Stupore, meraviglia, incanto

Immagine creata con Gemini®

Negli ultimi mesi, in vari confronti con colleghe e colleghi, ho messo in evidenza una difficoltà nella quale mi imbatto da circa due-tre anni a questa parte: faccio fatica a destare lo stupore in classe. Non voglio certo generalizzare, ma mi capita sempre più spesso di incrociare sguardi attoniti o volti inespressivi davanti a racconti o testi o filmati che dovrebbero far esclamare “oooooooh” (ricordo la meraviglia di qualche tempo fa quando mostravo uno di quei filmati che mostrano il passaggio dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande e viceversa). Ho attribuito la colpa alla disponibilità, cresciuta moltissimo negli ultimi anni, di tutto questo materiale on-line e alla sua facile fruibilità: insomma la sensazione che tutto è già stato visto, tutto è già stato detto. Magari non ci si è soffermati a riflettere, e ora, che è venuto il momento di farlo, è un ragionare “a freddo”, senza la spinta emozionale. Poi, però, mi capita di leggere in una classe prima, il testo scritto da una ragazza appena uscita dalla quinta, un testo che parla di amicizia, di vita, di morte, di amore e di passione per la vita. E molte/i si emozionano e hanno gli occhi rossi. Allora mi è venuto in mente quel testo di Alessandro D’Avenia scritto un mesetto fa per il primo giorno di scuola e che mi ero promesso di riprendere. E’ venuto il momento… Lo prendo dal suo blog (è stato pubblicato sul Corriere della Sera nella rubrica settimanale “Ultimo banco”).

“Non sembra ma la scuola e le ferie hanno la stessa essenza: l’incontro con la meraviglia. Durante le ferie è lo stupore che cerchiamo. In montagna o al mare, in campagna o in città, in un libro, panorama, volto, vogliamo incantarci. In queste occasioni, che non a caso poi ricordiamo e raccontiamo, tratteniamo il respiro (si dice «mozzafiato»), per ricevere più vita. Quale? Quella che appunto ci ispira: ci dà più respiro. Per questo abbiamo un senso da cui dipendono gli altri cinque: il senso della meraviglia. Se non funziona questo senso, la realtà diventa muta, insensata, neutra. Infatti è la qualità delle relazioni che abbiamo con il mondo che orienta il nostro individuarci, cioè scoprire in che cosa siamo unici e irripetibili. E proprio il senso della meraviglia detta la qualità di queste relazioni: si chiama «attenzione selettiva», un potenziamento dei nostri circuiti neurali diverso per tutti. Chi non prova stupore cerca stupefacenti: sostanze, non relazioni ma dipendenze. Pur di appartenere (sentirsi amato) sparisce nelle cose o negli altri, fino a non sapere più chi è e che cosa vuole. Chi invece conosce e allena il «suo» stupore trova sostanza (al singolare), cioè vita che lo sostiene, legami che lo ispirano e lo individuano, non sparisce nelle cose e negli altri ma sa stare di fronte al mondo, da protagonista. A scuola è difficile rendersene conto, piena com’è di grigiore e disincanto, ma in fondo la scuola finisce o comincia proprio se finisce o comincia l’incanto. Perché?
La scuola non è un edificio (sarebbe troppo poco) ma ogni spazio-tempo della storia in cui incontriamo ciò che ci meraviglia. Si dà scuola – a volte anche a scuola – ovunque accada lo stupore, cioè un incontro reale con il mondo. Il primo giorno di scuola non è quindi l’inizio di un susseguirsi di ore a cui resistere in vista del prossimo ponte, ma una metafora del «senso della meraviglia». Come allenarlo? Cominciamo con un appello in cui a ciascuno sia chiesto: per raccontare quale stupore sei venuto al mondo? A scuola possiamo dare il buon esempio raccontando l’incanto che ci ha portato a voler raccontare ad altri la gioia della chimica, della filosofia, della cucina, dell’arte, dell’elettronica, della biologia, della meccanica, della matematica e tutte quelle che possiamo definire «materie della meraviglia», «sostanza del mondo» e non sostanze senza mondo, dipendenze senza gioia. Così avremo un primo appello di «incanti», ogni nome associato al pezzetto di mondo verso cui sente attrazione e quindi attenzione. Conoscere come e quando un ragazzo (e in generale una persona) sente di appartenere alla vita e che la vita gli appartiene è ascoltare una profezia sul suo destino. Per questo amo il titolo che l’astrofisica canadese Rebecca Elson ha usato per il suo libro di poesie «A Responsibilty to Awe», responsabilità dell’incanto, perché quando veniamo toccati da qualcosa stiamo già rispondendo (da cui responsabilità) a una chiamata della vita che vuole cura da noi, alla maniera che ci è più congeniale. Chi non prova incanto non può provare amore verso sé stesso e verso la vita, perché non sa cosa ama e non sa cosa lo chiama. Per questo bisogna raccontare ai figli e agli studenti dove l’incanto ci ha afferrati, perché loro cercano in noi prima che una lezione una elezione: scelta, vocazione, destino, responsabilità. Perché avremmo mai dedicato tempo e sforzi a qualcosa purché diventasse la nostra strada? Per questo un primo appello ben fatto chiede ai ragazzi dove l’incanto li abbia già afferrati, perché dal «senso della meraviglia» nasce il loro personalissimo «sentimento della vita»: l’amore per il mondo, per gli altri e per se stessi, unica reale difesa dalle dipendenze. Un ragazzo «irresponsabile» è semplicemente un ragazzo che non è mai stato chiamato alla vita e dalla vita, e quindi non ha mai potuto rispondere. Per questo l’appello è il momento più importante dell’orario scolastico: tu, proprio tu, per quale pezzetto di mondo sarai insostituibile? E quindi: per quale stupore sei qui? In fondo quando ci siamo innamorati di qualcuno, non è stato il suo modo unico di «stare» al mondo che ci ha sedotto? Alexandra Horowitz, docente di psicologia alla Columbia University, ha scritto un libro, On looking: eleven walks with expert eyes (Sul vedere: undici passeggiate con occhi esperti), in cui descrive il medesimo ripetuto e ignorato percorso, da casa alla scuola della figlia, in undici modi diversi, semplicemente perché lo percorre ogni volta insieme a una persona con una vocazione diversa, occhi diversi: un architetto, un biologo… un cane. Lo stesso tragitto di sempre diventa memorabile grazie ai modi unici, stupefatti e quindi stupefacenti, di percorrerlo, cioè di stare al mondo, di prendersene cura. Come diceva Chesterton non esistono argomenti poco interessanti, ma persone poco interessate. E allora mi viene da pensare a Van Gogh che abbracciò tardi la sua vocazione e imparò a dipingere da solo, e in dieci anni il suo sguardo rivoluzionò l’arte perché nessuno come lui sapeva stare davanti a girasoli, cipressi, volti, stelle… la stessa «materia» che tutti vedevano da secoli, ma senza il suo incanto. In una lettera del giugno 1888 chiedeva al fratello Theo i soldi per comprare tele e colori: «Non è forse la sincerità della natura a guidarci? E queste emozioni sono talvolta così forti che si lavora – senza accorgersi che si sta lavorando – e talvolta le pennellate vengono in successione e con rapporti tra loro come le parole in un discorso o in una lettera. Ecco perché chiedo sfacciatamente tela e colori. Solo così sento la vita, quando lavoro a pieno ritmo» (giugno 1888). Lo stupore di un solo uomo, divenuto vocazione e opere, continua a risvegliare milioni di addormentati o di ciechi (per questo a scuola facciamo studiare Van Gogh). E allora facciamolo bene questo primo appello. Nome per nome, stupore per stupore, destino per destino, vocazione per vocazione. Chiedere «per raccontare quale stupore sei venuto al mondo?» a un adolescente è un dovere per noi, come diciamo che lo è la scuola per lui.”

Gemma n° 2540

“È da tutto l’anno che mi dico «questa è l’ultima gemma che posso presentare, devo trovare qualcosa degno di nota!» e poi non sono mai soddisfatta di quello che scelgo. È una mia cosa tipica, dare tutto per scontato, trovare tutto banale. Ma proprio queste cose, a cui spesso non attribuisco il giusto valore, sono quelle che mi porto nel cuore. Oggi voglio essere grata per tutto ciò che ho e che mi rende felice.
– Amici e famiglia: credo che queste siano le cose che più sottovaluto, anche perché ci ho a che fare spesso e diventano quasi una “routine”. Ma il fatto che siano diventate parte integrante della mia giornata è un privilegio che solo in pochi hanno. Sono circondata da persone meravigliose che mi aiutano nel momento del bisogno, che mi strappano un sorriso quando sono triste e che, con il loro entusiasmo, mi fanno scoprire sempre cose nuove.
– Musica: sono circondata dalla musica da quando ho memoria. Sono grata ai miei genitori per avermi permesso di seguire il mio sogno di suonare il violino. Nonostante ora non lo suoni più, è stato un compagno di vita con cui ho potuto esprimere sensazioni ed emozioni che a parole non sarei mai stata in grado di comunicare. E questo vale per tutto ciò che riguarda la musica, come ad esempio i concerti che offrono una versione diversa e unica che solo un live può trasmettere (non per niente dico spesso che i concerti sono una forma alternativa di terapia).
– Tatuaggi: ho due tatuaggi (per ora) e raccontano due storie legate ai punti precedenti. Sul braccio sinistro ho il titolo di una canzone dei Pinguini Tattici Nucleari, una canzone che mi ha parlato dal primo ascolto (e che mi ha fatto piangere un fiume di lacrime in live). Nell’altro braccio ho due fiori che simboleggiano me e mia sorella.
– Arte: come la musica, l’arte ha sempre fatto parte di me. Ho deciso di portare “sulla soglia dell’eternità” di Van Gogh visto ad una mostra a Trieste. Non so cosa sia successo in me ma, appena l’ho visto, è come se fossi stata completamente alienata dai miei pensieri e catturata nel quadro, come fossimo solo io e lui (inutile dire che, anche qui, ho pianto fiumi). Trovo meraviglioso il modo in cui le opere d’arte mi possano parlare in maniera così chiara e forte e come sappiano colpire la mia sensibilità.
Per concludere, spero in futuro di dare meno per scontate tutte queste cose e di apprezzare tutto ciò che c’è di meraviglioso nella mia vita. Spero di non perdere mai l’entusiasmo nel vedere un tramonto o nel sentire una canzone per la prima volta, quell’entusiasmo della me bambina che vedeva tutto con occhio nuovo.
(F. classe quinta).

Gemma n° 1856

“Ho portato questo mio album di disegni che ho utilizzato principalmente tra settembre e dicembre del 2020, un periodo non proprio bellissimo per me. Allora disegnavo tantissimo: non sono collegati a nulla questi disegni, avevo solo voglia di farli e vi sono molto affezionata”.
Mi piace Van Gogh, mi piace anche leggere Van Gogh: “Cos’è disegnare? Come ci si arriva? È l’atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile che sembra trovarsi tra ciò che si sente e che si può”. Chissà se è la stessa cosa che ha fatto M. (classe prima)?

Gemme n° 262

Penna

Questa è la penna stilografica portatami da un’amica da Amsterdam. È quella di Van Gogh, segno di una passione comune, quella per l’arte e per l’artista in particolare. Ha anche mostrato di conoscermi molto bene: forse non tutti sapete che scrivo poesie e mi piace farlo con la stilo. E’ stato un regalo di forte impatto emotivo per me”. Questa la gemma di M. (classe quinta).
Chissà se M. mi maledice se le cito Petrarca: “Non v’ha cosa che pesi men della penna, né che più di quella diletti: gli altri piaceri svaniscono, e dilettando fan male; la penna stretta fra le dita dà piacere, posata dà compiacenza, e torna utile non a quegli soltanto che di lei si valse, ma ad altri ancora e spesso a molti che son lontani, e talvolta anche a quelli che nasceranno dopo mille anni.” (Epistole, 1325/74)