Tra Paolo di Tarso e Palantir

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Da un po’ di tempo sto cercando di leggere articoli e pubblicazioni sul modo di vivere la fede e di intendere la religione negli Stati Uniti d’America. A incidere su questa scelta vi sono vari fattori: l’elezione di un papa proveniente da quello stato, il fatto che spesso ciò che avviene oltreoceano arriva dalle nostre parti, la presenza sempre più frequente di linguaggio e simboli religiosi nella politica, il fenomeno della polarizzazione delle posizioni. Oggi pubblica un articolo piuttosto lungo, preso da Pandora Rivista. Esso indaga il ruolo del Cristianesimo come forza teologico-politica capace di frenare il caos nelle società occidentali contemporanee, riprendendo il concetto paolino di Katechon. Analizza l’influenza di figure come Donald Trump, J.D. Vance e soprattutto Peter Thiel, ideologo della Silicon Valley e teorico di un cristianesimo politico che unisce capitalismo, sovranismo e visione escatologica. Nei suoi scritti, Thiel propone una reinterpretazione del “senso comune” e del potere come freno all’entropia sociale (definibile in pochissime parole come tendenza di una società al disordine, alla disgregazione e alla perdita di coesione interna), ponendo il Cristianesimo come ultimo baluardo contro la dissoluzione dell’Occidente e le minacce percepite, in particolare l’Islam e il globalismo liberale. Disclaimer: come al solito, a meno che non lo dichiari, sul blog non riporto soltanto idee alle quali aderisco, ma sono interessato a ospitare punti di vista differenti, utili ad approfondire varie tematiche. Specificato questo, ecco il testo scritto da Benedetta Lazzeri ed Elia Scapini.

“Diciamocelo, non annoia mai il dibattito sui fondamenti primi delle società occidentali, con l’irrisolta questione se le moderne democrazie liberali possano veramente legittimarsi o se, in fin dei conti, poggino su presupposti che non sono in grado di darsi. Un tema stimolante, questo, soprattutto perché chiama in causa la questione della religiosità, in generale, e della religione cristiana in particolare, nel suo rapporto con le società contemporanee, sollevando la domanda se, in fondo, l’aver relegato le religioni allo spazio del privato sia stato veramente un buon affare o se non si sia scelto di liquidare, assieme al Cristianesimo, anche una realtà in grado di opporsi all’entropia intrinseca alle dinamiche umane e di potere, qualcosa che sappia resistere al caos e alla disgregazione. Nel gergo teologico politico, questa forza resistente ha un nome specifico: Katechon. Un termine complesso, che ci arriva dal Nuovo Testamento – 2 Tessalonicesi 2,6-7 – e che, dalla prima Modernità alla prima metà del Novecento, ha abitato le pagine più raffinate della trattatistica politica che, ora come allora, era mossa da una domanda fondamentale: su quali basi si costruiscano le nostre istituzioni e se ci sia, nelle loro fondamenta, una forza che faccia da deterrente, da freno. Una questione che diviene sempre più urgente man mano che le religioni, le ideologie e i simboli perdono la loro forza spirituale e morale sulla comunità.
Ma più del dubbio se abbiamo fatto e stiamo facendo bene, se le nostre scelte di democrazia e liberalismo ci beneficeranno sul lungo periodo o se invece non siamo parte di un macro trend che nel suo complesso è in declino, più di ogni rimpianto e rimorso, siamo incuriositi dalle proposte, dalle nuove teorie e letture, da tutte quelle voci che propongono convintamente di indicare strade nuove, che lo siano realmente o apparentemente.
A colorare il dibattito con un senso di fallimento e sconfitta ci hanno pensato, fra gli altri, Donald Trump e J. D. Vance e che la loro proposta intersechi i motivi del Cristianesimo non fa certo dubbio: abbiamo sentito parlare di elezione divina e abbiamo visto ministri di governo riuniti in preghiera. Non solo, J. D. Vance, convertito al Cristianesimo dalla lettura di Agostino, ha addirittura proposto l’applicazione geopolitica del principio dell’ordo amoris di Tommaso d’Aquino, mostrandone l’interno accordo con lo slogan America First: ci sono cose che vengono prima e cose che vengono dopo, e le cose che vengono prima esigono una dedizione maggiore, con buona pace di tutto il resto. In questo senso, per quanto possano sembrare bizzarri, i riferimenti e le citazioni teologiche che arrivano dalla Casa Bianca andrebbero prese molto sul serio, e non per un’improbabile consapevolezza nascosta dietro di esse, quanto perché queste parole sono la prova della cogenza di una teoria che Carl Schmitt sostenne quasi un secolo fa: tutte le società contemporanee e occidentali si basano su concetti teologici secolarizzati.
Che il Cristianesimo abbia un ruolo fondamentale nel dibattito politico mondiale non è cosa nuova; se si riavvolge il nastro della storia, anche solo di due o tre anni, si vedranno apparire, in fila, momenti fondamentali della contemporaneità più recente in cui il Cristianesimo e i suoi principali simboli si sono fatti carico di messaggi e gesti dalla portata politica non trascurabile, come, per esempio, l’incontro tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e Donald Trump fuori dalla Basilica di San Pietro, in Vaticano. Il problema, tuttavia, andrebbe posto in modo più preciso e scientifico, domandandosi innanzitutto, che ruolo abbia il Cristianesimo nell’orientamento delle politiche degli Stati sovrani, su tutti, in quella degli Stati Uniti di Donald Trump. Una domanda che apre la strada ad altre questioni cruciali, ad esempio, quella su quanto siano ancora pregnanti i simboli religiosi (seppur secolarizzati) all’interno delle società occidentali; su quale rapporto intercorra tra il Cristianesimo professato dai trumpiani e il dio-denaro – l’unica vera guida delle politiche della Casa Bianca e della Silicon Valley – e, ancora, se il il Cristianesimo possa essere la forza in grado di tenere a freno il caos che sta sconvolgendo gli ordini mondiali.

C’è un’altra figura fondamentale, seppur infinitamente meno nota dei Trump e dei Vance, che potrebbe aiutarci a rispondere a queste domande; un uomo che tira le fila del dibattito geopolitico mondiale e che ha influenzato (e continua a influenzare) profondamente l’establishment nordamericano. Classe 1967, patrimonio personale di 8 miliardi di dollari, Peter Thiel nasce a Francoforte da famiglia tedesca poi naturalizzata statunitense. Appassionato sin da piccolo di fantascienza, studia filosofia nella prestigiosa sede di Stanford, dove segue i corsi di René Girard e acquisisce una specializzazione in legge. Prima di approdare in California e di diventare uno dei capostipiti della Silicon Valley, Thiel lavora come avvocato e trader. Nel 1999 fonda PayPal che, un anno più tardi, si fonde con X.com di Elon Musk prima di essere venduta a eBay (nel 2002) per 1,5 miliardi di dollari. È solo nel 2003 che l’ambizioso capostipite della PayPal Mafia fonda Palantir Technologies – il nome della società, che deriva dalle “pietre veggenti” della saga fantasy Il Signore degli Anelli di Tolkien, ci dice qualcosa sull’eccentrica personalità di Thiel –, compagnia di software specializzata nell’analisi e nella gestione dei dati complessi, utilizzata, tra le altre, da agenzie governative quali CIA e FBI. Dichiaratamente gay, balbuziente, colto e infinitamente meno scenografico dell’allievo Musk, è stato proprio Thiel a sdoganare, nel 2016, l’appoggio della Silicon Valley e delle Big Tech a Donald Trump; una vicinanza che, soprattutto nelle ultime elezioni, si è dimostrata essenziale alla leadership del Tycoon. Minimalista, austero e con una cultura più alta della media dei suoi sodali e colleghi, Peter Thiel è un ideologo efficace, forse non di altissimo livello, talvolta tranchant nel tagliare lo spazio politico mondiale in categorie riduttive (seppur schmittiane) come il bipolarismo amico-nemico, ma sicuramente capace di orientare il sentimento politico e geopolitico della Silicon Valley e dello Studio Ovale.
Ma ideologo di cosa? Qual è il pensiero, lo schema, che si nasconde dietro la retorica ultrareazionaria e nazionalista di Trump e Vance? Quale ragionamento può giustificare la totale sottomissione dello spazio politico al potere economico che sembra tenere in piedi l’asse che lega la Casa Bianca e la Silicon Valley e, soprattutto, come entra il Cristianesimo in questa equazione? Sono questioni complicate, come complicato è lo scenario che le genera; tuttavia, nella confusione generale del momento, Peter Thiel sembra poter fornire delle prime risposte. A differenza di coloro cui si accompagna, Thiel ha più volte tentato di dare ragione delle proprie idee e i suoi primi scritti politicamente orientati risalgono agli anni dell’università a Stanford. Un particolare, questo, non da poco, considerando che la forma scritta ci fornisce non solo una via d’accesso diretta e interna all’ideologia del magnate, ma ci dà anche la possibilità di interpretare e commentare da fuori un pensiero che, dal 2017 a oggi, sembra essersi rafforzato nel suo peso politico specifico.
Già nel lontano 2003 il breve saggio (circa 25 pagine) Il momento straussiano raccoglieva gran parte di quella che, negli anni a venire, sarebbe diventata la sua visione politica. Nel libro, le riflessioni del magnate della Silicon Valley vengono liricamente introdotte da un estratto in versi di Locksley Hall di Alfred Tennyson; parole, quelle del poeta inglese, che con il senno di poi risuonano più potenti e rivelatrici che mai. Il passo racconta una visione del futuro dai tratti escatologici: in questa preveggenza profetica, l’uomo può spingere il proprio sguardo fino al limite del possibile e lì vede la meraviglia del progresso. Un avanzamento tecnico del mondo che, continua Tennyson, porta con sé guerra e distruzione, almeno fino all’istituzione – che va di pari passo con il crollo di ogni potere politico specifico – di un Parlamento dell’umanità, di una Federazione del mondo, guidata solo da una saggezza condivisa che tiene a bada persino i popoli più irrequieti e i regni più instabili. In altre parole, Thiel non santifica il progresso sfrenato e senza limiti, bensì sembra inserirlo in una sorta di movimento triadico hegeliano, durante il quale, a due fasi diametralmente opposte e inconciliabili, se ne aggiunge una di ricomprensione delle due nella conciliazione del common sense. Questo senso comune tanto idealizzato è, pare ovvio, il Katechon paolino, è una forza frenante che ha una direzione e un fine, è, insomma, un concetto teologico secolarizzato.
Rispetto alla visione poetica di Tennyson, non è difficile individuare la fase in cui si trovano a vivere gli Stati contemporanei. Il mondo è in fiamme, la globalizzazione del commercio senza barriere è in crisi e, con essa, la pace e l’unità che si diceva fossero seguite alla separazione della Guerra Fredda. Ciò che manca – questo sembra dirci Thiel – è appunto il common sense cui Tennyson fa riferimento nei suoi versi, lo stesso che appare ciclicamente nelle dichiarazioni che provengono dalla Casa Bianca. E poco importa se il modo in cui il poeta inglese intende l’espressione poco (o niente) ha a che fare con il “buon senso” trumpianamente inteso; è proprio questa l’accezione cui pensa la giovanissima speaker della Casa Bianca Karoline Leavitt quando per comunicare le risoluzioni operate dal governo le descrive come ovvie e scontate proprio perché conformi con il senso comune della maggioranza degli elettori.
Se per Tennyson, infatti, il senso comune è sinonimo di un “sentire collettivo”, della ragionevole concordia condivisa da un gruppo di persone che ha il sapore di un’élite razionale mossa dalla fiducia nell’ordine globale della giustizia, con Trump – e forse anche con Thiel – ci troviamo di fronte a un senso comune che non richiede nessuno sforzo di ragione ma che dà per buona l’opinione immediata e urgente dei più, senza trascurare (anzi) le comuni (appunto!) frustrazioni e delusioni. La ripresa che Peter Thiel fa di questa espressione ci mette davanti a uno dei punti essenziali del dibattito contemporaneo: il senso comune ci porta tutti a evitare aghi e vaccini, il senso comune darà ragione a chi suggerisce esservi un legame vincolante fra somaticità biologico-genitale e rappresentazione genderizzata dell’orientamento sessuale, il senso comune non vede ragione nello sforzo economico e bellico in guerre oltreoceano e, cosa più importante, il common sense diviene incomprensibilmente verità assoluta. È stato questo, in fondo, il principale richiamo di Vance all’Europa, quando, armato di gesso e bacchetta, ha ricordato ai nostri politici come fare il loro mestiere: obbedire al senso comune, a quello che la pancia del popolo chiede a gran voce, anche qualora il buon senso sembri spingere in una direzione diversa.
In altre parole, esiste una teologia anche in politica, un discorso attorno a quelli che devono essere i principi primi e ultimi delle società, ed esistono agenti politici in grado di orientare la scena del mondo senza lasciarsi influenzare da quelle che, alla luce di questi ragionamenti, non sono che visioni parziali, frammentarie del reale. Sono stati proprio i Thiel e i Musk a orientare la scelta della Vicepresidenza su J. D. Vance – decisione che ha scontentato l’ala più moderata dei magnati vicini a Trump – ed è stato Thiel a fornire una parte dei presupposti teorici della campagna trumpiana contro le istanze inclusive e la cultura woke. Risale addirittura a trent’anni fa un libro poco noto del proprietario di Palantir – meno famoso del già citato The Straussian Moment e molto meno noto del vendutissimo Da zero a uno – dal titolo più che eloquente: The Diversity Myth. Scritto quando Thiel si trovava ancora tra i banchi della Stanford University, il libro attacca duramente le prime voci woke, accusandole di avallare un atteggiamento “semplicemente anti-occidentale” senza alcun proposito se non quello di distruggere l’Occidente e tutte le sue forme.
In effetti, l’idea che la società occidentale esista anche in virtù delle sue espressioni sociali, culturali e politiche non è di per sé errata, né può essere sovrapposta alle istanze nazionaliste e suprematiste che formano il sostrato ideologico che ha dato forma, tra le altre cose, al governo Trump. L’ultranazionalismo intransigente che muove la California delle tech affonda le sue radici in idee molto più raffinate e colte; per comprenderle – e per tentare di capire il valore religioso a queste associato – può essere utile tornare alle pagine iniziali de Il momento straussiano. Un’idea sulla piega che prendono le pagine del saggio l’ha già data l’introduzione, con l’immagine di un’umanità impelagata in un regno di mezzo fatto di guerra e distruzione.
L’intero testo è permeato da un senso di minaccia da parte di un oscuro nemico che presto si capisce essere – neanche a farlo apposta – l’Islam; un Islam genericamente inteso, senza nessuna distinzione territoriale o politica, ma che porta con sé l’oscura minaccia della distruzione religiosa e culturale del mondo occidentale e democratico. Ogni politica di integrazione e adattamento al nuovo ordine dell’Occidente, dopo l’11 settembre, è andata sgretolandosi. Le democrazie liberali hanno visto aumentare le ondate di violenza e odio, il tutto mentre i partiti di sinistra e i movimenti inclusivi strizzavano l’occhio a pensieri e religioni alternative. A ciò si è aggiunta la depauperazione degli Stati occidentali, con enormi flussi di denaro che, invece di favorire (come da programma) le economie dei Paesi in via di sviluppo, andavano a stanziarsi nei ricchi conti svizzeri di ignoti dittatori del terzo mondo. È probabilmente questa puntuale decostruzione delle basi su cui poggia il mondo contemporaneo a portare Thiel a riflettere – ancora prima che sulla distruzione dell’identità religiosa e nazionale – su quale sia la natura più profonda dell’essere umano. Così, in modo apparentemente gratuito, lo scritto schmittiano di Thiel si trasforma in quella che solo a un occhio inesperto potrebbe sembrare una speculazione filosofica e che è, in realtà, il tentativo di basare l’agire politico dei decision maker cristiani occidentali su premesse razionali. Che cosa ha a che fare il turbocapitalismo condito di un richiamo alla trascendenza delle forme politiche con l’esistenza umana in genere?
Secondo Peter Thiel, molto. La natura umana ha alla base una violenza cieca e incontrollabile – la stessa che era al centro dei testi del maestro putativo di Thiel, Girard –, una brutalità che può essere mitigata solamente dalla ragione. L’Islam è il portatore contemporaneo di questa bruta violenza senza intelletto, di un odio irrisolvibile e impermeabile a quella cultura del dialogo e della coscienza introdotta, in Occidente, dall’Illuminismo.
Mettere la violenza alla base della natura umana, al di là dei risvolti islamofobi che la teoria acquisisce in queste pagine, non apporta alcuna novità al dibattito politico contemporaneo, come non è nuova la disillusione verso l’ottimistica visione illuminista secondo cui tutti gli agenti politici, assieme, sarebbero in grado di sedersi a un tavolo e stipulare un patto sociale sulla base del quale avviare una convivenza pacifica e duratura. Quello che stupisce – non per originalità, quanto per l’eccessiva semplificazione – è l’individuazione del nemico non tanto nel rivale (economicamente o politicamente inteso), quanto nel diverso; insomma, il nemico come l’islamico di bianco bendato di monicelliana memoria: “l’antico periglio che vien dallo mare”!
È una strana commistione tra il Leviatano e il binomio schmittiano amico-nemico il mostro a due teste che sembra orientare le idee di Thiel, secondo il quale la scelta della sovranità dovrebbe ricadere solamente su colui che si dimostri in grado di individuare il nemico e sia deciso a combatterlo fino ad annientarlo, nel rispetto e nella salvaguardia del mondo occidentale e delle sue forme. Quella cui siamo davanti nelle pagine de Il momento straussiano è la rischiosa sintesi tra un neoliberismo estremo e un autoritarismo dai caratteri escatologici, quasi che la decisione del più forte sia resa tale da una volontà Altra che arriverà a dimostrarne la futura necessità. Thiel ha quello che a Musk manca e quello che al Tycoon (che lo sappia o no) serve: una visione teologica del reale. Dove “teologico” indica una precisa visione occidentale e cristianocentrica secondo la quale un intelletto più alto e potente debba indirizzare la realtà verso le sue forme proprie, tenendo a freno le istanze particolari. Forse è proprio quella del freno, del Katechon, l’idea che sta alla base di Palantir, l’azienda fondata dal miliardario che ufficialmente si occupa di raccolta e protezione di dati ma della quale, nello specifico, non si sa quasi nulla. Rimandando, ancora una volta, all’idea di un ente di controllo superiore e ineffabile.
Un’inchiesta di Wired, che ha anche coinvolto ex dipendenti come fonti, ha spiegato che la piattaforma non venderebbe solo software ma anche «l’idea di soluzioni senza attriti a problemi complessi», non solo, dopo aver collaborato con l’ICE (Immigration and Customs Enforcement), con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e con le forze armate israeliane, questa primavera Palantir ha firmato un accordo con la NATO che gli permetterà – attraverso un sistema di intelligenza artificiale acquistato dall’Alleanza – di avere accesso a tutti i dati raccolti e annotati dei Paesi membri. Alla base sia di Palantir che delle riflessioni del saggio, c’è uno schema preciso che prevede, evidentemente – e lo stesso Thiel non lo ha nascosto – un’idea di fortificazione dell’Occidente e, con esso, delle sue forme politiche e religiose. D’altra parte, e questo Thiel lo dice chiaramente ne Il momento straussiano, la prerogativa principale dello statista occidentale e cristiano è proprio quella di sapere introdurre nella comunità un potere che frena. C’è un problema, tuttavia, che lo stesso magnate riconosce: l’apertura incontrollata dei mercati e degli scambi (anche culturali) porta necessariamente allo scontro, l’umanità non si fonda su alcun principio positivo di unione o concordanza e l’incontro ha sempre in sé il germe della contrapposizione. Il Cristianesimo – quello della Casa Bianca, che si leva al grido di Dio, Patria e Famiglia – è l’unico freno possibile alla deflagrazione, l’unico baluardo del vecchio mondo in dissolvenza in grado di fare la guida in tempi di distruzione e caos. Thiel sembra aver risposto a ciascuna delle domande che ci eravamo posti in partenza, tranne una: che ne facciamo, quindi, del neoliberismo sfrenato che lo ha creato?”

Fides instrumentum rei publicae

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A inizio estate, su Vox, è stato pubblicato un articolo interessante di Katherine Kelaidis sul legame tra religione e politica negli USA di Donald Trump. Da studioso delle religioni e dei fenomeni ad esse legati, è un argomento che mi piace approfondire. In pochissime parole l’autrice sostiene che si tratti di una fede politica: una religione dell’identità e della nazione, che usa il linguaggio della fede per ottenere potere. Il pezzo è molto lungo, per cui ne propongo una sintesi. In fondo, accompagno il testo con un video del giornalista Francesco Costa, direttore de Il Post: affronta il tema del rapporto tra statunitensi e religione ed è dell’aprile 2024 (pre-elezioni USA).

Per oltre sessant’anni la “destra religiosa” americana è stata quella dei boomer: un movimento cristiano tradizionalista, teocratico, che voleva “rimettere Dio nelle scuole” e ispirare la legge civile ai principi biblici.
Con Donald Trump nasce però qualcosa di nuovo. Il suo progetto non è far conformare lo Stato alla Chiesa, ma piegare la Chiesa alla volontà del nazionalismo americano — un’ideologia che identifica la libertà e la prosperità degli Stati Uniti come privilegio esclusivo dei cittadini bianchi, eterosessuali e patriottici.
L’articolo sottolinea che questo modello somiglia più alla Russia di Putin (dove la Chiesa ortodossa è subordinata al Cremlino) che a una teocrazia come quella iraniana. In altre parole: la religione viene svuotata e sostituita con un culto politico di “America First”.
Trump ha creato una Religious Liberty Commission e tre consigli consultivi formati da leader religiosi, esperti giuridici e laici. Ufficialmente, dovrebbero analizzare la storia della libertà religiosa negli Stati Uniti. Ma, secondo l’autrice, l’obiettivo reale è riscrivere quella storia da una prospettiva nazionalista e ideologica. I presidenti precedenti (Bush, Obama, Biden) avevano invece un Office of Faith-Based and Neighborhood Partnerships, cioè un ufficio di collaborazione con le organizzazioni religiose per problemi sociali (povertà, traffico di esseri umani, ambiente). Trump lo ha abolito. Nel suo modello, non è la religione a migliorare la società, ma è l’America stessa a diventare la fonte di religione e moralità. Le chiese prosperano o falliscono in base a quanto si adeguano alla “vera” identità americana. Dei 39 membri della Commissione, non c’è nessun protestante “storico” (metodisti, presbiteriani, episcopali), che un tempo rappresentavano la “religione civile americana”. Al loro posto: evangelici conservatori, cattolici tradizionalisti, ebrei ortodossi, un arcivescovo greco-ortodosso, due musulmani convertiti bianchi e Ben Carson, avventista del settimo giorno. Questa composizione rivela che la nuova alleanza non è teologica, ma culturale. È un fronte interreligioso unito dal sentirsi “assediato” su temi come genere, sessualità e razza. Le differenze dottrinali vengono accantonate: ciò che conta è difendere una certa visione identitaria della nazione.
Contrariamente a quanto afferma la propaganda, il movimento non mira a restaurare il passato, ma a trasformare radicalmente la società americana. Se la vecchia destra religiosa era teologica e poi politica, la nuova crea una teologia a misura della politica. Trump è visto come una figura quasi messianica: non un salvatore delle anime, ma dell’America stessa. In questo contesto, il linguaggio religioso serve solo come strumento di legittimazione politica.
Kelaidis cita due casi emblematici che rappresentano una religione civile dove l’oggetto di fede è l’America stessa, non Dio. Ismail Royer, musulmano convertito e membro della Commissione, è stato condannato per aver aiutato persone a unirsi a un gruppo terroristico in Pakistan. Ora promuove la libertà religiosa come arma politica e dichiara: “L’America è un paese cristiano fondato su principi cristiani”. Per lui, la teologia conta poco: ciò che importa è la comune battaglia culturale contro il liberalismo. Eric Metaxas, scrittore e attivista evangelico, ha percorso un cammino simile: il suo interesse non è la dottrina cristiana, ma la difesa di una certa idea di ordine sociale e politico.
Una differenza cruciale con la “vecchia” destra religiosa: il nuovo movimento non parla quasi mai di salvezza, inferno o vita eterna. L’obiettivo non è più influenzare le anime, ma modellare la società nel presente. In questo senso, l’autrice paragona la “religione di MAGA” al culto imperiale romano, centrato sulla potenza e fertilità della nazione. La preoccupazione per la natalità, il rifiuto dei trattamenti medici che rendono sterili i giovani trans, la retorica contro l’aborto come “perdita di cittadini americani”: tutto questo rientra nella logica di un culto della forza e della riproduzione nazionale, più che in una dottrina cristiana.
Trump ha poi promosso parate militari, nuove feste nazionali e ora una riscrittura agiografica della storia americana. Questi elementi costituiscono, secondo l’autrice, una forma moderna di religione civile imperiale: l’America come realtà sacra, il patriottismo come fede, Trump come pontefice politico.
L’autrice, infine, si sofferma sui metodi per lottare contro questo modo di vedere le cose: i metodi che funzionavano contro la vecchia destra religiosa (smascherare ipocrisie morali, appellarsi alla Bibbia) non funzionano più. Il nuovo movimento non prova vergogna, non risponde a richiami teologici o morali: è animato solo dall’utilità politica. Per combatterlo, serve una nuova alleanza tra progressisti e credenti conservatori che restano fedeli a principi morali autentici — cioè che riconoscono un’autorità superiore allo Stato o al leader politico. Questi “tradizionalisti non MAGA” (vescovi cattolici, protestanti moderati, mormoni) potrebbero essere alleati inattesi nel contrastare la “Chiesa di MAGA”.
In conclusione, Trump e il movimento MAGA hanno dichiarato una guerra religiosa non solo contro il secolarismo, ma anche contro la religione tradizionale che rifiuta di sottomettersi al nazionalismo. Non è una teocrazia, ma qualcosa di più nuovo e insidioso: una religione della nazione e dell’identità, mascherata da fede. Per affrontarla, conclude Katherine Kelaidis, non basteranno le Scritture né gli appelli alla coscienza. Bisognerà riconoscerla, smascherarla e costruire alleanze inattese con chiunque creda ancora in un potere più alto di Donald Trump.

Le parole del card. Pizzaballa

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Mario Calabresi ha intervistato il card. Pierbattista Pizzaballa. Qui si può ascoltare l’intera intervista. Sul profilo Fb del giornalista si può trovare un estratto. Ecco qui.

“«Era prevedibile che la Global Sumud Flotilla sarebbe stata fermata. Avevo parlato con loro per capire se si potesse uscire da un confronto che sembrava inevitabile, visto che il loro obiettivo, quello di sollevare l’attenzione sulla tragica situazione di Gaza, era stato raggiunto. Avrei evitato un confronto così diretto, soprattutto pensando che non porta nulla alla gente di Gaza e non cambia la situazione. Ora spero che tutto si concluda nel modo più pacifico possibile e che si possa tornare a parlare di più di quello che sta accadendo a Gaza, dove la situazione è drammatica».
In trentacinque anni di vita a Gerusalemme un periodo così cupo, doloroso e tragico Pierbattista Pizzaballa non lo aveva mai vissuto. E la sua voce, piena di fatica e di dolore, ci invita a non distrarci, a tenere gli occhi e l’attenzione «su una situazione drammatica».
C’era stato il tempo della guerra, quello della speranza, quello della faticosa costruzione di un processo di pace e poi il tempo del tramonto di ogni possibile convivenza con la vittoria degli estremisti e del radicalismo. Ora viviamo il tempo delle macerie. Dal 1990 Pierbattista Pizzaballa vive a Gerusalemme, dove era arrivato come giovane frate francescano per studiare la teologia e l’ebraico, e da allora è sempre rimasto lavorando per il dialogo e la pacificazione. Dopo essere stato custode di Terrasanta, Papa Francesco lo ha nominato Cardinale e Patriarca latino di Gerusalemme.
In un lungo dialogo, che potete ascoltare nel podcast di Chora Media “Vivavoce, le interviste di SEIETRENTA” gli ho chiesto di raccontare la situazione di Gaza e di ragionare su quello che è successo in questi ultimi due anni, ma anche negli ultimi trenta. Per capire come si sia potuti arrivare a una situazione così drammatica e per provare a immaginare un futuro.
Le sue parole sono molto asciutte e precise ma non fanno sconti: «La situazione è drammatica. Le immagini fanno solo parzialmente giustizia di ciò che si sta vivendo. La distruzione è immane. Oltre l’ottanta per cento delle infrastrutture è ridotto in macerie e ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno dovuto spostarsi e sfollare tre, quattro, cinque o anche sette volte. Famiglie che hanno perso tutto».
La sua fotografia della vita a Gaza parte della fame “reale”: «Non è soltanto questione di quantità ma anche di qualità: non entrano frutta, verdura e carne, due anni senza vitamine e proteine. Un disastro totale».
A questo si somma «la quasi totale mancanza di ospedali che rende impossibile curare i feriti, i mutilati, ma anche quelli che hanno normali malattie e non possono essere seguiti. Penso a quelli che devono fare la dialisi ma non c’è più dialisi. Penso a chi ha il cancro in un luogo dove non esiste più l’oncologia».
Ma non ci sono solo i bisogni materiali: «Penso anche che inizia il terzo anno senza scuola per i bambini e per i ragazzi. È molto difficile parlare di speranza se non dai una scuola, se è impossibile un’educazione».
La situazione in cui è stata costretta la popolazione palestinese secondo il Cardinale «non è giustificabile e non è moralmente accettabile». «Era chiaro che dopo l’orrore commesso da Hamas il 7 ottobre, ci sarebbe stata una reazione. Ma quella che stiamo vivendo è qualcosa che va oltre e che non è comprensibile né giustificabile».
In questo scenario la comunità cristiana che si è rifugiata nella parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, sono cinquecento persone, ha scelto di restare. Una decisione sofferta e pericolosa ma inevitabile: «Nella parrocchia ci sono una quarantina di disabili gravi musulmani che non hanno alcuna possibilità di spostarsi e vengono assistiti dalle suore di Madre Teresa. E poi ci sono anziani molto fragili e malati che non possono partire. Per loro partire significherebbe morire. Per cui è stato chiaro che sarebbero rimasti lì e allora anche i nostri sacerdoti e le nostre suore hanno deciso di restare lì. E così anche il resto della comunità. Mi piace vedere anche in questo la scelta della Chiesa che decide di restare lì come presenza attiva pacifica».
Gli ho chiesto se possiamo finalmente sperare che le operazioni militari israeliane e i massacri si interrompano e che gli ultimi ostaggi in vita possano tornare a casa. La sua risposta contiene un filo di speranza: «Siamo in attesa della risposta di Hamas, che spero arrivi presto e sia positiva, al cosiddetto piano Trump, che ha tante lacune ma è vero che nessun piano sarà mai perfetto. Sono tutti stanchi, esausti, sfiniti da questa guerra e ora sembra evidente che si va verso una conclusione».
Ma la fine della guerra non è la fine del conflitto: «Il conflitto durerà ancora molto tempo perché le cause profonde di questa guerra non sono ancora state prese in considerazione. Il conflitto israelo palestinese non si concluderà finché non si darà al popolo palestinese una prospettiva chiara, evidente e reale. E poi l’odio, il disprezzo e il rancore che questa guerra ha causato dentro le due popolazioni israeliana avranno conseguenze e strascichi per molto tempo».
Nella lunga intervista mi ha raccontato il trauma profondo del 7 ottobre, delle gravissime conseguenze sulla popolazione israeliana, della radicalizzazione degli estremismi di entrambe le parti, che da anni hanno sequestrato il dibattito pubblico, del rifiuto di vedere la sofferenza degli altri.
E di cosa prova a sentir parlare della Riviera di Gaza: «È qualcosa che indigna: costruire una riviera su un luogo dove c’è stato tanto dolore, tante morti e tanto sangue è qualcosa che ferisce profondamente la dignità non soltanto degli abitanti di Gaza, ma di chiunque abbia a cuore il senso di umanità e di rispetto per le persone».
Alla fine gli chiedo se di fronte a questo panorama di macerie fisiche, di macerie morali, di ferite, di morti, di sangue, si possa cogliere qualche segno di speranza.
«Ne vedo tanti a Gaza e anche qui tra israeliani e palestinesi. Li vedo nella nostra comunità di Gaza, li vedo nei medici e negli infermieri che, anche a rischio della vita e senza strumenti e medicinali continuano inventarsi tutto il possibile per fare qualcosa. Li vedo in tante madri israeliane ma anche nei ragazzi che escono per strada per dire basta, con coraggio e anche sfidando l’incomprensione. Ho incontrato ragazzi diciottenni che sono finiti in carcere perché si sono rifiutati di andare a sparare. Questo mi fa dire che, nonostante tutto, c’è ancora tanta umanità che alla fine ci salverà. Saranno loro a salvarci».”

Quando il di-battito polarizza

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Sono anni che non seguo un dibattito in tv, da quando si è smesso di portare avanti la forza di un ragionamento, da quando non sono più ammesse le sfumature, da quando è tutto bianco o tutto nero, da quando la dialettica ha perso strada in favore delle grida, da quando la verità ha perso spazio in favore dell’opinione, da quando uno vale uno, cosa alla quale non credo proprio. Ma, mi si dirà, esistono anche dibattiti ben fatti: vero, però sono pochi e non fanno audience. Preferisco seguire approfondimenti giornalistici o interviste a esperti. La diffusa polarizzazione di idee non mi fa sentire a mio agio. Sto scomodo, ad esempio, nella situazione che si sta vivendo in questi giorni dopo l’uccisione di Charlie Kirk nello Utah. E allora mi indirizzo verso letture che cercano di approfondire, di capire un po’ di più, anche staccandosi dalla notizia dell’omicidio, come questa de Il Post, pubblicata venerdì 12 settembre (questo articolo non ha niente a che vedere con le polemiche di questi giorni). Vi si parla di “dibattito”, non tanto inteso come capacità argomentativa, ma con un significato più affine alla derivazione etimologica del termine dal verbo dibattere, che a sua volta è composto dal prefisso “di-” e da “battere”, indicando l’atto di “battere ripetutamente”. 

“Charlie Kirk, l’attivista della destra americana ucciso mercoledì in un attentato nello Utah, era una delle persone non elette più influenti della politica statunitense. Faceva politica senza essere un politico, ma andava molto oltre i contenuti che diffondeva sui social media: usava quell’influenza per organizzare campagne e raccolte fondi, sostenere politici locali e nazionali, costruire relazioni dirette con parlamentari e finanziatori conservatori. Il suo ruolo era per molti aspetti eccezionale perché costruito da giovanissimo e praticamente da zero, e soprattutto nello spazio pubblico che da anni è la sede principale delle “guerre culturali” tra destra e sinistra negli Stati Uniti: i campus universitari.
Nel contesto statunitense, per “guerre culturali” si intendono quei dibattiti conflittuali che non riguardano tanto l’economia o la politica estera, bensì questioni più valoriali e identitarie: l’aborto, i diritti LGBTQ+, le armi, il ruolo della religione nella vita pubblica, i programmi scolastici, il razzismo. Kirk si trovava esattamente in questo contesto, quando è stato ucciso: un dibattito pubblico alla Utah Valley University, primo evento del “The American Comeback Tour”, una serie di incontri che teneva abitualmente nelle università. C’erano circa tremila persone di fronte al gazebo da cui stava parlando, poco prima che qualcuno gli sparasse.
Come ogni altro suo incontro, anche questo era gestito da Turning Point USA, un’associazione non profit di giovani conservatori fondata da Kirk a 18 anni, che riceve decine di milioni di dollari di donazioni, perlopiù da fondazioni, e ha sedi in oltre 850 università americane. In ciascuna organizza periodicamente dei dibattiti in cui sono invitati a parlare politici, oratori conservatori e altri sostenitori del presidente Donald Trump. Kirk aveva parlato giovanissimo già alla convention dei Repubblicani del 2016, ma è soprattutto negli ultimi anni che era diventato una figura potentissima nel partito, capace di raccogliere fondi e di aiutare carriere importanti come quella del vice presidente JD Vance.
La sua capacità di mobilitare migliaia di giovani lo aveva accreditato anche tra gli esponenti più anziani dei Repubblicani, e in occasione delle ultime elezioni aveva aiutato la campagna elettorale negli stati in bilico. Turning Point aveva organizzato a Glendale, in Arizona, l’evento in cui l’ex candidato alle presidenziali e attuale segretario alla Salute Robert Kennedy Jr. aveva annunciato il proprio sostegno a Trump: c’erano circa 20mila persone. Nelle ultime due settimane di campagna elettorale, altre 16mila avevano partecipato a un incontro a Duluth, in Georgia, e 18mila a un altro a Las Vegas, in Nevada, entrambi organizzati da Turning Point. Migliaia di partecipanti, come sempre, erano studenti universitari.
Charlie Kirk insomma aveva mostrato ai Repubblicani che le idee conservatrici potevano far presa anche tra i giovani dei college, che quel mondo per loro non era inaccessibile. E poi c’è il come.
Kirk era uno dei più conosciuti e abili esponenti di uno stile oratorio di grande successo, sia nelle università americane sia sui social media. Durante i suoi dibattiti nei campus, da un gazebo con la scritta Prove me wrong (“dimostrami che sbaglio”), rispondeva alle domande del pubblico con ostentata spavalderia, spesso cercando di umiliare i suoi interlocutori progressisti, più che ragionare con loro. Spezzoni di quegli incontri che circolano sui social media e sono visti da milioni di persone hanno titoli come «45 minuti di Charlie Kirk che zittisce studenti universitari».
Questo tipo di animosità e aggressività verbale è comune sui social media, ma teoricamente meno adatto a un istituto di formazione come le università. Se è stato largamente accolto anche in queste sedi dai giovani conservatori – e da una parte dell’opinione pubblica – è perché da anni la destra e l’estrema destra americana riescono a screditare le università e a rappresentarle come centri di indottrinamento della “cultura woke” e della cancel culture.
L’ostilità verso i progressisti nei dibattiti è percepita da molte persone di destra come un meccanismo legittimo e necessario di difesa e di contrasto a una cultura di sinistra storicamente prevalente nelle università americane. Attraverso i suoi eventi Kirk aveva contribuito a introdurre i discorsi dell’estrema destra in contesti universitari in cui era tradizionalmente prevalente la cultura di sinistra, al punto che in più occasioni gli interventi degli oratori conservatori erano stati cancellati dalle istituzioni universitarie in seguito alle proteste anche violente degli studenti.
Kirk era molto abile a far contraddire gli interlocutori, a porre domande a cui non riuscivano a rispondere, a zittirli con formulazioni a effetto, ma in nessun momento le conversazioni prevedevano una qualche forma di ascolto reciproco e di riconoscimento delle ragioni altrui. Invece di cercare nelle discussioni uno strumento per convincere chi la pensa diversamente, il formato di dibattiti nei campus che Kirk portava in giro premia la sopraffazione e l’annientamento degli avversari, obiettivo inseguito prevalentemente attraverso furbizie dialettiche e più raramente con la sostanza degli argomenti.
È una tendenza strettamente legata alla cultura statunitense dei dibattiti, insegnata fin dalle scuole con corsi e tornei dedicati: tornei ai quali è normale, per esempio, che data una determinata questione divisiva sia scelto casualmente quale squadra debba sostenere la posizione a favore e quale quella contraria. A essere valutata e premiata è insomma la tecnica di argomentazione e la logica dei ragionamenti, a prescindere del merito delle posizioni espresse.
I dibattiti pubblici nei campus, in persona o ripubblicati poi online, sono stati un eccezionale veicolo di diffusione di un approccio al confronto di idee in cui prevalgono quelle più estreme e perentorie. Questo, insieme a molte altre cause, ha contribuito alla polarizzazione dei giovani americani su questioni come la libertà di espressione, l’aborto, l’identità di genere, i diritti delle minoranze o l’invasione israeliana a Gaza. Rispetto a ciascuno di questi temi e di altri, di volta in volta, le università sono state sede di scontri ideologici e spesso anche fisici tra studenti, a cui l’amministrazione di Donald Trump ha reagito attuando politiche repressive e reclamando potere di influenza su programmi di studio e di ricerca, criteri di ammissione degli studenti e altre decisioni.
In questo contesto molto polarizzato la retorica e lo stile di Kirk, come quelli di altri commentatori apprezzati dalla destra americana, da Jordan Peterson a Ben Shapiro, sono diventati un riferimento ammirato da molti studenti e giovani sostenitori del movimento MAGA (Make America Great Again, lo slogan di Trump). In un certo senso, come scrisse a luglio l’Economist, i dibattiti pubblici di Kirk nelle università davano l’impressione di restituire agli intellettuali conservatori una piattaforma a loro sottratta dai progressisti.
Grazie alla sua retorica brillante e alla sua rapidità di ragionamento, Kirk era stato uno degli oratori più abili a trasformare quei dibattiti pubblici in forme di intrattenimento dalle grandi potenzialità virali. A Kirk era ispirato un personaggio della stagione in corso di South Park, protagonista di una sottotrama proprio sui dibattiti nei campus.
Tra le altre cose, Kirk di recente era stato il protagonista del primo episodio di una serie molto popolare di dibattiti su YouTube, intitolata Surrounded (“circondato”) e creata dall’azienda di intrattenimento Jubilee Media. I dibattiti durano circa un’ora e mezza, con un tempo limitato per ogni dialogo tra l’ospite e ciascun suo “avversario”: hanno titoli del tipo «un progressista contro venti conservatori di estrema destra» (è l’episodio con il giornalista Mehdi Hasan).
L’episodio con Kirk, intitolato «25 studenti universitari progressisti possono superare in astuzia un conservatore?», ha più di trentuno milioni di visualizzazioni (oltre trenta milioni le aveva già da prima dell’attentato). Kirk sostiene l’illegalità dell’aborto, per esempio, mentre alcuni suoi interlocutori non riescono a proseguire il dialogo con lui e alla fine lo disprezzano apertamente. «Spero che tua figlia viva una vita molto felice e che riesca a stare lontana da te», dice una di loro.
È un esempio molto chiaro del tipo di dibattito in cui Kirk eccelleva. Come ha scritto di recente il New Yorker a proposito del programma, gli interlocutori più abili sono semplicemente quelli che hanno più esperienza, più abituati a citare dati ed enigmi logici per contraddire le affermazioni dell’avversario il più rapidamente e duramente possibile. «L’obiettivo non è informare o istruire, ascoltare o elaborare, costruire o ragionare, ma vincere, dominare, schiacciare, spaccare il cervello dell’avversario, produrre un argomento di tale devastante perentorietà da poter considerare la questione chiusa, una volta per tutte», ha scritto il New Yorker.”

A proposito di Readiness 2030

Immagine creata con ChatGPT®

Approfitto del fatto che le pagine dei giornali sono occupate dalla questione dazi per tornare su un tema del quale si è parlato nelle scorse settimane: il riarmo dell’Europa. Ho letto un articolo interessante di Gastone Breccia, insegnante di Storia bizantina e Storia militare antica all’Università di Pavia: da anni si dedica anche alla ricerca in campo storico-militare contemporaneo, è esperto di teoria militare, di guerriglia e controguerriglia, ed è autore di studi sulla guerra di Libia e quella di Corea, oltre ad approfondimenti sui conflitti in Afghanistan, Iraq, Siria e, recentemente, Ucraina. Il suo articolo del 24 marzo su La Rivista Il Mulino penso possa fornire lo spunto per numerose riflessioni. Eccolo:

“Le ultime settimane hanno visto una rapida evoluzione della situazione internazionale caratterizzata dalla prospettiva di un parziale disimpegno degli Stati Uniti dalla difesa comune atlantica, a cui l’Unione europea ha risposto con il programma ReArm Europe – ora ribattezzato, per ragioni di convenienza, Readiness 2030 – che è diventato oggetto del dibattito politico anche nel nostro Paese. Questo contributo intende fare chiarezza, in maniera inevitabilmente schematica, su alcuni punti-chiave della questione.
1. La premessa della crisi attuale è che gli Stati Uniti non siano più un alleato affidabile dei Paesi europei. Su questo credo si possa concordare senza ulteriori approfondimenti, anche perché è il presidente Trump a ripeterlo e farlo capire con le sue scelte, prima fra tutte l’imposizione dei dazi commerciali alle merci provenienti dall’Ue, che del resto considera «un’istituzione concepita per fregare l’America». Ne consegue che l’Europa (Regno Unito compreso) si trova oggi di fronte a due opzioni: incrociare le dita e aspettare che passi la nottata, perché tra qualche anno la situazione potrebbe tornare ad essere più favorevole (ovvero più simile a quella degli ultimi ottant’anni), oppure tentare di provvedere da sola, in tempi brevi, alla propria sicurezza. È stata scelta la seconda strada ed è stato approvato un robusto finanziamento di 800 miliardi di euro in 4 anni; non c’è ancora accordo tra i vari Paesi sulle modalità – prestito della Banca europea degli investimenti o deficit spending, essenzialmente – ma si finirà per trovarlo.
2. Sgombriamo il campo da due falsità che vengono spesso ripetute, avvelenando il dibattito sul tema del riarmo europeo, o della «prontezza entro il 2030» che dir si voglia. Primo: ReArm Europe / Readiness 2030 non serve a far guerra alla Russia, né a «sconfiggerla». Nessuno pensa ai cosacchi che abbeverano i cavalli nelle fontane di piazza San Pietro o sulle rive della Senna, come si diceva una volta; nessuno teme un attacco diretto convenzionale russo al cuore d’Europa. Il pericolo esiste, ma è diverso, e il programma di riarmo è finalizzato a scoraggiare la Russia da tentare altre avventure, altre «operazioni militari speciali» in Paesi che una volta facevano parte dell’impero prima zarista e poi sovietico, mentre adesso sono parte dell’Ue. Chi ritiene anche questa possibilità non realistica, quasi certamente sbaglia, perché Putin ce lo ha ripetuto in tutti i modi: la Russia – la «sua» Russia – deve tornare a controllare lo spazio che storicamente e culturalmente le appartiene, e che va dal mar Nero al Baltico, da Odessa a Riga, come si legge nei nuovi manuali scolastici della Federazione. Che non si tratti solo di propaganda lo hanno dimostrato a sufficienza gli ultimi anni di guerra. La seconda falsità, dunque, è che la Russia desideri la pace: la Russia vuole solo una pace, la sua pace, che altri Paesi vedono come il ritorno di un dominio odiato e anacronistico.
3. La Russia, ci viene anche detto da vari commentatori, non avrebbe le capacità militari per proseguire la guerra oltre i confini dell’Ucraina: quindi sarebbe del tutto inutile spendere 800 miliardi di euro per scongiurare una minaccia inesistente. Come già ricordato, nessuno pensa a un attacco convenzionale al cuore della vecchia Europa: ma sono possibili, anzi probabili, in un prossimo futuro, azioni ostili «ibride» (hybrid warfare) per destabilizzare e poi colpire Paesi ai margini dell’Unione, dove vivono minoranze russofone, che potrebbero trasformarsi a loro volta nei focolai di un conflitto più esteso. Gli Stati nordici, dalla Scandinava alla Polonia, dalle Repubbliche del Baltico alla Germania, si stanno preparando per l’eventualità di una guerra con la Russia: a meno di non considerare i responsabili dei loro servizi di intelligence come una banda di sciagurati incompetenti, i loro timori devono essere valutati con estrema attenzione.

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4. Comprendere il significato e i pericoli della hybrid warfare è fondamentale per compiere le scelte più adeguate alla sicurezza del continente nel prossimo futuro. Con questo termine si intendono tutte quelle azioni che, comunque vengano condotte e a prescindere dalle eventuali perdite umane causate, sono concepite per mantenersi al di sotto dell’orizzonte della guerra aperta: dalla disinformazione agli attacchi informatici per mettere in crisi aspetti essenziali della vita civile (circuiti bancari, sistemi di controllo dei trasporti pubblici, database dei servizi sanitari), dagli attentati senza rivendicazione al sabotaggio di infrastrutture strategiche. Cruciale è la capacità di individuare la minaccia e reagire rapidamente: ma nel campo della hybrid warfare chi è vittima di un attacco spesso si comporta come se avesse le mani legate, perché convinto di non aver subito un danno abbastanza grave da meritare una risposta aggressiva. È un pericolosissimo gioco di equilibrio in un mondo grigio, dove è difficile attribuire la responsabilità dei colpi subiti, valutare in tempo utile la loro gravità, e quindi elaborare una strategia efficace per colpire il nemico, e scoraggiarlo da intraprendere ulteriori azioni ostili. Un paio di mesi fa il vicesegretario generale della Nato, James Appathurai, ha spiegato che la Russia non solo ha intensificato da tempo i suoi attacchi ibridi contro i Paesi occidentali, ma continuerà senza dubbio a farlo anche dopo la fine della guerra in Ucraina: «Quello di cui abbiamo bisogno adesso», ha spiegato Appathurai, «è chiarire subito tra noi quali siano le no-go areas, ovvero quali tipi di attacco innescherebbero una risposta armata convenzionale, e quindi trovare il modo di comunicarlo ai russi». In questo ambito il pericolo è chiaro e imminente: una parte non secondaria delle risorse del programma Readiness 2030 andrebbe quindi destinata alla counter-hybrid warfare, la cui efficacia dipenderà in primo luogo da un cambiamento di mentalità, perché per battere chi usa tattiche non convenzionali bisogna essere capaci di agire in maniera ancora più flessibile, innovativa e spregiudicata. Non è solo questione di finanziamenti: come sempre, in guerra, è prima di tutto questione di mentalità, oltre che del talento personale delle donne e degli uomini destinati a combatterla.
5. La «guerra ibrida» è dunque già in corso, e per combatterla sarà opportuno spendere una parte non trascurabile degli 800 miliardi del programma Readiness 2030. Ci sono però altre minacce più tradizionali e altre armi di cui tenere conto: un conflitto potrebbe iniziare in maniera «ibrida», come del resto è accaduto nel 2014 in Ucraina, e poi trasformarsi in uno scontro tra forze regolari. Ad oggi – anche questa è una verità scomoda, ma da non nascondere all’opinione pubblica – un esercito europeo non esiste, né ci sono speranze che possa vedere la luce in tempi brevi, mentre i singoli eserciti europei non hanno né gli effettivi né i mezzi per difendere i confini senza un robusto sostegno statunitense. Che fare, dunque? Per quanto possa piacere poco, la sola strada praticabile nell’immediato è quella del rafforzamento dei singoli contingenti nazionali: più personale – nell’ordine di alcune decine di migliaia solo per il nostro Paese – e più mezzi di ogni tipo, sfruttando i modelli già in produzione. È soltanto una soluzione transitoria, ma la sola praticabile al momento per dotare l’Ue, nel giro di un paio d’anni, di una forza militare sufficiente (forse) non a fare la guerra, ma a scoraggiare avventure militari ostili all’interno dei suoi confini.
6. Ma che senso può avere la «prontezza» militare europea al di fuori della Nato? L’Alleanza è stata concepita per agire contando in larga misura sulla protezione offerta dal «socio di maggioranza» statunitense; se gli Stati Uniti non saranno più disposti a sostenere questo ruolo, il Patto Atlantico va ripensato, e vanno ridistribuite spese e responsabilità tra i Paesi che lo hanno sottoscritto. Cosa non semplice né rapida: nel frattempo, però, tutte le risorse utilizzate per rafforzare gli eserciti europei serviranno anche allo scopo di ridisegnare la strategia difensiva della Nato.
7. In conclusione, che cosa dobbiamo temere? Per contrastare azioni di hybrid warfare serve prima di tutto un cambiamento di mentalità: prontezza nel valutare realisticamente il pericolo, flessibilità nel reagire in maniera efficace; serve poi un coordinamento a livello europeo di tutte le agenzie di sicurezza e informazione, che dovranno essere dotate del personale e degli strumenti tecnologici necessari ad operare nella «zona grigia» dei conflitti non dichiarati. Per scoraggiare azioni ostili convenzionali bisogna possedere invece forze armate in grado di far pagare troppo cara a un avversario qualsiasi violazione del territorio di uno stato europeo.
Come fare? Più effettivi e migliori armamenti è una risposta ovvia; ma quanti effettivi, e quali armamenti? La prima risposta, con un ampio margine di approssimazione, è alcune decine di migliaia per ognuno degli eserciti dei Paesi maggiori, compreso il nostro; la seconda è più complessa, perché esiste una distinzione tra armi difensive e offensive (troppe volte usata a sproposito negli ultimi anni) che bisogna tenere presente. Bisogna, in altre parole, pensare prima di tutto a rinforzare i sistemi missilistici per la difesa tattica di punto, i soli capaci di proteggere sia installazioni strategiche sia obiettivi civili, distribuire alle truppe un numero adeguato di Manpads e Manpats di ultima generazione («sistemi portatili di difesa aerea» e «sistemi portatili anticarro»), e persino – auspicabilmente – concepire nuovi mezzi corazzati a vocazione difensiva. Senza entrare troppo nello specifico, produrre e mettere in linea più Td (Tank Destroyers, «cacciacarri») che Mbt (Main Battle Tanks, «carri principali da battaglia»): i primi, infatti, non soltanto sono più economici e meno vulnerabili degli Mbt, ma sono stati concepiti – fin dalla loro introduzione durante la Seconda guerra mondiale – per contenere e impedire la manovra offensiva avversaria. Esistono esempi eccezionali, per concezione ed efficacia, che è possibile imitare, come il «Carro S» svedese degli anni Sessanta: la strada per la Readiness 2030 passerà anche da scelte innovative di questo tipo, in funzione di una strategia europea finalizzata alla protezione della libertà delle democrazie.”

In God we trust. Ma quale?

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Ha molto impressionato la fotografia del presidente statunitense Donald Trump, seduto alla scrivania della Casa Bianca, circondato da Paula White, pastora della cosiddetta teologia della prosperità, e da altri esponenti religiosi. L’occasione è stata quella della firma di un ordine esecutivo presidenziale per l’istituzione, presso la Casa Bianca, di un Ufficio della Fede (ne ha scritto Massimo Gaggi sul Corriere della Sera). Approfitto per segnalare un video di Francesco Costa, giornalista de Il Post, sul rapporto degli statunitensi con la religione e come questa si incroci anche con la politica americana (video pubblicato prima del voto elettorale):

Inoltre pubblico interamente un pezzo di Luca Colacino per Treccani dal titolo Politica e religione negli Stati Uniti di Trump“La sensibilità politica europea di oggi non può che essere sorpresa da uno degli aspetti più evidenti dell’amministrazione del quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti: la forte presenza della religione nella sfera pubblica. Si tratta di un evidente ritorno della religione come parte integrante della cultura politica di una democrazia liberale occidentale. In seguito all’illuminismo e alla Rivoluzione francese, l’Europa ha subito un processo di secolarizzazione definito da un marcato sentimento anti-religioso fondato nella certezza che una politica della sola ragione potesse condurre ad una società libera dall’ingiusta oppressione morale e dall’intolleranza che si credeva le religioni portassero nella sfera pubblica.
Diverso è il sentimento che anima l’affermazione del presidente Donald Trump la mattina di giovedì 6 febbraio 2025, all’annuale “National Prayer Breakfast” in Washington D.C. in cui egli afferma: «Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza». La domanda è la seguente: Il ritorno della religione nella politica di Trump è un esempio della storica strategia in cui la religione è fonte di legittimazione del potere che desidera essere incontrastato o è riconoscimento autentico di una necessità politica più profonda?
La risposta completa a questa domanda dovrà aspettare il giudizio della storia a venire, ma alcune considerazioni possono essere fatte già da ora. La prima riguarda l’onestà con cui i padri fondatori della repubblica americana hanno sempre riconosciuto che il successo degli ideali americani di libertà, progresso e giustizia dipendesse dal contesto culturale in cui i cittadini condividevano una visione cristiana del mondo. Il successo della politica, secondo loro, dipende dal successo della religione nella vita dei cittadini. Ad esempio, John Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti, dichiarò nella famosa lettera alle milizie del Massachusetts che «la Costituzione americana è stata creata solo per persone religiose con una determinata moralità e perciò è completamente inadeguata al governo di qualsiasi altro tipo di persone». Nonostante il governo americano abbia sempre supportato la marcata separazione istituzionale tra Chiesa e Stato, essa non ha mai approvato la separazione culturale tra religione e politica. Le religioni istituzionali, seppure non riducibili alla dimensione temporale, sono sempre state fonte di una visione comune del mondo che permetteva una vera deliberazione sul bene comune.  La religione cristiana in Occidente, infatti, è stata per anni una sorgente spirituale e intellettuale di riflessione sulla natura del bene comune. La stessa difesa delle libertà personali e della libertà di coscienza, di cui l’America è sempre stata grande promotrice, si basava sull’ipotesi di una società in cui gli individui erano responsabili delle proprie azioni davanti a Dio, la cui legge morale è una realtà oggettiva e intellegibile, almeno in parte, nelle categorie naturali e razionali. Questo non significa che la politica informata dalla religione smetta di deliberare e di avere visioni diverse sul bene comune. Infatti, la crisi della politica contemporanea non si basa sull’incapacità di essere d’accordo sulla natura del bene comune (il quale non è mai accaduto nella storia della politica); piuttosto, si basa sull’incapacità di trovare degli assiomi di pensiero comuni su cui costruire un dialogo di deliberazione e confronto politico effettivo. La politica di oggi è una politica senza metafisica, incapace di trovare degli assiomi filosofici comuni per la deliberazione sul bene comune. Ad esempio, senza una metafisica capace di definire l’esistenza reale e non nominale di una comune natura umana è molto difficile deliberare su quali siano effettivamente i cosiddetti “diritti umani”. Se non esiste una realtà metafisica di natura umana che sia intellegibile, allora questa diventa un concetto non scoperto ma costruito dall’intelletto e dalla volontà di ognuno. Per questo, la crisi contemporanea della politica senza metafisica è dovuta all’incapacità di avere un consenso di base sulle categorie filosofiche classiche.
Ma cosa c’entra questo con la religione nella politica? Si è detto che l’Europa, e con essa l’Occidente, è figlia di Atene, quale culla della cultura filosofica greca, e di Gerusalemme, quale sorgente della spiritualità e religiosità giudaico-cristiana. In effetti, la filosofia greca è stata tradotta nella cultura europea attraverso la mediazione della religione cristiana. Con il fenomeno della secolarizzazione, poi, si è cercato di rendere l’Occidente indipendente da Gerusalemme. Oggi, però, il problema della politica contemporanea non è l’incapacità di essere d’accordo su Gerusalemme, piuttosto è l’incapacità di avere Atene come punto di riferimento comune per una vera politica del confronto sul bene comune. La questione riguarda la possibilità dell’Occidente, ormai orfano delle proprie radici filosofiche e spirituali, di ritornare ad Atene come punto d’incontro della ragione universale all’infuori dalla mediazione di Gerusalemme. In altre parole, in una modernità che ha perso il senso di una ragione universale, abbandonando ogni credenza metafisica riguardo le categorie oggettive di bene comune e natura, è possibile riportare una vera politica del confronto senza la religione?
Sembra che gli Stati Uniti, a differenza dell’Europa, abbiano sempre riconosciuto che l’eredità filosofica di Atene per una politica capace di un vero confronto sul bene comune dipendesse dall’integrità della religione come interlocutore sociale. In questo senso vanno intese le parole di Trump nell’intervento alla National Prayer Breakfast in cui egli afferma: «Dai primi giorni della nostra repubblica, la fede in Dio è sempre stata la sorgente ultima della forza e il cuore pulsante della nostra nazione. Dobbiamo resuscitare la religione, la dobbiamo resuscitare con molta più forza. L’assenza della religione è stato uno dei problemi maggiori degli ultimi tempi. L’America è stata e sarà una nazione sotto la guida di Dio».
Quest’affermazione richiede una seconda considerazione sull’eccezionalismo americano nel contesto del ritorno della religione nella sfera pubblica. Non sono mancati, infatti, nelle ultime settimane, riferimenti al mandato di Trump come una manifestazione della provvidenza divina per il destino degli Stati Uniti. Nello stesso discorso alla National Prayer Breakfast, il presidente Trump ha fatto menzione di Roger Williams, pastore presbiteriano che ha fondato lo Stato di Rhode Island nominando la sua capitale Providence, e di John Winthrop, puritano inglese che sarebbe diventato governatore del Massachusetts, il quale nel celebre sermone La città sulla collina si richiama alle parole di Gesù nel Discorso della montagna per descrivere l’America come terra scelta da Dio per risplendere da esempio per il mondo intero.
In linea con questo tradizionale sentimento con cui gli americani si vedono strumenti della provvidenza divina per il benessere del mondo, il presente mandato di Trump, sin dall’inaugurazione presidenziale del 20 gennaio, è stato presentato come dono della provvidenza per la rinascita culturale e politica degli Stati Uniti, per il benessere di tutti gli americani e dei loro alleati. All’inizio della cerimonia di inaugurazione, infatti, Franklin Graham ha condotto i presenti in una preghiera in cui ha ringraziato Dio «per aver innalzato con mano potente il presidente Donald Trump». In maniera simile, la preghiera di benedizione del pastore Lorenzo Sewell nella stessa cerimonia ha parlato di Trump nei termini di un miracolo della provvidenza che lo ha salvato dall’attentato dello scorso 16 luglio come segno d’approvazione divina del suo mandato.
Seguendo questa logica, però, la storia ha lasciato trascorrere i più grandi mali dittatoriali sotto la credenza di una provvidenza divina che giustificasse incondizionatamente le autorità in potere. Se da un lato il rientro della religione nella politica è una necessità effettiva e potenzialmente buona, dall’altro lato questo rientro va qualificato e ragionato teologicamente. La retorica della provvidenza e dell’eccezionalismo che incorniciano il presente mandato presidenziale ci pone davanti a una questione teologica da cui dipende il successo del ritorno della religione in politica. Occorre infatti un correttivo proprio della fede cattolica alla credenza unilaterale nella provvidenza che gli Stati Uniti hanno ricevuto dalla tradizione protestante dei loro padri fondatori. Il pensiero cattolico, infatti, è solito tenere insieme due estremi in tensione tra di loro. In questo caso, la provvidenza divina, sotto la cui guida non sfugge nessun governo politico, deve essere accompagnata dalla credenza nella libertà e responsabilità personale delle autorità politiche. Per questo, durante la cerimonia di inaugurazione solo le preghiere del cardinale Dolan e di un altro sacerdote cattolico hanno attenuato il clima trionfalistico e provvidenziale delle altre preghiere con una sobria richiesta a Dio di concedere al presidente Trump e al suo vice, J.D. Vance, il dono della sapienza. Questo significa che affinché il ritorno della religione della politica non sia solo strumento di legittimazione, la religione e la Chiesa devono mantenere una distanza dalle autorità politiche che permetta loro di esercitare un ruolo profetico capace di richiamare la politica all’ordine morale qualora fosse opportuno, non di diventare serve e mere leggittimatrici della politica. Nell’Antico Testamento, infatti, i profeti avevano un ministero divino istituito per mantenere un sistema di equilibrio nei confronti del potere regale e politico del re.
L’ultima considerazione, perciò, riguarda il modo in cui la Chiesa deve esercitare il proprio ruolo profetico nei confronti della politica. Molto controverso, infatti, è stato l’appello diretto a Trump della vescova anglicana di Washington nella funzione religiosa di preghiera per la nazione il giorno dopo l’inaugurazione presidenziale. La vescova ha lanciato un appello diretto al presidente chiedendo, nel nome di Dio, di avere pietà verso i migranti e i transgender che in questo momento hanno paura a causa delle sue politiche. A questo appello, Trump ha risposto su X dicendo che la vescova «ha portato la sua chiesa nel mondo della politica in un modo molto scortese. Era cattiva nei toni, non convincente o intelligente. Non ha menzionato il gran numero di migranti illegali che sono entrati nel nostro Paese e hanno ucciso persone». Qualsiasi siano le ragioni di entrambe le parti, riconoscendo sia la necessità profetica di richiamare il potere a unire giustizia e misericordia, sia la natura complessa della questione, ciò che è chiaro è che il ruolo profetico della religione verso la politica richiede un coinvolgimento più ragionato della religione nel processo deliberativo e decisionale di quello che un’omelia o un tweet possono fare. Una deliberazione politica più sostanziale infatti è alla base delle ordinanze presidenziali a sostegno della vita che Trump ha attuato nei primi giorni del nuovo mandato.
La difficoltà della religione nel relazionarsi alla politica in modo costruttivo si è vista anche con lo scontro tra la Conferenza episcopale statunitense e il vicepresidente, cattolico praticante, J.D. Vance. La Conferenza episcopale ha pubblicato una dichiarazione che condanna le politiche anti-migratorie della nuova amministrazione presidenziale. J.D. Vance ha prontamente risposto alla condanna in un’intervista insinuando che la Conferenza episcopale abbia mosso accusa perché le politiche della nuova amministrazione significherebbero una perdita di 100 milioni di dollari l’anno che la Conferenza ha finora ricevuto dal governo federale per aiutare a reinsediare gli immigrati clandestini. Un’indagine giornalistica, tuttavia, sembrerebbe provare che la Conferenza episcopale avrebbe dovuto aggiungere altri fondi a quelli federali per la realizzazione del progetto con i migranti, dimostrando perciò che le accuse del vicepresidente sono infondate.
Ancora una volta, la realtà dei fatti è più complessa di quello che può essere comunicato con dichiarazioni prive di un confronto e una vera deliberazione. Perciò, il grande ritorno della religione nella politica, seppure un’autentica necessità, dipenderà sia dalla capacità della religione di mantenere insieme la fiducia nella provvidenza divina e la chiamata alla responsabilità personale davanti a Dio, ma anche dalla capacità che la politica e la religione avranno di performare un vero dialogo culturale e filosofico non guidato da brevi e polarizzanti dichiarazioni incapaci di includere la complessità delle questioni discusse”.

Il passo breve tra faith e fight

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Quello che segue è un post piuttosto lungo. Si tratta dell’articolo uscito su La Civiltà Cattolica 4010 a firma Antonio Spadaro (direttore della rivista) e Marcelo Figueroa (pastore presbiteriano e direttore dell’edizione argentina de L’Osservatore Romano). Ho deciso di pubblicarlo perché lo trovo ricchissimo di spunti di riflessione.
In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia.
Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse
Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male.
A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche».
Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.

LymanStewart
Lyman Stewart

Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush.
Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati».
Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli.
Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto.
Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente dauomo-fuori-natura bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione».
In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova».
Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».

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Rushdoony

Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca [sollevato dall’incarico il 18 agosto 2017] e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1].
«La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa.
La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden.
Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa
Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici.
È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano.
Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna.
Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato.
L’ecumenismo fondamentalista
Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica.
Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici.
La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica.
È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione».
La tentazione della «guerra spirituale»
L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiet­tare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana.
Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico.
churchmilitantColpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3].
Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces.
Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto.
Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista.
Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza».
Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali.
Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico».
Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».
Contro la paura
Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’allean­za spuria tra politica e fondamentalismo frareligioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo.
La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4].
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[1]. Bannon crede nella visione apocalittica che William Strauss e Neil Howe hanno teorizzato nel loro libro The Fourth Turning: What Cycles of History Tell Us About America’s Next Rendezvous with Destiny. Cfr anche N. Howe, «Where did Steve Bannon get his worldview? From my book», in The Washington Post, 24 febbraio 2017.
[2]. Cfr A. Aresu, «Pope Francis against the Apocalypse», in Macrogeo, 9 giugno 2017.
[3]. Cfr «Donald “Constantine” Trump? Could Heaven be intervening directly in the election?», in Church Militant.
[4]. Per approfondire queste riflessioni, cfr D. J. Fares, «L’antropologia politica di Papa Francesco», in Civ. Catt. 2014 I 345-360; A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», ivi 2016 I 209-226; D. J. Fares, «Papa Francesco e la politica», ivi 2016 I 373-385; J. L. Narvaja, «La crisi di ogni politica cristiana. Erich Przywara e l’“idea di Europa”», ivi 2016 I 437-448; Id., «Il significato della politica internazionale di Francesco», ivi 2017 III 8-15.