“Ho deciso di portare una canzone che mi ha accompagnata per tutta la vita.
Mi sono resa conto che nella mia vita uno dei motivi per andare avanti è il sognare. Mi fermo spesso a fantasticare sul futuro. Nonostante non abbia sempre avuto l’appoggio di alcune persone a me care, questa canzone mi incoraggia perché parla di sogni e di come non sempre si abbia il supporto di tutti. La canzone è Sogna ragazzo sogna di Roberto Vecchioni” (M. classe quinta).
Gemma n° 1837
Premessa: questa gemma era prevista per metà novembre, poi è slittata fino a gennaio.
“L’anno scorso quando il prof ci aveva presentato il progetto pensavo di portare una foto oppure qualche canzone. Quando invece ce lo ha riproposto quest’anno, il primo pensiero che ho avuto è stato uno dei miei tatuaggi, ovvero quello con il significato più profondo.
L’ho dedicato a quella persona che mi ha insegnato che la famiglia non per forza deve essere legata dal sangue, ovvero mio papà, che essendoci stato da quando avevo tre anni e non essendo mio papà dalla nascita mi ha ugualmente amata come sua figlia.
Tra una settimana esatta sarà un anno che non è più qui e quindi ho pensato che fosse la gemma più giusta da portare.
Ora, non ho intenzione di fare discorsi commoventi o cose così ma voglio darvi un consiglio, che poi potete ovviamente scegliere se seguire o meno, però prima per farvi capire bene vi dirò una cosa.
Quando mi sono ritrovata a fare il tatuaggio mi sono interrogata per diverso tempo sul posto in cui farlo. Alla fine ho scelto la parte dietro del collo per un motivo preciso.
Ho passato l’anno scorso molto sui libri ed ero particolarmente nervosa per diverse cose, e spesso mio papà veniva in camera mia e mi trovava sempre china sulla scrivania e senza dire niente cominciava a massaggiarmi esattamente quel punto. Era così bravo che riusciva a smollarmi tutti i nervi e a farmi sentire un po’ meglio. Fatto sta che il 19 Novembre 2020, la notte prima di ciò che è successo, lui era venuto in camera mia, mi aveva trovata china sui libri e mi aveva fatto il solito massaggio, io quel giorno ero particolarmente nervosa. Prima di uscire dalla mia camera mi ricordo che mi ha detto “C. c’è Harry Potter in tv non lo vediamo?” e io gli ho risposto che dovevo studiare.
Vi lascio immaginare il pentimento della mattina successiva per aver declinato quella proposta.
Con questo discorso mi sento di darvi questo consiglio: vivete.
Vivete al massimo, vivete come volete, date opportunità agli altri e a voi stessi perché tutto è nato per finire e non si sa quando, quindi cogliete ogni piccola cosa che la vita vi offre, o vivrete con rancori addosso che non andranno più via.
Giocate a quella partita a carte con vostro nonno, andate a fare una passeggiata con vostra nonna, prendete quel gelato con i vostri fratelli, uscite con i vostri amici, nulla è eterno. Nella vita non c’è solo il dovere, perché è meglio vivere oggi piuttosto che andare a dormire la notte e passare ore a rimpiangere momenti che non torneranno più e ritrovarvi sommersi in ricordi che con il tempo sono destinati a svanire.
E ricordate che la vita è il 10% di cosa vi capita e il 90% di come reagite”.
Quando presento il lavoro sulle gemme, spiego che la scelta di cosa portare è molto libera, così come il livello di coinvolgimento personale. Vi sono gemme che trattano temi “neutri” o generali e altre che sono decisamente più personali e che magari sono un cazzotto nello stomaco. Come questa. C’erano non pochi occhi rossi alla fine delle parole di C. (classe terza). Il mio pensiero è subito andato ad una canzone di Roberto Vecchioni che faccio ascoltare in quarta, quando parliamo della morte. “Viola d’inverno” inizia con l’arrivo improvviso della fine della vita, proprio sulla sua capacità di coglierci, talvolta, in modo inaspettato: “Arriverà che fumo o che do l’acqua ai fiori o che ti ho appena detto: “Scendo, porto il cane fuori”, che avrò una mezza fetta di torta in bocca o la saliva di un bacio appena dato. Arriverà, lo farà così in fretta che non sarò neanche emozionato. Arriverà che dormo o sogno, o piscio o mentre sto guidando, la sentirò benissimo suonare mentre sbando e non potrò confonderla con niente perché ha un suono maledettamente eterno, e poi si sente quella volta sola la viola d’inverno”. E, continua Vecchioni, anche se la aspetti un po’, in fondo non sei mai pronto: “Bello è che non sei mai preparato, che tanto capita sempre agli altri. Vivere, in fondo, è così scontato, che non t’immagini mai che basti. E resta indietro sempre un discorso, e resta indietro sempre un rimorso”. A questo punto la morte crea una separazione, un’incomunicabilità: “E non potrò parlarti, strizzarti l’occhio, non potrò farti segni: tutto questo è vietato da inscrutabili disegni, e tu ti chiederai che cosa vuole dire tutto quell’improvviso starti intorno perché tu non potrai, non la potrai sentire la mia viola d’inverno”. Subentrano lo sconforto e la disperazione, ai quali Vecchioni concede tutto lo spazio necessario con l’esclusione di una piccola luce che sarà quella in grado di dare un senso al passato, al presente e al futuro: “E allora penserò che niente ha avuto senso, a parte questo averti amata, amata in così poco tempo, e che il mondo non vale un tuo sorriso e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno, e che si tenga il resto, me compreso, la viola d’inverno”. Conclude il brano un passaggio sulla solitudine condivisa che accompagna chi se ne va: “E dopo aver diviso tutto, la rabbia, i figli, lo schifo e il volo, questa è davvero l’unica cosa che devo proprio fare da solo. E dopo aver diviso tutto, neanche ti avverto che vado via, ma non mi dire pure stavolta che faccio sempre di testa mia, tienila stretta, la testa mia”.
Ecco, C., comprendo il rammarico per quell’invito respinto, ma nelle parole che hai detto poi in classe hai fatto rivivere tuo padre, il tuo amore per lui, hai dato senso pieno alla vostra relazione: “il mondo non vale un tuo sorriso e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno”.
La stazione di Zima
https://www.youtube.com/watch?v=vo8GMcz5jbk
LA STAZIONE DI ZIMA (Roberto Vecchioni, El bandolero stanco)
C’è un solo vaso di gerani dove si ferma il treno,
e un unico lampione che si spegne se lo guardi,
e il più delle volte non c’è ad aspettarti nessuno,
perché è sempre troppo presto o troppo tardi.
– Non scendere – mi dici – continua con me questo viaggio –
e così sono lieto di apprendere che hai fatto il cielo
e milioni di stelle inutili come un messaggio,
per dimostrami che esisti, che ci sei davvero:
ma vedi, il problema non è che tu ci sia o non ci sia
il problema è la mia vita quando non sarà più la mia,
confuso in un abbraccio senza fine,
perso nella luce tua, sublime,
per ringraziarti non so di cosa e perché;
lasciami questo sogno disperato di esser uomo,
lasciami questo orgoglio smisurato di esser solo un uomo;
perdonami, Signore, ma io scendo qua, alla stazione di Zima.
Alla stazione di Zima qualche volta c’è il sole
e allora usciamo tutti a guardarlo e a tutti viene in mente
che cantiamo la stessa canzone con altre parole,
e che ci facciamo male perché non ci capiamo niente.
E il tempo non s’innamora due volte di uno stesso uomo
abbiamo la consistenza lieve delle foglie
ma ci teniamo la notte, per mano, stretti fino all’abbandono
per non morire da soli quando il vento ci coglie.
Perché vedi l’importante non è che tu ci sia o non ci sia,
l’importante è la mia vita finché sarà la mia
con te, Signore, è tutto così grande,
così spaventosamente grande che non è mio, non fa per me
Guardami io so amare soltanto come un uomo,
guardami a mala pena ti sento e tu sai dove sono
ti aspetto qui, Signore, quando ti va, alla stazione di Zima.
Quando tornavo da Trieste in treno, diretto a Palmanova, capitava sempre di fare una breve sosta alla stazione di Strassoldo, quella vicina al nuovo scalo ferroviario, praticamente dentro al nuovo scalo. E mi chiedevo sempre il senso visto che nessuno scendeva e nessuno saliva. Bene, ora posso ringraziare quella breve pausa per avere anche io, nei miei ricordi, un luogo simile alla stazione di Zima. Vecchioni descrive una stazione solitaria e piuttosto desolata e immagina di scendere dal treno che fin lì lo ha portato, un treno che non è mai puntuale, capace perfino di arrivare in anticipo, o magari in ritardo, in ogni caso mai secondo l’orario previsto, mai secondo quanto previsto dai programmi ufficiali. Una voce nel silenzio blocca il viaggiatore arrivato a destinazione: “Non scendere, continua con me questo viaggio”. Non ci sono misteri sulla persona da cui proviene l’invito, Vecchioni ci conduce senza preamboli nel vivo del discorso tra lui e Dio. E’ un Dio che non dice di iniziare il viaggio con lui, non si comporta da capotreno o da macchinista, non invita a cambiare binario o a cambiare treno, prendendone magari uno ad alta velocità, ma chiede semplicemente di continuare qualcosa che è già iniziato: mi fa venire in mente il “si avvicinò e camminava con loro” (Lc 24, 15) di Emmaus. In fin dei conti Dio non fa altro che chiedere all’uomo di rimanere con lui, visto che gli ha dato il cielo e le stelle per raccontargli la propria esistenza. Per tutta risposta si sente dire che il vero problema non è la questione della sua esistenza o insesistenza: ciò non fa problema, la sua esistenza non è messa in discussione. Solo che l’uomo vuole starsene da solo, vuole scendere dal treno: troppo grande e forte è quell’“abbraccio senza fine”, troppo abbagliante è quella luce “sublime”. E giù, a terra, sulla pensilina, ci sono altre persone, tutte intente a vivere la medesima esistenza con modi diversi, a guardare il sole senza capirci niente: e fa male. Gli uomini sono leggeri, inconsistenti e fragili come foglie in attesa che il vento le colga (canta Pacifico: “E sembri una foglia una vela leggera, una barca minuscola in questa bufera”) e cercano di stare vicini in modo da essere portati via insieme e non morire soli.
Vecchioni ci spiega cosa significhi restare a terra, cosa implichi non salire sul treno, ce lo descrive: “amare soltanto come un uomo”. Non è pronto per accogliere l’invito “con te, Signore, è tutto così grande, così spaventosamente grande che non è mio, non fa per me”. Non riesco a non pensare a Mt 19, 21-22 “Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!” Udita questa parola, il giovane se ne andò triste; possedeva infatti molte ricchezze”.
Le rose blu
https://www.youtube.com/watch?v=0oMJ23Z9H8c
LE ROSE BLU (Roberto Vecchioni, Di rabbia e di stelle)
Vedi, darti la vita in cambio sarebbe troppo facile,
tanto la vita è tua e quando ti gira la puoi riprendere;
io, posso darti chi sono, sono stato o chi sarò,
per quello che sai, e quello che io so.
Io ti darò tutto quello che ho sognato, tutto quello che ho cantato,
tutto quello che ho perduto, tutto quello che ho vissuto,
tutto quello che vivrò,
e ti darò ogni alba, ogni tramonto, il suo viso in quel momento
il silenzio della sera e mio padre che tornava io ti darò.
Io ti darò il mio primo giorno a scuola, l’aquilone che volava
il suo bacio che iniziava, il suo bacio che moriva io ti darò,
e ancora sai, le vigilie di Natale quando bigi e ti va male,
le risate degli amici, gli anni, quelli più felici io ti darò.
Io ti darò tutti i giorni che ho alzato i pugni al cielo
e ti ho pregato, Signore, bestemmiandoti perché non ti vedevo,
e ti darò la dolcezza infinita di mia madre,
di mia madre finita al volo nel silenzio di un passero che cade,
e ti darò la gioia delle notti passate con il cuore in gola,
quando riuscivo finalmente a far ridere e piangere una parola…
Vedi, darti solo la vita sarebbe troppo facile
perché la vita è niente senza quello che hai da vivere;
e allora, fa che non l’abbia vissuta neanche un po’,
per quello che tu sai, e quello che io so.
Fa che io sia un vigliacco e un assassino, un anonimo cretino,
una pianta, un verme, un fiato dentro un flauto che è sfiatato
e così sarò, così sarò,
non avrò mai visto il mare non avrò fatto l’amore,
scritto niente sui miei fogli, visto nascere i miei figli che non avrò.
Dimenticherò quante volte ho creduto e ho amato, sai,
come se non avessi amato mai,
mi perderò in una notte d’estate che non ci sono più stelle,
in una notte di pioggia sottile che non potrà bagnare la mia pelle,
e non saprò sentire la bellezza che ti mette nel cuore la poesia
perché questa vita adesso, quella vita non è più la mia.
Ma tu dammi in cambio le sue rose blu
fagliele rifiorire le sue rose blu
Tu ridagli indietro le sue rose blu.
Sono tre i personaggi di questo brano: chi parla, Dio e un lui che compare solo negli ultimi tre versi della canzone. E’ una preghiera, una richiesta che Vecchioni pone a Dio, un’offerta. Dare la vita non sarebbe difficile, non sarebbe neppure un regalo visto che è stato Dio a darla all’uomo (“tanto la vita è tua e quando ti gira la puoi riprendere”). Quello che il cantante vuol dare a Dio è la sua esistenza, è quello che lui ha vissuto e che vivrà, le sue esperienze, i suoi sogni, le sue canzoni, i suoi ricordi del padre e della madre, i suoi amori, i suoi rapporti, i suoi affetti, i suoi dolori, i giorni della ribellione… Senza queste cose la vita sarebbe nulla a pertanto sarebbe anche facile darla a Dio. Senza queste cose l’uomo si svuoterebbe di senso, il “fiato dentro a un flauto sfiatato”. Allora l’offerta è davvero grande, importante, preziosa, l’unica offerta che un uomo può fare per cercare di ottenere qualcosa di importante da Dio, addirittura qualcosa che non si potrebbe neppure ottenere (le rose blu in natura non esistono…).
Spiega Vecchioni: “Adesso farò una cosa che non è nemmeno una canzone… è molto di più… ed è una cosa nata in un momento di grande sofferenza nella vita di uno dei miei figli. Non credo che esista al mondo un dolore più grande di vedere soffrire una persona che si ama, soprattutto se è un figlio. Te ne stai lì, ti chiudi, il sangue che scorre, i nervi si accavallano, i muscoli fermi. E allora mandi una preghiera che sembra una bestemmia, o una bestemmia che sembra una preghiera, all’unica cosa che pensi che ti possa ascoltare, che poi si chiama Dio… E devi dare a Dio tantissimo per avere in cambio qualcosa per tuo figlio, non gli puoi dare in cambio solo la vita, è troppo facile… e allora gli dai in cambio tutto quello che hai vissuto, che è differente, come se non avessi mai amato, mai sognato, mai cantato, mai visto una donna, mai visto un bambino, mai visto la Primavera, mai visto il mare, come se non fossi mai nato oppure fossi nato ma come un lombrico, un verme, una schifezza di essere. E gli chiedi in cambio, per questo dare via tutto, quell’altra cosa. Perché arriva un momento che non te ne frega niente della bellezza della poesia, dei sogni e di tutte le piccole cose importanti che hanno fatto la tua esistenza”.
Ma che razza di Dio c’è nel cielo?
https://www.youtube.com/watch?v=UP6adoolWys
MA CHE RAZZA DI DIO C’E’ NEL CIELO (Roberto Vecchioni, Il lanciatore di coltelli)
L’infinito silenzio sopra un campo di battaglia quando il vento ha la pietà di accarezzare;
l’inspiegabile curva della moto di un figlio che a vent’anni te lo devi scordare…
Sentire d’essere noi le sole stelle sbagliate in questa immensa perfezione serale;
e non capirci più niente nel viavai di messia discesi in terra per semplificare.
Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ma che razza di Dio c’è nel cielo?
Ma che razza di guitto mascherato da Signore sta giocando col nostro dolore?
Ma che razza di disperato, disperato amore, lo potrà mai consolare?
Aprire gli occhi e morire in un fruscio di farfalla neanche il tempo di una ninna nanna;
l’idiozia della luna, la follia di sognare, la sterminata noia che prova il mare;
e a questa assurda preghiera di parole, musica, colori, che Gli continuiamo a mandare,
non c’è nessuna risposta, salvo che è colpa nostra e che ci dovevamo pensare.
Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ma che razza di Dio c’è nel cielo?
Ma che razza di disperato, disperato amore, può tagliare la notte e il dolore?
Ma che razza di disperato, disperato amore più di questo respirare, più di tutto lo strisciare? più di questo insensato dolore?
Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ma che razza di buio c’è nel cielo?
Ma che razza di disperato, disperato amore più di questo insensato dolore?
Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ma che razza di buio c’è nel cielo?
Ma che razza di disperato, disperato amore più di questo non capire, non sapere sbagliare e lasciarsi perdonare? Ma chi è l’altro Dio che ho nel cuore?
Ma che razza d’altro Dio c’è nel mio cuore, che lo sento quando viene, che lo aspetto non so come che non mi lascia mai, non mi perde mai e non lo perdo mai.
La canzone si apre con due brevi istantanee: la prima è un campo di battaglia ormai silenzioso dopo i duri scontri di cui è stato palcoscenico; finalmente un vento carico di pietà lo sta accarezzando quasi a consolarlo dell’assurdità dei gesti umani che l’hanno violentato.
La seconda è quella della morte dovuta a un incidente stradale in cui viene coinvolto non solo un giovane, ma un figlio: il dolore più grande che possa provare un genitore.
La conseguenza di queste due fotografie è una percezione: il ritrovarsi davanti a una serata perfetta, magari di quelle primaverili né troppo calde, né troppo fresche, terse in cui si colgono i profumi della natura e i suoni, eppure sentirsi del tutto fuori posto, sentirsi stelle sbagliate che non hanno nulla a che fare con quella perfezione e che, anzi, la possono rovinare. E tutti coloro che cercano di spiegare, di razionalizzare, di dare un senso, di rendere le cose comprensibili e magari semplici sono solo dei falsi messia, dei moderni santoni che generano unicamente maggiore confusione.
Si apre la domanda: che tipo di Dio c’è in cielo? quale Dio permette tutto questo? è un attore comico e gigione che si prende gioco della sofferenza dell’uomo? è un clown disperato che non potrà essere consolato da alcun amore? anche Dio ha bisogno di essere consolato?
Una terza istantanea: un’altra sofferenza difficile da digerire, quella generata dalla morte di un bimbo vissuto per breve tempo, neanche l’occasione di qualche ninna nanna, come una farfalla la cui vita difficilmente supera il mese.
Anche la natura non è di alcuna consolazione: la luna è idiota e il mare è annoiato. Lasciare andare i pensieri verso la speranza, sognare è poi follia. Eppure l’uomo ci prova a instaurare un dialogo con Dio, a pregare, a inviare parole, musica e colori, ma si tratta di un monologo perché nessuna risposta arriva se non un senso di colpevolezza e un grande rimorso per quanto è stato e non è più.
E le domande ora si fanno ancora più incalzanti e numerose e vertono, ancor più delle precedenti, sull’amore: solo l’amore può essere la via d’uscita, la possibilità di speranza, un amore che deve riuscire a superare la notte, il buio del dolore, il respirare a fatica, lo strisciare di chi è caduto, il nonsenso, il non capire; difficile è anche comprendere come lasciarsi investire dall’amore per accettare la possibilità di sbagliare e di lasciarsi perdonare dagli altri (non il semplice essere perdonati!).
Eppure nel cuore del cantante c’è spazio per un altro Dio, decisamente diverso dal precedente: un Dio la cui presenza si sente, si avverte, si coglie, un Dio che è atteso e che non lascia mai l’uomo da solo, che non lo perde mai di vista e che si fa trovare, che non si nasconde all’uomo. E’ un Dio-con.
Gemme n° 123
“Avevo pensato anche a spezzoni di altri film sullo stesso tema (Philadelphia, I segreti di Brokeback Mountain) ma ho preferito questo filmato tratto dalla serie tv Glee. La loro storia mi è molto piaciuta; penso che l’omosessualità sia ancora avversata tra i teenagers, sia a scuola che fuori. Penso che per le ragazze sia ancora una terra da scoprire, per i maschi sia occasione di imbarazzo. Ho scelto questo video perché mi ci identifico”. E’ stata questa la presentazione della gemma da parte di M. (classe seconda).
L’album di Roberto Vecchioni che amo di più e che ho ascoltato il maggior numero di volte è senza dubbio “Il cielo capovolto”. Sul sito del professore si può leggere: “Punto di partenza è l’universo dove per metafora gli uomini sono il mare, inquieti, burrascosi, sempre a combattere per qualcosa, e le donne il cielo, serene, sicure e rassicuranti, dolcissime.” Una delle canzoni che più mi hanno colpito è quella che porta lo stesso titolo dell’album con l’aggiunta, tra parentesi “Ultimo canto di Saffo”. Il brano, infatti, canta l’addio di Saffo ad Anattoria, destinata a sposare un uomo.
Che ne sarà di me e di te, che ne sarà di noi?
L’orlo del tuo vestito, un’unghia di un tuo dito, l’ora che te ne vai…
che ne sarà domani, dopodomani e poi per sempre?
Mi tremerà la mano passandola sul seno, cifra degli anni miei…
A chi darai la bocca, il fiato, le piccole ferite,
gli occhi che fanno festa, la musica che resta e che non canterai?
E dove guarderò la notte, seppellita nel mare?
Mi sentirò morire dovendo immaginare con chi sei…
Gli uomini son come il mare: l’azzurro capovolto che riflette il cielo;
sognano di navigare, ma non è vero.
Scrivimi da un altro amore, e per le lacrime che avrai negli occhi chiusi,
guardami: ti lascio un fiore d’immaginari sorrisi.
Che ne sarà di me e di te, che ne sarà di noi?
Vorrei essere l’ombra, l’ombra che ti guarda e si addormenta in te;
da piccola ho sognato un uomo che mi portava via,
e in quest’isola stretta lo sognai così in fretta che era passato già!
Avrei voluto avere grandi mani, mani da soldato:
stringerti forte da sfiorare la morte e poi tornare qui;
avrei voluto far l’amore come farebbe un uomo,
ma con la tenerezza, l’incerta timidezza che abbiamo solo noi…
gli uomini, continua attesa, e disperata rabbia di copiare il cielo;
rompere qualunque cosa, se non è loro!
Scrivimi da un altro amore: le tue parole sembreranno nella sera
come l’ultimo bacio dalla tua bocca leggera.
Vissi d’arte
Questa ci sarebbe stata bene in una quinta stamattina.
VISSI D’ARTE (Roberto Vecchioni, da In Cantus)
Vissi d’arte, vissi d’amore,
non feci mai male ad anima viva!
Con man furtiva
quante miserie conobbi, aiutai.
Sempre con fe’ sincera,
la mia preghiera
ai santi tabernacoli salì.
Sempre con fe’ sincera
diedi fiori agli altar.
Nell’ora del dolore
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?
Diedi gioielli
della Madonna al manto,
e diedi il canto
agli astri, al ciel, che ne ridean più belli.
Nell’ora del dolore,
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?
Quando le cose non vanno come noi vorremmo o non vanno bene proprio, vien spesso da chiedersi perché. A volte ci si ferma lì, alla domanda e non si cerca neppure la risposta. Altre volte si tira in ballo il caso, il destino, la sfiga. Altre volte ancora la nostra domanda scavalca l’umano e desidera interrogare il divino. Ci aveva provato anche Ligabue con una domanda banale (chi prende l’Inter?) e due esistenziali (dove mi porti? soprattutto perché?). Ma il perché l’uomo se lo pone fin dall’inizio dei tempi e allora vado all’indietro anche con la musica…
Siamo nel 1800 e la famosa cantante Floria Tosca viene ricattata dal barone Scarpia, capo delle guardie del papa: se ella non gli si concederà, il fidanzato di lei, il pittore Mario Cavarodossi, morirà. Tosca si rivolge allora a Dio, quasi a rimproverarlo, a ribellarsi: mi sono sempre comportata bene, non ho mai fatto male ad alcuno, ho aiutato chi era nella miseria e l’ho fatto in maniera discreta (Mt 6,3-4: “Invece mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”), ho sempre avuto una fede sincera e non ho mai fatto mancare né la mia preghiera né fiori sugli altari, col mio canto ho abbellito il creato, il cielo. Perché ora, nel momento del dolore e della prova, Dio mi ringrazia così? E’ questa la sua ricompensa? Estendendo il discorso: qual è la ricompensa che un uomo si attende? quali aspettative abbiamo sulla remunerazione? Il brano “Vissi d’arte” è stato recentemente ripreso da Roberto Vecchioni quale prima traccia del cd “In Cantus”.
Gemme n° 2
La gemma di oggi l’ha regalata B. (classe quarta). Per la verità ne ha regalate due, entrambe facenti riferimento a vecchi film. La prima, tuttavia, ha come punto di interesse una canzone: siamo nel film “Colazione da Tiffany” e Audrey Hepburn canta con in braccio la chitarra “Moon River”. “E’ una canzone che riesce a mettermi calma e serenità ogni volta che la ascolto”.
La seconda gemma è un’istantanea: le parole conclusive di Rossella O’Hara in “Via col vento”, il film preferito di B. La motivazione della scelta? “Ammiro la forza di questa donna, disposta a fare mille sacrifici, e che non perde mai la speranza come confermano le sue parole finali «Dopotutto, domani è un altro giorno»”.
Accompagno questa gemma con una canzone di Roberto Vecchioni, un suo inno alle donne: “Le mie donne”. Fa parte dell’album “Io non appartengo più”, uscito un anno fa e ha delle cadenze folk irlandesi. Consiglio di ascoltare bene tutto il testo, ma segnalo alcune delle parole che più mi piacciono: “La mia donna ha combattuto con le nuvole dietro l’orizzonte della verità, senza un tonfo di speranza e con i brividi di portare in seno quello che sarà; dalle donne stanche di arare in una terra fradicia di sole, dalle donne in un ospedale con le mani piene di dolore, dalle ragazze dentro un urlo lungo le strade a pugni chiusi, da una storia senza fine da un universo di soprusi. Dove lanciano aquiloni dietro i fulmini, per vedere quanti sogni vengon giù, e ci insegnano il mestiere d’esser uomini, cosa che non ricordiamo quasi più”.
3+1 Giuda
Tre canzoni, tre Giuda. E Massimo Troisi. Senza Lady Gaga.
