Studiare è ancora inevitabile

passioCome spesso mi capita, sono solo in parte d’accordo con quello che pensa Paola Mastrocola. E pubblico queste sue parole, tratte dal sito della Laterza, subito dopo il predente post non perché vi trovo delle contraddizioni, ma per pura casualità.
Oggi non si studia più. È da predestinati alla sconfitta. Lo studio evoca Leopardi che perde la giovinezza, si rovina la salute e rimane solo come un cane. È Pinocchio che vende i libri per andare a vedere le marionette. È la scuola, l’adolescenza coi brufoli, la fatica, la noia, il dovere. È un’ombra che oscura il mondo, è una crepa sul muro: incrina e abbuia la nostra gaudente e affollata voglia di vivere nel presente.
Lo studio è sparito dalle nostre vite. E con lui è sparito il piacere per le cose che si fanno senza pensare a cosa servono.
La cosa più incredibile è che non importa a nessuno.
Di fatto, noi non intendiamo mai lo studio nella sua accezione più profonda; non entriamo nello specifico della sua sostanza immaginando l’atto di studiare in sé, fino alle sue naturali ed estreme conseguenze. Lo dico meglio: quando diciamo che i nostri ragazzi devono studiare, non vogliamo dire che debbano passare gran parte del loro tempo chini sui libri, pomeriggio e sera, soli e concentrati. Non vogliamo dire questo perché questo non ci piace per niente, e mai augureremmo loro una vita del genere. Eppure, quando speriamo che studino e che proseguano fino all’università, noi li indirizziamo a un siffatto stile di vita, giacché è ancora vero (non so per quanto) che per avere un’istruzione bisogna stare tanto, sui libri. E cartacei o digitali che siano, nulla cambia.
Lo studio è, ancora, inevitabile. Per quanto gli insegnanti si producano in performance sempre più accattivanti; i saperi si esternalizzino; le scuole si dotino di LIM, DVD, app, wi-fi e bluetooth; per quanto limiamo asperità e livelliamo strade azzerando ogni sorta di difficoltà; per quanto puntiamo al saper fare e alle competenze e al problem solving, e non più al sapere; ebbene, c’è sempre un momento in cui lo studente deve mettersi a studiare: piazzarsi seduto, aprire un benedettissimo libro, e starci sopra parecchio, e anche parecchio concentrato e attento. Che sia una semplice verifica, un’interrogazione virtuale, un esonero all’università, un test di ammissione per la Normale di Pisa o l’assunzione presso una ditta di surgelati, a un certo punto della vita i ragazzi dovranno dimostrare di sapere qualcosa. Quindi dovranno, bene o male, poco o tanto, studiare.
Non abbiamo ancora inventato sistemi alternativi, grazie ai quali evitare lo studio, questo spiacevole disagio, questo disturbo, percorso a ostacoli, noiosissimo impiccio che intralcia, deprime, sporca leggermente il meraviglioso luna park che pensiamo debba essere la vita. A un certo punto dobbiamo scendere dalla giostra dei cavallini e studiare: intollerabile! Non ci piace per niente.
E infatti stiamo lavorando per trovarli, questi sistemi alternativi. Nell’ultimo decennio direi che non facciamo altro: ministri, funzionari, professori, burocrati, intellettuali di grido e scrittori si danno un gran da fare a smantellare l’idea di un’istruzione fondata sullo studio e sui libri, cioè sull’universo logico-verbale (il modo “simbolico-ricostruttivo” dell’apprendimento, come dicono gli psicologi). L’ultima trovata è dire che tutto ciò è vecchio, screditarlo come retaggio arcaico e dinosaurico di un mondo che non c’è più. Insomma, è la solita solfa del mondo che è cambiato, dunque perché noi ci attardiamo su macerie invece di proiettarci dritti dentro il futuro? Siamo gli ultimi in Europa, siamo decrepiti, meritiamo di morire eccetera eccetera. E, dulcis in fundo, i giovani hanno ben ragione a non studiare, questo sistema non fa più per loro e se non ci sbrigheremo a trovarne un altro li perderemo tutti.
L’abbiamo risolta in questo modo: siccome nessuno ha più voglia di studiare, noi smantelliamo l’universo dello studio. L’idea geniale è che si tratti di adeguarci al cambiamento, assecondarlo invece di arroccarci.
Personalmente, più sento dir così, più mi arrocco. Mi viene uno spasmodico amore per tutte le rocche, il più inerpicate e sole possibile. Inaccessibili e lontane, con la nuvoletta in cima. Da lassù contempleremo le magnifiche sorti e progressive. Tanto, di una cosa sola siamo molto consci: che nulla possa arrestare la marea. Quindi, tanto vale godersela dall’alto, noi arroccati.
Chiusa la parentesi rocciosa, dicevo che ci piace molto che i ragazzi vadano a scuola, ma non che studino. È un controsenso, lo so. Una specie di dissociazione, un’autocontraddizione in cui ci siamo imbrogliati come in un groviglio e di cui non sembriamo per nulla consapevoli. Magie della mente umana. Un fraintendimento. Un equivoco, gigante. Una incomprensione granitica reciproca fatta a forma di montagna. Potessi disegnarla, sarebbe la catena dell’Himalaya.
Forse potremmo dir così, che la parola “studio” ha oggi come per miracolo due significati. Si è divaricata. Spaccata. Si è creata un’ambiguità terminologica, che ha prodotto tra noi tutti una confusione. Un intrico di rami. Detto in breve, quando diciamo “studiare” intendiamo andare a scuola, avere un’istruzione, procurarsi un titolo, possibilmente una laurea (quel che oggi si chiama percorso formativo); non intendiamo invece quasi mai l’altro significato del verbo: l’atto in sé, stare sui libri, passare ore chiusi da qualche parte, isolati, concentrati, fermi.
Studio 1 e studio 2. Per quanto possa sembrare strano i due significati oggi, nella nostra testa, non vanno insieme. Fino a pochi decenni fa erano, ovviamente, inscindibili; oggi invece possono dissociarsi, andare ognuno per conto proprio. Così che si crea il seguente paradosso: da una parte siamo tutti d’accordo che si debba studiare, dall’altra non ci piace per niente studiare.
E può succedere che le famiglie tengano moltissimo allo studio 1 dei loro figli: si dedicano con grande cura alla scelta della scuola, e seguono i figli molto più di una volta. Arrivano a fare i compiti con loro, e si prodigano a offrir loro tutti i supporti possibili, libri, computer, lezioni private a iosa. E può succedere, allo stesso tempo, che queste stesse famiglie, che tengono così tanto allo studio 1 dei loro figli, non si preoccupino molto dello studio 2. Può succedere addirittura che questo studio 2 dia loro fastidio: in qualche modo peggiora la vita quotidiana di tutti, è un problema e tendono quindi a ostacolarlo, o relegarlo in qualche zona buia e ristretta della vita.
Insomma, se noi genitori tenessimo davvero allo studio 2 dei nostri figli, non faremmo le vite che facciamo e non avremmo la scuola che abbiamo. E se noi insegnanti tenessimo davvero allo studio 2 dei nostri allievi, non chiuderemmo un occhio: saremmo più esigenti, fin dalle elementari; ci preoccuperemmo meno di divertirli, distrarli, ammaliarli con effetti speciali, gite, teatri, balletti in maschera. Insegneremmo loro, molto umilmente, le materie di base, dando loro gli strumenti di base per possedere le nozioni di base. E non penseremmo, così facendo, di offrire cose troppo banali e povere né ci preoccuperemmo di annoiare i bambini: avremmo ben chiaro in mente di fare la cosa migliore per loro.
Perché è dalla base che si parte per costruire qualsiasi edificio. Se no, crolla.”

La LIM? Obsoleta…

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Questo post è rivolto, più che agli studenti, a colleghi, genitori e a tutte le persone interessate al mondo della scuola e soprattutto della didattica. Mi trovo spesso a riflettere e a confrontarmi con altri sulle possibilità che le nuove tecnologie offrono al lavoro di insegnante. L’intervista a Domizio Baldini pubblicata su Orizzonte Scuola mi sembra molto interessante.

Nuove tecnologie sui banchi per coinvolgere gli studenti e personalizzare i loro percorsi di apprendimento, ma senza abbandonare penna, foglio e libri di carta. I suggerimenti di Domizio Baldini (docente di scuola secondaria, Formatore De Agostini Scuola, Apple Education tutor, Tutor TIC) per una didattica efficace e multicanale.
Innanzitutto, che cos’è la didscuolabattica multicanale?
Mi piace citare una definizione dell’amico e collega Prof. Alberto Pian che ha pubblicato un ebook interessante ed utile che mi permetto di consigliare, La didattica Multicanale. Lo potete trovare sui vari store on line: “La grande sfida di una didattica multicanale integrata consiste nel tentativo di parlare a tutti usando i canali di tutti e impiegando diversi codici linguistici e comunicativi. Tutti i mezzi possibili devono essere strumenti della divulgazione, ma in modo integrato, armonioso, che renda possibile anche un godimento estetico della fruizione”. Credo che la didattica multicanale sia una delle risposte innovative che la scuola può dare per fornire agli studenti la competenza necessaria alle sfide di una società nuova e sempre più complessa”.
Come si costruisce una buona lezione in ottica multicanale?
Per prima cosa occorre esplorare la ricchezza presente in rete, occorre quindi soprattutto che i docenti siano sperimentatori e curiosi loro stessi. Solo così si potrà trasmettere la passione, la curiosità infinita, l’entusiasmo, il “demone” della ricerca. Trovare il vecchio filmato della RAI con Ungaretti che legge le sue poesie, usare Benigni e le sue letture pubbliche per la Divina Commedia, fare vedere Cassius Clay (allora si chiamava così) e la corsa di Berruti sui 200 m. alle Olimpiadi di Roma del ’60 e studiarne i movimenti atletici, mostrare sulla rete la foto del manoscritto originale dell’infinito di Leopardi o di una poesia di Cesare Pavese, un filmato di un esperimento scientifico da riprodurre in classe, sono solo alcuni esempi di risorse oggi disponibili in rete in ogni ambito disciplinare e interdisciplinare (Cassius Clay non serve solo per mostrare la sua intelligenza cinestetica, ma, per esempio, anche per introdurre la condizione di segregazione dei neri americani e, con il cambio di nome in Muhammad Ali, il trauma della Guerra del Vietnam).
Il lavoro vero dell’insegnante è poi quello di fornire il percorso ai propri studenti, ben sapendo che i modi dell’apprendere sono diversi e che ci saranno quelli che useranno più il canale visuale che non quello testuale o quello uditivo. L’abilità del docente sarà quella di fornire un percorso chiaro con obiettivi verificabili. La frase che si sente spesso “andate su internet a trovare risorse” non ha senso, è come mandare gli studenti alla Biblioteca Nazionale e dire loro: “cercate i libri che vi occorrono”. Occorre insegnare un metodo di ricerca fornendo loro percorsi costruiti anche insieme in classe, ma anche richiedere agli studenti di presentare loro stessi dei percorsi personali di ricerca privilegiando così diversi canali di apprendimenti e comunicativi (Flipped classroom) . La tecnologia oggi permette questo in modo facile ed intuitivo. Sarebbe , secondo me, un errore storico sottovalutarne le potenzialità didattiche”.
Una didattica, quindi, che oggi fa a meno di sussidi multimediali deve necessariamente considerarsi obsoleta?
Una didattica che non usi ANCHE le tecnologie oggi a disposizione è senz’altro una didattica più povera, meno coinvolgente, lontana dalla realtà di tutti i giorni, favorendo quell’errato sentimento comune che la scuola non serva poi a molto. Una volta andando a scuola si percepiva un mondo “altro”, con libri in biblioteca e lavagne appese nelle aule (la prima tecnologia pervasiva…), si respirava un’aura di “sapere” con Maestri e Professori che dispensavano contenuti seduti su cattedre di solito sopraelevate rispetto ai banchi, marcando così anche spazialmente la distanza tra i discenti (ignoranti) e i Docenti (che sapevano tutto).
Oggi non è più così. Lo studente spesso trova scuole vecchie, cadenti, con tecnologie obsolete ed antiquate o senza alcun sussidio tecnologico ed anche con docenti che affermano decisamente che “la tecnologia non serve a scuola”. Poi non ci dovremmo lamentare che gli studenti ormai tendono a considera l’istruzione scolastica come una volta veniva percepito il servizio Militare di leva: un cosa che si deve fare ma la cui utilità era quanto meno dubbia.
Per concludere posso dire che la vera sfida del docente del XXI secolo è quella di essere sempre più capace nella pratica quotidiana di inserire contenuti utilizzando più canali comunicativi. Personalmente ho adottato questa metodologia da tempo ed i risultati sia di interesse e coinvolgimento degli studenti, sia dal punto di vista dei risultati scolastici conseguiti, sono stati estremamente positivi. Con grande soddisfazione dei genitori e mia personale”.
E’ vero che i docenti italiani sono più riottosi al cambiamento rispetto ai colleghi degli altri Paesi? Come mai secondo lei?
Il nuovo spaventa sempre un po’, quindi sarebbe sbagliato pensare che i docenti italiani siano meno pronti a mettersi in gioco e sperimentare nuove didattiche. Ho esperienza di insegnamento all’estero essendo stato docente di Italiano come Lingua Straniera in una scuola a Londra per sette anni ed ho quindi una esperienza diretta di come si possano affrontare le novità. Erano i primi anni 90’ ed ebbi a disposizione dalla scuola il mio primo computer Macintosh, scelto da me per le possibilità di produzioni multimediali che offriva. La produzione di materiali originali da proporre in classe determinò un interesse e dei risultati scolastici così evidentemente migliori di prima da avere un numero di studenti sempre crescente ogni anno, doppiando e triplicando le scelte dell’Italiano sull’altra lingua straniera tradizionalmente proposta, cioè il Francese.
Lì ho percepito senza ombra di dubbio che quella era una strada da percorrere ed ora faccio parte di una comunità globale di Docenti (Apple Distinguished Educators) che, dalla Scuola dell’infanzia alla Università, cercano nuove strategie didattiche con l’uso di tecnologie oggi disponibili e che hanno la possibilità di far emergere le potenzialità degli studenti. Occorre fare una precisazione, frutto anche di una esperienza ormai trentennale di Formatore (MIUR, IRRE, INDIRE etc): non tutte le tecnologie sono uguali. Per quanto mi riguarda l’uso dell’Ipad non è paragonabile con quello di altri tablet in commercio e produrre materiali multimediali con computer Windows non è come farlo sul MAC. Si dovrebbero scegliere strumenti che facilitino il lavoro del docente non che lo complichino.
Archivio_territorio_ribol1382La LIM è stata una tecnologia rivoluzionaria 10 anni fa, oggi è obsoleta. Chi comprerebbe oggi una automobile che ha bisogno della manovella per mettersi in moto? Lo dico da utilizzatore e tutor di LIM per più di dieci anni.
Nel sistema inglese e in altri paesi che conosco, le scelte che i Board della scuola fanno sono semplicemente obbligatorie per tutti i docenti e si basano sui risultati finali. La presenza di esami uguali per tutti, fatti lo stesso giorno e corretti da docenti esterni, garantisce l’attendibilità dei risultati finali, permettendo un accesso alle Università basato su dati reali ed attendibili (la scelta delle Università non è libera ma basata sulle valutazioni degli esami finali) ed anche una valutazione del lavoro svolto dai docenti, premiando così il merito, l’aggiornamento professionale e le capacità didattiche dell’insegnante ed anche la sua partecipazione ATTIVA al progetto educativo proposto dalla scuola.
Questa strada è necessariamente da percorrere anche in Italia: tecnologia, formazione obbligatoria e valutabile, merito e valutazione del lavoro scolastico in modo più efficiente, trasparente, democratico e non autoreferenziale”.
I ragazzi utilizzano le tecnologie in maniera disinvolta, la vera novità per loro non sarebbe imparare a farne a meno?
Nella maggior parte delle scuole italiane la tecnologia non c’è, oppure non viene usata od usata malissimo. E’ questa la realtà! E’ vero che i ragazzi utilizzano la tecnologia in maniera disinvolta, ma questo non significa che la sappiano veramente usare! C’è un metodo, una riflessione che a loro manca e se non è la scuola, quale altra agenzia educativa può oggi fornirla? Le aziende? Altri Enti Statali? La risposta mi sembra chiara: la Scuola deve riacquistare la centralità del processo educativo e non è chiudendosi a riccio, non accettando il confronto che può riuscirci. Mi sia permesso un esempio un po’ provocatorio: sono stato un insegnante di lettere per più di quaranta anni e mi sento coinvolto quando leggo sulle statistiche ufficiali che solo il 3,6% degli italiani legge più di 10 libri l’anno. La scuola non ha un po’ di responsabilità? Possiamo considerarlo un successo “democratico”? E’ facile dare la colpa agli studenti ed al mondo che cambia… Lo diceva anche mia nonna cinquanta anni fa! Eh sì il mondo cambia. E la scuola? Penso che ci debba essere una seria riflessione ed un cambiamento reale da parte di tutti, senza steccati ed atteggiamenti manichei.
Prima della riforma della scuola media alla fine degli anni ’60 e della libera apertura all’istruzione Universitaria, alle scuole superiori ci andavano in pochi, con uno stesso background culturale ed anche, aggiungo, generalmente con le stesse possibilità economiche. I modelli comunicativi erano sempre gli stessi con i quali gli stessi insegnanti erano cresciuti. La società di quel tempo aveva quindi valori e modelli simili, con un forte deficit democratico, possiamo dire oggi.
Con l’ampliamento della platea studentesca l’insegnante si è trovato impreparato a gestire la molteplicità di “intelligenze”, come ci dice H. Gardner, e si è sempre più rifugiato nella ripetizione del solo modello a lui conosciuto, magari sostituendo l’autorevolezza con l’autoritarismo. La scuola ha cominciato a staccarsi dalla realtà proponendo modelli sempre più considerati obsoleti e inutili, perdendo quell’aura di centro del sapere che era prima.
Da questa scuola sono uscite anche eccellenze, docenti bravissimi ed anche innovatori, ma questo non deve essere un alibi, poiché la scuola italiana nel suo complesso è oggi una istituzione educativa che non riesce a raggiungere in generale, con le dovute eccezioni, validi risultati nelle valutazioni internazionali dell’OCSE PISA, per esempio. Od anche qui è colpa degli esami proposti?”.
Alcuni studi riferiscono che la didattica non tradizionale aumenterebbe il coinvolgimento degli studenti in difficoltà, ma non gioverebbe all’apprendimento e al profitto di quelli più dotati; il filosofo Roberto Casati ha lanciato l’allarme sul potenziale distrattivo dei mezzi in questione. Qual è il suo commento?
Mi ritrovo a citare mia nonna e poi mia madre che mi hanno detto in sequenza: non leggere troppo che ti fa male agli occhi, la televisione ti rovina e poi il computer ti fa diventare scemo.
Come in tutte le cose ci vuole equilibrio nei giudizi, non partendo sempre dalla sola nostra esperienza e sapendo che i nostri studenti sono veramente diversi ed hanno bisogno anche di canali comunicativi diversi. Un certo tipo di tecnologia mobile già prima citata oggi permette di PERSONALIZZARE il percorso educativo, in modo semplice e facile, senza perdite di tempo in tecnicismi inutili, venendo incontro sia alle esigenze di studenti con caratteristiche diverse e in difficoltà sia favorendo anche percorsi educativi di eccellenza per non mortificare i talenti presenti. E’ questa la mia esperienza di formatore e moltissimi docenti sono già su questo percorso di esperienza ed innovazione.
Questo, sia chiaro, non vuol dire che si debbano abbandonare la penna, il foglio ed i libri cartacei, ma che occorre integrare sempre di più strumenti tecnologici che possano aumentare la produttività e ampliare l’esperienza educativa dei nostri studenti. Scrivere su un programma di elaborazione testi una relazione NON è usare tecnologia innovativa; inserire elementi multimediali al testo e fornire anche una verifica interattiva è già aggiungere una valore all’oggetto didattico altrimenti non possibile con i mezzi tradizionali. Il tutto naturalmente in modo semplice, facile e creativo.
Poiché gli studenti sono coinvolti in un lavoro che li vede protagonisti attivi, la distrazione non avviene. Una affermazione come quella del Prof. Casati sul potenziale distrattivo dei mezzi in questione dovrebbe essere comparata dall’attenzione che oggi mediamente gli studenti mostrano in classe. Basterebbe guardare il loro diario scolastico per avere una risposta non proprio positiva. E poi è sempre l’uso che conta, non oggetto in sé. Anche l’auto ha un potere distrattivo ed anche la penna!”.
Il ricorso alla rete nella didattica dovrebbe aiutare a liberarci da errori e approssimazioni, ma non crede che fino a una certa età i ragazzi abbiano bisogno di sapere che gli adulti ne sanno più di loro? Che i docenti non sono soltanto dei ‘facilitatori’?
La scuola non è solo una istituzione che trasmette contenuti, è un ambiente educativo più ampio. Se non riesce a trasmettere il senso delle attività che vi si svolgono va incontro al fallimento. L’Italia non è più fortunatamente quella del Maestro Manzi, oggi le competenze che si richiedono sono anche quelle della comunicazione con i mezzi tecnologi, del saper cercare le risorse “valide” nella grande rete a disposizione. Si ritorna al discorso precedente, secondo me è la scuola che dovrebbe fornire gli strumenti e le competenze per fronteggiare le sfide complesse della globalità. Gli insegnanti posseggono la padronanza dei contenuti e non devono saperne di più di tecnologia, ma insegnare COME usarla a scuola, nella vita e domani nella professione è compito dell’istituzione scolastica, la sola che può fornire competenza tecnologica e contenutistica insieme. Per mia esperienza professionale nei molti incontri di formazione e negli eventi ai quali partecipo come relatore, ormai questa consapevolezza è patrimonio di un numero sempre maggiore dei docenti italiani. Sono quindi inguaribilmente ottimista per il futuro”.

Il dio di comodo

Attraverso la matita di Zerocalcare, riprendo dal sito di Wired, una delle idee di Dio più diffuse che ci siano: il Dio di comodo, quello che funziona a chiamata, fa da tappabuchi e viene invocato e utilizzato in base alle necessità…

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Piccoli brandelli

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L’esuberanza del mondo
lascia spesso impotenti,
siamo in grado di distinguere
pochi frammenti,
piccoli brandelli.
(Adam Zagajewski)

La stessa musica

overhead

Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che suona la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica”.
(D. Pennac, Diario di scuola, 2007)
Far conoscere la stessa musica, questa è la sfida.

Pentolino di latta

pentolino

Nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle.”
(Gustave Flaubert, Madame Bovary)

Animo!

Un nuovo anno scolastico è alle porte. Leggo su vari social post di disperazione e tristezza e ricordo che anche per me non era propriamente un bel momento. O meglio, iniziavo anche volentieri, ma al primo weekend iniziavo già a fare il conto alla rovescia per le vacanze di Natale… Dedico ai miei studenti “Lungo il viaggio” di Claudio Baglioni di cui mi piace molto il testo, ma pubblico il video di un canto alla vita. A lunedì
Ci hanno detto di una terra latte e miele ma troviamo sabbia sete sangue e sale
Lungo il viaggio verso il mare immenso blu sul sentiero dietro gli altri un uomo in più, uno in più
Ci hanno dato la speranza di un futuro ma perdemmo nella nebbia il nostro faro
lungo il viaggio dove il vento salta su sulla rotta in mezzo agli altri un cuore in più, uno in più
Io, io, chi sono io, e dove vado io Io, io, che faccio io, e cosa cerco io
E quanta strada ho viaggiato io e sono in questa strada
E quanta strada m’ha dato Dio, ancora quanta strada
E quanta strada ho da fare io ancora quanta strada
E quanta strada m’hai dato Dio, ancora quanta strada
Ci hanno fatto la promessa di una pace ma domani copriranno questa voce
lungo il viaggio incontro al sole che va giù sull’ascesa avanti agli altri un sogno in più, uno in più
Io, io, chi sono io, e dove vado io Io, io, che faccio io, e cosa cerco io
E quanta strada ho viaggiato io e sono in questa strada
E quanta strada m’ha dato Dio, ancora quanta strada
A quale stella ho creduto io inseguo quella stella
in quale stella ho veduto Dio ancora quella stella

Lungo il viaggio sulla strada su una strada di passaggio
nel passaggio della storia una storia di coraggio
del coraggio di una vita nella vita di un viaggio”

Azzardo

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Un articolo di Alessandro Beltrami di due mesi fa, pubblicato su Avvenire.
Sono 1,3 milioni i giovani tra i 14 e i 19 anni che nel 2014 hanno provato il gioco d’azzardo: vale a dire il 54% di coloro che frequentano le superiori: poco più di uno studente su due. Fortunatamente il 35% di questi gioca raramente (meno di una volta al mese) e il 9% una volta al mese, ma è del 10% la quota di coloro che tentano la sorte almeno una volta a settimana, rientrando nella fascia a rischio dei “frequent player”, i giocatori costanti. Tra i minorenni ha giocato in almeno un’occasione il 51%. L’87% degli studenti ha però coscienza che il gioco può trasformarsi in dipendenza.
Sono i dati emersi dalla ricerca dell’osservatorio Young Millenials Monitor, realizzato da Nomisma in collaborazione con l’Università di Bologna. La ricerca è stata condotta su 580 classi in tutta Italia, coinvolgendo oltre 14mila ragazzi. Un campione che ha evidenziato una difformità di distribuzione tanto a livello territoriale quanto per tipologia scolastica.
L’incidenza dell’azzardo è molto maggiore nel Sud e nelle Isole, dove il 64% dei giovani gioca contro il 43% del Nord. In linea generale, invece, giocano di più i ragazzi (63%) rispetto alle ragazze (43%), così come i maggiorenni sono più propensi all’azzardo dei minorenni (61% contro il 51%). Enorme la forbice tra i ragazzi che provengono da famiglie in cui vi è un’abitudine al gioco rispetto a famiglie non giocatrici: 65% contro il 10%. L’azzardo è più diffuso tra gli studenti degli istituti tecnici e professionali (rispettivamente 60% e 59%) rispetto a quelli dei licei (49%). Silvia Zucconi, coordinatrice dell’osservatorio, osserva inoltre che «chi ha voti elevati in matematica ha una propensione al gioco inferiore del 10% rispetto a chi ha voti insufficienti. Quindi la capacità di valutazione della probabilità di vincita è un elemento che determina l’interesse verso il gioco».
La maggior parte degli studenti ha giocato per curiosità (30%), il 23% “per caso” e il 14% perché altri amici già giocavano. Nella classifica dei giochi, secondo la ricerca di Nomisma, al primo posto si colloca il Gratta&Vinci, sperimentato durante l’anno scolastico dal 38% degli studenti, al secondo posto ci sono le scommesse sportive in agenzia (25%) e quindi i giochi di abilità online (20%). Crolla l’interesse verso giochi tradizionali come Superenalotto e Lotto. La maggior parte dei giovani (28%) ha provato una o due tipologie di gioco durante l’anno scolastico 2014/15, mentre il 12% ha giocato a ben cinque tipologie, dato preoccupante ma in controtendenza rispetto al 22% dell’ultima rilevazione, relativa al 2008.
Interessante il confronto con alcuni dati della ricerca Nomisma di sei anni fa. Se allora la quota di studenti sopra i 15 anni che avevano giocato d’azzardo era in linea con i dati attuali, il 55%, diversi indici sono in contrazione: allora avevano dichiarato propensione al gioco il 76% dei ragazzi e il 61% delle ragazze, aveva detto di giocare il 75% degli studenti dell’Italia meridionale e il 78% di coloro che frequentavano gli istituti professionali.”