siano 40/50 mila, ma è un dato parziale. Tra questi purtroppo ci sono anche tante cattive conversioni: persone che cercano nell’Islam la risoluzione di problemi personali e non la spiritualità. Persone con percorsi accidentati che provano a salvarsi con l’Islam, senza arrivare ai casi estremi di chi decide di partire per il jihad. In quel caso parliamo di eccezioni. Gente indottrinata attraverso il web, con un percorso solitario, “fai da te”, senza alcun contatto con gli imam. Il lavoro dell’UCOII al momento è concentrato molto sulla formazione degli imam sui territori, oltre che sul cercare di accelerare l’intesa con lo Stato che finora non è stata possibile per motivi politici e pratici”.
Alessandro è approdato all’Islam attraverso i libri. Aveva 33 anni e non praticava alcuna religione. Aveva lavorato prima nella tabaccheria dei genitori, poi nel campo delle decorazioni d’interni. Curioso, seguiva la geopolitica, e tra una lettura e l’altra si è imbattuto nell’Islam e ne ha subito apprezzato il concetto di responsabilità individuale, l’assenza di intermediario tra Dio e il credente e il prendere in considerazione tutti i profeti e le rivelazioni precedenti all’arrivo di Muhammad. “Non ho mai sentito di tradire o abbandonare qualcosa – dice – ma solo di aggiungere. Con naturalezza e normalità”.
Stessa sensazione che ha avuto Carlo Ahmed, 27 anni, romano, impiegato, convertito nel 2008 dopo essere stato “affascinato dalla disciplina che c’è nell’Islam”. “Sono sempre stato un appassionato di viaggi e culture – racconta – così un giorno acquistai una copia del Corano. All’epoca frequentavo la facoltà di economia all’università e venivo da un percorso scolastico salesiano. Più leggevo e più scoprivo che Islam, Ebraismo e Cattolicesimo hanno tante cose in comune. Appartengono tutte allo stesso ceppo, ma l’Islam mi è sembrata subito la religione più completa. La mia famiglia all’inizio ha avuto alcune perplessità, poi ha capito che, anche se musulmano, rimanevo la stessa persona di prima. Purtroppo c’è disinformazione che confonde le persone. Quello di cui si parla in giro non è l’Islam”.
I musulmani non sono tutti jihadisti” tengono a precisare i convertiti italiani che, nella maggior parte dei casi, hanno trovato nell’Islam un senso di completezza e di semplicità. “Mi è sembrata subito una religione immediata ed elementare. Per me è stato un passaggio indolore. Più difficile è stato far capire alla famiglia che non stavo per diventare terrorista” spiega Enrico Karim, 53 anni, ingegnere di Catania, musulmano da 2 anni, noto come “il generoso”. “Convertendomi ho completato il puzzle della mia vita. Ho aggiunto il pezzo mancante che stavo cercando da tempo” racconta Catia Aysha, 57 anni di Modena, madre di 4 figli oggi residente in provincia di Viterbo con il marito palestinese. “Sono sempre stata dubitativa verso la religione cattolica”, spiega. “A scuola facevo molte domande all’insegnante e lei mi rispondeva sempre che “la fede è un mistero e bisogna avere l’umiltà di credere”. Questa risposta non mi convinceva così ho cominciato a seguire le adunate dei testimoni di Geova che non credono nella trinità, ma mi rimanevano sempre dubbi, spesso mi sentivo presa in giro. Quando ho scoperto l’Islam, invece, ha sentito che il discorso filava soprattutto nel punto in cui Gesù non è figlio di Dio, ma un profeta come gli altri. Sono passati quasi 40 anni dal giuramento, in quel momento ho sentito di andare avanti, di evolvermi, senza rinnegare nulla”.
Incontro Catia alla moschea al-Huda di Centocelle a Roma dove il sabato pomeriggio molti italiani interessati alla conversione o già convertiti si riuniscono per confrontarsi con l’imam. Nel gruppo ci sono molte donne, tutte con il velo, tra cui anche alcune convertite da poco come Roberta Aysha, 47 anni, romana, musulmana da 8 mesi. “Non sopportavo più le contraddizioni della Chiesa cattolica, soprattutto dopo aver avuto l’annullamento del matrimonio alla sacra rota – racconta – E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Non riuscivo a capire com’è possibile che la Chiesa non accetti il divorzio, mentre lascia che ci si butti fango addosso incolpandosi durante gli annullamenti. Così, dopo un viaggio in Turchia, ho sentito il richiamo dell’Islam”.
Giancarlo Mohammed, 64 anni, romano, divorziato, convertito e oggi sposato con una donna marocchina, anche lui pieno rancori verso la Chiesa cattolica, sintetizza il fenomeno dicendo: “Un tempo si andava verso l’anticlericalismo, oggi si va verso l’Islam”.
Diversa è la storia di Lauretta Amina Decaro, 45 anni, ex dipendente di banca, atea, romana, riceve in regalo una copia del Corano da un amico del marito, lo legge durante un lungo periodo di malattia a letto e ne rimane colpita, poi fa un viaggio in Egitto, conosce il suo futuro marito, divorzia dal precedente e dal 2004, dopo un sogno per lei significativo, si converte. Più immediata, invece, la conversione di Anna Fatma, 38 anni, pugliese, sposata con un egiziano. Quando conosce il suo attuale marito e scopre l’Islam, fa subito shahada (2 anni fa). “Non sapevo di essere musulmana” esclama soddisfatta e oggi che ha addirittura scelto di mettere sulla tessera dell’autobus una sua foto con il velo, così come Catia Aysha l’ha scelta per la carta d’identità. “Ora siamo libere di scegliere una foto con velo per i nostri documenti, così come le suore e i sikh, e allora perché non farlo!”.
Non ha ancora scelto un nome musulmano da aggiungere a quello di battesimo, invece, Antonio, 49 anni, palermitano, residente a Londra dove ha fatto il giuramento 2 anni fa. “Da quando mi sono convertito sono diventato più allegro, più sociale, più umano e mi sento più vicino alla gente, disposto ad aiutare chi ha bisogno” tiene a sottolineare, così come Sokhana Diarra Daniela, 30 anni, di Carbonia in provincia di Cagliari, dice che da quando è musulmana (da 4 anni) ha “trovato la pace”. Il suo incontro è stato con la confraternita di Mouridyia che nasce in Senegal e “si basa sui 5 pilastri dell’Islam, sulla umma e sul lavoro”. “Vengo da una famiglia atea, mi sono sempre sentita libera di scegliere qualcosa di diverso da quello che mi è stato inculcato e sono felice di aver scelto l’Islam. Mi sono convertita prima di incontrare mio marito che è senegalese. L’unica cosa che non accetto è la poligamia. Con mio marito abbiamo messo le cose in chiaro ma in Sardegna conosco molte occidentali che accettano di essere seconde mogli. Non posso che rispettare la loro scelta”.
Anche Donatella Amina, 54 anni, assistente amministrativo al Ministero della Salute, si è sentita libera di scegliere e di cambiare strada, dalla militanza nella sinistra rivoluzionaria all’Islam. “Negli anni 80 frequentavo la facoltà di sociologia alla Sapienza a Roma, non accettavo le ingiustizie sociali e avevo molti dubbi sulla religione cattolica – racconta – Frequentavo un gruppo di atei, anche se atea non sono mai stata, appoggiavo tutte le lotte dei popoli, partecipavo alle manifestazioni fino a quando ho capito che l’azione politica non cambiava nulla né nella mia vita, né intorno a me. Le contraddizioni restavano. La sinistra rivoluzionaria poi mi sembrava il ghetto dei ghetti e avevamo capito che il comunismo era finito, così ho cercato altro”. Donatella ha incontrato l’Islam con Abdul, il marocchino che poi ha sposato ma che non le raccontava nulla sull’Islam. “Ho studiato tutto da sola, lui non voleva sentirsi responsabile della mia scelta. E un giorno, 21 anni fa, ho fatto shahada alla Grande Moschea. In questi anni ho visto molte persone rialzarsi grazie alla fede. Chi parla di jihad non è un vero convertito all’Islam. È un convertito a un’ideologia. È come convertirsi al nazismo”.

Il pick-and-roll di Dio

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Un libro iniziato il 7 aprile e finito il 9. La storia è quella di un ebreo nato e cresciuto all’interno di una famiglia ebrea ortodossa e che inizia a ribellarsi. Riporto una citazione che fa assaporare la vivacità del testo e che getta sul foglio una ridda di idee suscettibili di molti approfondimenti. “Meglio non provocarLo. Sono stato sulla scacchiera di Dio abbastanza a lungo da sapere che ogni mossa in avanti, ogni piccola buona notizia – Successo! Matrimonio! Figlio! – è soltanto un «trucco divino», una finta, un falso, una trappola. Sembra che io mi stia facendo strada sulla scacchiera, ma in men che non si dica Dio dà scacco matto e la società che mi aveva assunto fallisce, la moglie muore, il figlio neonato soffoca nel sonno. Il «pick-and-roll» di Dio. Il bluff a poker del Signore. «Dio è qui. Dio è lì. Dio è ovunque in ogni dì.»
«Dammi retta» dice il Topo A, «quel cazzo di formaggio è una trappola.»
«Ma la pianti?» mugola il Topo B. «Quanto sei pessim… zac!»”.
(Il lamento del prepuzio, Shalom Auslander)

La blasfemia in Pakistan

Dal sito di Reset. Dialogue on Civilizations prendo questo articolo molto interessante sulla legge sulla blasfemia in Pakistan. E’ di Martino Diez.

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“La legge sulla blasfemia pakistana è tristemente nota per i suoi effetti discriminatori verso le minoranze religiose e il caso di Asia Bibi, di cui si attende la sentenza in secondo grado dopo la condanna a morte in primo grado, non è purtroppo isolato. Ma da dove nasce questo provvedimento, contenuto agli articoli 295/B-C e 298/A-C del codice penale? Storicamente, esso rappresenta una delle sinistre eredità del dittatore filo-islamista Zia-ul-Haq (1978-1988). Promulgate tra il 1984 e il 1986, le norme integrano l’originario comma 295/A che gli inglesi avevano inserito nel 1927 nel codice penale indiano. Ma mentre la disposizione coloniale mirava a proteggere i luoghi di culto di tutte le religioni, sullo sfondo delle crescenti tensioni tra musulmani e hindu, i nuovi commi voluti da Zia-ul-Haq (e che Nawaz Sherif ha ulteriormente inasprito nel 1990) sono a senso unico. Viene proibito il danneggiamento del Corano, in qualsiasi forma, nonché espressioni offensive verso il Profeta dell’Islam, «a parole, dette o scritte, o con rappresentazione visibile» e verso i protagonisti della storia sacra islamica, in particolare le mogli del Profeta e la sua famiglia, i quattro califfi ben guidati e i Compagni. Non pago, l’articolo 298 vieta al «gruppo Qadiani o Lahori (che chiamano sé stessi Ahmadi)» di attribuire il titolo di “Comandante dei credenti” a qualcuno diverso dai califfi ben guidati, o di “Madre dei credenti” a qualcuno diverso da una moglie di Muhammad, di chiamare “membro della Casa” una persona al di fuori della famiglia di Muhammad, di denominare il proprio luogo di culto “moschea” o azan il proprio appello alla preghiera. Infine, il codice vieta agli Ahmadi di definirsi musulmani. Il tutto accompagnato da pene draconiane, fino all’ergastolo e alla morte.
Oltre a offrire un esempio efficace dell’irrigidimento che la sharî‘a classica (una giurisprudenza più che un diritto) subisce nel processo di traduzione nei moderni codici statali, queste norme s’inseriscono in un clima di mobilitazione permanente che tende a presentare l’Islam in Pakistan come oggetto di una minaccia costante. Affermazione quantomeno sorprendente in un Paese in cui il 96% della popolazione è musulmana e in cui la Costituzione del 1973, all’articolo 31, attribuisce allo Stato il compito primario di «permettere ai musulmani […], individualmente e collettivamente, di ordinare le loro vite in accordo con i principi fondamentale e i concetti basilari dell’Islam e offrire loro strumenti con cui comprendere il significato della vita secondo il Santo Corano e la Sunna». Senza dubbio, leggi come quelle sulla blasfemia sono funzionali al mantenimento della tensione sociale nel Paese, perpetuando l’esistenza di capri espiatori (le minoranze religiose non musulmane, ma anche la comunità sciita) su cui scaricare la responsabilità degli insuccessi economici e politici di cui è testimone la storia recente del Pakistan[1].
In effetti, e contrariamente a quello che si potrebbe pensare istintivamente, numerosi studi – Pew Forum in testa – hanno dimostrato che il livello di violenza a sfondo religioso è direttamente proporzionale agli sforzi che lo Stato mette in atto per favorire una fede sulle altre. «Più lo Stato impone dei vincoli, più aumentano i contrasti a base religiosa»[2]. E il caso pakistano non fa eccezione. Tra il 1927 e il 1986 si contano 7 soli casi di blasfemia, mentre dal 1986 a oggi gli episodi hanno già superato il migliaio e la norma sulla blasfemia è costata la vita a più di 20 persone. Anche se finora non sono mai state eseguite condanne a morte ufficiali (presumibilmente per le reazioni internazionale che susciterebbero), molti accusati sono stati raggiunti in carcere da sicari e molti altri sono stati linciati dalla folla inferocita. Anche solo proporsi di toccare questa legge può costare caro, come mostra l’assassinio di due politici coraggiosi che si erano battuti per modificarla, il cristiano Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze, e il musulmano Salman Taseer, governatore del Punjab. Nonostante questo, o forse proprio per questo, la legge è diventata una bandiera, tant’è vero che nell’aprile del 2009 il Pakistan ha presentato alla Commissione ONU dei Diritti umani la proposta di «estendere a livello mondiale le proprie leggi sulla blasfemia»[3].
Dopo trent’anni di abusi, è forte la tentazione di liquidare come provocatoria non solo questa proposta pakistana, ma anche una serie di richieste analoghe presentate negli anni dall’Organizzazione della Conferenza Islamica e che invocano la tutela delle religioni (al plurale). È facile opporre a queste richieste il principio della libertà di espressione, ma occorre anche riconoscere che un problema con i simboli religiosi esiste. L’elenco degli incidenti a sfondo confessionale montati ad arte negli ultimi anni è molto lungo: si va dai roghi del Corano inscenati da un oscuro pastore in Florida, a film offensivi contro la figura di Muhammad, ma anche a numerose profanazioni di luoghi di culto o simboli religiosi ebraici e cristiani. Per fare un solo esempio, in Egitto lo shaykh salafita Abu Islam nel 2012 ha pubblicamente bruciato la Bibbia esortando i suoi seguaci a orinarvi sopra.
In quest’ottica, le proposte di “tutela delle religioni” possono essere lette come la risposta, sbagliata, a una necessità reale, quella cioè di definire fin dove può arrivare la libertà di espressione e se esista un limite al diritto di critica e alla creatività artistica. Istintivamente, la risposta dell’occidentale medio a queste domande è no, salvo poi dover prendere atto degli incidenti continui che si verificano a livello mondiale e che dimostrano come ogni gesto individuale debba ormai considerare le sensibilità di una platea mediatica potenzialmente globale. Nel campo musulmano invece, come abbiamo visto, viene spesso avanzata la proposta di una neutralizzazione preventiva, secondo il principio per cui “ogni religione deve rispettare le altre”. L’espressione in sé sarebbe condivisibile, ma nei fatti finisce per significare che andrebbe rifiutata qualsiasi critica a ogni religione. Non è difficile comprendere come questa opzione sia nei fatti inaccettabile. Non solo, com’è ovvio, per quanti non si riconoscono in nessuna religione (e che si troverebbero così ridotti al silenzio), ma anche per i credenti, che finirebbero costretti a un dialogo delle cortesie, senza la possibilità di un dibattito reale. In effetti anche i musulmani, quando invocano questo principio, lo fanno in realtà a partire da una pre-comprensione delle altre fedi che è implicita nel concetto islamico di (mono-)profezia. Le altre religioni, nei fatti, non sono da criticare nella misura in cui si conformano all’immagine che il Corano ne fornisce. Il problema è più arduo di quanto appaia a prima vista, perché ogni fede contiene inevitabilmente degli elementi di rottura (e dunque di critica, anche vigorosa) con la tradizione che la precede. Sarebbe ben curioso se, in forza di un’applicazione del principio di “protezione delle religioni”, venisse proibito ai predicatori musulmani di stigmatizzare le pratiche pagane dell’Arabia preislamica. Difficile a ogni modo pensare che questo potesse essere l’obiettivo della richiesta pakistana presentata alle Nazioni Unite.
Commentando alcuni fatti che nell’estate 2012 avevano visti protagonisti diversi militanti salafiti e che ancora una volta mettevano in luce il problema dei limiti della libertà d’espressione, il giurista tunisino Ben Achour scriveva: «Se la nozione di muqaddasât [cose sacre] è lasciata al potere politico, quest’ultimo si porrà come arbitro del gioco e dunque padrone delle coscienze. In questo modo si ritorna allo Stato teocratico. […] A mio avviso, la libertà di espressione artistica e filosofica dev’essere allargata senza limiti, a meno che essa non perturbi l’ordine pubblico»[4]. L’affermazione di Ben Achour sembra cogliere nel segno, permettendo di uscire dall’impasse. In linea di principio la priorità va accordata al diritto di critica, senza il quale il pensiero non può conoscere reale avanzamento. I numerosi intellettuali musulmani che sono dovuti riparare in Occidente mostrano che il vero problema oggi in molti Paesi islamici è liberare la parola dal timore dell’accusa di eterodossia, non proteggere una religione che è già presente in modo massiccio nella vita quotidiana. Scriveva con lucidità l’editorialista egiziano Muhammad Khair: «Gli estensori della Costituzione [islamista del 2012] combattono una battaglia immaginaria contro i fantasmi dell’“identità”, del “proselitismo”, della “propaganda sciita” e dell’“occidentalizzazione”, e varie altre “cospirazioni”, ma il risultato è che la Costituzione, anziché svolgere il suo compito di garante dei diritti e delle libertà, finisce per fare l’esatto contrario, in quanto cerca di tutelare tutti coloro che godono della maggioranza, del potere o dell’autorità»[5].
Tuttavia nella proposta di Ben Achour si trova anche un’importante clausola, il riferimento all’ordine pubblico. Benché anche questo principio si presti a strumentalizzazioni, esso ha il vantaggio di toccare non il piano delle convinzioni, ma quello dei comportamenti pratici. Vanno cioè proibiti quegli atteggiamenti che, dalla critica, passano all’attacco delle persone e della loro dignità, mettendo a rischio il bene pratico della convivenza, mentre lo Stato non ha titolo per valutare l’ortodossia o meno di una posizione teologica. A nostro avviso questo semplice principio (che tra l’altro ispirava la legge pakistana prima delle aggiunte di Zia-ul-Haq) è sufficiente per consentire al pensiero critico di esplicarsi in libertà, senza dimenticare le ricadute anche comunitarie delle scelte di ciascuno e le offese che attentati gratuiti ai simboli sacri portano inevitabilmente con sé. Un conto insomma è bruciare il Corano (un atto da condannare senza riserva), un altro è discutere di metodi esegetici senza la minaccia di un’accusa di apostasia (si pensi al caso dell’egiziano Nasr Abu Zayd).
La proposta di sanzionare in modo complessivo ogni “diffamazione delle religioni”, proprio perché fa di ogni erba un fascio, si rivela confusa e potenzialmente pericolosa. Ciò che va condannato piuttosto è l’incitamento all’odio. Di questo incitamento, peraltro, l’attuale legge pakistana sulla blasfemia costituisce purtroppo un raffinato esempio.
[1] Sulla condizione dei cristiani in Pakistan cfr. l’articolo molto documentato di John O’Brien, Christians in Pakistan, «Islamochristiana» 39 (2013), 175-189.
[2] Angelo Scola, Non dimentichiamoci di dio, Rizzoli, Milano 2013, 78.
[3] L’espressione si trova nell’Annual Report of the United States Commission on International Religious Freedom, maggio 2009, 65.
[4] Yadh Ben Achour, La misura della libertà: libertà senza misura?, «Oasis» 16 (2012), 18.
[5] Muhammad Khair, Il mondo dell’uomo, originariamente pubblicato su at-Tahrîr, 13 novembre 2012.”

Quando Gesù tace

Bruno Maggioni è uno dei maggiori biblisti italiani. Ieri Francis, un’amica di fb, ha segnalato questo articolo di Avvenire: è piuttosto lungo ma ricchissimo di spunti di riflessione e approfondimento. L’argomento centrale è il rapporto tra Gesù e il silenzio. Mi sono permesso di evidenziare con il colore rosso due passi, il primo utile per le quinte, il secondo (brevissimo) per le seconde.
Gauguin. Getsemani“Quando si accenna al silenzio di Gesù, subito il pensiero corre al silenzio della passione. E difatti è qui che il silenzio ha raggiunto il punto più alto della sua forza espressiva. A volte il silenzio dice più della parola.
Ma i Vangeli non parlano soltanto del silenzio della passione. C’è anche il silenzio dell’uomo che resta ammutolito di fronte a Gesù, o perché la sua parola lo riempie di meraviglia, o perché la sua verità lo infastidisce. E c’è il silenzio di Gesù di fronte alle domande pretestuose, o inutili, di chi finge di interrogarlo. E c’è il silenzio che Gesù impone a chi vorrebbe parlare di Lui prima di averne intravisto la novità, che è la Croce.
Alla domanda posta da Gesù nella sinagoga di Cafarnao (Mc. 2,1-6), se fosse meglio di sabato, salvare una vita o perderla, i farisei, che lo stavano ad osservare, non risposero: «Ma essi tacevano». Non è il silenzio di chi non sa e si pone in ascolto, ma è il silenzio di chi osserva per accusare. È il silenzio dell’uomo il quale, non avendo ragioni da opporre a una verità che lo infastidisce, ricorre alla violenza per zittire il profeta che la pronuncia. E difatti l’episodio si conclude dicendo che «I farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio per farlo morire» (3,6). È questo un silenzio ostinato, immobile, consapevole, frutto di un cuore indurito, che non intende per nessuna ragione lasciarsi inquietare dalla domanda che lo pone in questione. Un silenzio irritante, uno di quei pochi casi in cui gli evangelisti annotano l’indignazione di Gesù: «Guardandoli tutti attorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori». Indignato e rattristato: la rabbia e la compassione. Dietro l’ostinazione che suscita lo sdegno, Gesù scopre il vuoto di quelle persone, e ne prova pena. Un uomo che si chiude all’ascolto, si chiude alla vita.
Di fronte alle domande insincere Gesù oppone il silenzio. Così di fronte ai farisei che gli chiedono “un segno dall’alto”: «E lasciatili, risalì sulla barca e si avviò all’altra sponda» (Mc. 8,13).
Dopo la purificazione del tempio (Mc. 11,27-33), pongono a Gesù una domanda importante («con quale autorità fai queste cose?»), ma insincera; ed egli non risponde. È inutile rispondere se non c’è la sincerità della ricerca. Gesù non sta al gioco di un dialogo per finta.
Commovente e maestoso è poi il silenzio di Gesù di fronte a Erode (Lc. 23,8-11), che lo interroga “con molte domande”. Ma sono domande curiose, superficiali, perché non sorgono dal desiderio della verità, ma dalla speranza di vedere qualche prodigio. E Gesù non risponde.
Più degli altri Vangeli, quello di Marco ricorda in più occasioni che Gesù imponeva il silenzio a chi voleva divulgare la sua messianità. Non permetteva ai demoni di parlare, «perché lo conoscevano» (Mc. 1,25.34). Ordina al lebbroso di non dire niente a nessuno (1,44). Raccomanda con insistenza che nessuno venga a sapere della risurrezione della figlia di Giairo (5,43). Anche ai discepoli comanda severamente di non parlare a nessuno della sua messianità (8,30). Ma poi, di fronte al sommo sacerdote e al sinedrio, sarà Lui stesso a proclamarla apertamente (14,61). Il fatto è che sono mutate le circostanze: prima la sua messianità correva il rischio di essere fraintesa, durante la passione non più. Il Messia non corre più il rischio di essere separato dalla Croce. Al contrario, è chiaro a tutti che la sua messianità va letta proprio a partire dalla Croce, sia per riconoscerla (15,39) come per rifiutarla (15,29-32). Non basta il coraggio dell’annuncio a fare un vero discepolo. Occorre anche lo spazio del silenzio necessario per cogliere la novità di Gesù. Altrimenti si parla di Lui senza comunicare quella novità che sorprende, di fronte alla quale non trova posto l’indifferenza (come sempre, invece, di fronte a ciò che è scontato), ma solo il sì e il no.
Stupisce il silenzio di Gesù di fronte alla morte di Lazzaro (Gv. 11). Gesù lascia cadere nel silenzio la domanda delle sorelle: «Signore, ecco, il tuo amico è malato» (11,2). Gesù tace di fronte a una domanda che nasce dall’angoscia, a una domanda posta da una persona amata. Questo comportamento può sembrare sconcertante. In realtà è lo specchio del silenzio di Dio, un silenzio che lo stesso Gesù incontra nella sua preghiera nel Getsemani e nella sua domanda sulla Croce.
Il racconto del Getsemani (Mc. 14,32-42) è apparentemente un dialogo. Gesù parla cinque volte, sempre rivolgendosi a qualcuno: ai discepoli o al Padre. Ma nessuno gli risponde, quasi fosse un monologo. Le cinque parole di Gesù cadono nel vuoto, persino la sua preghiera al Padre.
Ma vogliamo commentare questo testo con una poesia di padre Davide Turoldo. Le sue ultime poesie sono state raccolte in un volume dal titolo Canti ultimi (Garzanti, Milano 1991). Ultimi perché sono gli ultimi canti della sua vita, ma ultimi anche perché dicono l’esperienza ultima dell’uomo, la più profonda, la più rivelatrice: l’uomo davanti alla morte, l’uomo nella sua nuda verità. Padre David ha vissuto la sua lunga esperienza di dolore con lo sguardo fisso alla Croce di Gesù. Nella sua poesia l’esperienza di Gesù e la propria si sovrappongono, vicendevolmente rischiarandosi. Fra le sue poesie più belle è forse da annoverare questa rilettura del Getsemani: «Ti invocava con tenerissimo nome:/ la faccia a terra/ e sassi a terra bagnati/ da gocce di sangue:/ le mani stringevano zolle/ di erba e fango:/ ripeteva la preghiera del mondo:/ “Padre, Abba, se possibile”…/ solo un ramoscello d’olivo/ dondolava sopra il suo capo/ un silenzioso vento…».
Il motivo del silenzio di Dio è ricorrente nella poesia di Turoldo: lo scorge nella passione di Gesù e lo ritrova in se stesso: «Ma non una spina Tu/ gli levasti dalla corona… e non una mano/ gli schiodasti dal legno…». L’esperienza del silenzio di Dio non dice la debolezza della fede, ma la profondità e l’umanità della fede, e porta al centro dell’uomo e della storia, là dove Dio e l’uomo sembrano contraddirsi, dove Dio sembra assente o distratto, dove la morte sembra avere l’ultima parola sulla vita e la menzogna sulla verità. Ma se compreso nel mistero di Cristo, allora il silenzio di Dio appare nella sua realtà, cioè come un diverso modo di parlare.
Difatti nel Getsemani il Padre ha parlato: non con il miracolo che libera dalla morte, ma con il coraggio di affrontare la morte, attraversandola. Se all’inizio Gesù è angosciato e impietrito, alla fine, dopo aver pregato, Egli è tornato sereno e pronto: «Alzatevi, andiamo! Colui che mi tradisce è vicino» (14,42).
Il momento più espressivo del silenzio di Gesù è la passione. Qui il silenzio è veramente più denso delle parole. Nella passione Gesù parla poche volte, mai per difendersi, ma soltanto per spiegare la sua identità. Il silenzio è una parola importante per spiegare chi Egli è.
Sollecitato dal sommo sacerdote a rispondere alle molte accuse, Gesù tace (Mc. 14,60). È il silenzio di chi anche nell’umiliazione conserva intatta la sua dignità. È il silenzio di chi è lucidamente consapevole dell’insincerità dei giudici, che fingono un interrogatorio, in realtà avendo già deciso la condanna: inutile difendersi. La verità tace di fronte alla violenza, non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha già detto tutto ed è inutile ridire. Soprattutto è il silenzio del giusto, che di fronte alle accuse non si difende, perché ha posto interamente la sua fiducia nel Signore, che non abbandona.
Questo silenzio di Gesù suggerisce diverse allusioni anticotestamentarie. La più nota è Isaia 53,7: «Maltrattato accettò l’umiliazione e non aprì la sua bocca». Di fronte agli uomini che lo condannano a motivo della sua giustizia, il silenzio del servo del Signore esprime dignità; e di fronte a Dio esprime accettazione e fiducia: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Sl 39,10). Questo silenzio di Gesù è stato poi ripreso e interpretato in un inno della prima comunità cristiana: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a Colui che giudica con giustizia» (1 Pt 2,23).
Nei racconti della passione, accanto ai personaggi espressamente nominati, è sempre presente – apparentemente in ombra, ma in realtà luminosissima – la figura del Giusto sofferente, che Gesù rivive e ingigantisce. È una figura senza tempo, presente in ogni momento della storia e in ogni luogo. Gesù ne è la gigantografia. È la figura dell’uomo che annuncia la verità e proprio per questo è colpito. Come già notato, un tratto importante di questa figura è il silenzio. Non esprime indifferenza, ma dignità. Ed è un silenzio che parla più di molte parole.
La scena degli oltraggi (Mc. 14,65) è di sorprendente densità. Non c’è una parola di troppo, né un aggettivo, né una ridondanza, né una qualche parvenza di retorica. Ma proprio per questo la figura di Gesù insultato e percosso è scolpita al vivo, come su una pietra. In una specie di gioco a mosca cieca, col volto coperto, schiaffeggiato, Gesù deve indovinare chi lo colpisce. Ha preteso di essere Messia e profeta, lo dimostri! Ma Gesù sta in silenzio e non indovina. E così da una parte, la pretesa di essere il Messia che siede alla destra di Dio e viene sulle nubi del cielo; dall’altra il silenzio di un pover’uomo che neppure (sembra) sa indovinare chi lo percuote. L’evidenza contro la pretesa, qui sta il contrasto che tanto fa ridere. Ma qui sta anche la ragione che fa credere. Il silenzio di Gesù può infatti essere letto in due modi: come la prova della totale infondatezza della sua pretesa messianica, o come la rivelazione della sorprendente e affascinante novità del suo essere Messia. Un Messia che sta al gioco e indovina chi lo percuote è una assoluta ovvietà. Un Messia, invece, che sta al gioco a modo suo e non indovina chi lo percuote, ma rimane nel silenzio, svela tutta la sua differenza, una differenza teologica, la differenza che corre tra il modo con cui l’uomo immagina Dio e il modo in cui Dio è veramente.
Anche nel racconto giovanneo del processo romano si fa menzione del silenzio di Gesù (19,9). Egli ha risposto alla domanda sulla sua regalità, persino indugiandovi per metterne in chiaro la diversità. La novità di Gesù non può fare a meno della parola che la spiega. Ma ha anche bisogno del silenzio. Gesù rimane in silenzio nei due momenti culminanti: quando la sua regalità è derisa (19,1-3), e quando essa è mostrata in pubblico (19,5). Proprio quando la sua regalità, derisa e rifiutata, aveva maggior bisogno di una parola o di un segno, Gesù non dice una parola, né compie un gesto.
Ma l’annotazione esplicita del silenzio di Gesù Giovanni la riserva per la domanda più importante (19,6): «Di dove sei?». Qui non è più in discussione semplicemente la sua regalità, ma il mistero più profondo della sua origine. E su questo Gesù tace. Non collabora, lasciando Pilato solo di fronte alla domanda che lo turba: o perché è inutile dire dal momento che tutto è già stato detto; o perché la risposta va cercata nei fatti che Pilato vede e non nelle parole che potrebbe sentire; o perché è una domanda alla quale può rispondere soltanto chi la pone. Di fronte al mistero che lo interpella e lo inquieta, ogni uomo deve trovare personalmente la risposta. È una decisione personale che non si può delegare a nessuno, una risposta che neppure Dio può dare al tuo posto.
Nei racconti di Marco (15,24-39) e Matteo (27,32-50) attorno al Crocifisso sono in molti a parlare: i passanti, i sacerdoti, le guardie, i due ladroni. Tutti parlano di Gesù e contro Gesù, ma Lui tace. Rivolge una domanda al suo Dio (‹‹Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?››) che cade nel silenzio. Muore con un grido senza parole: ‹‹Ma Gesù, dato un forte grido, spirò››. E sullo sfondo, più nitida che mai, la grande figura del Giusto sofferente, evocata dal Salmo 22.
Il Padre parlerà, ma dopo, con la risurrezione. La Croce è il momento in cui tocca al Figlio manifestare tutta la sua fiducia nel Padre. Tocca al Crocifisso manifestare fino a che punto un Figlio di Dio condivide l’esperienza del silenzio che l’uomo incontra davanti al suo Dio. Tocca al Crocifisso rivelare fino a che punto giunge l’amore di Dio. Tutta questa sorprendente rivelazione è racchiusa nel silenzio di Gesù sulla Croce.”