Concludo il “trittico africano” con questo articolo su un paese di cui si è poco parlato e che è uno dei più ricchi di tutto il continente.
Algeria, una rivolta in stand by
di Luciano Ardesi
Gli algerini hanno già vissuto la rivoluzione nel 1988. Oggi non cercano la spallata, ma un cambiamento vero, con gli strumenti di una transizione democratica e pacifica, poiché sul terreno della violenza sanno che sarebbero perdenti. Ma se le promesse del governo – dagli alloggi ai prestiti, ai posti di lavoro – tardassero a venire, la collera potrebbe riesplodere.
Non ci sarà in Algeria una rivoluzione come quella conosciuta dalla Tunisia e dall’Egitto. È la conclusione su cui concordano molti protagonisti di questi agitati primi mesi dell’anno. Gli algerini, naturalmente, hanno seguito con attenzione, e sostenuto, i loro cugini di Tunisi e del Cairo. Ritengono, tuttavia, che loro la rivoluzione l’hanno già fatta nel 1988. L'”Ottobre nero” – frutto di una rivolta popolare repressa nel sangue dai militari – ha già portato i risultati che i vicini assaporano in parte solo ora: fine del partito unico, passo indietro dell’esercito (al potere dall’indipendenza), nuova costituzione, libertà per la carta stampata (radio e tv rimangono monopolio dello stato). Sanno anche com’è andata: sull’onda della rivoluzione, le prime elezioni libere (dicembre 1991) hanno portato al successo il partito fondamentalista, il Fronte islamico di salvezza (Fis), e alla possibilità di instaurare la repubblica islamica, iscritta nel suo programma elettorale. Per questo, il secondo turno delle elezioni fu sospeso (gennaio 1992) con l’intervento incruento dell’esercito, sostenuto da una parte della società civile. Seguì una stagione di sangue (decine di migliaia di morti), causata dalla follia omicida di una frangia terrorista del fondamentalismo islamico, ma anche dai militari che non lesinarono sui mezzi per stroncarla. Sul piano militare, il terrorismo è stato sconfitto, benché continui con attività sporadiche e con il tentativo di riorganizzarsi su base regionale con al-Qaida nel Maghreb islamico. Sul piano politico, la riconciliazione nazionale (la legge sulla “concordia civile” del 1999) e le amnistie (e amnesie) che ne sono seguite non sono riuscite a pacificare gli animi. Sotto l’ombrello dello stato d’emergenza (febbraio 1992), il potere ha mantenuto un sistema autoritario con una drastica limitazione delle libertà pubbliche. Se di qualcosa gli algerini hanno paura, non è certo della repressione o delle bastonate, ma di un nuovo 1992. E non vogliono rivivere la delusione della “primavera cabila”, che nel 2001 parve aprire, attraverso il successivo riconoscimento della diversità culturale e linguistica dei berberi, alla pluralità politica. Non cercano la spallata, ma un cambiamento vero, con tutti gli strumenti di una transizione democratica e pacifica, poiché sul terreno della violenza sanno che sarebbero perdenti.
La divisione del movimento
All’ordine del giorno non c’è la partenza del presidente Boutéflika, al potere dal 1999 (il mandato scade nel 2014), ma “il sistema”. Ed è su questo punto che il movimento si divide. Il “sistema”, intanto, non ha aspettato la contestazione. Dall’inizio dell’anno si sono moltiplicate le proteste, le mobilitazioni e le immolazioni, sull’esempio di Mohamed Bouazizi, il giovane che si è dato fuoco in Tunisia, innescando la rivolta. Ma il movimento popolare, praticamente, non ha soluzioni di continuità: da oltre un anno si susseguono quotidianamente scioperi e azioni di protesta in tutte le località dell’Algeria. A differenza di Ben Ali, di Mubarak o dello stesso Gheddafi, il presidente Boutéflika ha subito preso misure di contenimento dei prezzi, di promozione di nuovi alloggi, di prestiti senza interessi per facilitare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. L’Algeria se lo può permettere, grazie all’enorme rendita petrolifera. Il fatto nuovo è che il potere ha accettato di distribuirla. Ciò spiega, in parte, perché la protesta non si sia generalizzata e continui a restare diffusa, sì, ma isolata. Nel tentativo di dare peso e visibilità a questa conflittualità, a fine gennaio si è costituito il Coordinamento nazionale per il cambiamento democratico (Cncd). All’inizio, ha raggruppato partiti di opposizione, sindacati indipendenti, organizzazioni della società civile. Poi sono prevalsi calcoli politici, vecchie rivalità e un certo modo di concepire il cambiamento, e il Cncd si è diviso. Una parte chiede al “sistema” un cambiamento al suo interno, con elezioni anticipate, precedute dalla liberalizzazione dei partiti ancora in attesa di autorizzazione, una nuova costituzione, l’apertura dei mass media agli oppositori. Il via a questa ipotesi è stato dato a metà febbraio da Abdelhamid Mehri, già esponente di spicco del Fronte di liberazione nazionale (Fln), con una lettera aperta al presidente, nella quale suggerisce la rifondazione dell’attuale assetto di potere. La parte più radicale, invece, vuole la fine pura e semplice del “sistema”, fondato sulla corruzione e sulla distribuzione delle responsabilità in base all’appartenenza clanica, non alle competenze. Tutti sono consapevoli, peraltro, che una transizione, comunque avvenga, non potrà prodursi senza il consenso dei militari.
La reazione morbida del potere
C’è un’ala del Cncd che ha deciso di continuare, dopo la prima manifestazione del 12 febbraio, l’appuntamento settimanale con “la protesta del sabato”. Il potere reagisce con accortezza. Fa in modo che la grande Piazza 1° Maggio, al centro della capitale, sia presidiata dalla polizia in gran numero, impedendo così ai manifestanti di entrare, e organizzando contromanifestazioni a favore del regime. Anche dopo la fine dello stato di emergenza (24 febbraio), le manifestazioni rimangono proibite, secondo il ministero degli interni nella sola capitale. Di fatto, anche quella di Orano del 5 marzo non si è potuta svolgere. In quella del sabato successivo, il potere ha rinunciato a mettere in campo le contromanifestazioni, anche per non cadere nel ridicolo. Al termine delle manifestazioni, gli “oppositori agli oppositori” non hanno nascosto di essere stati pagati dal regime e di condividere le idee dei contestatori. Le proteste non sono finite. Anzi. La gente ha capito che è il momento di far sentire la propria voce. Scioperi e agitazioni di tutti i settori sociali hanno portato a una situazione paradossale. Non passa giorno che il governo non decida di aumentare le retribuzioni di questa o quella categoria, pur di mantenere divisa la protesta. Praticamente, tutti hanno vinto. Il 10 marzo era la data fissata dal governo per lo scioglimento del corpo di 95.000 guardie comunali, gli ausiliari utilizzati negli anni ’90 per monitorare il territorio nel contrasto al terrorismo. Il 6 marzo, una grande manifestazione non autorizzata si è svolta davanti al parlamento, lungo il viale che fronteggia il porto. È stata la prima manifestazione riuscita, dopo quelle dei berberi nel 2001 (è da allora che il potere non permette più manifestazioni nella capitale). Il giorno dopo, il primo ministro ha annunciato l’accoglimento di gran parte delle rivendicazioni, a partire da quelle economiche. Non è il solo caso in cui il governo contraddice sé stesso. Sotto la spinta delle proteste e dei timori del contagio, le autorità hanno rinunciato a regolamentare il commercio informale, che da sempre è una sorta di valvola di sfogo per chi non trova lavoro, e a imporre ai commercianti regolari l’obbligo delle transazioni con assegni al di sopra di un certo valore. Chiunque eserciti un’attività in nero, dai venditori ambulanti ai tassisti clandestini, oggi sente di poter contare sulla benevolenza del potere, che si guarda bene dal fornire il pretesto per fomentare il malcontento.
Tutto come prima
Intanto, la fine dello stato di emergenza non ha portato a sostanziali novità. I posti di blocco continuano come prima. Le misure per la limitazione delle libertà di coloro che sono sospettati di terrorismo sono mantenute sotto nuove vesti. La tv di stato non si è ancora aperta al pluralismo. Tutti vivono nell’attesa, ma senza aspettarsi granché. Il Cncd conferma le manifestazioni settimanali e fissa i suoi appuntamenti. Le diverse categorie sociali si danno il cambio sul palcoscenico delle rivendicazioni e della protesta. Fino a quando potrà continuare questa situazione paradossale? Tutti si attendono un deciso segnale di cambiamento, vistoso sebbene controllato. Il presidente americano Barack Obama avrebbe espresso il desiderio di una transizione pacifica, poiché ritiene Algeri il pilastro della lotta al terrorismo nella regione, tanto che i contatti e i viaggi degli emissari dell’antiterrorismo Usa si sono intensificati in queste settimane. C’è chi scommette che una decisione verrà assunta prima dell’estate; i più pessimisti, entro l’anno. Nessuno sa con certezza quando e quale decisione sarà presa per prima. Gli analisti più attenti si chiedono, tuttavia, se le misure finora adottate basteranno per dare una risposta ai bisogni dei giovani e della gente. Senza un cambiamento vero del suo funzionamento, il sistema rischia di imbrigliare le promesse con i consueti meccanismi della burocrazia e della corruzione. Quando gli alloggi, i prestiti, i posti di lavoro promessi tarderanno a venire, o avverranno in misura inferiore alle attese, la collera potrebbe riesplodere, questa volta in forme incontrollate. Sarà una corsa contro il tempo, fatta anche di astuzie, di furbizie e di convenienze da parte di una classe politica – di governo come di opposizione – che sembra aver perso il contatto con la realtà e con la gente.