Traggo da Diogene Magazine un articolo di Mario Menicocci
In una quieta giornata senza tempo, Dylan Dog è serenamente impegnato a costruire un modellino di galeone quando il consueto urlo, che in quella casa sostituisce il tradizionale campanello della porta, annuncia l’arrivo di un cliente. Qualcuno ha bisogno di aiuto per qualche improbabile mistero. L’investigatore, che è assai disincantato verso il suo lavoro, cerca di dissuadere il cliente, suggerisce rimedi tradizionali o addirittura la visita da un medico, ma è inutile. Scatta la trama: occorrerà ancora una volta guardare in faccia l’orrore.
Il tema costante di Dylan Dog è proprio l’orrore inteso come la cieca, ottusa violenza che si cela subito dietro l’apparente normalità. Appena oltre lo schermo delle belle immagini, della rasserenante sicurezza, si manifesta l’orrore, il vuoto dell’angoscia, l’insignificanza dell’assurdo. Lo specchio appeso al muro è la porta dell’Inferno o per un’altra dimensione; il vicino sorridente e gentile è un serial killer o un morto vivente; la seducente fanciulla un fantasma o un demone. L’orrore quotidiano si cela nella follia lucida del collega sorridente, nella disperazione del piccolo borghese angariato e travolto dalla maleducazione e dall’arroganza; nella solitudine, nell’indifferenza.
Il serial killer della porta accanto 
Il fumetto gioca sulla rappresentazione di situazioni che si vivono continuamente nel mondo reale, magari proprio nel piccolo e circoscritto contesto in cui conduciamo la nostra vita. È una quotidianità mostruosa perché rappresentata come un’inutile inseguirsi di piccole tragedie prive di senso: un labirinto senza entrata e senza uscita in cui il destino si diverte beffardamente a giocare con la vita degli uomini, il tutto sotto il segno del caos.
Le cause immediate di questa violenza potrebbero apparire di carattere sociale: la solitudine e l’anonimato della moderna società urbana, l’emarginazione prodotta da un sistema economico irrazionale. Ma questa è solo la superficie. Se così fosse si potrebbe, in linea di principio, trovare una soluzione. Al contrario non vi sono soluzioni e Dylan Dog è profondamente pessimista, consapevole dell’inutilità di qualsiasi azione.
Ogni aiuto è solo una goccia nel mare, ogni caso risolto è sempre e solo un successo effimero. Nel susseguirsi di vicende che si rincorrono nei vari albi, i casi risolti in un numero diventano l’occasione di un nuovo delitto in un altro; i clienti soddisfatti di una volta si ripresentano nella parte della vittima.
Dylan e Schopenhauer
In realtà l’origine dell’orrore risiede a un ben più profondo livello: l’esistenza ha un senso o è solo il sogno di un Dio crudele? si domanda il nostro investigatore. La normalità è solo finzione, apparenza di una furia cieca che si manifesta in mille modi ma che è sempre egualmente la stessa. Facile ascoltare in Dylan Dog l’eco di Schopenhauer: presente ovunque, l’orrore non ha luogo ed è in sé sottratto al tempo.
L’uomo è gettato in una condizione che non controlla e nella quale è sempre vittima. Tempo, spazio e causalità, invece d’essere i presupposti per dare senso e costruire il reale, sono la gabbia che chiude gli uomini condannandoli all’irrilevanza. Lo spazio è soggetto a distinzioni qualitative che lo sottraggono al controllo. Il banale negozio di antiquariato Safarà, del sinistro Hamelin, è una porta verso altre dimensioni; la casa di La zona del crepuscolo, dove Dylan Dog giunge non a caso dopo aver attraversato un lago a bordo di una barca guidata da un traghettatore trasparentemente dantesco di nome Charon, è il luogo ove i vivi incontrano i morti. L’indifferente spazio euclideo cede a imprevedibili squilibri qualitativi che si manifestano nella trama ontologica stessa.
Oppure, a un diverso livello, lo spazio è esistenzialmente indifferente, nel senso che l’orrore può manifestarsi ovunque, inatteso. Londra, la città di Dylan Dog, è perfettamente riconoscibile, resa persino nei dettagli, tuttavia è irrimediabilmente anonima, priva di anima, estranea, violenta. Ciò che è domestico può improvvisamente trasformarsi nell’estraneo.
La ragione calcolante, che si avvale del principio di causalità per stabilire i nessi, non funziona e si rivela solo un illusorio modo per cristallizzare una realtà in sé fluida e inafferrabile. In effetti il mondo di Dylan Dog è un mondo liquefatto, nel quale i confini sono continuamente ondeggianti, incerti, fuggevoli. Gli stessi oggetti sembrano ribellarsi alla loro condizione: ne Il mosaico dell’orrore una poltrona divora una ragazza; un attrezzo da lavoro divenuto vivo si trasforma in una terribile arma omicida; un serpente diviene un mostro parlante e un occhio pedala tranquillamente in bicicletta per le vie di Londra.
Gli oggetti perdono il loro statuto ontologico e si trasformano in altro. L’essere svanisce, sembra decadere, andare in mille pezzi.
L’inutile sforzo della normalità
In questo mondo i soggetti si sforzano di costruire la normalità, ma è un’impresa di Sisifo. Semplicemente gli uomini non sono soggetti autonomi ma figure sballottate da qualcosa che li trascende. Quanto al tempo, non sono solo le esigenze narrative a far vivere Dylan Dog in un eterno presente, vestito sempre allo stesso modo; non sono loro che spiegano perché all’ispettore Bloch manchino sempre poche settimane alla pensione o il maggiolino di Dylan Dog, distrutto in un’avventura, torni nuovo nella storia successiva.
C’è qualcosa di più profondo che impedisce al galeone di esser completato. La dimensione lineare del tempo è infatti sconvolta e il tema dominante delle vicende di Dylan Dog è la ripetizione tragica. In Tre il protagonista viaggia in infiniti mondi paralleli ma trova sempre le stesse situazioni; in Mostri i tre pazienti dell’ospedale sono condannati a vivere sempre gli stessi ritmi imposti dall’istituto; in Nero il destino fatalmente circolare esclude ogni possibile mutamento.
Al pari delle categorie spazio-temporali e ontologiche anche quelle etiche subiscono un ribaltamento. Non c’è alcuna morale universale e tutto è, in fondo, affidato al caso, all’arbitrio.
Non ci sono garanzie di giustizia e Dylan Dog è abbastanza scoraggiato da non aspettarsi nulla di più, dopo un caso, che ritornare a costruire il suo galeone in compagnia di una tazza di tè. La stessa giustizia, quando si realizza, ha le forme distorte del paradosso: il folletto che massacra uno a uno i membri dell’equipe medica non è altro che la scimmia sfuggita alla vivisezione.
Tutte le vicende di mostri, demoni, fantasmi e zombi, tutti i misteri e i segni del paranormale sono in realtà la metafora di un orrore che è tutto interno alla vita di ogni giorno. Disegnare quest’orrore con i segni del super-normale, della fantascienza, del gotico, ha solo lo scopo di farlo meglio risaltare sullo sfondo della banalità quotidiana.
L’orrore è infatti banale, ma gli uomini non ci fanno caso perché abituati alla sua presenza. Proprio perché appartiene a una dimensione profonda tendono a cancellarlo dal proprio orizzonte. Solo in questo modo si spiega come faccia Dylan Dog a riemergere dagli inferi e a tornare a suonare il suo flauto per rilassarsi; come il suo assistente Groucho possa salvarlo dai fantasmi e poi fare battute; come noi si possa vedere in TV una carestia continuando a pranzare.
L’Inferno? Un ufficio burocratico!
Gli stessi demoni sono vittime di questa banalità. L’Inferno non è che una versione paradossale di un’agenzia burocratica e il principale (un corpo con due teste e due personalità) è costretto a seguire le vicende umane da un monitor TV. Il ruolo dell’Inferno, e il principe dei demoni ne è tristemente consapevole, è assai marginale: i folli di Golconda, scatenati dagli inferi, provocano molte meno vittime di quelle che nello stesso tempo provocano gli uomini con guerre che sembrano del tutto ragionevoli. L’orrore tende a farsi invisibile, a scomparire, per riemergere in tutta la sua spietatezza solo a tratti. Quando questo accade, sconvolge i valori e strappa il velo delle consuetudini.
Ci mette di fronte alla dimensione spaventosa del nostro essere e questo, naturalmente, è inaccettabile perché cancellerebbe le forme della vita sociale. Al pari dell’angoscia di Heidegger, l’orrore richiama l’attenzione sull’essere da parte di un esistente che tende a dimenticarlo. In Film la gente assiste inebetita a un sacrificio umano in piazza, ma il giornale, per poter riempire la prima pagina, è costretto a parlare del campionato locale di scopone.
L’orrore è rischioso da narrare e conviene celarlo per evitare che l’ordine vada in pezzi. Deve essere rimosso il più possibile e ufficialmente negato. L’ispettore Bloch cerca ogni volta spiegazioni razionali, il suo assistente Jenkins continua a vomitare davanti a ogni scena del crimine e Groucho ride sempre delle proprie battute. Tutti, in fondo, rifiutano di guardare l’orrore. La realtà deve continuare a vestire i panni rassicuranti della normalità o, quantomeno, della routine.
Liberi nell’assurdo?
C’è un motivo per il quale Dylan Dog accetta solo casi che hanno a che fare con l’orrore estremo e manifesto. Non per nulla è il detective dell’impossibile e non un investigatore qualunque. L’orrore attrae, proprio perché costituisce una frattura dell’ordine. Consente di incontrare la realtà al di là delle maschere: ha un effetto disvelante.
Consente, soprattutto, di porsi davanti a forme di libertà estrema, inimmaginabile. Mettendo in discussione tutto, aprendo spazi al di là delle regole, l’orrore costituisce la possibilità di pensare la libertà assoluta. Una tentazione mortale ma anche ricca di fascino.