“E’ l’iniziale del mio nome: mi è stata regalata da mia nonna due anni fa. A quel tempo si è ammalata di Alzheimer, io sono stata a trovarla e quando si ricordava delle cose ed era anche il mio compleanno, mi ha regalato quel ciondolo. All’inizio non l’avevo considerato tanto, però poi è stato l’ultimo regalo che ho potuto avere da lei perché l’anno dopo è venuta a mancare e io in quel momento non sono potuta esserci. Quel ciondolo è l’unica cosa che mi è rimasta come ricordo, lo custodisco e lo porto sempre al collo”.
Quanto raccontato da A. (classe prima) mi ha fatto pensare a quelle volte in cui il “peso”, l’importanza di un oggetto possano cambiare nel corso del tempo e come certi momenti li viviamo senza la consapevolezza che possano essere determinanti: la vita è imprevedibile (e a volte dolorosa e spietata).
“Io avrei voluto portare una storia che mi raccontava mia nonna da piccola, soprattutto perché in quest’ultimo periodo è stata ricoverata in ospedale e temevo che la sua memoria la abbandonasse ancora di più, ma in realtà ieri ho ripensato a un mio zio che ho perso qualche anno fa. Per i primi anni di vita lui è stato importante per me, mi faceva divertire e riusciva a strapparmi sempre un sorriso: ero molto legata a lui. Poi, a causa di alcune vicende familiari, ci siamo persi di vista e quando è deceduto per una malattia, io ho vissuto il rimorso di non essere andata in ospedale a salutarlo. Stamattina stavo cercando una figura di compensato che mi aveva fatto quando ero piccola e che custodisco gelosamente (e che simboleggia anche il forte legame con mia cugina), ma ho trovato un’altra cosa regalatami da mio zio quand’ero piccola: uno Zippo di quando era stato in Vietnam con una scritta un po’ dark, una delle poche cose portate a casa da quel viaggio. Lo tengo sul comodino e anche solo a guardarlo i pensieri riaffiorano e sono pensieri che a volte fanno male, altre volte danno sollievo”.
Stamattina, mentre attendevo di entrare a scuola e pensavo a come commentare la gemma di T. (classe terza), mi sono imbattuto in queste parole tratte da Cedi la strada agli alberi, libro di poesie di Franco Arminio:
Non solo dobbiamo morire, ma prima di noi assistiamo alla morte degli altri, lenta o improvvisa, sempre ingiusta, infame, orrenda. Chiarito che contro la morte nulla possiamo, non abbiamo altro da fare che stare attenti e donarci un attimo di bene, uno alla volta, uno per noi e uno per gli altri. Possono essere persone care o persone sconosciute, poco importa, quello che conta è rubare il seme del bene e piantarlo sulle facce della gente.
Premessa: questa gemma era prevista per metà novembre, poi è slittata fino a gennaio.
“L’anno scorso quando il prof ci aveva presentato il progetto pensavo di portare una foto oppure qualche canzone. Quando invece ce lo ha riproposto quest’anno, il primo pensiero che ho avuto è stato uno dei miei tatuaggi, ovvero quello con il significato più profondo.
L’ho dedicato a quella persona che mi ha insegnato che la famiglia non per forza deve essere legata dal sangue, ovvero mio papà, che essendoci stato da quando avevo tre anni e non essendo mio papà dalla nascita mi ha ugualmente amata come sua figlia. Tra una settimana esatta sarà un anno che non è più qui e quindi ho pensato che fosse la gemma più giusta da portare. Ora, non ho intenzione di fare discorsi commoventi o cose così ma voglio darvi un consiglio, che poi potete ovviamente scegliere se seguire o meno, però prima per farvi capire bene vi dirò una cosa. Quando mi sono ritrovata a fare il tatuaggio mi sono interrogata per diverso tempo sul posto in cui farlo. Alla fine ho scelto la parte dietro del collo per un motivo preciso. Ho passato l’anno scorso molto sui libri ed ero particolarmente nervosa per diverse cose, e spesso mio papà veniva in camera mia e mi trovava sempre china sulla scrivania e senza dire niente cominciava a massaggiarmi esattamente quel punto. Era così bravo che riusciva a smollarmi tutti i nervi e a farmi sentire un po’ meglio. Fatto sta che il 19 Novembre 2020, la notte prima di ciò che è successo, lui era venuto in camera mia, mi aveva trovata china sui libri e mi aveva fatto il solito massaggio, io quel giorno ero particolarmente nervosa. Prima di uscire dalla mia camera mi ricordo che mi ha detto “C. c’è Harry Potter in tv non lo vediamo?” e io gli ho risposto che dovevo studiare. Vi lascio immaginare il pentimento della mattina successiva per aver declinato quella proposta. Con questo discorso mi sento di darvi questo consiglio: vivete. Vivete al massimo, vivete come volete, date opportunità agli altri e a voi stessi perché tutto è nato per finire e non si sa quando, quindi cogliete ogni piccola cosa che la vita vi offre, o vivrete con rancori addosso che non andranno più via. Giocate a quella partita a carte con vostro nonno, andate a fare una passeggiata con vostra nonna, prendete quel gelato con i vostri fratelli, uscite con i vostri amici, nulla è eterno. Nella vita non c’è solo il dovere, perché è meglio vivere oggi piuttosto che andare a dormire la notte e passare ore a rimpiangere momenti che non torneranno più e ritrovarvi sommersi in ricordi che con il tempo sono destinati a svanire. E ricordate che la vita è il 10% di cosa vi capita e il 90% di come reagite”.
Quando presento il lavoro sulle gemme, spiego che la scelta di cosa portare è molto libera, così come il livello di coinvolgimento personale. Vi sono gemme che trattano temi “neutri” o generali e altre che sono decisamente più personali e che magari sono un cazzotto nello stomaco. Come questa. C’erano non pochi occhi rossi alla fine delle parole di C. (classe terza). Il mio pensiero è subito andato ad una canzone di Roberto Vecchioni che faccio ascoltare in quarta, quando parliamo della morte. “Viola d’inverno” inizia con l’arrivo improvviso della fine della vita, proprio sulla sua capacità di coglierci, talvolta, in modo inaspettato: “Arriverà che fumo o che do l’acqua ai fiori o che ti ho appena detto: “Scendo, porto il cane fuori”, che avrò una mezza fetta di torta in bocca o la saliva di un bacio appena dato. Arriverà, lo farà così in fretta che non sarò neanche emozionato. Arriverà che dormo o sogno, o piscio o mentre sto guidando, la sentirò benissimo suonare mentre sbando e non potrò confonderla con niente perché ha un suono maledettamente eterno, e poi si sente quella volta sola la viola d’inverno”. E, continua Vecchioni, anche se la aspetti un po’, in fondo non sei mai pronto: “Bello è che non sei mai preparato, che tanto capita sempre agli altri. Vivere, in fondo, è così scontato, che non t’immagini mai che basti. E resta indietro sempre un discorso, e resta indietro sempre un rimorso”. A questo punto la morte crea una separazione, un’incomunicabilità: “E non potrò parlarti, strizzarti l’occhio, non potrò farti segni: tutto questo è vietato da inscrutabili disegni, e tu ti chiederai che cosa vuole dire tutto quell’improvviso starti intorno perché tu non potrai, non la potrai sentire la mia viola d’inverno”. Subentrano lo sconforto e la disperazione, ai quali Vecchioni concede tutto lo spazio necessario con l’esclusione di una piccola luce che sarà quella in grado di dare un senso al passato, al presente e al futuro: “E allora penserò che niente ha avuto senso, a parte questo averti amata, amata in così poco tempo, e che il mondo non vale un tuo sorriso e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno, e che si tenga il resto, me compreso, la viola d’inverno”. Conclude il brano un passaggio sulla solitudine condivisa che accompagna chi se ne va: “E dopo aver diviso tutto, la rabbia, i figli, lo schifo e il volo, questa è davvero l’unica cosa che devo proprio fare da solo. E dopo aver diviso tutto, neanche ti avverto che vado via, ma non mi dire pure stavolta che faccio sempre di testa mia, tienila stretta, la testa mia”. Ecco, C., comprendo il rammarico per quell’invito respinto, ma nelle parole che hai detto poi in classe hai fatto rivivere tuo padre, il tuo amore per lui, hai dato senso pieno alla vostra relazione: “il mondo non vale un tuo sorriso e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno”.
Solitamente ripubblico articoli o riflessioni scritti da altre persone aggiungendo aggettivi neutri o che suscitino la curiosità: “interessante”, “stimolante”, “ricco”. Questa volta mi lascio andare a un “meraviglioso”. Giovanni Grandi prende spunto da un mosaico (qui una gallery) di una chiesa di Trieste per riflettere sul male interiore, sulla colpa, sul perdono, sulla misericordia.
“Tre mani, una pietra. È il dettaglio di un mosaico realizzato a Trieste dall’équipe guidata da p. Federico Pelicon, per ricordare una storia piccola di quasi 70 anni fa, accaduta nel cuore dell’attuale Europa, allora appena uscita – lacerata a metà – dalla seconda Guerra Mondiale. Una storia raccontata per lunghi anni sottovoce, memoria ferita di persecuzioni feroci, che avevano come obiettivo l’eliminazione di chi incoraggiava a coltivare la libertà interiore e lo studio, ad associarsi per rimanere in rete, a spezzare anziché alimentare la catena della violenza. È la storia di don Francesco Bonifacio, esile pretino in servizio tra quattro case dell’Istria, fermato dalle guardie popolari l’11 settembre 1946 e ucciso. Ucciso perché incoraggiava i giovani ad organizzarsi nell’Azione Cattolica, “pericolosa” fucina di pensiero libero, di spiritualità esigente, di azione non violenta. Ucciso con un colpo di pietra. Pietra che il mosaico ci riconsegna con attorno tre mani, invitando a sostare in modo sorprendente sul mistero del male. La forza della rappresentazione simbolica è racchiusa nella sua capacità di portarci fuori dal tempo: la vicenda di don Francesco e del suo uccisore si compie storicamente in quella sera di settembre del 1946, ma diventa, nel mosaico, lo specchio in cui tutti possiamo contemplare noi stessi dopo che abbiamo infierito sul nostro prossimo. Ogni decisione drastica ha un tempo di incubazione; il male non ci prende mai di sorpresa, ci conquista poco a poco con ragionevolezza, ci stanca con l’elenco dei “buoni motivi per…” finché non acconsentiamo a quel proposito di offesa, di rivalsa, di sopraffazione. E portiamo a compimento l’ambiguo disegno da cui ci siamo lasciati persuadere. È il tempo di incubazione che fa sì che la pietra diventi profondamente nostra e che ci rimanga in mano anche dopo averla scagliata. La pietra ancora in mano all’aggressore non esplicita tanto un (già palese) giudizio sociale di condanna, quanto piuttosto la coscienza personale e indelebile della propria accondiscendenza al male. Dinanzi a noi stessi, non possiamo mai liberarci delle pietre con cui abbiamo infierito sugli altri e che siamo certi ci appartengano: le abbiamo raccolte con curiosità, le abbiamo soppesate, rigirate tra le mani. Magari ci è sfiorata l’idea di deporle, ma poi l’abbiamo allontanata e le abbiamo strette con ancor maggiore convinzione. Fino a scagliarle, scoprendo subito dopo che proprio in quel gesto meditato sono diventate definitivamente nostre. Accade anche di passare una vita intera a tentare di staccarsi dalle mani la pietra con cui si è colpito l’altro. Alle volte ci si prova moltiplicando l’elenco dei “buoni motivi per…”, altre cercando di compensare con qualche forma di espiazione auto imposta: eppure né l’autoassoluzione, né l’autocondanna riescono nell’impresa di restituire l’integrità compromessa. È così che spesso la vita si guasta, anche quando le vicende che ci hanno visto protagonisti rimangono ben lontane dalla gravità di cui racconta l’epilogo della vita di don Francesco. Ed è questo il successo terribile del male: guastare la vita e quasi trasformare la persona, davanti a se stessa, in quella stessa pietra. Come se in quel gesto si riassorbisse irrimediabilmente tutta una vita. Il mosaico della chiesa di san Gerolamo dialoga profondamente con questo dramma così comune, così umano, in cui si esprimono insieme la nostra partecipazione al male e il nostro disgusto – ex post – per avergli prestato le nostre stesse mani. Dialoga con questo dramma attraverso un’intuizione potente affidata alle immagini: l’uccisore di don Francesco è portato sulle spalle da Cristo, che tiene nella propria mano quelle in cui è rimasta indelebilmente incastonata la pietra. L’uomo che si accorge di non poter staccare da se stesso la pietra gettata e che diventa prigioniero di quella pietra, al punto quasi da ritenere che la propria vita stia tutta lì dentro, non può che essere raggiunto facendosi carico di quella stessa visione disperata che ha di sé. Questa, nelle antiche catechesi battesimali cristiane, era una delle intuizioni fondamentali: la liberazione non inizia certificando alla persona il male commesso, ma sintonizzandosi con l’autocomprensione dolente che l’uomo ha di sé. Così, se l’uomo è rinchiuso in quella pietra, il Dio liberatore è quello che la raccoglie e che prende con sé l’uomo con la sua pietra in mano, non senza. Il mosaico ripropone questa prospettiva: l’unico Dio davvero interessante non è quello che reclama un’umanità già candida e moralmente perfetta. È piuttosto quello che raggiunge l’uomo proprio lì dove questi ha già sentenziato di non poter che essere solo, irrimediabilmente (auto)condannato, integralmente assorbito nel male commesso e con questo destinato alla morte. Entrambe le mani per una pietra: tutta la vita rinchiusa in un gesto intriso di male. Un’altra mano che le raccoglie: tutta la vita raccolta e caricata sulle spalle, per condurla fuori dalla prigione oscura in cui il male la tratteneva, simboleggiata – ancora nel mosaico – dallo sfondo nero, infranto come una lastra la cui resistenza carceriera è finalmente compromessa, in attesa di sgretolarsi definitivamente. Non ci liberiamo né ci salviamo da noi stessi dal male in cui sappiamo di essere coinvolti, a cui sappiamo di aver dato le nostre mani, e questo la vita ce lo insegna senza troppi complimenti. Se però c’è qualche via di liberazione e di salvezza, questa non passa attraverso improbabili amputazioni o oblii della propria storia: passa necessariamente attraverso mani misericordiose, mani terze, che ci raccolgono con le pietre a cui ci sappiamo legati e ci soccorrono lì dove disperavamo di poter essere raggiunti. Ed è forse proprio questa la più divina delle esperienze riservate all’uomo che, in ogni tempo, si interroga sulla propria integrità infranta.”
La vedi nel cielo quell’alta pressione, la senti una strana stagione? Ma a notte la nebbia ti dice d’un fiato che il dio dell’inverno è arrivato. Lo senti un aereo che porta lontano? Lo senti quel suono di un piano, di un Mozart stonato che prova e riprova, ma il senso del vero non trova? Lo senti il perché di cortili bagnati, di auto a morire nei prati, la pallida linea di vecchie ferite, di lettere ormai non spedite? Lo vedi il rumore di favole spente? Lo sai che non siamo più niente? Non siamo un aereo né un piano stonato, stagione, cortile od un prato… Conosci l’odore di strade deserte che portano a vecchie scoperte, e a nafta, telai, ciminiere corrose, a periferie misteriose, e a rotaie implacabili per nessun dove, a letti, a brandine, ad alcove? Lo sai che colore han le nuvole basse e i sedili di un’ex terza classe? L’angoscia che dà una pianura infinita? Hai voglia di me e della vita, di un giorno qualunque, di una sponda brulla? Lo sai che non siamo più nulla? Non siamo una strada né malinconia, un treno o una periferia, non siamo scoperta né sponda sfiorita, non siamo né un giorno né vita… Non siamo la polvere di un angolo tetro, né un sasso tirato in un vetro, lo schiocco del sole in un campo di grano, non siamo, non siamo, non siamo… Si fa a strisce il cielo e quell’alta pressione è un film di seconda visione, è l’urlo di sempre che dice pian piano:
“Non siamo, non siamo, non siamo…” Puntualizzazione: a detta dello stesso Guccini la sua negazione non è montaliana “Codesto solo oggi possiamo dirti / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” (Non chiederci la parola) ma “è lo sfogo di uno che scopre di vivere con una persona che non lo considera più molto”. Il brano si apre con l’alta pressione nel cielo, che significa solitamente bel tempo, ma subito, a far da contraltare arriva la nebbia notturna che mal si concilia col sereno, e la nebbia annuncia l’arrivo dell’inverno. Da qui in poi tutta la canzone è costruita attorno a dei contrasti, a dei contraltari, a delle affermazioni seguite immediatamente dalle loro negazioni. Soffermiamoci sulle situazioni descritte:
• un aereo porta lontano (a sottolineare l’esigenza o il desiderio di andarsene?)
• un pianista non particolarmente dotato prova e riprova a suonare Mozart, ma nonostante tutti i tentativi non riesce a trovare il vero senso delle cose, della vita, di se stesso
• cortili umidi, auto abbandonate, cicatrici di vecchie ferite appena percettibili e occasioni perse rinchiuse in vecchie lettere mai inviate: rimorsi? rimpianti?
• favole spente che quindi non lasciano spazio ai sogni, alle speranze, alla consolazione
• strade senza nessuno, solitarie che tristemente portano a luoghi già conosciuti e che non danno più l’emozione della prima volta
• binari che pervicacemente si perdono verso il nulla con vagoni di terza classe nella nebbia di una distesa uniforme e sterminata: angoscia Il tutto si conclude con un urlo doloroso e triste che non riesce neppure a farsi sentire, tanto è orrido l’abisso davanti al quale si trova. Mi ricorda il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”:
“Vecchierel bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, al vento, alla tempesta, e quando avvampa l’ora, e quando poi gela, corre via, corre, anela, varca torrenti e stagni, cade, risorge, e piú e piú s’affretta, senza posa o ristoro, lacero, sanguinoso; infin ch’arriva colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido, immenso, ov’ei precipitando, il tutto obblia.” O anche il tratto de “La nascita della tragedia” di Friedrich Nietzsche in cui Mida si mette alla ricerca di Sileno:
“L’antica leggenda narra che il re Mida per molto tempo inseguì nella foresta il saggio Sileno, il compagno di Dioniso, senza prenderlo. Quando questo infine gli cadde nelle mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile tace il demone; finché, costretto dal re, uscì finalmente fra risa sibilanti in queste parole;
“Stirpe misera ed effimera, figlia del caso e della fatica, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non udire? La cosa migliore è per te totalmente irragiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto.”