Gemma n° 2823

Immagine creata con Poe®

“Io ho deciso di portare l’animazione, in particolare quella dei più piccoli. Io infatti faccio l’animatrice, sia al centro estivo che durante l’inverno. L’ho trovo un modo per stare a contatto con le persone, in particolare i bambini. Amo i bambini perché sono sinceri, non perdono tempo con persone che non sopportano e ti dicono tutto ciò che gli passa per la mente. Inoltre sono spensierati e con loro puoi fare discorsi che con gli adulti non faresti, come ad esempio “Qual è il tuo terzo colore preferito?”.
Questa attività mi ha insegnato l’importanza della fantasia, costretta a uscire dalla mia zona di comfort, a risolvere i piccoli litigi e a riscoprire la bellezza del gioco. Questa è la mia gemma perché mi ricorda di non smettere mai di guardare il mondo con meraviglia” (G. classe prima).

Gemma n° 2817

“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare un posto per me molto importante, ovvero l’Albania. Quando penso a quel luogo penso alla mia infanzia, alle estati calde e belle che ho passato con la mia famiglia. Purtroppo, però, quando ci penso, penso anche a quanto in fretta passino gli anni e a quanto lontani stiano diventando quei ricordi. É da ormai tanti anni che io non ci torno più e la nostalgia che provo diventa sempre più grande. Nonostante ciò, però, sono felice di aver passato bei momenti come quelli e sono felice che facciano parte di me. Spero davvero, un giorno, di poterci tornare e rivivere i ricordi che hanno segnato la mia vita. So che non sarebbe più come una volta, ma so che tornarci mi farebbe sentire felice e in pace” (G. classe terza).

Gemma n° 2813

“Come gemma di quest’anno scolastico ho deciso di portare due tra le cose più importanti che ho: Kika e M.
Kika e M., anche se una é un gatto e l’altra una bambina che sta per nascere, sono entrambe l’estensione della mia anima. Può sembrare strano ma io, Kika e M. abbiamo tutte lo stesso carattere, reagiamo alle cose nella stessa maniera e tutte, quando ci arrabbiamo, diventiamo esagitate e iperattive. Kika, da quando c’è M., si mette sempre arrotolata in mezzo alle mie gambe e appoggia la testa sulla pancia come se sapesse, e sono convinta sia così, che dentro di me c’é una bimba a cui lei vuole già bene. M. invece quando é agitata e sente le fusa di Kika si calma. Siamo 3 anime diverse, 3 femmine, 3 cuori in 3 forme diverse ma alla fine ci corrispondiamo a vicenda” (M. classe quinta).

Gemma n° 2812

“Cara E. del passato,
carissima versione passata di me.
Sei la mia gemma, l’unica persona che per me c’è sempre stata. Come stai?
Non c’è nemmeno bisogno che tu risponda: so già che sei felice.
E non parlo di te di cinque anni fa, ma di te di dieci anni fa o più, con quell’aria spensierata e quel sorriso genuino e infantile che regalavi a tutti.
Tu, che il mondo lo vedi come il più semplice dei giochi.
Tu, che parli senza pensare alle conseguenze.
Tu, che riesci a vedere oltre le etichette.
Tu, che trovi il bello in qualsiasi cosa fai.
Mi manchi. Dove sei finita?
Spero che tu possa sentire queste parole, perché provo esattamente tutto quello che sto scrivendo.
Sono successe così tante cose in questi anni che non puoi nemmeno immaginare…
Non ho ancora trovato la risposta a tutte le tue domande, ma ad alcune sì:
Sì, mamma e papà ci portano ancora in viaggio, sia me che Lucy.
No, le medie non sono assolutamente come nei film americani.
Sì, sei ancora in contatto con alcuni di loro.
No, non sei sola.
Si, hai ancora una vena creativa.
No, non sei un’incapace
E sì, la vita non va sempre come dovrebbe andare — e va bene così. Con il tempo riuscirai più o meno a capirlo.
Se devo essere sincera però adesso probabilmente non mi riconosceresti… anche se la frangia ce l’ho ancora: dopotutto siamo nate con la frangia.
Gioco ancora con la nostra cara Wii, e ogni tanto mi stupisco che funzioni ancora.
Amo ancora vedere le persone sorridere e farle sorridere.
Amo ancora ridere per le cavolate più assurde e insensate.
Amo riguardare un programma o un video svariate volte senza mai stancarmi.
Ho ancora paura dell’andare al piano di sopra o in cantina da sola.
Suono ancora il pianoforte, e sì, sei finalmente riuscita a farti regalare la chitarra dello zio.
Guardo ancora il cielo quando assume colorazioni particolari.
Racconto ancora storie e ne invento altrettante.
E purtroppo però, proprio come te, forse non mi sono ancora del tutto accettata.
La vita è dura, E., non posso negarlo.
E se penso a tutto quello che dovrai affrontare, mi si stringe il cuore.
Ma allo stesso tempo mi rassicura sapere che riuscirai a superarlo e ad arrivare dove Io oggi sono.
Non ho ancora raggiunto tutto ciò che vorrei, ma se guardo la te di cinque anni fa, mi sento già meglio… infatti ultimamente mi sono fatta l’idea che Sì… potremmo avere di più ma potremmo anche avere di meno.
Dunque il mio suggerimento è: Non smettere mai di sorridere.
Non avere paura: se deve succedere, fregatene…che succeda. Non cercare di combatterlo a tutti i costi.
Nonostante ciò lo ammetto: Se potessi tornare indietro, cancellerei tante cose… ma non voglio spaventarti: è solo un periodo.
Non preoccuparti dei voti a scuola.
Non preoccuparti di quei buffoni.
Non sei sbagliata.
Non sei ciò che vogliono farti credere.
Non devi chiedere scusa a nessuno per essere come sei.
Siamo così diverse, e allo stesso tempo incredibilmente simili.
Perché dico che siamo diverse?
Io dico le parolacce; tu invece ti copri le orecchie e ti offendi appena ne senti una.
A volte resto in silenzio; tu non fai altro che chiacchierare con tutti, senza barriere e senza paura del giudizio.
Ogni tanto sento la tua presenza, il tuo ritorno.
Lo percepisco chiaramente quando accade.
E, in effetti, se ci penso, è sbagliato dire che siamo diverse.
Entrambe ridiamo quando qualcuno ci guarda in modo insolito o comico.
Entrambe cantiamo parole di canzoni straniere in una lingua che sembra aliena.
Entrambe ci imbarazziamo quando qualcuno ci fa un complimento o ci dimostra affetto.
Entrambe cerchiamo di essere gentili, indipendentemente dalla persona che abbiamo davanti.
No, noi non siamo diverse.
Noi siamo la stessa persona.
E chissà se tu sei fiera di me… tanto quanto io lo sono di te”.
(E. classe quarta).

Gemma n° 2811

“Come prima gemma ho deciso di portare la frase di una canzone che a parer mio è una vera e propria poesia. La canzone è “Quel filo che ci unisce” di Ultimo ed è diventata la colonna sonora della mia vita.  Innanzitutto vorrei raccontarvi com’è nata: Ultimo l’ha scritta per una ragazza totalmente sconosciuta con cui ha passato un pomeriggio parlando e passeggiando per Trastevere. Lei poi è ritornata a Los Angeles dove viveva e lui, rimasto a Roma, dopo due settimane le ha inviato in una scatolina rossa una chiavetta USB e un testo di una canzone scritta a mano che era proprio “Quel filo che ci unisce”. Dopo 4 anni Ultimo e questa stessa ragazza hanno avuto un bambino.  Questa canzone fa parte di un album che per il cantante è molto importante cioè “Solo”. È stato pubblicato dopo due anni di pandemia in cui eravamo tutti isolati gli uni dagli altri e questo ha permesso a molti di mettersi a confronto con le proprie fragilità e insicurezze. Ecco, Quel filo che ci unisce è una speranza, uno spiraglio di luce in fondo ad un tunnel buio da cui, se sei da solo, fatichi ad uscire, ma se trovi la persona giusta tutto diventa luce.
Già questo, per me, è un motivo per cui questa canzone è magica. Inoltre, qualche anno fa, dopo aver vissuto un lutto familiare molto importante, le sue parole mi hanno accompagnata in quei giorni di sofferenza e dolore, diventando parte del mio cuore e della mia anima. La perdita che la mia famiglia ha vissuto è stata improvvisa, ingiusta e priva di una spiegazione… Tuttavia Niccolò ci ha insegnato ad andare oltre, a capire che, nonostante ciò che avevamo perduto, potevamo ancora contare su quel filo che ci unisce: un filo che va oltre gli oceani, oltre le montagne, oltre qualsiasi cielo. Qualcosa di ultraterreno, di magico. C’è una frase in particolare che dice: “tanto sai che tutto è un gioco e vince chi sorride”. Un giorno l’avevo scritta nelle mie note di Instagram perché, dopo aver letto un post della fidanzata di Ultimo in cui parlava di come sarebbe stata da mamma, avevo davvero compreso il significato profondo di questo verso.

La mattina seguente, a quella nota aveva risposto mia sorella M. chiedendomi se fosse tutto ok. Quello che le ho risposto io è arrivato direttamente dal mio cuore. Non ho usato parole dotte o significati complessi, semplicemente il mio pensiero.

Io e lei ci siamo promesse di tatuarci questa frase non appena avrò compiuto 18 anni nella parte sinistra del torace, vicino al cuore. Mia sorella ha vissuto tante battaglie, forse troppe per un’unica persona. È una donna esile ma ha una forza che potrebbe smuovere le montagne.  Non posso definirla una semplice amica.  Lei è la mia anima gemella: l’estensione della mia anima. La parte migliore di me. Un pezzo del mio cuore. La mia medicina. Il mio rifugio. La mia casa. Il mio Sole.  Non hanno ancora inventato le parole giuste per definire ciò che è lei per me.  O forse sono io ignorante, perciò faccio un passo indietro nel provare a descrivere il nostro legame perché qualsiasi cosa io possa dire non sarebbe mai abbastanza per Lei.
Quando ero piccola M. mi portava sempre in giro e faceva quello che la mamma e il papà non riuscivano a fare avendo tanti figli a cui badare. È stata la prima a portarmi nel luogo che è diventata la mia seconda casa cioè la palestra dove ballo; è stata la prima a farmi capire cosa significhi essere forti e superare le battaglie che la vita ci pone davanti, talvolta anche lasciandosi distruggere dal dolore perché è proprio da quel dolore che si può ricominciare.
Quando sarò vecchia racconterò di lei ai miei nipoti e non dirò “mia sorella”, ma il mio primo vero amore.
Forse alla fine questa mia gemma non è per la frase di Ultimo in sé, ma per la persona a cui penso quando la leggo: la mia anima gemella.
L’augurio che posso fare a ognuno è quello di trovare una persona come Lei.
Tutti meritano di essere amati come lo sono io da mia sorella.”
(A. classe quarta).

Gemma n° 2806

“La gemma che ho voluto portare quest’anno è la collana che indosso tutti i giorni. Quando ho lasciato casa l’anno scorso, mia madre mi ha dato questa collana, che era di mio nonno; purtroppo non sono mai riuscito a conoscerlo anche se mi sarebbe piaciuto tantissimo. Da quel momento in avanti la collana è diventata parte di me, è come se mio nonno e tutta la mia famiglia stessero sempre con me in qualunque momento difficile e bellissimo; anche se a 800km di distanza so che ci saranno sempre per me e spero che mio nonno mi protegga da lassù e sia fiero di me” (G. classe quarta).

Gemma n° 2804

Immagine creata con Gemini®

“Per questa gemma ho deciso di portare una persona che rappresenta per me un esempio costante di forza, dedizione e amore autentico: mia madre.
Ho deciso di portare questo tema perché credo che ciò che è “buono” nella vita non sia solo ciò che fa stare bene nell’immediato, ma ciò che costruisce, sostiene e ispira. E lei è tutto questo.
Mia madre è una presenza stabile, una di quelle persone che non hanno bisogno di grandi parole per trasmettere ciò che provano. Lo fa attraverso i gesti: la cura quotidiana, l’ascolto, i sacrifici silenziosi, la capacità di esserci anche quando nessuno glielo chiede.
È una persona pratica, ma allo stesso tempo capace di un’affettuosità discreta che fa sentire compresi e accolti.
Quello che ammiro di più in lei è la determinazione.
Nonostante le difficoltà che può incontrare, mantiene sempre un equilibrio che mi colpisce.
Mi ha insegnato ad avere pazienza, rispettare gli altri, riconoscere i propri errori e rialzarsi con dignità. Sono lezioni che non si trovano sui libri, ma che valgono molto di più.
La sua presenza ha modellato il mio modo di vedere il mondo: il rispetto per le persone, il valore dell’impegno, la capacità di dare senza aspettarsi nulla in cambio.
E quando penso a ciò che nella mia vita rappresenta davvero un bene, qualcosa che mi aiuta a crescere e a migliorare, penso al suo esempio.
Parlare di lei oggi è il mio modo per riconoscere tutto ciò che, spesso in silenzio, ha costruito intorno a me: una base solida, un senso di sicurezza e un affetto che non è fatto solo di emozioni, ma anche di responsabilità e di presenza quotidiana”.
(M. classe prima).

Gemma n° 2802

“Ho portato questo libro perché è uno dei pochissimi oggetti che mi sono rimasti dal periodo in cui vivevo in Brasile. Me l’hanno regalato i miei compagni di classe quando stavo per trasferirmi in Italia. Dentro ci sono tutte le loro firme e un biglietto che dice: “ti mandiamo Lineia perché non ti dimentichi di noi e nemmeno delle capuchinhas”.
Le capuchinhas sono dei fiori, e in Brasile questa frase è un modo affettuoso per dire: “ricordati non solo di noi, ma anche di tutto quello che faceva parte della tua vita là”.
Il libro in sé è un racconto per bambini, pensato per far conoscere l’arte di Monet attraverso gli occhi di due ragazzini, la sua casa, i suoi giardini, il suo mondo. In realtà non l’ho mai letto fino in fondo. Per me finirlo sarebbe come chiudere quel capitolo della mia vita.
Io ho cambiato spesso paese e ho dovuto lasciare quasi tutto indietro ogni volta. Questo libro invece mi ha seguito in tutti gli spostamenti.
Non lo guardo quasi mai, non è un oggetto a cui penso nella vita di tutti i giorni… ma forse proprio per questo significa così tanto: è uno di quegli oggetti che senza volerlo finisce per raccontare una parte di te, anche quando tu non ci pensi più.”
(A. classe quinta)

Gemma n° 2801

“Oggi  ho deciso di portare un libro che, a prima vista, potrebbe sembrare insolito. In realtà, dietro quella copertina semplice si nasconde una storia straordinariamente profonda e tenera, e non potevo non sceglierlo.
Me  lo ha regalato un’amica di mia nonna: si chiamava A. Quando penso a lei, mi torna alla mente il suo viso pulito, le guance paffute e rosate, e quello sguardo limpido e innocente di un’anziana che viveva ogni giorno con gratitudine, cercando di rendere più bella anche la vita degli altri. A. era esattamente così.
Mi ricorderò per sempre che, quando andavo a trovare mia nonna, incrociavo spesso gli occhi di A.: per strada mentre passeggiava con il suo cagnolino, oppure quando andava a dare da mangiare alle sue amate pecore. La sua casa era splendida, un po’ nascosta nel bosco, proprio come piace a me. Quando decidevo di andarla a trovare , provavo un piacere sincero nel sedermi su quella sua panchina e ammirare il panorama che da lì si apriva. Lei mi aspettava sempre con gioia.
Parlavamo di tantissime cose: mi raccontava una quantità infinita di aneddoti curiosi della sua vita, riuscendo ogni volta a coinvolgermi. È vero, a volte era stancante starle dietro, perché parlava così tanto che rischiavi di perderti qualche pezzo; ma in fondo adoravo quei momenti. Era come se mi prendesse per mano e mi portasse indietro nel tempo: quando ricordava suo marito, suo figlio, quando raccontava di quando da giovane insegnava ai bambini i nomi dei fiori e delle foglie…era stata un’insegnante d’asilo.
La cosa che amavo più di tutto, però, era sentirla parlare di libri: il suo argomento preferito. Qualsiasi discorso, prima o poi, finiva sempre lì. Ed era meraviglioso, mi perdevo sempre  nelle sue parole. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi ha portata a vedere lo studio di suo marito mancato da alcuni anni, ma sempre vivo nei suoi pensieri: due poltrone molto antiche, coperte da un velo di polvere e appoggiate al muro con incredibile delicatezza; e poi libri, ovunque. Ogni volta che la salutavo tornavo a casa con una pila di volumi che,ad annusarli, avevano quell’odore di antico, di vissuto, di memoria.
Così era lei: gentile con tutti, sempre pronta ad aiutare, sempre capace di farti sentire accolta.
Ho scelto di portare questo libro in suo onore, per mantenere vivo il suo ricordo nell’animo di tutti voi. È venuta a mancare pochi giorni fa, mercoledì 26 novembre, e da quel momento ho sentito un vuoto improvviso farsi largo nel mio cuore. Per me lei era come una seconda nonna, una compagna di vita, di avventure, un’amica sulla quale potevi contare in ogni situazione, una persona che sapeva ascoltarti, darti consigli preziosi e dimostrarti tutto l’affetto che poteva darti attraverso i suoi libri.
Questo libro parla di pedagogia e racconta il percorso che porta a diventare un buon insegnante: proprio il lavoro che sogno di fare. Lei lo sapeva e mi ha sempre sostenuta in questa scelta. Quando le raccontavo che aiutavo tutti a scuola, mi diceva sempre: «Che bella questa cosa, tesoro. Sono molto grata di aver fatto l’insegnante, e sono felice che anche tu voglia seguire questa strada».
Questo libro sarà sempre con me, con la speranza che il suo ricordo continui a vivere non solo dentro di me, ma anche in chi ascolterà questa storia. Perché le persone come A. non se ne vanno davvero: restano negli sguardi, nelle parole, nei gesti gentili che ci hanno insegnato.
E questo è il mio modo di dirle grazie: per le sue parole, per la sua gentilezza, per tutto ciò che, senza saperlo, mi ha lasciato dentro. Oggi lei è qui con me ❤️.”
(M. classe quarta).

Gemma n° 2799

“Come gemma di oggi vorrei parlare di mia nipote, M. Lei è nata il 12 aprile 2021 e da quando la conosco, la mia visione del mondo è cambiata. Io le sono stata sempre vicina e per me, lei è il mio mondo. Mi ha portato gioia anche nei momenti difficili. Le voglio molto bene, e per me, lei è la ragione per cui sorrido sempre e guardo avanti senza arrendermi. Io per lei sono la sua eroina, e lo stesso è lei per me” (B. classe prima).

Gemma n° 2798

“Quest’anno ho deciso di portare qualcosa che sento davvero mio: un duo musicale, gli Psicologi. Questa foto è di qualche mese fa, quando sono andata al loro concerto. Per me è stato un momento davvero speciale, perché finalmente ho potuto vederli dal vivo e ascoltarli davvero, non solo dalle cuffiette.
La cosa più bella è che, nonostante fossi in mezzo a tantissime persone, sembrava che ci fossimo solo io e loro. Era la stessa sensazione che provavo anni fa, quando li ascoltavo da sola in camera mia.
Non credo di essermi mai sentita così al sicuro: ero circondata da persone che, anche se per motivi diversi, provavano la mia stessa passione e lo stesso amore per ciò che stavamo ascoltando.
Il vero motivo per cui sono così importanti per me è perché sono gli unici artisti che ascolto ancora dalle medie, quindi da più di cinque anni. Per me non è una cosa da niente, perché in tutto questo tempo sono cambiata un sacco: ho cambiato gusti musicali, modo di vestire, di truccarmi, persino come porto i capelli… e soprattutto sono cambiata io. Eppure loro sono rimasti lì, e la loro musica continua a rappresentarmi, forse anche più di prima.
È un po’ come se fossero cresciuti con me. Sono quelli che ascolto quando ho bisogno di stare un po’ per conto mio o quando devo sfogarmi. E spero che continuerà a essere così ancora per molto” (B. classe quarta).

Gemma n° 2797

“È iniziato tutto 18 anni fa, quando sono nata. Alla mia nascita, mio padre, ha deciso di regalare questo anello a mia madre in segno di gratitudine, e poi venne consegnato a me il giorno del mio diciottesimo compleanno, il giorno in cui da ragazzi si diventa adulti, pieni di responsabilità e con il mondo che ci pesa sulle spalle.
“La mia vita, la tua vita” è il bigliettino che mi sono ritrovata vicino alla scatolina il giorno più importante della mia vita.
Prima di ricevere questo regalo ho passato dei mesi intensi, fatti di ansia, stress, studio e lavoro. Voglio ringraziare i miei genitori di come mi siano sempre rimasti accanto, davanti ad ogni difficoltà, continuando a supportarmi e incoraggiarmi per il futuro, per l’amore che mi donano ogni giorno.
So di non essere una persona semplice e con carattere molto forte ma nonostante questo sono grata per i miei genitori” (G. classe quinta).

Gemma n° 2793

“Come gemma di quest’anno ho deciso di portare la mia esperienza da animatrice. Sono già 2 estati che faccio l’animatrice nell’oratorio del mio paesino. Sono molto grata a questa esperienza perché mi ha fatto conoscere tante nuove persone, ma soprattutto mi ha fatto crescere molto come persona. I bambini, anche se non sembra, hanno molto da dare anche ai più grandi. I bambini mi hanno insegnato ad apprezzare le cose più semplici come un abbraccio la mattina o anche, banalmente un buongiorno” (A. classe terza).

Gemma n° 2790

“Quest’anno ho deciso di portare come gemma la casa al mare. Con il passare degli anni mi sono accorta che l’unico luogo che mi ha davvero visto crescere e cambiare è stata proprio lei: la casa al mare. È il posto dove passo tutte le mie estati da quando ero piccola. Ogni volta che arrivo lì mi sento subito a casa, come se il tempo non fosse mai passato. Le giornate sono sempre state piene di giochi insieme ai miei cugini: correvamo sulla sabbia, costruivamo castelli, inventavamo giochi e ridevamo per qualsiasi cosa. Le sere d’estate sono quelle che ricordo meglio. Ogni sera mangiavo un gelato mentre guardavo il mare. Era un momento tranquillo, in cui potevo pensare a tutto o anche a niente.  La casa al mare non è solo una casa: è il luogo che mi ha accompagnata nella crescita e che conserva i miei ricordi più belli. A 17 anni, rimane per me un posto speciale, dove mi sento sempre me stessa” (S. classe quarta).

Cara ansia ti scrivo

Immagine creata con Gemini®

Su Rocca ho trovato un curioso articolo di Rosella De Leonibus: si tratta di una lettera alla propria ansia e si apre con una citazione. “L’ansietà è un sottile rivolo di paura che si insinua nella mente. Se incoraggiata, scava un canale nel quale tutti gli altri pensieri vengono attirati” (Robert Albert Bloch). Ma ecco il testo.

“Ansia: travaglio d’animo, tormento, tribolazione (dal latino: anxietas, anxietudo).
La psicologia ti definisce come un senso di incertezza relativo al futuro, con sentimenti spiacevoli di timore, in genere vaghi e non proiettati su oggetti o eventi riconoscibili. Nel senso comune, ti si descrive come viva preoccupazione, attesa inquietante e angosciosa.
Bene, ora che so come ti definiscono, ho intenzione di scriverti una lettera. Non perché io ti voglia bene, per favore no, direi invece che, se devo dire la verità, ti odio, con tutto il mio cuore, sì, quel cuore che tu mandi in affanno quando meno me lo aspetto. Ti voglio scrivere perché voglio che tu mi stia a sentire, sì, proprio tu che mi blocchi la parola in gola quando ti pare, senza alcun riguardo per le pessime figure che mi fai fare…
E quindi, a noi due. Mi leggerai fino in fondo, lo pretendo, perché io ti sto a sentire anche in piena notte, quando mi svegli all’improvviso con un bagno di sudore, il fiato mozzo, gli occhi sbarrati nel buio.

C’E’ POSTA PER TE
Cara la mia ansia,
cara nel senso che mi costi davvero cara. Ecco, cominciamo con questo. Le occasioni mancate a causa tua, che ti infili in mezzo tra me e la persona che vorrei sedurre, ti metti tra i piedi quando sono in un posto nuovo e mi impedisci di godermi l’avventura per le paranoie che mi sventoli davanti al naso. Per non parlare degli esami e dei colloqui di lavoro in cui mi hai sabotato, svuotandomi il cervello davanti a domande banali per cui mi mordevo la lingua solo pochi minuti dopo, una volta fuori dalla stanza dell’incontro. Perché tu, vile e traditrice come sei, appena fuori da quella stanza sei balzata giù dal mio cervello e la lucidità di colpo è tornata. Quindi, cara mi costi e mi sei costata, il giorno in cui ti addebito tutti i fallimenti, le mancate azioni, le figuracce, ti mando in rovina.
“L’ansia in bancarotta… Costretta a risarcire i danni!”, quanto vorrei questi titoli su tutti i social…
Già, perché, tanto per non abbonarti alcun addebito, mi torturi anche lì, che dovrebbe essere il mio spazio di decompressione. Perché mi sento male se non vedo il “mi piace”, e vado in apprensione per i discorsi di odio che mi becco ogni volta che esprimo pubblicamente una posizione. E poi quella tremenda sensazione di essere tagliati fuori dai circuiti comunicativi, Fomo, la chiamano, fear of missing out, e io soltanto so com’è collegata al mio grande assente, il sentimento di autostima, e alla paura ancestrale di dover subire un’esclusione…
Quindi, odiata ansia, farò di tutto per cancellarti dalla mia vita. Se fossi un partner, ti avrei già mandato al tuo paese, ma tu saresti ritornata mille volte, più possessiva e invadente che mai a grattare alla mia porta, a infilarti nelle fessure delle imposte, a sgusciare furtiva dentro l’uscio quando esco, così nel frattempo ti saresti impossessata della casa e non avrei avuto pace neppure al mio ritorno.
Che vuoi da me? Tu sei muta, ma io lo posso dedurre facilmente dai risultati che ottieni. Mi tieni alla larga dalle novità, mi precludi ogni prospettiva che non sia già praticata, ogni slancio un po’ più ampio, e finisci per oscurare l’orizzonte delle mie speranze occupandolo con le tue nuvole nere e i tuoi annunci di tempesta.

E IL PERFEZIONSIMO? COLPA TUA.
“È detto che la nostra ansietà non svuota il domani dei suoi dispiaceri, ma soltanto svuota l’oggi della sua forza” (Charles Haddon Spurgeon).
Ti ho sfidato, qualche volta, ho voluto buttare il cuore oltre l’ostacolo, ho fatto l’esatto contrario di quel ritiro dal campo che tu mi gridavi nelle orecchie, e il risultato è stato solo che l’energia non mi è bastata per arrivare in fondo. Per cui hai vinto anche allora, lasciandomi solo la corda più lunga e giocando con me come fa il gatto col topo, sapendo bene fin dall’inizio che saresti stata tu ad assestare la zampata finale.
Ecco, vedi, ho una rabbia enorme nei tuoi confronti, e ora che l’ho messa per iscritto mi accorgo che dietro c’è tanta tristezza. Perché, per quanto io continui a guardarti come una nemica, come un parassita, un’ospite indesiderabile, sei dentro di me, sorgi dal mio interno, da una parte antica del mio cervello, quella più direttamente connessa alle funzioni vitali del mio corpo. Che dolore riconoscere che vivi dentro di me… che dolore riconoscere che sei nata per proteggermi da pericoli futuri, e anche se non ci sono guai in vista, comunque mi ordini di stare in guardia, non si sa mai…
Tu lo sai bene, anche se io non lo posso ricordare, quanto fosse difficile per me nell’infanzia aver fiducia nel mondo… il mondo allora per me erano i genitori, il loro modo di amarmi, fatto di insicurezze e ambivalenze, il loro modo di scoraggiare le mie prime esplorazioni, e quella reazione aggressiva che avevano nei miei confronti quando mi capitava qualcosa di spiacevole, come se, invece di consolarmi e rassicurarmi, si arrabbiassero per via dello spavento che avevo procurato loro…
Ho imparato là a non osare più di tanto, è là che ti sei manifestata dentro di me, perché non dovevo sbagliare, non dovevo incappare mai in alcun problema, altrimenti non ci sarebbe stato nessuno a venire a prendermi. La tua funzione era di proteggermi, visto che nessun altro lo avrebbe fatto, evitando ogni rischio, e così ho imparato a camminare sulle uova, testa china e spalle chiuse, passo incerto e voce spenta. Meglio meno, meglio non chiedere, vietato sbagliare.
E poi è scattata la trappola: forse se faccio le cose al meglio, forse se imparo a dare il massimo qualcuno mi amerà di più, mi amerà meglio, mi offrirà finalmente un riparo? Se offro solo il profilo migliore, piacerò di più? Se mi occupo degli altri e dimentico me, sarò una creatura finalmente indispensabile e quindi visibile?
La risposta è negativa, purtroppo, con l’aggravante che con questa ricerca dell’eccellenza ho accumulato tensioni intollerabili, sforzi inumani, che mi hanno lasciato la mandibola sempre bloccata, le spalle doloranti, l’intestino in fiamme, il bacino rigido, i piedi contratti… Mi hanno plasmato a poco a poco come una figura pietrificata, efficiente ed efficace agli occhi del mondo, ma sola, irraggiungibile dietro la mia corazza.

E SE CI ALLEASSIMO?
La sento incrinarsi, da un po’, la corazza, e tu, ansia, che ti eri trasformata in tensione e spasmi, torni a manifestarti nel tuo regno preferito, quello delle emozioni.
Credevo di averti domato con l’autodisciplina, con il senso del dovere, ma eccoti, non ammetti briglie, vuoi dirmi qualcosa finalmente?
Vuoi dirmi che tu sei l’energia vitale che non ho potuto ancora vivere? Che sei la mia difficoltà a stare nel presente perché il presente che mi si offriva non era vivace, attraente, sereno?
Vuoi raccontarmi oggi che tu sei la mia energia?
Che hai sofferto accanto a me e con me per tutte le volte in cui non ho potuto lasciarmi andare, per tutte le volte in cui l’ambiente è stato poco accogliente, per ogni errore che non è stato aiutato a diventare apprendimento, per ogni modello mancato, per ogni sostegno non ricevuto?
Vuoi dirmi che hai dovuto farmi tu da scudo, poiché non potevo contare su una forza interiore che non aveva avuto le condizioni per consolidarsi?
Vuoi dirmi che ognuno di quei sintomi che tanto mi spaventavano, ognuno dei cento malesseri psicosomatici di cui ho ricevuto la visita devastante, ognuno di loro era un grido di libertà soffocato?
E mi vieni a raccontare che questa energia può ancora essere ravvivata e può trovare una forma adattiva per manifestarsi?
Vuol dire che quel grido muto dei sintomi può diventare man mano slancio vitale, curiosità nuova, e può avere presa sul mondo invece che avvilupparsi alla mia gola?
Vuoi farmi vedere quanto hai condensato, in forma di malessere, i “no” che non potevo dire, i “sì” che mi erano stati strappati per compiacenza, vuoi stare qui a narrarmi di come hai mantenuto accesa la mia vitalità nonostante tu ne abbia limitato a tua volta, con la tua presenza, le possibilità di espressione?
Vuoi che facciamo un patto?
Che io non cerchi più di annullarti, che io riconosca che mi hai salvato e protetto quando ero troppo fragile, che io accolga il tuo messaggio di alleanza?
Perché sei una forma elementare di energia per sopravvivere, ma se ti tengo accanto e ti do respiro puoi evolvere e diventare la mia migliore body guard. E io saprò che mi metterai in allerta solo quando servirà, e che non mi giudicherai per una svista, un tentativo fallito. Saprò che è mio compito assicurarti pause di benessere, di natura, di gioco, di leggerezza. E che l’amore in tutte le sue forme è il tuo migliore nutrimento trasformativo.
E allora, dai, vecchia mia, ho fatto bene a scriverti questa lettera, ti ho visto da vicino e tu lo stesso, abitiamo lo stesso corpo, abbiamo tutt’e due bisogno di esperienze creative, e vive, e libere.
Ti puoi sciogliere, ora, puoi allargarti, diluirti, oppure sprizzare con forza come le bollicine frizzanti che escono dalla bottiglia appena stappata, ci possiamo concedere quel brivido di eccitazione, quello scintillio di vita che ci radica nel presente e ci spinge verso il futuro con occhi desideranti.
Alleate.
Ciao cara, senza paura. Ciao cara, con un pizzico di brio. Ciao cara, con leggerezza.

“La tua ansietà è direttamente proporzionale alla tua dimenticanza della natura, perché tu porti in te stesso paure e desideri illimitati” (Epicuro)”

Gemma n° 2788

SI RICOMINCIA!…
Il 21 settembre del 2014 scrivevo: “Ho chiesto ai miei studenti di pensare a qualcosa (una canzone, una scena di un film, una pagina di un libro, un quadro, una foto, un oggetto…) per loro significativo e che desiderano far conoscere ai compagni come fosse una gemma preziosa.” Il 1° ottobre 2014 ho pubblicato sul blog la prima gemma. Oggi si ricomincia il giro per quest’occasione di ricchezza, emozione e, sovente, commozione. Argomento della prima gemma di quest’anno? L’amicizia.

“Quest’anno per la gemma ho riflettuto un po’ su quello che per me è degno di essere nominato e cosa veramente ritengo prezioso nella mia vita. Alla fine guardandomi intorno ho capito che ciò che avrei portato erano le mie due stelline, le mie due “sorelle”. Ora chi mi conosce saprà che di sorella ne ho solo una, ma oltre a lei c’è un persona con cui non c’è nessun legame di sangue ma che io considero tale. Sto parlando di mia sorella R. e della mia migliore amica V.
Conosco V. solo dalla prima superiore, solo da un paio di anni, ma tra noi c’è un legame così forte che probabilmente se dovesse spezzarsi, io perderei un po’ di me stessa. Con lei ho condiviso tantissimi momenti, risate, ricordi ed emozioni. Con lei anche la scuola riesce a non pesarmi tanto, perché so che se dovessi trovarmi in difficoltà, girandomi, la troverei lì pronta per aiutarmi. Non posso neanche spiegare a parole quanto lei abbia fatto per me, e forse lei neanche lo sa, ma è stata l’unica che mi ha aiutato ad uscire da un periodo buio della mia vita. Lei è stata lì ad aiutarmi a rialzarmi quando da sola non ce l’avrei fatta, si è seduta accanto a me quando volevo solo qualcuno vicino, mi ha fatto ridere quando sapeva che ne avevo bisogno, e mi ha fatto vedere la luce quando io non la vedevo. Grazie a lei ho scoperto parti di me che forse sarebbero sempre rimaste nascoste, e mi ha insegnato a vedere sempre il lato positivo delle cose, perché la vita è una e dobbiamo viverla.
Lei mi capisce subito e io capisco subito lei, anche quando in classe basta uno solo sguardo per scoppiare a ridere anche quando non dovremmo.
Un’altra cosa per cui sono grata è stata quando ha iniziato a fare amicizia anche con mia sorella, quando era iniziata quasi come uno scherzo, ma adesso si considerano quasi “migliori amiche”.
Da piccole io e mia sorella eravamo molto unite, giocavamo sempre insieme e vivevamo le nostre vite insieme, una in presenza dell’altra e viceversa. Non dico che oggi non sia proprio così, però rispetto a prima qualcosa è cambiato. Lei ha un carattere molto forte e deciso, forse anche un po’ testardo, mentre io ne ho uno più dolce e sensibile. Credo che sia per questo motivo che soprattutto ultimamente ci siano stati degli allontanamenti tra me e lei e questo mi dispiace. Lei a gennaio era partita per 6 mesi per andare dall’altra parte del mondo, in Australia, ed è stato lì che ho capito che la vita senza di lei non è la stessa. Questo mi fa male perché so che il prossimo anno avrà finito le superiori e partirà e inizierà a vivere la sua vita com’è giusto che sia, e so che sarà difficile vederla. Se potessi tornare indietro non farei gli stessi errori e mi godrei di più i momenti che ho passato con lei perché in fondo è sempre mia sorella e forse ho capito troppo tardi quanto fosse importante per me.
Con lei ho riso tanto, ci siamo divertite tanto soprattutto a combinare guai senza che i nostri genitori lo sapessero e con lei avrò dei ricordi bellissimi che porterò sempre nel cuore.
Detto tutto ciò mia sorella e la mia migliore amica sono le mie piccole stelle, perché su loro potrò sempre contare, senza dubitarne mai, ma proprio mai.
Vi voglio un mondo di bene❤️”.
(S. classe terza)

Di una bellezza indefinibile

Immagine creata con Bing®

Qualche giorno fa, subito dopo essersi svegliato dal pisolino pomeridiano, Fra ha iniziato a ridere. “Perché ridi?” gli ho chiesto. E’ vero che non ha neanche due anni, ma riesce a farsi capire bene. Solo che ha continuato a ridere. E più ripetevo la domanda, più continuava a ridere. Ridevo con lui, perché in quella risata era di una bellezza indefinibile. Siamo andati avanti una decina di minuti. Una scena che mi è tornata alla mente alla fine del terzo articolo di Gabriella Greison per la rubrica Interferenze di Avvenire (mi sa che li proporrò tutti, li trovo estremamente interessanti e fecondi).

“Oggi vi parlo di Werner Heisenberg, uno dei creatori della fisica quantistica. Werner Heisenberg non aveva bisogno di dogmi, ma di armonie. Non entrava nei templi, ma saliva sulle montagne della Baviera, violino sotto braccio, per contemplare l’alba come fosse un’equazione che si lascia intuire solo per pochi istanti, e poi svanisce. La sua preghiera era fatta di musica e matematica, di silenzi e formule, di ipotesi scritte di notte e cancellate al mattino. Il suo altare non aveva icone, ma lavagne piene di simboli che solo pochi al mondo potevano comprendere, e che lui difendeva come un linguaggio sacro. La sua vita è la prova che si può credere senza possedere, che ci si può dedicare a qualcosa di invisibile senza mai vederlo direttamente. Perché questo fa un fisico: dedica la vita a entità che non compariranno mai a occhio nudo, ma che sente presenti come presenze concrete, reali, più solide del legno dei banchi su cui scrive. La scienza, per lui, era una forma di contemplazione, non un’appropriazione. Guardava il mondo non per domarlo, ma per comprenderne la musica segreta.
Quando Heisenberg formulò il principio di indeterminazione, disse al mondo una cosa che nessuno voleva sentire: che non possiamo conoscere tutto, che non esiste la certezza assoluta. Possiamo dire dove sta una particella, oppure quanto corre, ma non entrambe le cose insieme. Non è un limite dei nostri strumenti, ma un limite della realtà stessa. Era come dichiarare che il cuore dell’universo è velato, che esiste una soglia che la mente umana non può oltrepassare. E questo, se ci pensate, ha la stessa radicalità di un annuncio religioso: non tutto ci è dato. Il mistero non è un incidente, è una struttura. Non siamo noi a decidere dove finisce la conoscenza: è la realtà stessa che ci pone un confine, e ci chiede rispetto.
Non era un mistico convenzionale, Heisenberg. Non lo trovavi inginocchiato davanti a un altare, ma potevi trovarlo in silenzio davanti a un tramonto, o al banco di un laboratorio, a osservare un esperimento che sembrava non obbedire a nessuna regola. C’era qualcosa di profondamente spirituale nel suo modo di guardare al cosmo. Credeva che l’universo fosse costruito su una bellezza matematica, e che quella bellezza non fosse un dettaglio estetico, ma una firma. Come se ogni legge fosse una frase di un poema invisibile, scritto da una mano che non smette mai di scrivere. E quando quella mano tace, resta l’eco. L’eco di un ordine che non riusciamo a spiegare, ma che riconosciamo come familiare.
C’è una sua immagine che resta scolpita: il bicchiere delle scienze naturali. Disse: “Il primo sorso ci rende atei, ma sul fondo del bicchiere ci aspetta Dio.” È la sua maniera di dirci che la scienza ci disillude, ci toglie certezze facili, ci fa scendere dal trono dell’onniscienza… ma se abbiamo il coraggio di bere fino in fondo, quello che troviamo non è il nulla: è un fondamento che ci supera. Non un Dio dei dogmi, ma un Dio delle profondità, delle domande, dell’incompletezza. La scienza, per lui, era il viaggio dell’uomo che non smette di interrogarsi, e Dio era il nome che dava al mistero che resta, anche dopo aver spiegato tutto il resto.
Heisenberg aveva due passioni parallele: la fisica e la musica. Passava ore al pianoforte, convinto che Bach e Mozart stessero dicendo con le note ciò che la fisica dice con gli integrali: che l’universo non è un ammasso caotico, ma un ordine segreto, una trama nascosta che ci avvolge. La musica era per lui una sorella della scienza: entrambe gli restituivano l’intuizione che il mondo non è mai muto, ma vibra di senso. Suonava e scriveva come chi cerca lo stesso accordo in linguaggi diversi. Diceva che un’equazione è come una fuga di Bach: inizia con un tema, poi si ripete, si intreccia, si trasforma, fino a ritrovare se stessa. Era il suo modo di dire che la verità, prima di essere capita, va ascoltata.
Ma la vita di Heisenberg non fu solo contemplazione. Venne attraversata da dilemmi morali che lo marchiarono per sempre: lavorare o no sul progetto atomico durante la guerra, scendere a compromessi con un regime che pretendeva obbedienza, salvare la scienza tedesca senza macchiarsi di sangue. Era un uomo diviso, e sapeva che nessuna formula avrebbe potuto cancellare quella divisione. Quando fu interrogato dagli alleati dopo la guerra, rispose con un’idea che ancora oggi fa discutere: che la conoscenza non è mai neutrale, ma porta con sé una responsabilità. La sua spiritualità non era evasione, ma coscienza vigile: la consapevolezza che ogni scelta scientifica è anche una scelta etica.
Heisenberg ci ha insegnato che il mistero non è quello che resta quando la scienza fallisce, ma quello che incontriamo anche quando la scienza riesce. Ogni volta che una teoria funziona, ogni volta che una previsione coincide con un esperimento, lì non troviamo la fine del mistero, ma un nuovo inizio. Ogni conquista della conoscenza apre un’altra finestra sull’infinito, e ogni risposta genera nuove domande. È come una montagna: sali, credendo di arrivare in vetta, e scopri che dietro c’è un’altra vetta, più alta e più luminosa. La conoscenza autentica non elimina la sete, anzi la accresce. Forse la sua eredità più grande non è il principio di indeterminazione, né il Nobel che lo consacrò giovanissimo. Forse tra i suoi meriti c’è quello di averci ricordato che la conoscenza non è possesso, ma umiltà. Che non si arriva mai, ma si cammina. Che la scienza e la spiritualità non sono due opposti, ma due sguardi diversi sullo stesso orizzonte. Heisenberg è la prova che si può essere razionali e mistici, rigorosi e sognatori, precisi e pieni di stupore. E allora la sua frase sul bicchiere non è solo un gioco di spirito. È un invito: a bere fino in fondo, a non fermarsi al primo sorso di scienza, a non accontentarsi delle semplificazioni. Perché in fondo a quel bicchiere non c’è la fine del pensiero, ma il suo inizio più radicale. Bere fino in fondo, in fondo, vuol dire accettare di non sapere tutto, ma continuare a voler capire.
Domanda per voi, per tutti noi: se la realtà, come ci ha insegnato Heisenberg, non si lascia mai catturare del tutto, se c’è sempre un margine di indeterminazione, siete disposti a vivere accanto a quel margine? A convivere con un mondo che non si lascia possedere ma solo contemplare? Forse la vera spiritualità, e la vera scienza, cominciano proprio lì: nel coraggio di abitare l’incertezza senza smettere di cercare. E magari, se ogni tanto l’universo ci sembra incomprensibile, ricordiamoci che anche lui, laggiù tra le montagne bavaresi, davanti a un’alba che cambiava colore ogni minuto, sorrideva. Sapendo che la bellezza più grande è quella che non si lascia definire.”

Non chiamateci guerrieri

Me l’ero segnato da qualche parte questo monologo di Geppi Cucciari con l’accompagnamento di Paolo Fresu. Si parla di cancro. Ho scoperto poi che il testo originale è del giornalista Pierluigi Battista, pubblicato sull’Huffington Post. Riguarda un tema di cui mi è capitato di parlare in classe, ma anche con qualche genitore, durante uno di quei colloqui che diventano parole scambiate da cuore a cuore: la retorica che colpevolizza chi è ammalato. Ecco anche la trascrizione del testo.

“Non chiamateci guerrieri, non abusate della magniloquenza del ‘sta lottando come un leone’, non gonfiate il petto con il ‘non arrendersi mai’, rivolto a chi si aggrappa con tutte le sue forze alla speranza che il cancro non prenda il sopravvento. Così, bellicosi come apparite, non ci fate del bene, non ci incoraggiate, anzi, aggiungete angoscia ad angoscia. Morire sarebbe una resa? Soccombere significa non aver guerreggiato bene? Dove si sbaglia? Che tattica avremmo dovuto usare? Forse al dolore bisogna aggiungere l’umiliazione di una battaglia campale condotta male?
Sappiate che soffrire per scacciare l’ospite indesiderato, come lo chiamava con una sensibilità che ancora mi commuove Gianluca Vialli, non è come ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman dove Max von Sydow gioca a scacchi con la morte. E, se sbagli la mossa del cavallo, allora meriti la sconfitta definitiva? Il cancro ha fatto scacco matto. La ‘guerra’ contro il cancro è, piuttosto, una sequenza di notti insonni, di paura quando entri nel tubo della risonanza magnetica o della tac, del terrore di guardare negli occhi chi ti ha appena fatto un esame, di gioia se quegli occhi esprimono soddisfazione. Un altro ostacolo superato, tra un po’ ne arriverà un altro. Una ‘guerra’ fatta di attese, sofferenze – sono i farmaci – debolezza, dove sai che la tua volontà è importante, ma non è l’arma determinante, e che invece degli squilli di tromba di chi ti esorta a fare il gladiatore, chi si sta impegnando allo spasimo per uscirne vivo avrebbe bisogno di affetto, di vicinanza, di attenzione, di ascolto, di non essere lasciato solo, di vita, e ha bisogno di oncologi che sono sempre più bravi, della scienza che continua a mettere appunto cure sempre più efficaci e plurali. La ‘guerra’ la fa la ricerca condotta da eroi e spesso trascurata da chi ha le redini dell’autorità pubblica. Lo dico per fatto personale. Scusate l’impudicizia, ma non ne potevo più”.

Supplica al divino della madre

Immagine realizzata con l’intelligenza artificiale della piattaforma POE

La notte scorsa Francesco si è svegliato poco prima di mezzanotte, è stato a lungo inconsolabile fino a quando è riuscito a farci capire che aveva mal di orecchie. L’ho prelevato io dal lettino: talvolta mi accetta, ma ci sono volte in cui solo l’abbraccio consolatorio della mamma lo calma, altrimenti serve molto più tempo. Il papà ci mette dieci volte a fare quello che la mamma compie in poco tempo. Mi è venuto in mente durante la lettura di un pezzo del poliedrico Marco Campedelli dedicato alla madre da poco scomparsa, un brano che mi ha toccato il cuore e mi ha commosso, soprattutto ripensando alle volte, purtroppo non poche, in cui in questi anni ho cercato le parole per rincuorare qualche allieva o allievo per la perdita della mamma. Il brano è stato pubblicato su Rocca a settembre.

“«È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio».

Inizia così Supplica a mia madre di Pier Paolo Pasolini.
Un testo vertiginoso con accenti estremi del rapporto figlio-madre. Eppure nel finale c’è un verso, una supplica alla madre che sembra una freccia conficcata nel cuore di questa archetipica relazione:
«Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire».
Si direbbe una preghiera alla madre. In questo credo ci sia la scintilla divina della madre.
Pregare la madre come una divinità. Sappiamo, e la religione ne è in gran parte responsabile, di quanto il rapporto madre-figlio sia stato oggetto di proiezioni, simbiosi, sensi di colpa, sublimazioni. Mi ha sempre turbato quel “Totus tuus” sotto una gigantesca lettera M di papa Wojtyla, segno della sua ossessiva devozione mariana.
Forse nulla come questo rapporto ha dato tanto lavoro alla psicanalisi. Eppure in quella supplica del poeta c’è qualcosa di autentico: il riconoscimento della fonte divina della vita. Ti prego madre “di non voler morire”.
Perché se la fonte muore la terra si secca e appassisce. Ricordo bambino quando mia madre si ammalava, scendevo come in una botola segreta, come immerso in un liquido amniotico, finché non stesse meglio e così poter riemergere e tornare finalmente di nuovo nel meraviglioso caos della vita.
Pasolini in realtà non vivrà la morte della madre. Sarà la madre a dover subire il tragico lutto del figlio massacrato il 2 novembre del 1975.
Questo lutto è prefigurato nel film del regista friulano Il vangelo secondo Matteo, in cui ad interpretare la madre dolorosa sotto la croce sarà proprio Susanna Colussi-Pasolini, la madre del poeta. Ribaltata come un birillo dal dolore, sembra avere nelle pupille la morte del suo Pier Paolo più che del divino Nazareno. E i suoi occhi poi, riempiti di luce, brillano, mentre porta dei fiori di campo al sepolcro e si imbatte nell’angelo della risurrezione. Suo figlio, il poeta, è risorto!

È capitato anche a me di salutare mia mamma in questi giorni. Di sentire quanto fosse vera quella supplica del poeta, “ti supplico madre di non voler morire”.
In quella preghiera c’è il bambino che scende nella botola segreta. Ma questa volta la notte non passa. Si riemerge con l’ultima, estrema spinta dal grembo originario. Davanti alla morte della madre c’è sempre il bambino. Non l’uomo adulto con le sue rassicuranti riflessioni. C’è il liquido amniotico irrazionale che prima di abbandonarti sembra darti l’ultima possibilità di andare verso la morte o verso la vita. Lasciando a te la libertà di appassire o di germogliare.
Nella Bibbia sono scritte le parole del profeta Isaia (al capitolo 43): «Se dovessi attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno, se dovrai attraversare il fuoco non ti scotterai»; sembrano quelle di una madre, o di chi si prende cura di qualcuno che ama. E chissà se noi abbiamo imparato questo da Dio, o se Dio abbia appreso questo guardando le madri, guardando le donne. Valda, mia madre, ci ha detto queste parole tutta la vita: non come una lezione di catechismo, ma come un modo di stare, di crescerci, di educarci insieme a nostro papà. «Sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo», continua ancora Isaia.
Sei degno di stima anche quando fai scelte che non capisco, sei prezioso ai miei occhi, anche quando non lo sei più per molti. E poi io ti amo, non perché sei importante, non perché sei invincibile, ma perché sei Tu. E più diventi te stesso e più ti amo. Perché solo allora potrò specchiarmi nei tuoi occhi senza confondermi. Sarò me stessa perché tu sarai te stesso.
Il salmo più corto della Bibbia, il 131, recita: «Io resto sereno e tranquillo come un bambino in braccio a sua madre». Li vediamo, i bambini e le bambine in braccio alle loro madri, anche quelli devastati dalla guerra in questi tempi. I bambini e le bambine di Gaza. Lì, in braccio alla madre, è il loro rifugio. Tutta la vita cerchiamo di stare in piedi da soli, di diventare adulti, di rielaborare quell’abbraccio non come un confine ma come una possibilità di inventarne di nuovi. Di diventare noi rifugio per altri.
Succede poi che, quando nostra madre invecchia, siamo noi a tenerla dentro le nostre braccia, a dirle fino alla fine “stai tranquilla mamma, stai tranquilla e serena, la notte non dura, la luce presto viene”.
Il Vangelo ci ha raccontato di una donna. Ecco come viene definita la Siro-fenicia (Mc 7,24-30): una donna, prima di ogni ruolo, prima che madre, donna. È una donna coraggiosa perché davanti a Gesù, che dentro la sua cultura, la sua educazione traccia un confine (“sono venuto solo per i figli, non per gli stranieri”, che in modo dispregiativo si chiamavano “cani”), questa donna gli insegna a sconfinare. Questa volta, sì, è proprio Gesù che accetta la lezione della donna. Anche mia figlia straniera, che sta morendo, ha diritto al pane, alla vita, alla dignità.  Non ci sono figli di serie A e figli di serie B, figli perfetti e figli imperfetti. «I figli sono figli, e basta…», come ha detto bene Eduardo De Filippo in Filumena Marturano.
La storia non si fa sui mausolei dei faraoni, sulle tombe dei generali, ma sulle ossa dei piccoli, degli ultimi, delle donne e degli uomini liberi e coraggiosi. Anche la Valda è stata una donna coraggiosa. Nel senso che aveva molto cuore (cor-cordis, come significa la parola). Ricordava quando i fascisti buttavano giù la porta di casa ai Molini di San Michele Extra (Verona) dove era nata, per catturare suo zio Nello, partigiano. Aveva imparato che si può resistere al male. Che anche in guerra si può scegliere da che parte stare (I bambini ci guardano, un film di Vittorio de Sica, ce lo ricorda). La mamma vedendo i bambini di Gaza diceva “avranno un rifugio dove ripararsi?”, come capitava a lei e ai suoi fratelli durante la Seconda guerra mondiale. Il Vangelo è una pagina aperta, da riscrivere ogni volta. Era capitato anche alla mamma di vivere l’abbandono del padre. Poi lui era tornato invecchiato, malato e chiedeva di esaudire un ultimo desiderio: essere accolto in casa. Morire a casa… E lei disse “vieni”. Tutti ricordiamo la parabola di quel padre che accoglie un figlio andato lontano. Ma non ce n’è una che racconta di un figlio, di una figlia, che ri-accoglie il padre. Forse intendeva questo Gesù, quando dice: “Non vi meravigliate, vedrete cose più grandi di queste”? Il Vangelo cioè può continuare a farci immaginare storie inedite, che sconfinano, che inventano cose che ora ancora non vediamo. Questo può capitare a tutti, a chi pensa di credere e a chi pensa di non credere. Perché il Vangelo, come diceva ancora Pasolini, è pienezza di umanità.
La mamma ci ha insegnato queste cose, ai suoi figli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti. Ci ha insegnato la dolcezza della resistenza. Malata, era stata per tre anni (dai 17 ai 19) prima a Padova e poi a Malcesine per curarsi di Tbc. Il professore aveva chiamato lei e nostro papà, allora giovani “morosi”. “Vedo che vi volete bene so che volete sposarvi”, aveva detto serio, “ma come ho già detto a te, Valda, lo devo dire anche a Raffaele, non potrete avere bambini”. Loro si sposarono invece, e ogni figlio lo portarono puntualmente alla clinica, davanti agli occhi allibiti del professore: uno, due e tre, fino a che questi aveva detto: “Ho capito, Valda, hai fatto bene, ci siamo sbagliati noi”. Ecco, questo è un frammento della piccola, immensa resistenza delle donne…
Ora che il viaggio è compiuto rimane questa supplica al divino della madre, ora che la morte è arrivata, questa arcaica e rivoluzionaria preghiera si accende perché la madre, la vita, non voglia morire nei nostri occhi, nel tremore delle mani, nella corteccia dell’olmo e nelle primavere che verranno quando sarà di nuovo sciolta la neve: «Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire. Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…».