A ovest di cosa?

Cuius regio eius religio: era quel principio per cui una persona doveva praticare la stessa religione del suo regnante, altrimenti era invitato a rivolgersi altrove. Conosco molte persone che lo stanno rimpiangendo e che lo invocano, le stesse che continuano a sperare nell’inserimento di un richiamo alle radici cristiane dell’Europa all’interno del testo costituzionale del continente. Tale speranza non è legata a uno spirito di devozione o a un effettivo riconoscimento storico culturale alla religione cristiana, quanto a una logica di contrapposizione nei confronti di chi si può configurare come diverso, come alterità, come nemico, come minaccia. Ma definirsi solo in base a una caratteristica può essere limitante. Se gli italiani si definissero solo in base alla lingua italiana avremmo da un lato nuovi italiani che hanno imparato la nostra lingua e dall’altro ex italiani che hanno conosciuto solo uno dei dialetti e l’italiano non lo hanno mai parlato. Definirsi solo in base a delle radici religiose porterebbe a discriminazione che la storia ha già conosciuto (ghettizzazioni); si arriverebbe inevitabilmente a una maggioranza dominante e a delle minoranze sull’orlo dell’esclusione. Se da un lato può essere comprensibile la spinta a un rinsaldamento identitario di una comunità, soprattutto se volto alla ricerca di un tessuto etico condiviso, dall’altro si corre il rischio di pensare che il proprio modello sia il migliore e che pertanto non si confronti con gli altri ma vi si contrapponga. Nasce così l’idea di un occidente cristiano che si difenda da tutto ciò che possa arrivare dall’esterno.

Sorgono però a questo punto delle domande.

Dov’è nato il cristianesimo? Qual è la sua culla? L’Occidente quando è nato? Qual è stato il ruolo dell’Europa orientale? L’est europeo è pur sempre a ovest di qualcosa, ma è compreso nell’idea di Occidente? Occidente, Europa e cristianesimo davvero possono coincidere?

Scomunica per i mafiosi?

Pubblico questa interessante inetrvista che Valeria Pelle ha fatto ad Antonio Nicaso. Penso fornisca molti spunti i riflessione e meditazione.

Antonio Nicaso è uno scrittore e uno studioso scomodo. Uno dei massimi esperti di mafie a livello internazionale (www.nicaso.com), docente di storia contemporanea e delle organizzazioni criminali in una università americana, già consulente della Cnn, autore di un editoriale settimanale su uno dei maggiori network canadesi. Di quelli che siedono alla corte di nessuno, se non dell’etica. Un’etica personale che si nutre di valori forti ed elementari: il coraggio, l’impegno sociale, l’onestà, la coerenza, la legalità. Princìpi che gli ha trasmesso la madre. Semplici, saldi, perché «niente è meglio che vivere onestamente». E che hanno preso forma ancora più netta, se possibile, dopo che è diventato genitore. «Da padre, mi sono reso conto di avere una responsabilità in più: essere un esempio, ogni giorno». E così la scrittura, la denuncia, gli incontri. L’impegno contro la mafia, contro le mafie. Ogni giorno. Un impegno che l’ha portato ad essere ospite, ancora una volta, della Settimana della comunicazione, ad Alba, dove l’abbiamo incontrato.

Quando ha iniziato a interessarsi di mafie? nicaso.jpg

«Avevo sei anni. Non potrò mai dimenticare gli occhi tristi di un mio compagno a cui avevano ucciso il padre. Chiedevo e mi dicevano che non potevo capire, che erano cose da grandi. Mio nonno mi disse: “Lo hanno ammazzato come un cane”. E io cercavo di figurarmi la scena, che senso avesse quella frase, come si uccide un cane. Quell’omicidio è tutt’ora senza colpevoli. Nonostante fosse avvenuto davanti a molti testimoni, la cortina dell’omertà ha protetto i mandanti. Quel pover’uomo è stato ucciso perché non aveva comprato il ferro dai mafiosi. L’ho scoperto dopo. E ho deciso che io non sarei stato in silenzio».

Così ha iniziato a scrivere…

«È un modo per onorare persone come don Diana che diceva: “Per amore del mio popolo non tacerò”. Per dar voce ai tanti onesti che vogliono uscire dal pantano in cui le mafie hanno impastoiato il nostro Paese. E per mafie intendo le cinque organizzazioni che abbiamo in Italia: Cosa nostra, siciliana, la ‘ndrangheta calabrese, che fattura 55 miliardi di euro l’anno, la camorra napoletana, la più antica, la Sacra corona unita pugliese e la più recente, la mafia dei Basilischi in Basilicata. Per combattere le mafie abbiamo a disposizione un’arma potentissima: la conoscenza. Per questo scrivo, da solo o insieme al procuratore Nicola Gratteri (ultimo libro: La giustizia è una cosa seria, Mondadori 2011). Per questo da 30 anni porto avanti quello che per me è un piacere e insieme un impegno sociale: incontrare i ragazzi nelle scuole, nelle iniziative a sostegno della legalità. Cerco di offrire loro spunti su cui riflettere, di stimolare la loro voglia di indignarsi».

E senza mai chiedere compensi.

«Per me questo è un impegno civile, che qualche settimana fa mi ha offerto due grandi soddisfazioni. Un ragazzo mi ha fermato per strada e mi ha stretto la mano ringraziandomi. Mi ha detto che era uscito dal ghetto, era diventato avvocato e che quella strada gliel’avevo mostrata io, che avevo parlato alla sua classe quando frequentava le medie».

E la seconda?

«Mia figlia di 9 anni che era con me, quando il giovane si è allontanato, mi ha stretto la mano e mi ha detto: “Ora ho capito cosa fai, papà. Sono orgogliosa di te!”».

Nei libri dice che le mafie sono diffusissime, si stanno espandendo, specialmente la ‘ndrangheta, in contesti insospettabili. Cosa si può fare per combattere le mafie e cosa può fare la Chiesa?

«La Chiesa potrebbe sostenere la voglia di cambiamento. Ma occorrerebbe una presa di posizione netta dei vertici, un atto dal forte valore simbolico. Se ai mafiosi fossero state applicate le restrizioni che subiscono i divorziati, forse avremmo malavitosi meno arroganti. Se il Santo Padre scomunicasse i mafiosi, negasse loro i sacramenti, la possibilità di fare i padrini di battesimo o di cresima, darebbe ai preti di parrocchia, ai preti di frontiera il sostegno di cui hanno bisogno e diritto. Perché sono tanti quelli che hanno il coraggio d’insegnare ogni giorno ai loro ragazzi il catechismo della legalità. Ma ci sono tanti – e li capisco – che sono in difficoltà, si sentono soli, in contesti difficilissimi. E hanno paura. Di minacce ai preti per i contenuti delle loro omelie si hanno notizie dalla fine dell’Ottocento, quando la mafia ha preso forza, nutrita dai politici dell’Italia che si stava formando. Quella classe politica che si affermò garantendo ai baroni lo status quo, ovvero che la terra in Meridione sarebbe rimasta in mano ai pochi latifondisti, e che la riforma agraria di cui la gente del Sud avrebbe avuto tanto bisogno (e che spinse tanti a ingrossare le file dei garibaldini) mai sarebbe avvenuta. Come, appunto, accadde. L’anatema lanciato da papa Wojtyla nella Valle dei templi contro la mafia per un certo tempo aveva annichilito l’ardire. Affermare che i mafiosi, col loro comportamento, son fuori dalla comunità di Dio ora non basta. Alla regola deve seguire la sanzione. Non si può essere duri con il peccato e tolleranti con il peccatore».

Ma il perdono è uno dei principi fondanti del cristianesimo…

«Infatti le mafie hanno attecchito benissimo nei Paesi cattolici. Non hanno avuto successo nelle culture protestanti, dove non c’è la consolazione di un perdono che può avvenire anche sull’ultimo respiro vitale, ma si chiede di scontare già sulla terra le colpe di cui ci si è macchiati. In attesa di parlarne, poi, a quattr’occhi con Dio».

Quindi la Chiesa non dovrebbe accogliere le persone “in odor di mafia”?

«No. Le mafie (la ‘ndrangheta in particolare) si presentano con riti d’iniziazione che molto mutuano da riti religiosi. I mafiosi traggono spesso legittimazione durante le processioni religiose: i loro affiliati portano le statue dei santi, i capi fanno a gara per organizzare i fuochi pirotecnici più spettacolari. E guadagnarsi così il plauso della gente. Spesso il percorso del corteo è deciso dalle cosche. In certi paesi le statue dei santi vengono fatte inchinare davanti alla casa del boss. Ma quella non è fede, è superstizione. La Chiesa potrebbe far molto per risvegliare le coscienze sul fronte dell’etica, della coerenza, apostolato sociale, gestione onesta della cosa pubblica. Con la promessa dell’8‰ è stata imbavagliata. Se i vertici non prendono una posizione forte, i preti che operano nei luoghi di mafia si sentiranno soli, magari delegittimati, potranno incappare nella seconda forma di omertà, non quella di chi vede e non parla, ma quella di chi non vuol vedere, che nega l’evidenza, si inchina allo status quo. E liquida tutto con un’alzata di spalle e un “è sempre stato così”».

 

Crediamo più al serpente che a Dio

Spesso mi capita che qualcuno dei miei studenti mi chieda come mai la Chiesa è lontana.imagesCAL7W1BD.jpg Quella di una Chiesa distante è una percezione che viene da molte parti, anche da chi è “dentro” le cose. E sovente vengono mosse delle critiche anche ai preti giovani, a coloro che più dovrebbero essere vicini alle nuove generazioni. Navigando su internet mi sono imbattuto in questo pezzo di Silvano Fausti, biblista gesuita che ho avuto modo di apprezzare di persona durante il master di pastorale giovanile che ho seguito qualche anno fa. E’ tratto da www.popoli.info

L’articolo è una risposta a questa mail di un lettore: “Tra i giovani preti è tutto un pullulare di vesti lunghe e turiboli, nelle loro prediche sento parlare molto più spesso di dogmi e di precetti che non di Vangelo e di Gesù. Come mai questa chiusura nelle sacrestie, così paradossale nel momento in cui si vorrebbe lanciare una «nuova evangelizzazione»?”

Ecco la risposta:

La tua è la domanda di chi crede che Gesù «è veramente il salvatore del mondo» (Giovanni 4,42). Il «mondo» per Giovanni è la struttura di peccato che schiavizza quanti non hanno «creduto all’amore che Dio ha per noi» (1Giovanni 2,16; 4,16). Purtroppo molti cristiani non credono all’amore. Preferiscono, come fanno tutte le religioni, cercare Dio con riti, divieti e precetti. Ma «Dio è amore»; e «in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi, (…) noi amiamo, perché egli ci ha amato per primo» (1Giovanni 4,8.10.19). Nel Vangelo non è l’uomo che cerca Dio, ma Dio che cerca l’uomo, perché lo ama. Unico comando di Gesù è: «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi». E spiega: «Come il Padre ama me, così io ho amato voi»; e dice di noi al Padre: «Li ami come ami me» (Giovanni 13;34; 15,9;17,23). Che vertigine! Quando, vivendo la libertà dell’amore, noi saremo una cosa sola tra noi, con lui e con il Padre, solo allora il mondo crederà nel Figlio inviato dal Padre per salvare tutti (Giovanni 17,13). Chi ignora questo amore, sostituisce il Vangelo con la legge. Scambia la libertà dei figli con obblighi e riti per placare un dio ostile: vive da schiavo, come il fratello maggiore nella «parabola del padre misericordioso» (Luca 15,25-32). Paolo oggi ci rimprovererebbe come fa con i cristiani di Colossi: siamo pagani, pieni di «precetti (…), prescrizioni, e insegnamenti di uomini! Queste cose hanno parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità, umiltà e austerità riguardo al corpo; ma in realtà non servono che a soddisfare la carne» (Colossesi 3,20-23; cfr. Marco 7,1-13). «Non avete più nulla a che fare con Cristo, voi che cercate la giustificazione dalla legge: siete decaduti dalla grazia». «Volesse il cielo che si mutilassero» quelli che vi propongono tali cose. Ma «Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà», per essere, mediante l’amore, «a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Galati 5,4.12-15). Se è così, perché succede ciò che scrive il lettore? Perché, da Adamo in poi, crediamo più al serpente che a Dio! Più che nel suo amore, poniamo la nostra sicurezza in culti e culture, in liturgie e sacrifici. Ma il nostro «incenso è un abominio» per il Signore (Isaia 1,16-21). È facile per il cristiano dimenticare il Vangelo e tornare schiavo della legge. Anche e soprattutto oggi, che è tempo di cambiamenti. Chi ha paura, invece di coltivare le cose fondamentali, cerca segni esteriori che gli garantiscano di avere dio in tasca. Ma questo è un idolo morto che dà morte. Invece di «passeggiare in lunghe vesti» è meglio guardare alla vedova (Marco 12,38-44). Il Concilio di Gerusalemme pose il fondamento: la fede in Gesù e nel suo amore per noi ci salva. Quanto è costruito fuori dal fondamento, ci cade addosso. Urge un secondo Concilio di Gerusalemme. Nel primo si passò dal giudaismo al cristianesimo; ora dobbiamo tornare da un cattolicesimo chiuso su di sé a un po’ più di cristianesimo, aperto a tutti. Ci lamentiamo che il mondo non ci capisce. Se, invece di costruire un ghetto con siepi di tradizioni e credenze emerite, cominciassimo ad amare, il mondo ci capirebbe. Il Vangelo, infatti, offre la libertà e la salvezza che ogni uomo desidera. Unica condizione è che testimoniamo Gesù e non le nostre paure, nascoste da vesti e affumicate di incensi. La nuova evangelizzazione è nulla di nuovo: è prendere sul serio e vivere l’unico vangelo di salvezza. E non ce n’è un altro!

Gesubambini

Fra echi biblici e leggende di mare Erri De Luca narra una storia senza tempo calandola nelle vicende di oggi. Un testo scritto per il teatro che ha l’andamento di un indimenticabile racconto. Il lavoro (L’ultimo viaggio di Sindbad, Einaudi) è del 2003; i drammi e le tragedie di allora sono le stesse di questa stagione, di questi giorni.

Il capitano di un vecchio battello è al suo ultimo viaggio. Sottocoperta un carico di uomini, donne, bambini aspetta di arrivare alle coste italiane.

“Scena 12

Sera, in cabina di comando, capitano al timone, entra il nostromo.

NOSTROMO Capitano Sindbad, la donna ha partorito, abbiamo un altro gesubambino.

CAPITANO   Ha fatto male, il bambino piangerà e gli altri sbarcati l’abbandoneranno.

NOSTROMO Non piange, è morto.

CAPITANO   Fallo mettere in mare.

NOSTROMO La donna vuole portarlo a terra.

CAPITANO   A terra è infanticidio, in mare è vita restituita, piglialo e mettilo a mare.

Resta solo, dal fondo sale un principio di coro a bocca chiusa. Il nostromo ritorna.

NOSTROMO La donna chiede di metterlo lei in mare.

CAPITANO   Falla salire, mettile addosso una giacca da uomo.

Mentre si svolge la piccola cerimonia di una madre che accompagna la sua creatura al cimitero delle onde si ascolta un coro di donne.

DONNE        Nasce tra i clandestini,

il suo primo grido è coperto dai motori,

gli staccano il cordone con i denti,

lo affidano alle onde.

I marinai li chiamano Gesù

questi cuccioli nati

sotto Erode e Pilato messi insieme.

Niente di queste vite è una parabola.

Nessun martello di falegname

batterà le ore dell’infanzia,

poi i chiodi nella carne.

Nasce tra i clandestini l’ultimo Gesù,

passa da un’acqua all’altra senza terraferma.

Perché ha già tutto vissuto, e dire ha detto.

Non può togliere o mettere

una spina di più ai rovi delle tempie.

Sta con quelli che esistono il tempo di nascere.

Va con quelli che durano un’ora.”

 

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Verso nuovi Islam

Metto a disposizione 4 articoli in uno sulle nuove prospettive per l’Islam. I pezzi sono tratti da Nigrizia di aprile

ISLAM 2011 NUOVE TRAIETTORIE.pdf

L’ultimo Dio di Vasco

Nell’ultimo album di Vasco Rossi c’è una canzone dal titolo molto letterario anche se si tratta di un titolo nato per gioco… «È nato per scherzo e poi è diventato Ilmanifesto futurista della nuova umanità, ho citato Marinetti ma non so neanche cosa ha fatto» ammette Vasco a XL. L’artista di Zocca canta in prima persona e si rivolge direttamente a Dio, un Dio nel quale l’uomo nuovo non ha più fede: «io veramente penso che non si può più avere fede in un creatore e credo che ormai possiamo avere fede solo nell’uomo. Adesso siamo noi il miracolo della natura, siamo noi la cosa straordinaria da adorare.
L’uomo è anche capace di creare
perché sono le donne quelle che creano la vita sul serio, non Dio. Io credo solo alle leggi della natura
e la sua forza più grande è l’amore, quello che fa fare delle cose senza volere niente in cambio. Non esiste più un creatore con delle idee o dei concetti fissi da seguire. Dobbiamo credere in noi stessi e cercare di migliorare noi il nostro mondo. Costruire il rispetto per se stessi è la cosa più importante, anche se io non ci sono mai riuscito».

La prima parte della canzone mi ricorda tanto il personaggio biblico di Giobbe che viene travolto nella sua tranquillità e si ritrova catapultato in un mare di dubbi e domande, in un oceano agitato senza alcun appiglio. Canta Vasco: “La cosa più semplice, ancora più facile, sarebbe quella di non essere mai nato. Invece la vita arriva impetuosa ed è un miracolo che ogni giorno si rinnova. Ti prego perdonami, ti prego perdonami, ti prego perdonami se non ho più la fede in te. Ti faccio presente che è stato difficile abituarsi ad una vita sola e senza di te. Mi sveglio spesso sai, pieno di pensieri, non sono più sereno, più sereno com’ero ieri. La vita semplice che mi garantivi adesso è mia però, è lastricata di problemi”. Mi torna alla mente anche un passo de “La nascita della tragedia” di Friedrich Nietzsche: “L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.’” Diverso è l’approdo di Vasco: “Sarà difficile non fare degli errori senza l’aiuto di potenze Superiori, ho fatto un patto, sai, con le mie emozioni le lascio vivere e loro non mi fanno fuori”. Dio viene quindi accantonato da Vasco: attenzione, non dice che Dio non c’è (tanto più se gli si rivolge…) ma afferma di non avere più fede in lui. Certo, sarebbe da chiedersi quale Dio abbia conosciuto l’artista, perché io un Dio che mi garantisce una “vita semplice” non l’ho mai incontrato…

Se io ti dessi la canna da pesca invece del pesce…

Su facebook ho più di 800 contatti. La maggiorparte di essi sono ex studenti, altri sono di amici, altri ancora di conoscenti. Non sempre leggo tutto, non sempre commento tutto. Non sempre ho il tempo di confrontarmi in maniera seria su quel social network che resta appunto un social network. Preferisco scrivere qualcosa di più serio e ponderato qui…tanzania_2674e_T0.jpg

In questi giorni in cui sono ripresi gli sbarchi di clandestini a Lampedusa molte persone esternano le loro idee e i loro pensieri sullo stile “che se ne stiano a casa loro”… “dovremmo sparare”… “affondassero tutti”… Penso che il discorso parta da molto lontano e si avvicina molto a “se uno sta bene a casa propria, che ragioni ha di andarsene?”. Certo risulta difficile accogliere e dare una mano a tutti coloro che non stanno bene a casa loro, così come è impensabile sorreggere tutte le situazioni di povertà là dove si verificano per evitare trasmigrazioni di massa… Ma un modo intelligente di aiutare è quello che ho letto in un articolo di Riccardo Barlaam, giornalista che scrive per Il Sole 24 ore

Meglio insegnare a pescare

di Riccardo Barlaam

Basta donazioni a pioggia per combattere la fame. Molte aziende alimentari occidentali hanno deciso di trasferire le loro conoscenze e competenze tecnologiche a imprese africane per progetti di sviluppo locali. L’esempio della General Mills.

Non ti do il pesce, ma la canna da pesca, e ti insegno a usarla, perché tu possa pescare da solo. Nel 2007, Ken Powell, amministratore delegato di General Mills, multinazionale alimentare americana – che ha nel portafoglio marchi come Yoplait, Old El Paso, Cheerios, Haagen Dazs – chiese ai suoi collaboratori di cercare idee innovative per aiutare a combattere la fame nei paesi africani, idee che non fossero limitate solo alla donazione di cibo. «Fin ad allora – spiegò Powell, manager della major statunitense – avevamo sempre donato aiuti economici o cibo. Ci sembrava di non incidere. Non volevamo lavarci la coscienza, facendo qualcosa per l’Africa con aiuti a breve termine, o progetti che finivano chissà dove. Allora abbiamo pensato di sfruttare le nostre conoscenze per aiutare le imprese africane con progetti di sviluppo e di miglioramento tecnologico che avessero un respiro più a lungo termine». General Mills cominciò con l’esplorare le possibilità di creare piccoli processi di produzione alimentare nei villaggi rurali. Ma subito si rese conto che c’erano tanti ostacoli da superare, prima ancora di iniziare a pensare alla produzione alimentare, anche se su piccola scala. Mancava l’acqua potabile; l’elettricità non c’era sempre; né vi erano tutte le condizioni necessarie (catena del freddo, magazzini, logistica) per pensare alla produzione alimentare «per aiutare gli africani a realizzare da soli i processi produttivi di una moderna industria alimentare: bisognava prima creare le condizioni per impiantare una moderna industria di cibo», fu la conclusione di Peter Erikson, vice presidente della General Mills, incaricato di seguire il progetto “Dare la canna da pesca agli africani”. Da allora, la fondazione General Mills ha investito 1,5 milioni di dollari per formare tecnici alimentari in Zambia, Tanzania, Kenya, Malawi. Molti di loro sono stati, in questi anni, nel quartiere generale della multinazionale nel Minnesota, per lunghi periodi di training. La Nyrefami Ltd, società di molitura della Tanzania, che produce farina, è riuscita a migliorare la propria produzione, introducendo un processo di controllo qualità all’ingresso delle merci. La farina prodotta fino ad allora era contaminata da rifiuti, escrementi di topo e altri materiali che entravano con la materia prima. È stato introdotto, quindi, un processo di lavaggio e asciugatura del grano, prima della produzione vera e propria della farina attraverso la macina. La farina Nyrefami, usata nell’alimentazione di famiglie e bambini della Tanzania, oggi ha un livello qualitativo migliore, grazie a questo progetto di formazione del tecnico africano. Questa è solo la prima parte della storia…

Altre multinazionali alimentari si sono unite alla General Mills, tra cui l’americana Cargill e la danese Royal Dsm Nv, accomunate dall’obiettivo di trasferire know how alle aziende africane per sostenere lo sviluppo dei loro processi produttivi alimentari. Assieme hanno dato vita, poche settimane fa, a una organizzazione non governativa. L’ong si chiama Partners in Food Solutions e ha come primo punto statutario la missione di aiutare le aziende alimentari a condividere le proprie conoscenze tecnologiche con le aziende africane e di altri paesi in via di sviluppo. Tutte le aziende alimentari, anche quelle italiane, possono unirsi al progetto della Pfs. È un modo per fare volontariato, per fare business etico, per aiutare in modo concreto le piccole e medie aziende alimentari già esistenti in Africa a sviluppare e a migliorare i propri processi produttivi. Niente più donazioni alimentari che arrivano dall’alto a pioggia. Basta con cose che spesso non servono. Si vuole dare la canna da pesca, più moderna della semplice canna di bambù, con il filo e l’amo, e anche la formazione per usarla nel migliore dei modi. La Pnf ha già un paniere – termine appropriato in questo caso che parliamo di alimentare – di 15 progetti di sviluppo legati ad altrettante aziende alimentari in Kenya, Zambia, Tanzania e Malawi, che si pensa miglioreranno indirettamente l’attività di circa 60mila piccoli agricoltori. Lo scorso anno, ha raccontato Erickson, un progetto legato alla produzione di latte in polvere ha avuto come conseguenza la necessità di stabilire uno stesso prezzo di acquisto per i produttori di latte: un prezzo minimo garantito per gli agricoltori, anche quelli più piccoli, che hanno meno forza nei confronti dei produttori alimentari africani, “costretti” così, in ragione dell’adozione di procedure standard, a riconoscere anche a loro lo stesso prezzo.

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