Mi ameresti anche se fossi me stesso?

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

Mignolo del piede versus qualsiasi spigolo. Inizio questo post con questa dolorosa immagine evocativa. Anche molto reale, visto che è quello che ho provato ieri sera, quando ho sbattuto contro una scatola di plastica che tengo sotto la scrivania. Dentro la scatola c’è qualcosa di legato al passato, a un’abitudine che avevo e che poi ho perso: i ritagli di giornali, riviste, mensili che ritenevo interessanti e che sarebbero potuti tornarmi utili. Ho smesso di raccoglierli quando mi sono reso conto che non li andavo più a cercare perché avrei dovuto digitalizzarli e poi perché, in fin dei conti, li trovavo già digitalizzati in rete (tutti gli abbonamenti che ho li possiedo anche in versione digitale). Mi sono anche accorto che ciò che salvo digitalmente mi resta molto meno in mente rispetto a quello che sottolineo e ritaglio materialmente, ma tant’è. Infine ammetto che internet mi ha messo a disposizione molto, ma molto di più, di quello di cui potevo disporre nel passato senza web. Basta pensare agli archivi: mi servirebbero due case se dovessi conservare tutto… O alla comodità di recuperare un articolo di un quotidiano anche solo di una settimana prima. Senza internet mi sarei, ad esempio, perso un pezzo come quello che ho appena finito di leggere di Alessandro D’Avenia, uscito una settimana fa sul Corriere della Sera e reperibile anche sul blog del professore. Credo che lo leggeremo insieme in più di qualche classe. Eccolo.

“Ho chiesto ai miei studenti la loro paura più grande. La maggioranza ha risposto: rimanere soli. Un timore connaturato all’uomo, ma che stupisce nell’epoca della condivisione costante. Sebbene iper-connessi siamo iper-slegati, e “social” non è sinonimo di relazione significativa ma di solitudine di massa. E questo perché l’unico modo per non sentirsi soli è il riconoscimento della propria unicità: volersi ed essere voluti al mondo come si è. Se ciò non accade non dipende dai social ma dalle relazioni primarie (personali, familiari, amicali). L’onlife, come Luciano Floridi (La quarta rivoluzione) definisce l’identità oggi, si sposta fuori dalla vita spirituale che è il luogo dell’amarsi e del sentirsi amati, e si affida a rappresentazioni (“Chi sono per te?” diventa “Chi sono online?”).
Ma se ad essere amata è la rappresentazione di me e non io, allora ci si sente soli anche in mezzo alla folla (o ai follower). Il concetto di auto-stima, oggi tanto diffuso, è l’ingannevole correttivo di questa mascherata, perché non può auto-amarsi chi non si sente amato, e non esiste doping spirituale per una identità relazionale come quella umana: l’io nasce e rinasce da un tu che ci fa sentire voluti. I social non possono darci l’amore, perché non arrivano al sé, possono darcene l’impressione, ma amata è la post-produzione che facciamo di noi, non noi. Figuriamoci per un ragazzo che sta cercando di dare alla luce il sé autentico e viene invece allenato a farsi “un profilo”, cioè a identificarsi con l’ego voluto dal mondo. Questo alimenta la paura della solitudine. Che fare?
Il sé è una nascita graduale che richiede parti dolorosi. Quando mi è capitato di perdermi, sono riuscito a dare alla luce un sé più autentico solo rinunciando alle rappresentazioni rassicuranti dell’ego, compromessi d’amore che amore non erano, e ci sono riuscito grazie alla forza ricevuta da persone che non amavano quelle rappresentazioni, ma me: mi vogliono bene “a prescindere”, cioè per loro è un bene che io ci sia, a prescindere da cosa io rappresenti.
Ci accade come nel Cyrano de Bergerac di Rostand in cui il protagonista, innamorato di Rossana, non ha il coraggio di dichiararsi a causa della bruttezza del suo volto deturpato da un naso gigantesco, e si limita a prestare le parole del corteggiamento al giovane spasimante di lei, Cristiano, bello quanto vuoto. Cristiano è come il profilo social di Cyrano. A un certo punto Cyrano, nella scena memorabile in cui, nascosto, detta le parole d’amore a Cristiano, fa chiedere alla donna: “Mi ameresti anche se fossi orrendo?”. Tradotto: anche se fossi me stesso?
Ecco il punto: i ragazzi oggi hanno bisogno più che mai di sapere se c’è qualcuno che li ama (li vuole al mondo, si impegna per il loro esserci) così come sono e non così come il mondo li vuole. A quell’età poi ci si sente brutti non tanto o non solo per l’aspetto fisico in trasformazione, ma perché, messi da parte i genitori, ci si scopre “soli”, cioè unici, ma si teme che questa unicità non interessi a nessuno là fuori. E così si cerca approvazione (non amore) ovunque, anche a costo di vendersi, tradirsi, nascondersi. La paura di rimanere soli non è la paura di non trovare qualcuno, ma di non essere “belli” abbastanza perché qualcuno ami proprio noi, anche perché l’unicità, scambiata per “farsi vedere”, è fatta proprio di ciò che nascondiamo: i nostri limiti. In una cultura della performance, auto-promozione e post-produzione di se stessi, si teme di non essere amabili e farsi amare diventa un lavoro. Tutti i ragazzi sono generati biologicamente ma pochi spiritualmente, cioè non riescono a contattare il sé, quel nucleo della persona che non è frutto di costruzioni, prestazioni, risultati, ma che si scopre e si abita se è amato gratuitamente, a prescindere da qualsiasi risultato.
La domanda di Cyrano è la domanda di tutti: “Posso essere amato anche se sono brutto?”, dove “brutto” non è estetica ma la verità di chi io sono, l’unicità dei miei limiti. I social che parlano il linguaggio del mondo, cioè dove gli umani ricevono attenzione solo perché se lo meritano o perché ti seducono, non possono nutrire la vita spirituale, che è vita amata gratuitamente. Nessuno di noi si è dato la vita e quindi per sentirsi amato ha bisogno di sapere che quella vita è stata voluta a prescindere da tutto (per questo i ragazzi adottati hanno la cosiddetta ferita dell’origine e prima o poi vanno alla ricerca dei genitori biologici, per sapere quella verità oscurata dal fatto di essere stati “abbandonati”). Ma un amore che ci ama anche “brutti”, che ci vuole esistenti a prescindere è una chimera? No, se il poeta può così testimoniare della sua amata: “Possesso di me tu mi davi, dandoti a me” (Pedro Salinas, La voce a te dovuta). Ecco la vita spirituale: il possesso di sé che nasce dall’amore gratuito.
Questo amore è stato da sempre ritenuto “divino” da noi umani perché noi non riusciamo ad amare così, eppure si dà anche nel quotidiano quando qualcosa o qualcuno smette di farmi sentire un mezzo e mi rende un fine: “sei il fine e quindi la fine del mondo!”. Può accadere in un bosco, in un quadro, in un angolo di città, in un volto, in una carezza, in una parola… insomma in tutte quelle situazioni in cui cose e persone non “si aspettano” nulla ma “ci aspettano”, lasciano “in pace” (danno pace al-) la nostra alterità (unicità), non ci manipolano, non ci rendono oggetti ma soggetti, ci rendono liberi, in ultima istanza ci testimoniano un amore che ci vuole esistenti, a prescindere da quanto siamo belli e bravi. Questo amore è la vita vera, la vita che non muore, la vita eterna, l’unica realtà che vince la paura di rimanere soli. E se in noi troviamo questo desiderio, allora questo amore c’è, altrimenti non ne avremmo notizia o nostalgia. La paura della solitudine dei ragazzi si rivela per quello che è: desiderio di spogliarsi delle rappresentazioni con cui l’ego crede di meritarsi di esistere ed essere amato, per far nascere il sé, che è dove la vita limitata che abbiamo si sente amata a prescindere.
Abbiamo appena festeggiato San Francesco che comincia la sua vita nuova proprio da giovane, con un denudamento sulla pubblica piazza: rinuncia a tutte le finzioni dell’ego per abbracciare la vita vera, quella in cui tutti sono figli e quindi fratelli e sorelle, dal fuoco alla morte. Non fa altro che seguire la frase paradossale di Cristo secondo cui chi perde la vita la trova, cioè solo chi smette di nascondersi e si libera dalle illusioni d’amore trova l’amore. Cyrano, alla fatidica domanda sul poter essere amato anche brutto (convinto com’è che la sua vita sia tutta definita dal naso deforme) si sente rispondere da Rossana: «Ma certo! E ti amerei ancora di più». Solo quando mi vengono restituite amate le mie insufficienze, le cose di cui io stesso mi vergogno, allora mi sento amato, e la mia vita è in pace, perché è voluta sino alle sue fondamenta. La paura di rimanere soli di questa generazione non è altro che la ricerca dell’amore “a prescindere”, non sotto condizione, che Social, dio delle inesauribili aspettative e solitudini, non potrà mai dare.”

Gemma n° 1835

“Ho portato questo libro perché mi ha aiutata molto a trovare un’identità, cosa di cui sono sempre alla ricerca perché vado in crisi se non so chi io sia. L’ho acquistato all’inizio dell’estate, è sul metodo enneagramma, fondato su nove personalità che tendono a emergere a seconda delle esperienze che viviamo”.

La gemma di A. (classe prima) si concentra sull’argomento che, in prima, stiamo trattando dall’inizio dell’anno: l’identità. L’economista indiano Amartya Sen afferma: “La principale speranza di armonia nel nostro tormentato mondo risiede nella pluralità delle nostre identità, che si intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni drastiche lungo linee di confine invalicabili a cui non si può opporre resistenza”. Porsi quindi alla ricerca di un’identità, di un’unica identità e magari definitiva, mi pare un’impresa.

Gemma n° 1819

Ha lasciato che il suo iPad si caricasse per tutta l’ora e alla fine M. (classe quinta) ha presentato la sua gemma.

“Ho deciso di portare come gemma il mio anno all’estero e in particolare le persone che porto nel mio cuore. Ho avuto modo di conoscere molte persone e di stringere rapporti davvero importanti. Ciò mi sta molto a cuore: ho avuto solo 10 mesi di tempo per conoscere e stare con queste persone e quindi abbiamo cercato di approfittare di ogni momento. Tornata in Italia ho sentito molto la mancanza di tutto questo. Ho portato alcune foto. Emerge in particolare il rapporto con la mia compagna di stanza: è arrivata nella mia famiglia perché la sua era un disastro e siamo finite in quarantena, chiuse dentro la nostra camera in quanto le uniche della casa negative. Siamo molto diverse e abbiamo litigato tanto tanto tanto, ma ora siamo molto unite. Vi sono poi altre amiche molto importanti con le quali ho condiviso tanti viaggi e tante esperienze; quando penso all’Inghilterra ormai penso a loro e ai momenti vissuti insieme. Abbiamo anche deciso di tornarci insieme per una settimana.”

M. ha descritto un viaggio sostanzialmente durato 10 mesi e che non si è concluso al suo ritorno, perché, terminato quello fisico, per lei è iniziato un altro viaggio. Lo si può comprendere attraverso una canzone dei Negrita di più di 15 anni fa, Rotolando verso sud, le cui prime parole dicono: “Ogni nome è un uomo ed ogni uomo è solo quello che scoprirà inseguendo le distanze dentro sé. Quante deviazioni, quali direzioni e quali no? prima di restare in equilibrio per un po’… Sogno un viaggio morbido, dentro al mio spirito e vado via, vado via, mi vida così sia”. Il viaggio qui è dichiaratamente metaforico, è quel percorso compreso tra una distanza e l’altra presente all’interno di ogni uomo, è quello spazio che sta tra un momento di equilibrio e l’altro. E’ una condizione tipica dell’uomo, non vi si può sottrarre, è la vita stessa. Rinunciare al viaggio è rinunciare a vivere: “mi vida così sia”.

Riorganizzare la speranza

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Ho letto su La Stampa l’articolo di Niccolò Zancan su Ernesto Grasso, ventunenne torinese la cui esperienza viene brevemente raccontata come emblema dei Neet, acronimo inglese inventato nel 1999 che sta per Not in employement, education or training. Fa parte di quei “giovani fra i 15 e i 24 anni che non studiano, non lavorano e non stanno facendo percorsi di formazione”: in Italia sono il 19%. Alcune delle sue parole mi hanno colpito “I pomeriggi sono la cosa più difficile. Gioco alla PlayStation. Vado a camminare. Ma non passano mai” […] “Mi sono iscritto a sette centri per l’impiego. Fino a qualche mese fa, ogni giorno andavo al centro commerciale a vedere se mettevano degli annunci. Ho provato all’Ikea, a Leroy Merlin. L’ultimo tentativo è stato per un posto da commesso in un negozio di videogiochi. Non servo. Mi scartano sempre. Dopo un po’, ti chiudi. Ci rinunci. Vivi dentro la tua stanza, aspetti che passi il pomeriggio”…

Nei mesi di maggio e giugno ho letto vari libri di psicologi, psichiatri, antropologi su adolescenti e giovani e ho partecipato a convegni e incontri. In Abbiamo bisogno di genitori autorevoli lo psicoterapeuta Matteo Lancini scrive: “Sostenere la speranza di un futuro possibile è il compito fondamentale di ogni genitore e di qualsiasi figura adulta significativa, impegnata in un ruolo affettivo o professionale con gli adolescenti. Il futuro rappresenta infatti lo spazio e il tempo della realizzazione di sé dell’adolescente, l’ambito dove potranno affermarsi il suo talento e la sua originalità. Se manca questa prospettiva, se l’adolescente si rappresenta senza futuro, in assenza di avvenire, c’è la crisi adolescenziale. Il disagio dell’adolescente dipende soprattutto da questo.” E ancora “gli adolescenti necessitano di un adulto non troppo angosciato, sufficientemente preoccupato e autorevole da restituire loro uno sguardo di ritorno pieno di fiducia e capace di avvicinare le risorse necessarie alla realizzazione di sé in una società davvero complessa. Tutto ciò richiede agli adulti più creatività di quanto ne fosse necessaria in un passato neanche troppo lontano”.

L’articolo citato in apertura di questo post portava questo sottotitolo: “Un giorno con un Neet: gioco alla playstation perché ho smesso di guardare al futuro”. Penso che per dare concretezza al futuro di Ernesto, o di un qualsiasi adolescente la cui visione sul domani sbatte contro un muro, sia necessario lavorare sul presente, sull’oggi (che poi è la stessa cosa che scrive Lancini). E’ proprio la preoccupazione per un domani impossibile da immaginare che impedisce di vivere, apprezzare e abbracciare il presente che diventa quindi a sua volta tempo di frustrazione.
Mi vengono in mente le preoccupazioni e le angosce dei discepoli di Gesù, sempre in ansia. Vedono Gesù placare la tempesta e camminare sull’acqua, ne fanno diretta esperienza (Pietro), vengono sfamati quando pare loro impossibile… Si stupiscono di tutto questo, eppure le preoccupazioni restano. I discepoli temono, Pietro inizia ad affondare, dopo la moltiplicazione e la mangiata a sazietà sono preoccupati per non aver preso i pani… E l’accusa che muove loro Gesù è sempre la stessa: “uomini di poca fede”. La paura blocca la fede, quella che nasce dall’esperienza di un Dio vicino, buono e amorevole, che sa le necessità dell’uomo prima ancora che queste vengano esplicitate (Mt 6,7-8: Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate). Ancora Lancini: “Se si vuole aiutare l’adolescente in crisi bisogna essere in grado di «raggiungere» il ragazzo o la ragazza là dove sono. La clinica dell’adolescente richiede di arrivare alla mente del paziente là dove è, là dove si trova adesso, con un profondo rispetto per come il soggetto prova a gestire l’insopportabile crisi evolutiva, il fatto di vivere in una quotidianità senza prospettive visibili dal suo punto di vista. Su queste basi è possibile costruire un’alleanza con l’adolescente che consenta a noi, e ai suoi adulti di riferimento, di avvicinargli le risorse utili alla ripresa evolutiva, alla scoperta del proprio vero Sé, del proprio talento, come unica possibilità per riorganizzare la speranza e investire in un futuro possibile”.

Il selfie di Narciso

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Narciso, Caravaggio, 1594-1596

In questa epoca selfiesta ritengo molto interessante questa riflessione di Pier Davide Guenzi su Il Regno.
Ogni epoca ha il suo mito di riferimento. C’è stato un tempo, ancora nel recente passato, in cui l’immaginazione andava spontaneamente a Prometeo, l’eroe ardimentoso che introduce la civiltà della tecnica tra gli uomini, rubando il fuoco agli dei, facendo uscire dalle caverne coloro che giacevano oziosi in vuota attesa della morte, istituendo la possibilità di curare la malattia e organizzando la vita sociale.
Certo eroe punito dal cielo, ma “felix culpa” quella di Prometeo. Il suo vedere oltre (è questa l’etimologia del suo nome) allude alle possibilità di progresso dell’umanità e all’uomo che assume in prima persona il peso delle sue decisioni orientando il proprio futuro.
Oggi l’eroe (inconsapevole) è piuttosto Narciso. Al modello della progettualità incarnata nell’ideale dell’uomo maturo e adulto succede così, come vincente e convincente, il profilo adolescenziale dell’io in perenne ricerca di conferme su di sé. L’auspicio per una vita bella, piena di fascino, interessante finisce per esporre con maggiore facilità di un tempo l’individuo ai meccanismi ansiogeni e alle patologie depressive.
La ricetta ampiamente divulgata individua i canoni di una vita riuscita nella possibilità di moltiplicare le esperienze e con esse gli esperimenti su di sé, pensati come successione indefinita di momenti di vita ad alto tenore emotivo. Il supporto antropologico a questa ricerca esperienziale risiede nella dilatazione del desiderio in uno spazio, tuttavia, che resta interno all’io e che, nella relazione inter-personale, attira l’interesse per l’altro nel circuito del proprio sé.
La conferma spasmodica su di sé contribuisce a rafforzare, mettendola continuamente in circolo, non la propria identità, ma il proprio simulacro riflesso e la propria precarietà. Così nell’interpretazione del Narciso di Caravaggio del 1599, opera pittorica attualmente conservata a Palazzo Corsini di Roma, nella quale l’impostazione della tela consente al pittore di creare un perfetto doppio tra realtà e immagine riflessa sul pelo dell’acqua, i cui colori sono solo un poco attenuati.
Si crea una perfetta circolarità nella quale la percezione di sé da parte di Narciso ruota attorno a sé. Non ha un punto di riferimento “altro”, da cui è riconosciuto e che può riconoscere oltre a sé. In questa posizione è “costretto a riconoscersi”, ma in tale operazione emerge tutto il suo dramma, perché tale riconoscimento resta incomunicabile.
Lo specchio dell’acqua è lo strumento di un inganno possibile, che si cela dentro la manifestazione di sé: «Fa vedere, ma a patto di rovesciare l’immagine, è dunque strumento di conoscenza di ciò che altrimenti resterebbe invisibile, ma anche fonte di illusione, in quanto propone come reale ciò che è soltanto un’immagine riflessa» (U. Curi).
Tale incomunicabilità è resa ancora più acuminata dall’intreccio tra la vicenda di Narciso e quella della ninfa Eco, ambedue presenti nell’antico mito. Entrambi sono destinati a non ritrovare sé stessi aprendosi all’alterità. Restano imprigionati dal campo ristretto del proprio sé. Narciso resterà eternamente riflesso sull’acqua, fissandosi sulla propria immagine, senza vedere altro che sé.
Eco, protesa con la sua voce verso l’altro, si riduce a un riflesso sonoro che ritorna su di sé e non è raccolto da nessuno. Il doppio mito, ricorda ancora Curi, rivela come «l’incontro fra la piena, compiuta, totale identità, incapace di aprirsi all’alterità (Narciso), e la totale alterità, priva di ogni autonoma identità (Eco), si traduce nell’impossibilità di ogni comunicazione».
Saprà Narciso incontrare Prometeo? Sapendo che la cura di sé non può essere disgiunta dalla capacità di decidere l’esistenza, assumendosene responsabilmente i pericoli. Sapendo che il benessere e la protezione di sé non rappresentano per intero le potenzialità umane. Sapendo che occorre il rischio di comunicare, di condividere con l’altro/altra e gli altri, per compartecipare il dono di esserci e rendere più abitabile il mondo.
Se solo il Narciso di Caravaggio abbandonasse per un attimo il fascino magnetico della propria immagine e allargasse il suo orizzonte, potrebbe affrontare la sfida: essere se stesso, mai senza l’altro.”

Freddure d’oriente

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Tra attesa e desiderio

StazioneNon mi dispiace l’attesa. Mi spiego: non mi riferisco ad aspettare qualcuno in ritardo o magari all’esito di un esame o di un accertamento. Penso al periodo in cui un desiderio ha il tempo di formarsi, crescere, definirsi: vi si concentrano aspettative, pensieri, emozioni, immagini, fantasie, tutti generalmente positivi. Quando ho un appuntamento, anche semplicemente andare a prendere Sara in stazione, arrivo in anticipo e mi porto sempre dietro un libro. Quel tempo di attesa tra quando spengo il motore dell’auto e l’arrivo del treno non mi dispiace affatto, non lo evito, anzi lo cerco. Diciamo che vivo il tempo dell’attesa in modo proficuo, fertile e non sempre legato al desiderio dell’ottenimento della cosa o della persona aspettata. Ecco perché forse mi trovo a metà tra il concetto di sete del buddhismo e un brano di Charles Juliet che ho letto stamattina. Tra le quattro nobili verità enunciate dal Buddha si ricorda: “Questa, o monaci, è la santa verità circa l’origine del dolore: essa è quella sete che è causa di rinascita, che è congiunta con la gioia e col desiderio, che trova godimento ora qui ora là; sete di piacere, sete di esistenza, sete di estinzione”. Attraverso l’Ottuplice sentiero si deve cercare di arrivare alla soppressione di questa sete “annientando completamente il desiderio, bandirla, reprimerla, liberarsi da essa, distaccarsi”. E’ facile comprendere come la nostra mentalità formata dalla cultura del desiderio (scopo principale di un qualsiasi spot pubblicitario) sia lontana da queste idee. Messe le cose in questa maniera, il discernimento pare abbastanza semplice. Ecco che a complicare le cose arrivano testi come questo estratto di “Dans la lumière des saisons” di Charles Juliet, a cui si fa riferimento a un altro tipo di attesa o desiderio o sete:
L’attesa. Avete conosciuto, conoscete che cos’è l’attesa? Quell’attesa che per anni non ha smesso di tormentarmi, che m’ha impedito di partecipare, che ha reso vano ciò che avrebbe dovuto farmi sazio. Se sapeste in quale deserto m’ha costretto a vivere. Nulla di ciò che mi si offriva era a misura della mia sete. E di che cosa ero io in attesa? Non avrei saputo dirlo di preciso. Senza dubbio, ero in attesa dell’evento meraviglioso capace d’appagare la sete di ciò che manca ad ogni vita. Ma non c’è alcun evento meraviglioso e io comprendo soltanto ora che non ho da lamentarmene. Ciò che è in grado di rispondere a quella attesa non può venire a noi che dall’istante – quell’istante che è là, prima che muoviamo qualsivoglia nostro passo, e che si offre alla nostra brama. Ma spesso noi lo troviamo troppo grigio, troppo banale e, poiché non ci sembra degno di veicolare ciò di cui desideriamo saziarci, lo oltrepassiamo senza cercare di scoprire ciò che esso cela. Che sbaglio! In ogni momento la vita abbonda, scorre, irriga il quotidiano al quale non sappiamo prestare attenzione. E’ dalla realtà più ordinaria che filtra l’acqua della sorgente. Ma prima di arrivare a comprenderlo, ad ammetterlo, c’è tanto da sfrondare.
Dimaro_004 copia fbL’avidità che tale attesa presupponeva, mi rendevo ben conto che era eccessiva, e ho fatto ricorso a diversi mezzi per tentare di contenerla, ma nessuno ha avuto la ben che minima efficacia. Esistono in noi appetiti, paure, vincoli, angosce… che non siamo in grado di controllare, per quanto grandi siano la lucidità, la determinazione, la conoscenza di noi che mettiamo in opera per dominarli. Il tedio, che nulla riesce a dissipare, è la conseguenza dell’attesa che viviamo fin dall’inizio come immancabilmente delusa. Fin dall’adolescenza ho imparato a leggere su alcuni volti e in alcuni sguardi la forma di tedio in cui si manifesta la sofferenza di una mancanza fondamentale.
L’attesa e la paura. La paura e l’attesa. Non credete che ambedue definiscano, per una grande parte, l’essere umano?”.
Non penso che alla fine i due punti di vista siano così distanti come possono apparire a uno sguardo veloce e posato sulla superficie; in fin dei conti anche il credente buddhista è teso a qualcosa, pur cercando di non fondare questa tensione sul desiderio, sulla brama. Mario Bertin, commentando le parole di Juliet, scrive: “Non un’attesa totalmente passiva. Un’attesa che è tensione versa qualcosa capace di saziare il nostro desiderio. Di appagare la sete di ciò che sentiamo mancarci. Perché non esiste alcun senso predefinito della vita. Il senso della vita, afferma Chaplin in Luci della ribalta, è il desiderio. Quel richiamo ad un oltre sempre inattingibile, che non si spegne mai. Il desiderio traccia la strada – ma te ne accorgi percorrendola – e infonde l’energia per andare verso ciò che l’autore chiama “la sorgente”, cioè verso la propria verità. L’istante è quello che viene immediatamente prima che cominci il nostro cammino. E’ un clic… E’ come un bagliore improvviso, che ci fa intravvedere una strada, da prendere piuttosto che qualsiasi altra strada. Senza ragioni. E’ un lampo nella notte. Soltanto una intuizione… Quasi sempre l’istante si configura in una circostanza banale, quotidiana, che sembra non avere alcun rapporto con il nostro desiderio, con quello che pensiamo sia in grado di saziare la nostra fame. Ma non è così. L’istante è soltanto il momento in cui si dischiude lo spiraglio. Quello che cerchiamo sta oltre la soglia. E non lo vediamo. Non siamo noi ad andare verso l’oggetto del nostro desiderio. D’altronde, il nostro desiderio non ha alcun oggetto. E’ la stessa energia vitale che scorre abbondante e che “irriga il quotidiano” a portarci verso di lui e ad offrircelo in dono. La verità è davanti a noi, “umile, quotidiana, feconda, inesauribile”. Dobbiamo soltanto essere disponibili ad accoglierla. E allora, come d’incanto, tutto si mostra e si chiarisce, il senso di tutto si illumina e si fa evidente. Come in una nuova nascita, si presenta la possibilità di
suscitare
il me stesso
che dovrà
darmi alla luce”.”
E non penso che alla fine si sia così lontani di quella ricerca del vero sé che sia oltre la propria semplice autopercezione cosciente, cammino al centro delle religioni orientali.
(i testi di Juliet e Bertin sono tratti da “Scuola e formazione” pagg.33-34)

Accostamenti

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Ho letto su “La civiltà cattolica” del 3-17 agosto un interessante articolo di Javier Melloni sulla crisi. Lo spunto di partenza è la crisi economica mondiale, ma presto il discorso si fa vasto e il riferimento principale è alla crisi di mezza età che spesso prende l’uomo nel suo cammino esistenziale o di fede. Vengono citate belle pagine di letteratura e spiritualità, le riporto:

  • Dante Alighieri: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Tant’è amara che poco è più morte; ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte. Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai.” (La divina commedia)

  • Teresa d’Avila: “Una volta cresciuto […], il bruco comincia a lavorare la seta e a edificare la casa dove dovrà morire… Muoia, muoia questo verme, come muore il baco da seta per realizzare il senso della sua vita… Quando, in questo grado di orazione, [il bruco] muore completamente alle cose del mondo, […] nasce una farfallina bianca” (Il castello interiore)

  • Pierre Teilhard de Chardin: “Per la prima volta forse nella mia vita […] sono sceso nel più intimo di me stesso, in quell’abisso profondo dal quale sento confusamente emanare la mia capacità di agire. Ora, a mano a mano che mi allontanavo dalle evidenze convenzionali che illuminano superficialmente la vita sociale, mi rendevo conto che la mia vita profonda mi sfuggiva. A ogni gradino che scendevo, scoprivo in me un altro personaggio, di cui non potevo più dire il nome esatto, e che non mi obbediva più. E quando fui costretto a porre fine alla mia esplorazione perché la strada veniva meno sotto i miei passi, c’era, ai miei piedi, un abisso senza fondo, dal quale scaturiva, venendo da chi sa dove, il flusso che oso chiamare la mia vita” (L’ambiente divino)

  • Keiji Nishitani: “Il grande dubbio rappresenta non solo l’apice del sé che dubita, ma anche il punto del suo “estinguersi” e cessare di essere “sé” […]. E’ il momento nel quale il sé è nel contempo il nulla del sé, il momento che è il cosidetto “luogo del nulla”, dove accade una conversione al di là del grande dubbio. Il grande dubbio emerge come l’apertura del luogo del nulla, come il campo della conversione dal grande dubbio stesso. Ecco perché è “grande”.” (La religione e il nulla)

Ho voluto raccogliere e accostare questi testi per mostrare quanto certi cammini di religioni molto diverse spesso intreccino i loro passi, soprattutto nella mistica, e trovino risonanza nell’esperienza umana di tanti, credenti e non.